Il paradigma umanitario della Palestina serve solo gli interessi israeliani

Ramona Wadi

10 ottobre 2022 Middle East Monitor

Antonio Guterres, Segretario Generale dell’ONU, ha ancora una volta sottolineato che l’UN Relief and Works Agency for Palestine Refugees (UNRWA) [Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e il Lavoro per i rifugiati palestinesi, N.d.T.] e gli stessi rifugiati palestinesi sono sottoposti a un ciclo di sfruttamento violento che più che altro soddisfa il paradigma umanitario dell’organizzazione internazionale. Guterres, durante un incontro a latere della 77esima Assemblea Generale dell’ONU, ha invocato ulteriori donazioni per l’agenzia, dicendo che c’è stata una continua discrepanza fra il supporto retorico all’UNRWA e i finanziamenti.

Descrivendo l’agenzia come “una rete di protezione per i più vulnerabili,” Guterres ha aggiunto: “Continuiamo tuttavia a tenere l’UNRWA intrappolata in un limbo finanziario. È ora di abbinare l’enorme sostegno per il mandato con finanziamenti alle sue attività più solidi e prevedibili. Cerchiamo di aiutare l’UNRWA ad aiutare i rifugiati palestinesi. Cerchiamo di investire in pace, stabilità e speranza.”

Anche se l’UNRWA ha certamente fornito servizi essenziali ai rifugiati palestinesi dal 1949, la sua totale dipendenza già agli inizi da fondi esterni non può essere separata dall’abbandono del problema dei rifugiati palestinesi da parte dell’ONU. Il mandato dell’UNRWA doveva essere temporaneo fino a quando non si fosse trovata una soluzione per i rifugiati palestinesi. Eppure, anche prima della sua fondazione, la complicità dell’ONU nel fornire a Israele il quadro complessivo per le espulsioni forzate dei rifugiati palestinesi grazie al Piano di Partizione 1947 ha contribuito alla crisi attuale. Non solo i rifugiati palestinesi dipendono dall’UNRWA, ma l’agenzia stessa dipende quasi totalmente da finanziamenti esterni grazie a donazioni volontarie di Stati membri dell’ONU.

I rifugiati palestinesi sono anche stati isolati dalle politiche del diritto al ritorno che è ora il più usato per giustificare l’esistenza dell’UNRWA. Non è mai stato permesso di esercitare questo legittimo diritto a causa del rifiuto di Israele di accettarlo, anche se l’adesione all’ONU dello Stato occupante dipendeva dal ritorno dei rifugiati. Perciò l’UNRWA è diventata, più o meno, una presenza fissa. Per la comunità internazionale l’esistenza dell’UNRWA, dipendente com’è dalle condizioni di neutralità che generano impunità per il trasferimento forzato dei palestinesi attuato da Israele, è certamente un’opzione migliore che accordarsi collettivamente su un processo di decolonizzazione che permetterebbe il ritorno dei palestinesi alle loro terre. La Risoluzione 194 dell’ONU stipula le condizioni per il diritto al ritorno dei palestinesi, avalla tacitamente il colonialismo e assolve Israele da tutte le responsabilità per aver creato i rifugiati palestinesi fin dall’inizio per fondare un’entità coloniale in Palestina.

Il mese scorso organizzazioni ebraiche e sioniste in Australia hanno citato la solita litania di ragioni e accuse per giustificare il motivo per cui il governo australiano non dovrebbe raddoppiare la sua donazione finanziaria all’UNWRA portandola da 10 a 20 milioni di dollari. “L’UNRWA contribuisce a perpetuare il conflitto,” ha affermato Jeremy Leibler, presidente della Federazione sionista d’Australia. Tuttavia l’unico conflitto è il diretto risultato del colonialismo di Israele e finanziare l’UNRWA è il modo più sicuro per la comunità internazionale di evitare di fare i conti direttamente non solo con Israele, ma anche con la propria complicità.

Forse Guterres potrebbe fare un appello diverso. Per esempio potrebbe invocare un processo di decolonizzazione in parallelo al finanziamento dell’UNRWA che permetterebbe all’agenzia di condurre la propria missione umanitaria con in mente l’obiettivo finale, in contrasto con il pantano in cui l’agenzia e i rifugiati palestinesi sono stati bloccati per decenni. Il paradigma umanitario ha sempre solo servito gli interessi israeliani, e continua a farlo. Guterres non dovrebbe far finta del contrario.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Un medico tra i due palestinesi uccisi dalle forze israeliane a Jenin

Zena Al Tahhan

14 ottobre 2022 – Al Jazeera

Almeno 160 palestinesi sono stati uccisi dalle forze israeliane nella Cisgiordania occupata dall’inizio dell’anno.

Ramallah, Cisgiordania occupata – Durante un’incursione contro la città di Jenin, nel nord della Cisgiordania occupata, le forze israeliane hanno sparato e ucciso due palestinesi, tra cui un medico. Il Ministero della Sanità palestinese lo ha identificato come Abdullah al-Ahmad, di circa 40 anni, e ha affermato che è stato colpito alla testa da forze israeliane venerdì mattina davanti all’ospedale pubblico di Jenin.

Un portavoce del ministero della Sanità ha detto ad Al Jazeera che il secondo uomo ucciso venerdì mattina è il ventenne Mateen Dabaya. In un comunicato le Brigate di Jenin, un gruppo della resistenza armata palestinese formatosi lo scorso anno, lo ha indicato come un suo comandante locale.

Mohammad Awawdeh, il portavoce del ministero, ha detto che Dabaya è stato colpito da un proiettile alla testa. Le uccisioni sono avvenute poco dopo che venerdì alle 8 decine di veicoli blindati israeliani avevano fatto irruzione a Jenin e sono scoppiati scontri a fuoco e disordini con le forze israeliane.

Video condivisi da giornalisti del posto sembrano mostrare forze israeliane che sparano contro gli equipaggi delle ambulanze.

Secondo il ministero della Sanità venerdì mattina a Jenin almeno altri 5 palestinesi sono stati feriti da proiettili veri.

In precedenza, sempre venerdì, l’agenzia di notizie ufficiale [palestinese] Wafa ha informato che un adolescente palestinese è morto in seguito alle ferite riportate durante l’arresto da parte di forze israeliane lo scorso mese.

La Wafa e la Commissione per i Detenuti dell’Autorità Nazionale Palestinese lo hanno identificato come il diciassettenne Mohammad Maher Ghawadreh.

Ghawadreh, del campo profughi di Jenin, è morto mentre era in cura all’ospedale Tel Hashomer, in Israele. Era stato arrestato dopo che il 5 settembre avrebbe messo in atto un attacco a mano armata contro un autobus affollato di soldati israeliani nella Valle del Giordano, ferendone sette.

Incremento degli attacchi dei coloni

La settimana scorsa sono aumentate le tensioni sul terreno tra palestinesi da una parte e forze israeliane e coloni dall’altra.

Sabato una soldatessa israeliana è stata uccisa da un palestinese in un attacco a mano armata da un’auto in corsa presso il principale posto di controllo nel campo profughi di Shuafat, nella Gerusalemme est occupata.

Le forze israeliane hanno proceduto a imporre per quattro giorni un blocco al campo e nelle aree limitrofe, dove vivono 130.000 palestinesi, mentre cercavano un sospetto identificato tuttora in fuga.

Abitanti del campo e nelle zone limitrofe hanno chiesto ai palestinesi di mobilitarsi e di iniziare uno sciopero generale mercoledì per fare pressione e porre fine all’assedio che è stato lentamente tolto giovedì mattina.

Mercoledì e giovedì in decine di quartieri, cittadine e villaggi a Gerusalemme est e in tutta la Cisgiordania occupata sono scoppiati scontri con le forze israeliane e i coloni. Mercoledì un giovane palestinese, il diciottenne Osama Adawi, è stato colpito a morte dall’esercito israeliano durante incidenti nel campo profughi di Arroub, a nord della città di Hebron, nella Cisgiordania occupata.

Al grido di “morte agli arabi”, giovedì notte decine di coloni israeliani hanno attaccato gli abitanti e le loro proprietà nel critico quartiere palestinese di Sheikh Jarrah, nella Gerusalemme est occupata.

La Mezzaluna Rossa palestinese [corrispettivo musulmano della Croce Rossa, ndt.] ha informato che le sue équipe mediche hanno curato da aggressioni fisiche e lancio di pietre da parte dei coloni 20 feriti, tra cui cinque che sono stati trasferiti in ospedale per essere curati.

Secondo abitanti e media locali, a un palestinese è stato rotto un braccio e un altro, di 48 anni, soffre di un’emorragia interna dovuta a fratture del cranio e attualmente si trova in ospedale.

Mahmoud Ramadan, abitante di Sheikh Jarrah, afferma che il picco di violenza di giovedì è stato grave.

“Ci manca solo che inizino a fare irruzione nelle nostre case con la protezione della polizia. Hanno usato pietre, tubi e spray urticante,” dice Ramadan ad Al Jazeera.

“Ci hanno picchiati e hanno sfasciato le nostre macchine davanti agli occhi della polizia e alle telecamere di sorveglianza,” continua, aggiungendo che le forze israeliane hanno arrestato almeno 10 giovani del quartiere.

“Le pietre che hanno scagliato avrebbero potuto uccidere qualcuno. Sono arrivati con un atteggiamento mostruoso, come se fossero pronti a uccidere. Non abbiamo nessuna fiducia che la polizia israeliana ci protegga né nei tribunali israeliani,” aggiunge.

Giornalisti locali affermano che giovedì notte il parlamentare di destra della Knesset e uno dei politici [israeliani] più popolari, Itamar Ben-Gvir, ha fatto irruzione a Sheikh Jarrah insieme ai coloni. Secondo i giornalisti, Ben-Gvir ha estratto una pistola e detto ai coloni che “se (i palestinesi) lanciano pietre sparategli.”

Clima di terrore”

Martedì e mercoledì bande di coloni israeliani armati hanno aggredito abitanti, case e negozi anche nella cittadina palestinese di Huwarra, a sud di Nablus, nella Cisgiordania occupata.

Wajeeh Odeh, consigliere comunale del posto, afferma che sotto la protezione di forze israeliane coloni armati di fucili, pietre e tubi hanno sfasciato negozi, auto e aggredito fisicamente alcuni abitanti. L’attacco è stato documentato da video condivisi da giornalisti.

“Gli attacchi sono continuati per due giorni di fila, con l’appoggio dell’esercito israeliano,” dice Odeh ad Al Jazeera. “Alcuni abitanti sono stati picchiati fisicamente, mentre alcuni giovani sono stati feriti da pietre e spray urticante.”

Odeh ha affermato che sia i coloni che l’esercito israeliano hanno sparato proiettili veri sia contro gli abitanti che in aria, ma che non ci sono stati feriti da colpi di armi da fuoco.

“I coloni hanno sparato proiettili veri davanti ai soldati,” continua. “Ciò ha creato un clima di terrore tra la gente.”

Tra i 600.000 e i 750.000 coloni israeliani vivono in almeno 250 colonie illegali sparse in tutta la Cisgiordania e a Gerusalemme est occupate, in maggioranza costruite dal governo israeliano o legalizzate retroattivamente.

Israele ha effettuato incursioni quasi quotidiane in Cisgiordania, concentrate soprattutto nelle città di Jenin e Nablus, dove la resistenza armata palestinese sta diventando più organizzata.

Lo scorso mese sono aumentati sia gli attacchi con armi da fuoco che le uccisioni di soldati da parte di palestinesi.

Martedì un soldato israeliano è stato ucciso nei pressi della colonia illegale di Shavei Shomron, a nordovest di Nablus, durante un attacco armato da parte di un palestinese da un veicolo in corsa. In seguito all’attentato le forze israeliane hanno chiuso ogni strada che porta a Nablus, che si trova tra Jenin e Ramallah, e hanno rigidamente ridotto gli spostamenti per due giorni.

Il gruppo armato “La Fossa del Leone” di Nablus ha rivendicato la responsabilità dell’attacco.

Secondo il ministero della Sanità palestinese dall’inizio dell’anno sono stati uccisi da forze israeliane nella Cisgiordania e nella Striscia di Gaza illegalmente occupate almeno 160 palestinesi, di cui 51 durante l’attacco israeliano durato tre giorni contro Gaza in agosto.

Associazioni per i diritti umani locali e internazionali hanno condannato quello che hanno definito un uso eccessivo della forza da parte di Israele e la “politica di sparare per uccidere” contro i palestinesi, compresi sospetti assalitori in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, occupate da Israele nel 1967.

Secondo Human Rights Watch [nota ong per i diritti umani con sede a New York, ndt.], importanti politici israeliani hanno incoraggiato “soldati e poliziotti israeliani a uccidere palestinesi sospettati di aver aggredito israeliani anche quando non rappresentano più una minaccia.”

Nei suoi rapporti l’ufficio dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani ha evidenziato che le forze israeliane “spesso, in violazione degli standard internazionali, utilizzano armi da fuoco contro palestinesi in base al semplice sospetto o come misura precauzionale.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




L’esercito israeliano chiude Nablus a seguito di mortali attacchi a mano armata

Agar Shezaf,Yaniv Kubovich,Yael Freidson

12 ottobre 2022 – Haaretz

L’IDF ritiene che la maggior parte dei responsabili degli attacchi con armi da fuoco avvenuti nell’ultima settimana in Cisgiordania provenissero da Nablus e siano fuggiti in città dopo aver compiuto gli attacchi; I negozi e le attività commerciali palestinesi a Gerusalemme est hanno chiuso mercoledì per protestare contro le incursioni della polizia israeliana

Mercoledì l’esercito israeliano ha chiuso tutti gli ingressi alla città di Nablus, in Cisgiordania, limitando l’ingresso e l’uscita a sole tre località, effettuando controlli di sicurezza.

La decisione di bloccare gli ingressi si basa sulla valutazione dell’esercito secondo cui la maggior parte dei responsabili dei recenti attentati in Cisgiordania proverrebbero dalla città e in seguito vi si sarebbero rifugiati.

Alcune delle strade principali della città sono state bloccate da cumuli di terra. L’esercito non ha confermato la durata dei blocchi. Secondo l’IDF [le forze armate israeliane, ndt.] i soldati israeliani sono schierati fuori città e entreranno solo se ci saranno prove concrete che stia per avere luogo un attacco terroristico.

A Nablus vivono circa 170.000 persone. È una delle città più grandi della Cisgiordania e funge da polo commerciale regionale. Il blocco della città è inusuale e sconvolge in modo significativo la vita dei suoi abitanti.

Inoltre l’esercito non ha ancora deciso se consentire ai fedeli [ebrei, la tomba è luogo di culto per questi ultimi, ndt.] di entrare mercoledì nella tomba di Giuseppe a Nablus. Inizialmente era previsto un ingresso di massa al sito, ma ora sembra che sarà consentito solo un ingresso limitato e subordinato a una valutazione della situazione.

Martedì il sergente Ido Baruch è stato ucciso a colpi di arma da fuoco in una postazione dell’IDF vicino all’insediamento di Shavei Shomron, a nord di Nablus. I filmati di sicurezza hanno mostrato che gli spari provenivano da un veicolo di passaggio. I responsabili sono ancora latitanti.

L’organizzazione “Lion’s den” [la fossa del Leone, ndt] con sede a Nablus, che comprende centinaia di giovani di varie organizzazioni palestinesi, si è attribuita la responsabilità della sparatoria e ha affermato che questo è solo l’inizio dei “giorni della rabbia”.

Baruch è il secondo soldato ucciso in quattro giorni, dopo che la sergente Noa Lazar era stata uccisa a colpi d’arma da fuoco al checkpoint di Shoafat a Gerusalemme est sabato. Nell’incidente un’altra guardia di sicurezza è rimasta gravemente ferita. La caccia al palestinese sospettato della sparatoria continua.

Mercoledì scorso le forze dell’IDF e dello Shin Bet [servizio di intelligence interna israeliano, ndt.] hanno arrestato un palestinese sospettato di essere coinvolto nella sparatoria contro un autobus e un taxi israeliani vicino a Nablus domenica scorsa. In una manifestazione di coloni israeliani tenutasi vicino a Nablus dopo l’attacco, un soldato dell’IDF è stato leggermente ferito da un colpo di arma da fuoco contro i manifestanti.

Palestinesi in sciopero a Gerusalemme est per i raid della polizia

Mercoledì i negozi e le attività commerciali palestinesi a Gerusalemme est hanno chiuso per protestare contro i raid della polizia israeliana nell’area che hanno provocato aspri scontri tra polizia e manifestanti palestinesi.

La polizia israeliana ha operato nel campo profughi di Shoafat, nella zona orientale di Gerusalemme, per dare la caccia a un sospettato di aver compiuto un attacco mortale a un posto di blocco che domenica [in realtà sabato, ndt.] ha ucciso un soldato.

La polizia ha rastrellato Shoafat, un misero campo per rifugiati palestinesi alla periferia di Gerusalemme, per cercare il sospettato allestendo posti di blocco e schierando gruppi di agenti armati per interrogare i residenti. La massiccia presenza della polizia ha scatenato intensi scontri con i giovani locali. I posti di blocco hanno ostacolato i punti di ingresso e di uscita dall’area, disturbando la vita quotidiana degli abitanti.

Uno sciopero generale è stato indetto per protestare contro la repressione. Scuole e negozi sono rimasti chiusi in tutta Gerusalemme Est, inclusa la Città Vecchia, i cui pittoreschi negozi che si rivolgono sia ai turisti che alla gente del posto solitamente brulicano di vita.

“Mostrare solidarietà con Shoafat è più importante dell’incasso di una giornata”, ha detto Anan Sabah, un macellaio della Città Vecchia. “Il campo è chiuso e circondato da giorni. Abbiamo chiuso i negozi per affermare che si tratta di una punizione collettiva”.

La tensione tra israeliani e palestinesi è alle stelle, soprattutto a Gerusalemme, migliaia di fedeli ebrei si stanno riversando in questa città cruciale in occasione della settimana di festa di Sukkot [la festa delle capanne, una delle più importanti ricorrenze del calendario religioso ebraico, ndt.].

La Associated Press ha contribuito a questo articolo.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Combattenti palestinesi uccidono un soldato israeliano nella Cisgiordania occupata

Redazione di Al Jazeera

11 ottobre 2022 – Al Jazeera

L’uccisione di un soldato israeliano vicino ad una colonia illegale avviene pochi giorni dopo che un altro [soldato] è stato colpito a morte ad un posto di blocco nella Gerusalemme est occupata

Un soldato israeliano è stato colpito a morte vicino ad una colonia illegale nella Cisgiordania occupata in un attacco rivendicato da un gruppo palestinese, il secondo assalto alle forze armate in pochi giorni.

L’esercito israeliano ha detto che il soldato è stato ucciso martedì quando “due aggressori sono arrivati con un veicolo vicino alla comunità di Shavei Shomron e hanno sparato proiettili veri.”

Gli spari nella colonia israeliana sono stati rivendicati dalla ‘Fossa dei Leoni’, una coalizione eterogenea di combattenti palestinesi che si è formata negli ultimi mesi.

Annunciamo che stiamo conducendo una seconda operazione di fuoco contro i soldati dell’occupazione (israeliana) nella zona di Deir Sharaf, ad ovest di Nablus”, ha affermato il gruppo.

La zona si trova tra Nablus e Jenin, città palestinesi che hanno assistito a sei mesi di intensificate incursioni dell’esercito scatenate da Israele in seguito ad un’ondata di attacchi nelle strade di città israeliane.

Nel suo comunicato l’esercito ha aggiunto che forze israeliane stanno cercando le persone che hanno compiuto l’attacco. Secondo l’agenzia AFP [Agenzia France Press], le forze israeliane sono state schierate nell’area e perquisiscono i veicoli.

In un post su Twitter il Ministro della Difesa israeliano Benny Gantz ha promesso che “prenderemo il terrorista e quelli che lo hanno aiutato”.

Il soldato ucciso è stato identificato come il 21enne Ido Baroukh.

L’uccisione è avvenuta tre giorni dopo che una soldatessa israeliana 18enne è stata colpita a morte ad un posto di blocco presso il campo profughi palestinese di Shuafat, nella Gerusalemme est occupata.

Le forze israeliane proseguono la ricerca del presunto sparatore, identificato dalla polizia come un 22enne palestinese residente nella città.

Hanno chiuso gli ingressi al campo profughi e l’ONU ha detto che lunedì le scuole (del campo) sono state chiuse.

Punizione collettiva’

Il parlamentare palestinese della Knesset Ahmad Tibi martedì ha visitato il campo e ha descritto la “sofferenza” degli abitanti.

Le persone malate non possono uscire dal campo per essere curate, le panetterie sono vuote, alcuni medici e infermieri non hanno potuto entrare”, ha detto all’agenzia AFP.

Per uscire dal campo devi aspettare in macchina tre o quattro ore. Questa è sofferenza, questa è punizione collettiva”, ha aggiunto Tibi.

Intanto, secondo il Ministero della Salute palestinese, da venerdì quattro adolescenti palestinesi sono stati colpiti a morte dalle forze israeliane nella Cisgiordania occupata.

Un quinto palestinese, un ragazzino di 12 anni, è morto lunedì in seguito alle ferite riportate il mese scorso durante un’incursione militare israeliana nella città cisgiordana di Jenin.

L’esercito ed altre forze di sicurezza israeliane nei mesi scorsi hanno compiuto incursioni quasi quotidiane in Cisgiordania, soprattutto a Jenin e Nablus, dove la resistenza armata palestinese sta divenendo più organizzata e si sono formati nuovi gruppi di miliziani.

Da gennaio sono stati uccisi più di 80 palestinesi, sia combattenti che civili, in quello che la Commissione Europea ha definito l’anno più letale nella Cisgiordania occupata dal 2008.

La giornalista palestinese-americana Shireen Abu Akleh è stata uccisa a maggio mentre documentava un raid israeliano a Jenin.

Secondo i dati delle Nazioni Unite, quest’anno in Cisgiordania sono stati uccisi almeno 20 minori palestinesi.

Israele ha occupato la Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme est durante la guerra mediorientale del 1967. I leader palestinesi rivendicano questi territori per la creazione di un futuro Stato.

Le colonie israeliane sono considerate illegali dal diritto internazionale. I governi israeliani che si sono succeduti hanno costruito e ampliato le colonie nei territori palestinesi occupati – un’azione che i palestinesi sostengono abbia l’obbiettivo di un cambiamento demografico.

Ci sono almeno 600.000 coloni israeliani che vivono in circa 250 colonie nella Cisgiordania e Gerusalemme est occupate, spesso sotto massiccia protezione militare israeliana.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Decade di nuovo la causa contro Palestine Action

Kit Klarenberg

10 ottobre 2022 The Electronic Intifada

Il 22 settembre cinque attivisti di Palestine Action [rete di protesta pro-palestinese che pratica la disobbedienza civile, ndt.] avrebbero dovuto presentarsi in tribunale per un’udienza di patteggiamento per avere intrapreso quest’estate un’azione contro il produttore di armi israeliano Elbit Systems.

Tuttavia, prima ancora che il procedimento fosse iniziato, i cinque sono stati informati all’ultimo minuto che tutte le accuse erano state ritirate. Le autorità hanno stabilito che nella causa “non c’erano prove sufficienti per fornire una prospettiva realistica di condanna”, come hanno confermato i rappresentanti di Palestine Action.

I cinque attivisti erano stati arrestati all’inizio di luglio per danni penali e violazione di domicilio aggravata per aver interrotto l’attività della fabbrica di motori UAV [unmanned aerial vehicle, velivolo senza pilota, drone ndt] di Elbit a Shenstone, Staffordshire, nelle Midlands occidentali inglesi. Avevano spruzzato la fabbrica, i cancelli e i sistemi di sicurezza esterni con vernice rossa, a simboleggiare il sangue dei palestinesi, e si erano incatenati ai cancelli della fabbrica.

Il sito è stato reso inutilizzabile. Elbit è stata costretta a interrompere temporaneamente la produzione di componenti per droni come i motori.

L’azienda fornisce circa l’85% della flotta di droni israeliani.

La fabbrica di Shenstone, UAV Engines, produce componenti per droni ed è una parte fondamentale degli investimenti di Elbit in Gran Bretagna.

Fra i droni con componenti realizzati a Shenstone c’è il Watchkeeper, utilizzato dall’esercito britannico nelle guerre all’estero e dalla forza di frontiera britannica per sorvegliare e attaccare i migranti.

Perciò il sito è stato a lungo bersaglio degli attacchi di Palestine Action e quello di luglio è stato solo l’ultimo di una campagna ad ampio raggio per distruggere le strutture di Elbit e rendere impossibile la normale produzione.

Nel corso di questa campagna alcuni attivisti del gruppo sono stati arrestati, ma i conseguenti procedimenti giudiziari sono falliti.

A febbraio, quattro attivisti erano stati liberati, perché di nuovo non c’era “alcuna possibilità realistica di condanna”.

Considerazioni su chi indaga

Uno dei cinque di Shenstone, un attivista che desidera essere chiamato Randeep, non è particolarmente sorpreso dalla notizia.

Randeep è comunque leggermente irritato dal fatto che le accuse siano state ritirate dopo che ha sostenuto la spesa per l’acquisto dei biglietti del treno per partecipare all’udienza di patteggiamento.

Questo conferma ulteriormente ciò che già sapevamo. Non siamo noi i criminali e ostacolare la colonizzazione israeliana della Palestina non solo un è dovere morale, è anche giuridicamente valido”, ha affermato in una nota.

Un altro accusato, Richard Spence, ha detto a The Electronic Intifada che la conclusione dell’accusa di mancanza di “prove sufficienti per fondare una realistica prospettiva di condanna” è particolarmente degna di nota, dato che né lui né i suoi colleghi attivisti hanno fatto alcun tentativo di eludere l’arresto o hanno negato di aver agito. In altre parole, un caso facile da risolvere, se mai avessero fatto qualcosa di criminale.

“Il CPS [Crown Prosecution Service, la Procura della Corona] deve aver capito, dopo che altri portati in tribunale per aver preso di mira lo stesso sito sono stati dichiarati non colpevoli, che non c’è ragione per punire degli attivisti che difendono i diritti umani”, ha affermato.

Ad oggi, diversi attivisti di Palestine Action sono stati arrestati e perseguiti per aver violato i siti Elbit e quelli dei suoi fornitori in Gran Bretagna.

Solo un caso si è concluso con una effettiva condanna. L’attivista in questione ha ricevuto una sospensione condizionale della pena di tre mesi e una multa trascurabile di soli 25 dollari.

È raro che i casi anche solo raggiungano il tribunale. In uno di questi casi nel dicembre 2021, tre attivisti – che avevano ugualmente preso di mira il sito di Shenstone – sono stati dichiarati non colpevoli di danni penali dopo un processo di due giorni.

Gli avvocati dei tre attivisti, tra cui l’avvocata palestinese Mira Hammad, hanno sostenuto con successo che, sebbene le loro azioni avessero apportato un danno alla fabbrica, non erano di natura criminale, ma costituivano un’azione proporzionata per prevenire crimini molto più gravi in Palestina.

All’epoca Huda Ammori, co-fondatore di Palestine Action, sostenne che la sentenza equivaleva ad un sostegno del tribunale per la campagna del gruppo. Secondo le stime della polizia britannica ad agosto, e come riportato in un cortometraggio su Palestine Action, nell’arco di un anno il gruppo avrebbe inflitto perdite per oltre 22 milioni di dollari ai siti Elbit in tutto il paese.

Le prossime sfide

Tuttavia, sono in vista importanti sfide legali per il gruppo e i suoi attivisti. In tutto, da qui al prossimo anno sono previsti 13 diversi procedimenti giudiziari contro gli attivisti di Palestine Action.

Il 21 novembre, gli attivisti che hanno scalato il tetto della fabbrica di Elbit a Oldham, vicino a Manchester, e sono entrati nel sito danneggiando dei macchinari, sono accusati di danni penali e furto con scasso.

All’inizio di ottobre, inoltre, presso la Corte di Snaresbrook a Londra sarebbe dovuto iniziare un processo contro un gruppo di attivisti che è stato soprannominato “gli otto di Elbit”. Come apparso su The Electronic Intifada il mese scorso, devono affrontare una marea di accuse per le quali potrebbero essere incarcerati individualmente e collettivamente per molti anni.

Degli otto, tre – Ammori, il suo collega co-fondatore di Palestine Action Richard Barnard e la loro compagna Emily Arnott – affrontano l’accusa più grave di tutte, quella di associazione a delinquere a fini di ricatto.

L’accusa si basa sul fatto che gli attivisti hanno scritto alla società che ha affittato gli uffici londinesi di Elbit incoraggiandone i dirigenti a sfrattare la produzione di armi e minacciando di intensificare la campagna se questa richiesta non fosse stata soddisfatta. La pena massima per il ricatto secondo la legge inglese è di 14 anni di carcere.

Tuttavia, per ragioni poco chiare, tale processo è stato rinviato almeno fino al novembre 2023.

Forse si spera che un lungo periodo da trascorrere con un futuro incerto smorzi la passione. Nel frattempo, però, gli otto attivisti accusati rimangono sulle loro posizioni e considerano il loro eventuale processo un’opportunità d’oro per mettere Elbit sul banco degli imputati.

Sperano di porre ai rappresentanti dell’azienda domande sgradite sulle sue operazioni e, nel processo, impegnarsi a rendere pubbliche sicure prove degli scopi distruttivi per cui quelle armi vengono regolarmente usate a Gaza e in Cisgiordania.

Palestine Action sospetta fortemente che uno dei motivi principali per cui i casi precedenti sono decaduti prima di arrivare in tribunale è che i rappresentanti di Elbit non vorrebbero trovarsi a dover ammettere in una udienza pubblica la loro complicità attiva, continua e diretta negli abusi perpetrati contro i civili palestinesi. In termini di pubblicità negativa, il prossimo processo potrebbe produrre grande disagio ai potenti – ciò che il gruppo considererebbe un grande successo anche in caso di condanna.

“Il governo britannico e Elbit sanno che stiamo decostruendo la loro violenza, il loro apartheid, le loro spudorate violazioni del diritto internazionale”, ha detto un attivista di Palestine Action che ha chiesto di essere chiamato Finn.

“Hanno paura che i loro crimini vengano smascherati, e hanno ragione ad essere spaventati”, ha aggiunto Finn, uno degli attivisti che è uscito dal tribunale il mese scorso. “Questo è un appello a chiunque stia pensando di prendere parte all’azione diretta. Noi siamo innocenti e loro colpevoli, non importa quello che dicono i tribunali”.

Kit Klarenberg è un giornalista investigativo che indaga il ruolo dei servizi di intelligence nel plasmare la politica e la percezione del pubblico.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




‘Chi sono i terroristi?’: Come una nuova generazione palestinese sta combattendo l’occupazione

David Hearst

10 ottobre 2022 – Middle East Eye

Dai contadini delle colline meridionali di Hebron sotto attacco dei coloni ai gruppi armati del campo di Jenin esposti ai raid notturni, in Cisgiordania si sta costruendo una nuova ondata di resistenza

Il villaggio di Letwani è alla fine della strada. Letteralmente. Alle sue spalle si sviluppa una strada di coloni che inizia a Gerusalemme e termina nelle colline meridionali di Hebron.

Di fronte c’è Masafer Yatta, un’area di 30 chilometri quadrati che negli anni ’80 Israele ha dichiarato zona di tiro militare.

I 2.500 residenti di Masafer Atta sono coinvolti quotidianamente in battaglie campali con coloni e soldati.

La mattina in cui sono arrivato a Letwani Asharaf Mahmoud Amour, 40 anni, osservava con calma un mucchio di blocchi di calcestruzzo. Erano i resti della sua casa. Un bulldozer laveva demolita poche ore prima. Con suo grande stupore, i soldati avevano lasciato in piedi la stalla a sinistra e il pollaio a destra, entrambi sotto ordine di demolizione.

“Ti dirò dove dormiremo stanotte, con i polli e le capre”, ha detto Amour.

Tutto quello che vogliono è costringerci ad andare via. Distruggendo le case, isolandoci dai campi, terrorizzandoci continuamente con i soldati e i coloni intorno, invadendo le case, arrestandoci. E sappiamo che il risultato che vogliono ottenere con tutto ciò è mandarci via. Questa è la sfida che accettiamo, afferma Amour, padre di cinque figli.

Stanno cercando di presentarci al mondo come terroristi. Chi sono i terroristi? Noi cerchiamo di rimanere nelle nostre case. Sono loro che ci terrorizzano. Rimarrò qui anche se dovessi dormire sotto una pietra”.

A pochi metri, sulla strada sterrata, ci sono due cartelli. Il primo recita Sostegno umanitario ai palestinesi a rischio di trasferimento forzato in Cisgiordania, con i loghi di 11 agenzie governative dell’Unione Europea.

Questa espressione di sostegno internazionale ha avuto scarsa importanza come forza deterrente per i coloni, dal momento che sopra è esposto un ritratto di Harum Abu Aram, 26 anni.

Oggi Abu Aram giace paralizzato in ospedale dopo aver tentato di difendere il suo pezzo di terra.

Un altro contadino, Hafez Huraini, è stato fortunato a cavarsela con due braccia rotte.

Cinque coloni mascherati, armati di tubi di metallo e accompagnati da un soldato fuori servizio che sparava in aria con una pistola, hanno aggredito Huraini mentre era al lavoro nella sua terra. Huraini si è difeso con una zappa.

Sami, suo figlio, afferma: Erano cinque contro un uomo di 52 anni. Quando l’ho raggiunto mio padre sanguinava dalla mano destra e si teneva la sinistra. Dietro di me sono sopraggiunti altri abitanti del villaggio, altri coloni e poliziotti”.

La polizia ha poi detto che avrebbe arrestato l’uomo ferito.

A quel punto abbiamo iniziato ad infuriarci. I coloni erano in piedi davanti all’ambulanza. Abbiamo trasportato mio padre dentro l’ambulanza. I coloni hanno iniziato a squarciare le gomme dell’ambulanza della Mezzaluna Rossa per cui questa non poteva muoversi”, racconta Sami.

I militari si sono fatti molto aggressivi e ci hanno assalito. Siamo stati cacciati dal luogo e poi hanno continuato. Infine hanno trasferito mio padre all’interno di un’ambulanza militare”.

Così sono iniziati per Hurami, la vittima dell’attacco dei coloni, 10 giorni di detenzione.

E’ stato trasferito nella prigione di Ofer. Arrestato con l’accusa di aver causato gravi lesioni personali al colono che lo ha aggredito, un tribunale militare lo ha condannato a più di 12 anni di carcere. Miracolosamente, la versione del pubblico ministero è andata in pezzi.

In tribunale è stato prodotto un video che mostra per intero l’accaduto. Il giudice ha criticato la polizia per aver ritardato di oltre una settimana l’interrogatorio dei coloni.

L’avvocato di Huraini, Riham Nasra, suggerisce che ciò sarebbe stato fatto per rendere le prove inutilizzabili in tribunale. Ha detto: “Il complotto che è stato ordito contro Hafez Huraini è stato confutato non appena è pervenuto alla polizia e all’opinione pubblica un video che documentava l’attacco da lui subito da parte di coloni armati e mascherati.

I dieci giorni della sua detenzione avevano solo lo scopo di oscurare la verità e preservare la falsa versione ideata dai suoi accusatori. Per questo la polizia con l’avvertenza di nove giorni si è astenuta dall’indagare sui suoi aggressori, inquinando così le indagini di cui sono responsabili».

Tuttavia, alla giustizia militare prudevano le mani. Al momento del rilascio è stato ordinato ad Huraini di pagare una cauzione di 10.000 shekel (2.890 euro) e di stare lontano dalla sua terra per 30 giorni in attesa di ulteriori indagini sull’incidente. I coloni che hanno effettuato l’attacco e il soldato fuori servizio che ha sparato sei colpi in aria sono rimasti liberi.

Sami fa parte di una nuova generazione di agricoltori e attivisti determinati a resistere alle predazioni dello Stato israeliano in tutte le sue forme: coloni, soldati, poliziotti e tribunali.

Sami ha fondato un gruppo chiamato Gioventù di Sumud. Si sente spesso questa parola nelle colline meridionali di Hebron. Significa determinazione.

Quando siamo stati sfrattati dal nostro villaggio abbiamo vissuto in una grotta. Abbiamo messo in ordine la nostra caverna, costruito delle mura, l’abbiamo collegata all’acqua proveniente dal nostro villaggio. Il proprietario ci ha fatto pagare un prezzo alto. Avevo le ossa rotte. La violenza dei coloni è feroce” dice Sami.

Questa generazione è diversa: sicura di sé, determinata, connessa a Internet e parla correntemente l’inglese.

“Israele si aspetta che i vecchi muoiano e che i giovani si fermino, ma sta accadendo il contrario”, afferma Sami.

Non abbiamo alcun ordine da seguire per iniziare la lotta. Non abbiamo leader e non apparteniamo a nessuna fazione. Iniziamo la lotta da soli”.

Sami è ottimista: Chiunque in questa situazione penserebbe di abbandonare ma noi continuiamo ad esistere, a sorridere, a dimostrare che stiamo vivendo, a dimostrare che non ci arrendiamo. Questo è ciò che rende speciale la nostra gente, dimostraregli che siamo fantastici”.

Jamal Juma’a, veterano attivista politico palestinese, lo è meno [ottimista]: Gli israeliani stanno letteralmente trasformando la Cisgiordania in una rete di riserve di nativi. Stanno progettando la geografia e la demografia della Cisgiordania per garantirsi un dominio e un controllo durevoli su di essa”.

I coloni ora hanno una solida presa sulla topografia della Cisgiordania. Prima [degli accordi] di Oslo per trovare lavoro i coloni dovevano attraversare la linea verde [confine stabilito fra Israele e alcuni Paesi arabi circostanti alla fine della guerra arabo-israeliana del 1948-1949, ndt.] in direzione di Israele. Ora possiedono, oltre ad aree agricole, 19 poli industriali e altri in fase di costruzione.

Con nomi accattivanti come Desert Gate [Porta del deserto, ndt.] e Cherry Plantation [Piantagione del ciliegio, ndt.], producono di tutto, dall’uva al bestiame.

Per i contadini originari di questa terra la vita è molto diversa. Le strade sterrate sono quasi impraticabili a causa delle pattuglie militari israeliane.

Juma’a dice: “Si tornerà alle caverne e agli asini”.

Paralisi a Ramallah

Hani al-Masri è uno dei più importanti giornalisti e commentatori politici della Palestina.

Direttore generale di Masarat, il Centro palestinese per la ricerca politica e gli studi strategici, Masri una volta si considerava un membro di Fatah e un confidente del presidente Mahmoud Abbas.

Ora non più. “L’ultima volta che mi ha visto, si è arrabbiato prima ancora che avessi la possibilità di parlare”, ha detto Masri.

Il motivo della caduta in disgrazia di Masri è chiaro. Masri è diventato uno dei critici più pungenti di Abbas, ma anche meglio informati.

A Ramallah non c’è una leadership da molto tempo. All’inizio Abu Mazen [Abbas] si vantava che Israele gli avrebbe concesso più di quanto non avesse fatto con Yasser Arafat, perché lui [Abbas] era moderato, contrario alla violenza. Ma in realtà ha fallito più di Arafat, sostiene Masri.

La sua risposta a ogni fallimento è stata ‘più negoziati’, ma il suo problema è che Israele non è interessato ai negoziati. Senza trattative, la sua legittimità crolla, non solo perché non ha un programma nazionale ma perché tutte le fonti della sua legittimità si sono prosciugate”.

A quasi tre decenni dalla firma degli Accordi di Oslo il presidente 87enne governa sulle macerie del proto-Stato palestinese.

“Non c’è nessuna Fatah, nessuna OLP, nessuna elezione, nessuna autorità, nessuna società civile e nessun organo di informazione indipendente”, afferma Masri.

E non è sorpreso che Abbas abbia scelto come suo successore Hussein al-Sheikh. Sheikh è stato catapultato a maggio nella posizione chiave di segretario generale del comitato esecutivo dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP).

Masri spiega perché Abbas abbia scelto Sheikh. Gli è stato chiesto perché avesse scelto Sheikh e lui [Abbas] ha risposto: ‘Perché è intelligente. Ho chiesto al comitato centrale di fare una scelta e loro non sono stati in grado di raggiungere un accordo. Allora ho scelto il più intelligente tra loro.'”

Ma, a detta di Masri, gli sarebbe stato ribattuto che Sheikh non gode di alcuna popolarità e Abbas avrebbe risposto “Neanche io sono popolare“.

Masri concorda con questa sincera constatazione. Sulla base di sondaggi di opinione fatti nel corso di molti anni, tra il 60 e l’80% degli intervistati vuole che Abbas si dimetta.

Abbas non ha tutti i torti riguardo al comitato centrale. I pezzi grossi di Fatah – Nasser al-Qudwa (in esilio), Jibril Rajoub, Mahmoud al-Aloul, Mohammed Dahlan (in esilio) – stanno combattendo battaglie personali.

Hamas, la cui leadership in Cisgiordania è stata decimata da arresti notturni, rifiuta di prendere parte alla battaglia per la successione, così come le altre fazioni palestinesi. La considerano una esclusiva questione di Fatah.

Masri dice: Ho consigliato loro di lavorare insieme. Ma non lo fanno. Abu Mazen è abile in una cosa. Sa come dividerli. Ha detto a un membro del comitato centrale: Tu sei il mio successore. Ognuno di loro pensa che sarà lui. C’è un’espressione in arabo: ‘Quando non hai un cavallo, devi sellare un asino.'”

Non è ancora chiaro se Sheikh si adatti alla descrizione dell’asino. Sheikh crede di essersi guadagnato il suo posto al sole per aver passato anche lui del tempo in una prigione israeliana. Altri sono meno convinti.

Come responsabile delle relazioni tra l’Autorità Nazionale Palestinese e Israele, Sheikh si è già guadagnato il dubbio onore di essere portavoce dell’occupazione. Collaborazione è un’altra parola sempre più utilizzata per descrivere la cooperazione in materia di sicurezza tra l’Autorità Nazionale Palestinese e le forze di sicurezza israeliane.

C’è un accordo non scritto tra lui e il capo della sicurezza dell’Autorità Palestinese Majed Faraj, l’unico altro funzionario palestinese che potrebbe essere considerato accettabile da Israele e Washington.

Nonostante tutto il suo potere come capo del Servizio di sicurezza preventiva dell’ANP, Faraj non è riuscito a farsi eleggere nel comitato centrale dell’OLP.

A giugno un sondaggio d’opinione condotto dal Centro palestinese per la politica e la ricerca demoscopica ha valutato la popolarità di Sheikh al 3%, con un margine di errore di più o meno il 3%.

Masri dice: Hanno bisogno l’uno dell’altro. Uno è un tramite verso Israele, l’altro verso gli Stati Uniti. Israele non è ancora pronto a puntare tutto sullo stesso cavallo”.

Tuttavia, Sheikh è desideroso di registrarsi sul radar di Washington. E sta già sollevando lo spettro dello scioglimento dell’ANP e la possibilità di scontri tra clan rivali armati di Fatah come argomento per preservare l’ANP.

“Se dovessi smantellare l’Autorità Nazionale Palestinese, quale sarebbe l’alternativa?” ha dichiarato Sheikh al New York Times a luglio.

“L’alternativa sarebbe la violenza, il caos e lo spargimento di sangue”, ha aggiunto. Conosco le conseguenze di quella decisione. So che i palestinesi ne pagherebbero il prezzo”.

Ma se Oslo è morta e l’ANP è moribondo, sicuramente è defunta anche la pratica di eleggere solo candidati il cui compito principale sia quello di rendere l’occupazione da parte israeliana il più semplice possibile.

La pensa così Mustafa Barghouti, il leader e fondatore di Iniziativa Nazionale Palestinese, l’uomo che nel 2005 è arrivato secondo dopo Abbas.

È un momento molto pericoloso e coloro che pensano di poter imporre determinate persone ai palestinesi dovranno stare molto attenti, perché se non avremo un giusto processo democratico e di consenso tra i palestinesi ciò che ora resta di credibilità e rispetto scomparirà”, dice Barghouti.

L’ANP è paralizzata da tre crisi: il fallimento del suo programma di costruzione dello Stato, l’incapacità di presentare una strategia alternativa, la nascita di divisioni interne con la soppressione delle elezioni.

Barghouti afferma: Annullando le elezioni hanno cancellato il nostro breve percorso democratico. E così facendo hanno eliminato il processo di partecipazione, hanno eliminato il diritto delle persone a scegliere i propri leader e hanno bloccato completamente la strada alle nuove generazioni. Come può un giovane in Palestina avere influenza nella politica? Come?”

Il giorno prima che incontrassimo Masri, Nablus era andata in fiamme. Sono scoppiati scontri armati tra manifestanti, molti dei quali di Fatah, e le forze di sicurezza dell’ANP dopo l’arresto di un importante uomo di Hamas, Musab Shtayyeh, ricercato da Israele.

Nel corso degli scontri a fuoco un palestinese di 53 anni, Firas Yaish, è stato ucciso e un altro ferito gravemente.

Uomini armati hanno preso di mira con armi da fuoco la sede distrettuale dell’Autorità Nazionale Palestinese per protestare contro le politiche dell’autorità. Per riportare la calma in città, l’Autorità Nazionale Palestinese ha comunicato che stavano trattenendo Shtayyeh per proteggerlo. Da allora Shtayyeh ha iniziato lo sciopero della fame e l’ANP gli ha negato per due volte di vedere il suo avvocato.

Senza il sostegno di Israele l’ANP crollerebbe nel giro di pochi mesi. Vedete cosa è successo a Nablus, tutte le zone di Nablus erano in fiamme, non solo la città vecchia ma tutti i quartieri, afferma Masri.

Ciò significa che la maggioranza sostiene i combattenti ostili all’ANP. Se l’ANP manterrà le sue promesse di liberare Shtayyeh e lo tratterà come un caso nazionale, non come un criminale, penso che il movimento si rinforzerà“.

E aggiunge: Il nostro problema è questo. Abbiamo bisogno di un cambiamento, ma le condizioni per un cambiamento non sono ancora mature. Ho paura di una situazione di caos, non di un cambiamento”.

Resistenza nel campo di Jenin

Sotto la coalizione di Naftali Bennett e Yair Lapid i raid notturni israeliani si stanno estendendo in tutta la Cisgiordania, così come tutti i segnali dell’occupazione.

Peace Now, il gruppo di pressione israeliano che sostiene una soluzione a due Stati, ha confrontato l’occupazione sotto questa coalizione con quella dell’amministrazione di Benjamin Netanyahu in termini di pianificazione di insediamenti coloniali, gare d’appalto, inizio di lavori di costruzione, nuovi avamposti, demolizioni, attacchi di coloni e morti palestinesi.

Ogni indicatore è in crescita. C’è stato un aumento del 35% delle demolizioni di case, un aumento del 62% degli inizi di lavori di costruzione, un aumento del 26% dei progetti di unità abitative. Le violenze dei coloni sono aumentate del 45%.

Secondo i dati delle Nazioni Unite, almeno 85 palestinesi sono stati uccisi in Cisgiordania tra l’inizio dell’anno e l’11 settembre rispetto a una media annuale di 41 sotto la guida di Netanyahu – e la cifra è già diventata a tre cifre nel mese successivo, facendo sì che il 2022 sia sulla buona strada per essere l’anno più mortale da più di un decennio a questa parte in seguito alle violenze in Cisgiordania.

L’immagine di Lapid sulla scena internazionale come un moderato maschera un’ondata incessante di violenza di Stato contro i civili palestinesi.

Molti muoiono nel corso di sparatorie le cui precise circostanze non sono chiare né mai esaminate in modo indipendente.

In un recente incidente, lunedì scorso, due giovani palestinesi sono stati uccisi da colpi di arma da fuoco e un altro ferito dopo che le forze israeliane hanno aperto il fuoco su un veicolo vicino al campo profughi di Jalazone, a nord di Ramallah.

L’esercito israeliano ha affermato di aver “neutralizzato” due “sospetti”, sostenendo che essi avrebbero “tentato di effettuare un attacco mediante speronamento contro i soldati delle forze di sicurezza israeliane”. L’esercito ha riferito di aver ucciso due persone ferendone una terza.

I morti sono stati identificati come Basel Basbous e Khaled al-Dabbas, entrambi del campo di Jalazone. Ma il comitato dei prigionieri dell’ANP ha affermato di essersi recato in un ospedale di Gerusalemme dove ha visto Basel Basbous, ferito e sottoposto a cure.

Le autorità israeliane hanno smesso da tempo di dare conferma delle morti, dei sopravvissuti, per non parlare della restituzione dei cadaveri degli uccisi alle loro famiglie per la sepoltura.

Yehia Zubaidi ha appreso dai media israeliani che suo fratello Daoud è morto nell’ospedale di Haifa per le ferite riportate. Ma l’ospedale ha rifiutato di consegnare il corpo.

Zubaidi ha combattuto nella Seconda Intifada, iniziata nel 2000, e ha trascorso 16 anni in prigione tra il 2002 e il 2018. Suo fratello Zakaria è stato uno dei sei prigionieri fuggiti dalla prigione di Gilboa nel settembre 2021, tutti successivamente ripresi.

Zubaidi dice: Gli anni in prigione non mi hanno cambiato, ma conosco bene il mio nemico. La prigione non ci ha mai fermato. Ho chiamato mio figlio Osama, che era il nome di un mio amico assassinato. Un altro si chiama Mohammed, e il terzo Daoud come mio fratello».

La resistenza viene infatti tramandata da una generazione all’altra.

Shtayyeh, l’uomo di Hamas arrestato a Nablus, era vicino a Ibrahim Nabulsi, un membro di spicco del braccio armato di Fatah, le Brigate dei martiri di al-Aqsa, che è stato colpito e ucciso dalle forze israeliane ad agosto.

Nabulsi, che non era ancora ventenne, era figlio di un alto ufficiale dei servizi segreti dell’Autorità Nazionale Palestinese.

Il padre di Nabulsi, ufficiale dell’intelligence, dice: “Ibrahim stava dando loro la caccia [ai soldati israeliani], non il contrario. Ogni volta che sentiva parlare di un’incursione dell’esercito israeliano, era il primo ad uscire e ad affrontarli. Questo era il suo destino. Rendiamo lode a Dio”.

Il figlio diciottenne ha lasciato un biglietto in cui esprimeva la volontà che il suo corpo fosse coperto dalla bandiera palestinese, piuttosto che dalla bandiera della sua fazione.

Barghouti afferma: “Questa è di per sé un’indicazione molto importante di una nuova coscienza che sta crescendo tra i palestinesi più giovani”.

Lubna al-Amouri ha trasformato la sua casa in un santuario per il figlio defunto Jamil, un giovane comandante della Jihad islamica nel campo profughi, rimasto intrappolato un anno fa in un’imboscata mentre si recava al matrimonio di un amico.

Quando ha cercato di scappare è stato colpito alla schiena. Nella sparatoria sono rimasti uccisi due agenti di sicurezza palestinesi. Lubna coniuga l’orgoglio per suo figlio, salutato come un eroe locale, con il dolore di madre.

A scuola Jamil desiderava far parte della resistenza, ma io non glielo permettevo. Gli ho comprato una macchina e l’ho fatto lavorare. Volevo che diventasse un tassista, ma ha venduto l’auto per comprare una pistola e ha iniziato da solo senza aderire a nessun gruppo. Non faceva parte della Jihad fino a sei mesi prima di morire”, dice.

Mentre Amouri parla i suoi occhi si riempiono di lacrime.

Era un bravo ragazzo. Dava i soldi o il cibo che aveva alle famiglie più povere. Era arrabbiato per gli eventi a Gerusalemme, dall’assalto ad al-Aqsa. Ha visto cosa stava succedendo in Cisgiordania e non ha potuto fare a meno di lasciarsi coinvolgere.

Nel campo non abbiamo mai riposo. Ci prendiamo sempre cura l’uno dell’altro. Nessuno nel campo pensa al futuro. Ho altri due ragazzi e hanno visto cosa è successo al loro fratello, ho paura per loro. Quando si sentono degli spari, tutti escono fuori”, continua Amouri.

Chiedo a Zubaidi se pensa di vedere la fine dell’occupazione nel corso della sua vita.

“Sì“, risponde senza esitazione.

L’occupazione sta cedendo. Anno dopo anno stanno fallendo. Combattiamo dalla parte giusta. Stanno cercando di cambiare la terra perché capiscono che su di essa abbiamo i diritti e ne siamo i possessori”.

Zubaidi indica nel campo di Jenin gli edifici dipinti di giallo. Sono stati ricostruiti dalle macerie della battaglia di Jenin del 2002 in cui le forze israeliane si fecero strada attraverso il campo con i bulldozer. Nei combattimenti sono stati uccisi tra 52 e 54 palestinesi e 23 soldati israeliani.

Mentre parliamo ci raggiunge un uomo di nome Mohamed che si descrive come un sopravvissuto alla battaglia.

Mohamed allora era un ragazzo e quel giorno era a casa con sua madre e suo padre. Ricorda che sua madre stava preparando il pane per i combattenti che si trovavano fuori nelle strade. Ricorda un’esplosione e poi una “nebbia” nella stanza. Sua madre era accasciata sul pane, sanguinante. Perdeva e riacquistava conoscenza.

Mohamed racconta: Mi sono addormentato accanto a lei. Abbiamo chiamato l’ambulanza ma gli israeliani ne hanno impedito il passaggio. Al mattino mi sono svegliato e ho trovato mio padre che metteva un velo su mia madre. Mi ha detto ‘Sta dormendo e ora sei insieme a me.'”

Mohammed riferisce di aver chiamato sua figlia Maryam come sua madre.

Il campo di Jenin è libero sia dall’ANP, che non osa entrare, sia dall’occupazione israeliana. Non ci sono insediamenti intorno a Jenin, quindi la legge è gestita dalle fazioni armate palestinesi.

Abu Ayman, pseudonimo, è il comandante della Jihad islamica nel campo.

Afferma: Tutte le fazioni a Jenin sono sullo stesso piano. Nessuno di noi accetta quello che sta facendo Abbas, ma difficilmente accetteremmo un uomo come Sheikh. Non riconosciamo elezioni, né parlamento.

Siamo uniti. Se dobbiamo affrontare qualche problema non parliamo con l’ANP perché vengano ad aiutarci. Abbiamo tutto ciò di cui abbiamo bisogno, anche soldi.

All’interno del campo ci rispettiamo, anche se di partiti diversi. Le persone non possono vivere così [sotto occupazione] per sempre. La resistenza rimarrà. Qui viviamo nella libertà. È la sensazione che in Palestina tutti vogliono”.

Solo che il campo di Jenin paga a caro prezzo la sua relativa libertà. Ogni mese ci sono sanguinose incursioni. Pochi giorni dopo il nostro incontro Abu Ayman è sfuggito per un pelo a un’imboscata da parte delle forze di sicurezza israeliane in una piccola foresta vicino al campo.

“Ora sono nella lista dei più ricercati di Israele”, dice.

Zubaidi conclude: Credere nella nostra dignità è come credere in Dio. Di cosa ho bisogno nella vita? Voglio che mio figlio si senta al sicuro. Cosa ti aspetti da questo popolo? Stiamo affrontando l’oppressione e vogliono che restiamo calmi nelle nostre case. Cosa ti aspetti?”

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Il governo degli Stati Uniti fa retromarcia riguardo alla richiesta di indagine sulla morte di un palestinese di 7 anni

Philip Weiss

7 ottobre 2022 – Mondoweiss

Ancora una volta il Dipartimento di Stato americano crede ad Israele quando esso spiega e giustifica la morte di un bambino palestinese durante un raid israeliano nei territori occupati.

La scorsa settimana un bambino palestinese di sette anni di nome Rayan Suleiman è morto in un villaggio della Cisgiordania occupata poco dopo l’incursione nella sua casa di soldati israeliani alla ricerca di chi aveva lanciato delle pietre. Fonti palestinesi hanno rivelato che il bambino è morto di paura. Il cugino di Rayan, Mohammed, ha riferito a Yumna Patel [giornalista freelance palestinese, ndr.] che i soldati hanno bussato violentemente alla porta e la famiglia ha cercato di impedire loro di portare via i due fratelli di Rayan, che era terrorizzato ed è crollato al suolo.

Quel giorno, il 29 settembre, Rashida Tlaib [statunitense di origine palestinese e deputata della Camera dei Rappresentanti statunitense, ndt.] ha chiesto la cessazione degli aiuti militari statunitensi a causa della morte di Rayan, ed pareva che il portavoce del Dipartimento di Stato Vedant Patel stesse chiedendo un’indagine, affermando che “siamo a favore di un’inchiesta approfondita e immediata sulle circostanze della morte del bambino, e credo che anche le stesse IDF [forze di difesa israeliane, ndt.] abbiano annunciato che indagheranno sull’accaduto”.

Così quel giorno l’Associated Press [agenzia di stampa USA, ndt.] e la popolare rubrica di Barak Ravid su Axios [quotidiano statunitense online, ndt.] hanno riferito che gli Stati Uniti avevano chiesto un’indagine sull’omicidio.

Il governo israeliano è rimasto sicuramente irritato dai titoli internazionali secondo cui “gli USA chiedono un’indagine a Israele”. Possiamo esserne certi, perché il governo centrista israeliano ha ripetutamente espresso rabbia per le molto blande richieste americane rivolte ad effettuare un’indagine dopo che il maggio scorso Israele ha ucciso la giornalista palestinese americana Shireen Abu Akleh, concludendo che l’omicidio sarebbe stata una disgrazia.

Quindi due giorni fa il Dipartimento di Stato ha fatto marcia indietro sull’appello. Patel Vedant [ha detto]:

Voglio fare un piccolo passo indietro e chiarire le mie dichiarazioni nel corso del briefing telefonico della scorsa settimana perché penso che lei [Said Arikat di Al Quds] e alcuni altri mi abbiate frainteso. Non abbiamo chiesto che venga eseguita un’indagine. Ciò che abbiamo detto è che abbiamo accolto con favore la comunicazione delle IDF che un’indagine era già in corso. Ho appreso dall’ultimo rapporto che il bambino è tragicamente morto di attacco cardiaco, il che ovviamente non rende la cosa – non la rende meno straziante. Ma le dichiarazioni delle IDF in merito hanno chiarito che un’indagine iniziale non ha mostrato alcun collegamento e che questa questione continua a essere oggetto di analisi. Quindi vi rimando a loro, ma volevo chiarire le mie dichiarazioni.

I giornalisti sono rimasti alquanto increduli, e hanno chiesto a Patel che differenza ci sia tra accogliere favorevolmente [la notizia su] un’indagine e il sostenerla. O che differenza faccia che il bambino sia a quanto pare morto di attacco cardiaco.

Ieri gli israeliani sono puntualmente giunti alla conclusione che il raid israeliano in casa di Rayan Suleiman non ha nulla a che fare con la morte del bambino.

Giovedì le IDF hanno pubblicato le conclusioni della loro indagine sulla morte di un bambino palestinese di 7 anni durante un raid dell’esercito, secondo cui non è stato trovato alcun collegamento con le azioni dei soldati… L’indagine ha rilevato che un ufficiale ha interrogato il padre di Suleiman sulla porta di casa in presenza di due dei suoi figli.

Gli Stati Uniti hanno chiaramente concertato le loro valutazioni su decesso in base alle risultanze israeliane.

Confrontiamo questo caso con [quello di] Mahsa Amini, la donna iraniana morta il mese scorso mentre si trovava sotto la custodia della polizia morale dopo essere stata arrestata con l’accusa di essere vestita in modo indecente. Gli iraniani hanno dichiarato (penosamente) che il caso sarebbe stato un tragico incidente e che Amini sarebbe morta per un infarto. Tuttavia gli Stati Uniti si sono adoperati per imporre sanzioni finanziarie come misura contro i poliziotti iraniani coinvolti.

In questo caso gli Stati Uniti hanno accettato la versione israeliana secondo cui si sarebbe trattato di un tragico incidente e non chiederanno un’indagine, per non parlare di un’inchiesta su se stessi, nonostante il fatto che noi [stunitensi] forniamo a Israele miliardi in aiuti militari che stanno finanziando gravi violazioni dei diritti umani.

Israele quest’anno ha ucciso a colpi di arma da fuoco 23 minori palestinesi nella Cisgiordania occupata nell’impunità totale, e ad agosto ha ucciso 17 minori a Gaza, il tutto in attacchi deliberati condotti per lo più con armi statunitensi.

I sedici minori uccisi a Gaza nell’attacco di questa estate

Il Dipartimento di Stato ovviamente non vuole fare nulla perché Israele risponda delle sue azioni. Proprio come è successo per l’omicidio di Shireen Abu Akleh. “Riteniamo che a palestinesi e israeliani spettino in egual misura sicurezza, prosperità e libertà”, ha detto l’altro giorno ripetendo la solita formula il suo portavoce Patel, e Said Arikat di Al Quds [quotidiano palestinese di Gerusalemme, ndt.] ha accusato il governo di ipocrisia.

Insomma, con tutto il dovuto rispetto, quando afferma questo e quello, come abbiamo visto la scorsa settimana gli israeliani dare la caccia ad un bambino di 7 anni che poi si accascia al suolo morto – beh, con tutto il dovuto rispetto, queste dichiarazioni suonano vuote, come d’altronde per tutto il resto – i palestinesi non tengono gli israeliani in condizioni di detenzione amministrativa. Non distruggono le loro case; non li fanno saltare in aria; non li eliminano e così via. Non c’è equità. Non c’è affatto equità. Quindi questa è la domanda che le pongo: gli Stati Uniti prenderanno posizione sulla detenzione amministrativa? Penso che se questo succedesse altrove probabilmente lo fareste. Insomma, questa è una domanda che nel corso degli anni ho probabilmente sollevato tante, tante volte in questa stanza.

Patel ha semplicemente risposto che gli Stati Uniti “auspicano il pieno rispetto dei diritti umani in Israele, in Cisgiordania e a Gaza”.

Post scriptum: in seguito alla morte di Rayyan, oggi la Federazione americana di Ramallah, Palestina [ong americana che si occupa di questioni relative alla Palestina, ndt.],ha reso pubblica una richiesta per un’indagine del governo degli Stati Uniti su come vengono utilizzati gli aiuti statunitensi:

La tragica morte di Rayyan dimostra le devastanti conseguenze del contesto iper- militarizzato in cui vivono i bambini palestinesi e le ripercussioni della presenza dei soldati israeliani nelle comunità palestinesi…

L’amministrazione Biden e i membri del Congresso devono garantire che gli aiuti a Israele aderiscano alla legge statunitense in vigore, che stabilisce che i Paesi che ricevono aiuti statunitensi debbano soddisfare gli standard sui diritti umani o altrimenti affrontare sanzioni o essere ritenuti non idonei a ricevere aiuti…

Inoltre, la Federazione chiede ai nostri membri del Congresso di intraprendere un’azione immediata per difendere la vita dei minori e delle famiglie palestinesi e perché venga approvata la HR2590: The Defending Human Rights of Palestine Children and Families Living Under Israeli Occupation Act [Legge per la difesa dei diritti umani dei minori e delle famiglie palestinesi che vivono sotto l’occupazione israeliana], [proposta di legge] presentata dalla deputata Betty McCollum, che cerca di garantire che i fondi dei contribuenti statunitensi non vengano utilizzati dal governo israeliano per la detenzione militare di minori palestinesi, la demolizione di case e proprietà palestinesi o per annettere ulteriori territori palestinesi in violazione del diritto internazionale.

È ormai tempo che Israele sia ritenuto responsabile dei suoi crimini contro i palestinesi, compresi i minori…

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Milizia privata e controllo poliziesco a distanza: Israele sta incrementando la repressione contro i palestinesi

Ameer Makhoul

4 ottobre 2022 – Middle East Eye

Le recenti iniziative da parte delle autorità israeliane su entrambi i lati della Linea Verde segnalano una strategia coordinata di divide e impera.

La Linea Verde esiste indipendentemente da quello che ne pensa la politica israeliana. Le politiche per la sicurezza nazionale non finiscono al suo confine, che Israele cancella ogni giorno attraverso le sue pratiche.

Varie recenti iniziative da parte delle autorità israeliane su entrambi i lati della Linea, compresa la creazione di una forza di polizia privata a Beersheba [nel sud di Israele, ndt.], la minaccia che le reti sociali potrebbero essere bloccate durante i futuri conflitti e l’installazione di un sistema di controllo da remoto per disperdere la folla a Hebron, dimostrano come le strutture militari e civili israeliane siano il prodotto di una stessa logica unitaria.

Iniziando da Beersheba, la decisione del Comune di pagare imprese di vigilanza private per collaborare al controllo poliziesco che costano decine di milioni di shekel all’anno [1 shekel = 0,29 €, ndt.], richiama l’annuncio di questa estate da parte dell’ex-primo ministro Naftali Bennett riguardo alla formazione di una “guardia nazionale civile” per lottare contro il “terrorismo”. Bennett è rapidamente scomparso dalla scena politica, ma la sua eredità repressiva continuerà a incombere pesantemente sui palestinesi.

La guardia nazionale, un organismo parallelo alla polizia israeliana, includerà una componente di volontari, sollevando dubbi su quale tipo di misure di supervisione e responsabilizzazione saranno messe in campo. Persino nei confronti delle forze di polizia israeliane ufficiali le sanzioni sono penosamente carenti, raramente gli agenti vengono puniti per la violenza che scatenano contro i civili palestinesi.

Inaugurato questo mese, il nuovo organismo della sicurezza a Beersheba, che a quanto si dice sarà guidato dall’amministrazione comunale in collaborazione con il ministero della Sicurezza interna di Israele, verrà finanziato dai contribuenti. Il costo del programma viene stimato a circa 27 milioni di shekel (circa 8 milioni di euro) all’anno e gli abitanti arabo-palestinesi saranno obbligati a sostenere parte di questi costi attraverso le tasse che pagano.

Razzismo e aggressioni

L’uso della polizia privata solleva molte preoccupazioni. Durante la rivolta del maggio 2021 milizie armate hanno dimostrato un razzismo e un’aggressività estremi, intrisi da una generale ostilità verso la presenza araba e un concetto distorto in base al quale gli arabo-palestinesi sono la causa fondamentale dei crimini e del caos nel Paese.

Alcuni recenti rapporti hanno sostenuto che la nuova forza di polizia di Beersheba includerà membri di Im Tirtzu, una ong che lavora per “rafforzare i valori del sionismo in Israele”. Sulla stessa linea l’Israel Cities Association [Associazione delle Città di Israele], recentemente formata, ha il compito di “rafforzare la resilienza della comunità e la sicurezza personale e pubblica nelle città coinvolte” ed essere pronta in caso di “crisi e minacce alla sicurezza”, un velato riferimento al rafforzamento della difesa ebraica contro presunte aggressioni da parte degli arabi.

All’indomani della rivolta del maggio 2021, l’associazione ha pubblicato un rapporto in cui afferma che i dirigenti palestinesi avevano alimentato il conflitto, attribuendo la maggior parte della responsabilità all’High Follow-Up Committee for Arab Citizens of Israel [Alto Comitato di Monitoraggio per i Cittadini Arabi di Israele], un’organizzazione collettiva dei cittadini palestinesi di Israele.

Sul fronte delle reti sociali, recentemente il commissario della polizia israeliana Kobi Shabtai ha proposto che, in caso di futuri scontri violenti, le reti di social media dovrebbero essere bloccate. Lo Stato e i suoi apparati aggressivi sembrano essere preoccupati di reprimere i palestinesi. Allo stesso tempo le dichiarazioni di Shabtai rappresentano un chiaro riconoscimento del trionfo dei media e delle piattaforme comunicative diffusi tra i palestinesi sul sistema razzista dei mezzi di informazione israeliani.

Evitare la responsabilizzazione

Riguardo al terzo sviluppo, secondo un reportage di Haaretz il sistema per disperdere la folla controllato da remoto a Hebron consentirà di sparare in modo automatico granate stordenti, lacrimogeni e proiettili ricoperti di gomma. “Il sistema, ancora nella sua fase sperimentale, è stato installato in via Shuhada, sopra un posto di controllo in una zona che nel passato è stata il punto focale di manifestazioni e scontri tra i palestinesi e i soldati israeliani,” nota l’articolo.

Per l’esercito israeliano ciò assicura due cose fondamentali: la possibilità di proteggere le vite dei soldati occupanti evitando scontri fisici diretti e di eliminare rapidamente i militanti della resistenza palestinese premendo un bottone. Serve anche come deterrente per i giovani palestinesi, rafforzando la sensazione di essere osservati e monitorati in ogni momento.

In effetti Hebron è diventata un laboratorio in cui vengono testate sui civili palestinesi tecnologie letali prima che siano utilizzate in modo più generalizzato nel resto del Paese e all’estero, attraverso i rapporti commerciali con regimi amici di Israele.

Tutte le iniziative summenzionate sono parte di una strategia coordinata con cui le forze israeliane stanno tentando di evitare il controllo a livello internazionale e la responsabilizzazione a livello personale per le continue violazioni contro i palestinesi.

Mentre cerca di frammentare i palestinesi tra Gaza, la Cisgiordania occupata e i territori del 1948 [cioè lo Stato di Israele, ndt.], Israele sta tentando di colpire tutti questi fronti simultaneamente per impedire la loro ulteriore integrazione. Ciò dimostra il desiderio da parte di Israele di un’escalation aggressiva. Ma al popolo palestinese, che, nonostante la sua vacillante dirigenza politica, continua a sfidare l’oppressione israeliana e a resisterle, resta un barlume di speranza.

Le opinioni espresso in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Ameer Makhoul è un importante attivista e scrittore palestinese della comunità palestinese del ’48 [cioè con cittadinanza israeliana, ndt.]. È l’ex-direttore di Ittijah, una ong palestinese in Israele. È stato incarcerato da Israele per 10 anni.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




La prossima guerra dello Yom Kippur è in arrivo

Yossi Klein

4 ottobre 2022-Haaretz

Perdonaci per il peccato di arroganza: per il peccato che abbiamo commesso davanti a te con superbia e arroganza, per il peccato che ha portato alla morte di oltre 2.500 persone nella guerra dello Yom Kippur [del 1973, scatenata da Egitto e Siria contro Israele durante la festività ebraica dello Yom Kippur e che prese di sorpresa la dirigenza politico-militare israeliana, ndt.] e porterà alla morte di altri nelle guerre a venire. Se una caratteristica umana può essere associata a un‘intera popolazione, l’arroganza siamo noi. Così sono i suoi effetti collaterali: durezza di cuore, arroganza e concezioni errate.

Nell’eccellente serie “Nemici” (Kan Broadcasting [canale televisivo pubblico israeliano, ndt.]), gli ufficiali anziani non sono sorpresi dalla nostra arroganza né la criticano. La accettano come un dato di fatto, come una specie di peso di cui non possiamo liberarci e con cui dobbiamo imparare a convivere. Questo è il modo in cui siamo, dicono, abituiamoci. La risposta alla domanda su chi paga il prezzo dell’arroganza è nota: chi ha sbagliato non paga, chi erroneamente ha mandato altri a morte sono quelli che pagano.

Una linea sottile separa l’orgoglio dall’arroganza. L’orgoglio è desiderabile, l’arroganza è sbagliata. L’orgoglio aiuta lo spirito combattivo, l’arroganza lo indebolisce.

Ci innamorammo della concezione che avevamo degli egiziani e ora ci stiamo innamorando di quella che abbiamo dei palestinesi. Abbiamo sostituito il “non oserebbero” riguardo agli egiziani con “non c’è soluzione” riguardo ai palestinesi. Il vantaggio di “non c’è soluzione” è che ci si può convivere felicemente. Possiamo avvolgerci dentro, sdraiarci e non fare nulla. Il sangue di donne e bambini sarà versato, e noi staremo a guardare con calma e diremo che non c’è niente da fare.

C’era qualcosa da fare e non l’abbiamo fatto. Dopo il 1973 non abbiamo smesso di parlare di “prendere le misure [del nemico, ndt]” e “imparare la lezione”. Quali misure e quali lezioni? La stessa durezza di cuore e la stessa arroganza, la stessa sensazione che tutto in qualche modo si risolverà da solo, che non dobbiamo risolvere il problema ma solo “gestirlo”. Ma se ci sediamo sulle nostre chiappe e “gestiamo”, ci sarà un altro Yom Kippur.

“Non facciamo niente e crediamo che un esercito con missili e aerei vincerà sempre contro qualche migliaio di ‘uomini armati‘. Ci nascondiamo il fatto che non siamo in grado di vincere. Come possiamo vincere con l’occupazione? Non possiamo. Ignoriamo questa impossibilità. Ignoriamo anche la consapevolezza che il prossimo Yom Kippur è in arrivo. Ci costerà sangue, potrebbero volerci generazioni, ma credetemi, il giorno verrà.

Dopo 75 anni di guerre e vittime non ci siamo fermati un attimo a chiederci: forse ci sbagliamo? Forse c’è un altro modo? Non ci siamo posti la questione. Gli arroganti non chiedono, sono sicuri della giustezza del loro cammino. Si divertono a crogiolarsi negli escrementi della loro esistenza virtuosa. Puzzano, ma sono familiari e piacevoli. E se essi si muovono, è a destra, nell’abisso.

È appena uscito un libro intitolato “In the Mind of the Beholder” [Nella mente di chi guarda], un ampio volume di ricerche di Daniel Bar-Tal, Amiram Raviv e Rinat Abramovich. Leggendolo, ci si può rendere conto di quanto poco sia cambiato tra noi e gli arabi: la stessa disgustosa autogiustificazione, gli stessi errori infantili che passano di generazione in generazione come un’antica tradizione sacra. Le ragioni possono essere così riassunte: siamo più forti, più morali e più giusti. Sono primitivi e noi siamo high-tech. Punto e a capo.

E quindi ce lo siamo meritati [lo stato di Israele, ndt.]. È giusto che “non gli piacciamo”. Ce lo meritiamo perché “sei milioni”, perché “Dio ha promesso”, perché siamo i “pochi contro molti” e perché hanno trascurato la terra e noi l’abbiamo messa a frutto. Le stesse affermazioni che non sono cambiate per decenni.

E perché dovrebbero cambiare? Cosa abbiamo fatto perché cambiassero? Dopotutto, questo è ciò che abbiamo sentito a casa, abbiamo imparato a scuola, a cui siamo stati istruiti nell’esercito e abbiamo visto in televisione. Siamo così sottoposti al lavaggio del cervello che è al di sotto della nostra dignità imparare la loro lingua e conoscere la loro cultura. Coloro che cercano di capire sono traditori. Rabin, che ha cercato di capire, ha pagato con la vita.

Non cambieremo la nostra posizione anche se la realtà dimostra che dovremmo. Nel 1973 le vedette videro decine di volte gli egiziani addestrarsi per attraversare il Canale di Suez. Decine di volte ci hanno avvertito, decine di volte abbiamo risposto che era “solo un’ esercitazione”. Questa era la nostra arrogante convinzione (“non avrebbero osato”). Anche quando gli egiziani stavano già scavalcando le recinzioni non ci siamo mossi. Si possono scrivere mille articoli sulla polveriera su cui siamo seduti. Non aiuterà a modificare idee così radicate.

Abbiamo dimenticato tutto e non abbiamo imparato nulla.

(traduzione dall’inglese di Giuseppe Ponsetti)




ONG internazionali di difesa dei diritti umani condannano fermamente il vertice UE-Israele

Elis Gjevori

3 ottobre 2022 – Middle East Eye

Mentre l’Unione Europea affronta una crisi energetica legata alla guerra in Ucraina, Israele intende approfittare del vertice per consolidare i propri interessi.

Organizzazioni internazionali di difesa dei diritti umani condannano il vertice UE-Israele previsto oggi, affermando che non farebbe altro che legittimare l’“apartheid” che colpisce attualmente i palestinesi.

Secondo un comunicato di Amnesty International “Israele commette un crimine di apartheid nei confronti dei palestinesi” e “qualunque forma di cooperazione deve focalizzarsi sullo smantellamento del brutale sistema di oppressione e di dominazione attuato da Israele.”

L’UE cerca di rilanciare i suoi rapporti con Israele in occasione del vertice previsto questo lunedì, il primo tra le due parti dal 2012, soprattutto a causa della necessità di diversificare le proprie risorse energetiche in seguito alla guerra in Ukraina.

Questo vertice, denominato “Consiglio di associazione UE-Israele”, è stato annullato da Israele nel 2013 dopo la pubblicazione da parte dell’UE di una direttiva che ha avuto l’effetto di una bomba, in base alla quale tutti i futuri accordi con Israele escluderebbero le colonie israeliane nei territori palestinesi occupati.

Gli organismi israeliani che vogliono ottenere un finanziamento dall’UE dovevano quindi dimostrare attivamente l’assenza di qualunque legame diretto o indiretto con la Cisgiordania, Gerusalemme est o le alture del Golan occupate.

Pur se la politica ufficiale dell’UE a questo riguardo non è cambiata, Israele ha deciso di confermare il vertice. Tuttavia alcune organizzazioni in difesa dei diritti umani temono che Bruxelles finisca per cedere.

Le autorità israeliane impongono ai palestinesi requisizioni di terre, omicidi illegali, trasferimenti forzati e severe restrizioni alla circolazione, negando la loro umanità e l’eguaglianza di cittadinanza e di status”, afferma Amnesty International a proposito del vertice.

L’UE non può pretendere di condividere degli impegni in materia di diritti umani con uno Stato che pratica l’apartheid e che nei mesi scorsi ha chiuso gli uffici di note organizzazioni della società civile palestinese”, sottolinea Amnesty.

All’inizio di quest’anno le forze israeliane hanno perquisito e chiuso gli uffici di sette ONG palestinesi: Al-Haq, Addameer, Centro Bisan per la ricerca e lo sviluppo, Difesa dei Bambini Internazionale-Palestina, Unione dei comitati di donne palestinesi, Unione dei comitati del lavoro agricolo e Unione dei comitati dei lavoratori della sanità.

Crimini contro l’umanità”

In un comunicato anche Human Rights Watch (HRW) ha condannato il vertice.

I responsabili europei devono sapere che stringeranno la mano a rappresentanti di un governo che commette crimini contro l’umanità e che ha messo al bando importanti associazioni della società civile che si oppongono a questi abusi”, afferma la ONG.

Grace O’Sullivan, eurodeputata del partito dei verdi irlandesi, intervistata da Middle East Eye, sottolinea che è anche improbabile che questo vertice offra ai dirigenti UE l’occasione di esternare le loro preoccupazioni ai dirigenti israeliani.

Mi è stato detto che il Primo Ministro Lapid non vi parteciperà nemmeno di persona”, aggiunge, ritenendo “deludente il fatto che l’UE abbia organizzato questo incontro nella settimana di Yom Kippur (importante ricorrenza religiosa ebraica, ndt.), poiché questo limiterà il (suo) impegno nei confronti dei dirigenti israeliani.”

L’eurodeputata precisa che seguirà da vicino ciò che Josep Borrell, alto rappresentante dell’UE per gli affari esteri e la politica di sicurezza, dichiarerà dopo l’incontro con i suoi interlocutori israeliani, in particolare per sapere se verranno menzionati i diritti umani e le colonie occupate.

Il trattamento dei palestinesi e la messa in atto di misure reali a favore di uno Stato palestinese dovranno essere al centro di questi incontri”, ritiene.

Mi piacerebbe anche vedere dei progressi per quanto riguarda l’uccisione della giornalista americana-palestinese Shireen Abu Akleh e l’arresto di oltre 25 giornalisti palestinesi da parte di Israele solo in quest’anno. La libertà di stampa è gravemente minacciata in Israele e nei territori occupati.”

Un ordine del giorno completamente diverso

Tuttavia l’attuale atmosfera a Bruxelles e a Tel Aviv lascia prevedere un ordine del giorno completamente diverso.

La visita effettuata il mese scorso in Israele dalla Presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen, allo scopo di rafforzare la cooperazione energetica, non è passata inosservata in Israele, alla luce delle opportunità che potrebbe offrire al Paese.

Traduzione [del discorso di Von der Leyen]: “Sono molto felice di essere in Israele. Lavoriamo fianco a fianco per rafforzare la collaborazione tra UE ed Israele. La mia visita sarà incentrata sulla sicurezza energetica e alimentare, l’intensificazione della cooperazione nell’ambito della ricerca, della sanità e della protezione ambientale. Discuteremo anche della situazione regionale e degli sforzi verso la costruzione di un Medio Oriente sicuro.”

Contemporaneamente alla visita della dirigente, Oded Eran, ex ambasciatore di Israele presso l’Unione Europea, ha dichiarato che la delicata situazione energetica in Europa offre a Israele l’occasione di approfondire i suoi rapporti con Bruxelles.

In agosto Israele ha registrato un aumento del 50% delle tariffe derivanti dalle esportazioni di gas nel 2022, sostenuto da prezzi mondiali record, mentre l’Europa affronta una imminente scarsità energetica in seguito all’invasione russa dell’Ucraina.

Anche se limitata, la capacità di Israele di rispondere alla domanda europea non è trascurabile. Così, mentre nel 2021 l’UE ha importato circa 155 miliardi di m3 dalla Russia, Israele potrebbe essere in grado di fornirle circa 10 miliardi di metri cubi all’anno.

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)