Ecco cosa dice in realtà per conto dell’ONU Pramilla Patten nel suo rapporto sulle violenze sessuali del 7 ottobre

Rete di solidarietà femminista per la Palestina

11 marzo 2024 – Mondoweiss

Il rapporto dell’ONU sulle violenze sessuali del 7 ottobre non ha evidenziato prove di stupri sistematici da parte di Hamas o di qualsiasi altro gruppo palestinese, nonostante i media abbiano ampiamente riportato il contrario. Ma ci sono problemi più profondi riguardo alla credibilità del rapporto.

Negli ultimi quattro mesi una campagna propagandistica concertata, organizzata dal governo israeliano e amplificata attraverso vari organi d’informazione occidentali, ha accusato Hamas di aver usato il 7 ottobre lo stupro come arma di guerra. Dichiarazioni su una pianificazione e messa in atto da parte di Hamas di violenze sessuali (con atti che vanno dal fortemente grottesco all’apertamente feticistico e bizzarro) sono state usate per dipingere la resistenza palestinese come disumana e per giustificare il genocidio in corso a Gaza da parte di Israele. Analisi recenti che dimostrano il carattere fallace di queste affermazioni invenzioni, errori materiali e cattive pratiche giornalistiche, asserzioni di testimoni e primi soccorritori non attendibili, affiliazioni militari israeliane di fonti chiave, nonché l’assenza di prove legali o di attestazioni video o fotografiche hanno aperto una breccia nell’opinione corrente.

Il 4 marzo la Rappresentante Speciale delle Nazioni Unite sulla violenza sessuale nei conflitti, Pramila Patten, ha pubblicato un rapporto basato su una visita condotta dal 29 gennaio al 14 febbraio in Israele e nella Cisgiordania occupata per raccogliere, analizzare e verificare le accuse di violenze sessuali legate al conflitto commesse secondo quanto riferito durante i brutali attacchi terroristici condotti da Hamas il 7 ottobre 2023. Il rapporto, che descrive in dettaglio i risultati del sopralluogo di Patten, è emerso in un momento cruciale. Contemporaneamente, mentre la narrazione israeliana secondo cui il 7 ottobre Hamas avrebbe commesso violenze sessuali sistematiche si sta sgretolando, e gli organi di informazione che hanno diffuso tale narrazione sono sotto pressione, il rapporto viene ampiamente proclamato come una difesa di entrambi [Israele e organi di informazione, ndt.].

La nostra analisi mostra che questo non è vero. Il rapporto, infatti, non giunge a molte delle conclusioni per le quali viene elogiato dagli organi di informazione occidentali e molte delle sue conclusioni destabilizzano la narrazione israeliana. Nel rilevare tali conclusioni segnaliamo che il rapporto contiene gravi limiti e discrepanze. È importante capire perché non ci si può fidare del rapporto, dal momento che ha dato nuova vita alla macchina propagandistica sugli stupri di massa utilizzata per giustificare il genocidio di Israele a Gaza.

1. La mancata indagine e i problemi riguardo la metodologia di Patten

Lufficio di Patten non ha né i mezzi né il mandato per indagare su quanto accaduto il 7 ottobre, e le sue risultanze non soddisfano lo standard legale della prova. Al contrario, lufficio della Rappresentante Speciale sulla Violenza Sessuale nei conflitti ha il compito di raccogliere informazioni” e impegnarsi nelpatrocinio legale”.

Ironicamente è proprio lassenza di qualsiasi capacità o potere di indagare che probabilmente ha indotto Israele a rivolgere un invito a Patten. Questo nonostante il rifiuto di Israele di collaborare con lindagine ufficiale dell’ONU attualmente in corso. Nonostante Patten non abbia nascosto che la sua principale preoccupazionenel produrre il rapporto sia stata quella di fare di tutto per gli ostaggi rimasti, ciò che rende la sua missione utile a Israele è la sua compiacenza e deliberata ignoranza nel momento in cui non indaga sulla serie di fatti connessi al 7 Ottobre il suo prima e dopo, contestualmente e storicamente. Non c’è da stupirsi che la missione di Patten abbia goduto della piena cooperazionedel governo israeliano (paragrafo 32), dal momento che era noto in anticipo che la missione non avrebbe potuto anzi, non avrebbe voluto sondare troppo in profondità.

Dopo la pubblicazione del recente rapporto sulla sua missione Patten ha sostenuto che qualsiasi verdetto definitivo sulle violenze sessuali avvenute il 7 ottobre richiederebbe un’indagine ufficiale delle Nazioni Unite.[1] [2] Ma è proprio questa indagine dellONU, presieduta da Navi Pillay, già in corso, che il governo israeliano ha più volte bloccato. Il 15 gennaio, ad esempio, Israele ha dato istruzioni ai medici che avevano curato i sopravvissuti del 7 ottobre di non collaborare con gli investigatori dell’ONU. Lo stesso rapporto di Patten cita la mancanza di cooperazione da parte dello Stato di Israele con gli organi competenti delle Nazioni Unite dotati di mandato investigativo. (Paragrafo 55) Eppure, allo stesso tempo, Israele presenta in modo fuorviante il rapporto di Patten come una convalida dell’ONU alla sua affermazione secondo cui Hamas il 7 ottobre avrebbe commesso violenze sessuali sistematiche.

Per dimostrare quanto sia facile fare uso strumentale del rapporto di Patten, dobbiamo solo ricercare nel suo contesto il significato di “informazione credibile. Durante il suo incontro con i giornalisti Patten ha ripetutamente legittimato il rapporto sostenendo che seguirebbe la metodologia dell’ONU. Ma un esame più attento rivela che quando l’applicazione dell’onere della provautilizzata dagli organi investigativi dell’ONU – “ragionevoli motivi per ritenere” – viene trasferita in un contesto in cui non è possibile alcuna indagine le informazioni possono facilmente essere distorte e utilizzate come armi (paragrafo 26). Nel rapporto le interviste con testimoni secondari anonimi costituiscono alcune delle principali fonti di informazioni credibilima la loro inclusione si basa sulla valutazione personale della credibilità e affidabilità dei testimoni incontratida parte del team della missione. (Paragrafo 26)

In altre parole, ci viene chiesto di fidarci del giudizio di Patten e di prendere il suo rapporto per oro colato. Tale fiducia sarebbe stata più facile se il rapporto avesse incluso citazioni o riferimenti che spiegassero le fonti su cui si basa a proposito delle sue informazioni credibili. Pur comprendendo che le informazioni sensibilidebbano essere rese anonime quando si ha a che fare con dei testimoni (par. 31), ciò oltrepassa il confine delloccultamento quando le informazioni in questione provengono da istituzioni nazionali israeliane o organizzazioni della società civile; le pubblicazioni non vengono citate, né viene identificato alcun funzionario governativo o primo soccorritore (anche se questi hanno già emesso dichiarazioni pubbliche).

Sappiamo, ad esempio, che Patten ha parlato con uomini della ZAKA [vedi infra, ndt] come Yossi Landau (come lei stessa ha ammesso nella conferenza stampa). Landau è stato una figura centrale nella diffusione di false storie intorno al 7 ottobre, tutte ora screditate. Mentre il rapporto di Patten confuta una falsa storia su una donna incinta [a Be’eri] il cui ventre sarebbe stato squarciato prima di essere uccisa e il feto pugnalato mentre era ancora dentro di lei(paragrafo 65), storia che origina anch’essa da Landau, ripete anche, senza metterle in discussione, altre affermazioni fatte pubblicamente da Landau. Ad esempio, il rapporto avalla le ragioni fornite da Landau al New York Times secondo cui il numero limitato di foto scattateda gruppi volontari di ricerca e salvataggio sarebbe dovuto alla loro estrazione religiosa conservatricee per rispetto al defunto” (paragrafo 46) – il tutto senza mai nominare Landau.

Trasmettere queste informazioni in termini generici, senza fonti o attribuzioni, conferisce alle stesse unaura di obiettività” e imparzialità”. Questa mancanza di trasparenza rende quasi impossibile pesare e valutare le informazioni che riceviamo dal rapporto.

Un ulteriore problema è legato al fatto che il piccolo numero di testimoni della violenza sessuale del 7 ottobre sia già stato ampiamente screditato. Si è scoperto che molti hanno mentito esplicitamente nella loro testimonianza, la maggioranza ha legami diretti o indiretti con l’esercito israeliano, tutti i testimoni chiave hanno cambiato la loro testimonianza in modo abbastanza significativo da minare la loro credibilità, e molti appartengono all’organizzazione sionista conservatrice ZAKA, che, secondo il portavoce Yehuda Meshi-Zahav, si considera un braccio del ministero degli Affari esteri”.

Sappiamo già che la squadra di Patten, nonostante abbia lanciato un appello pubblico, non ha incontrato un solo sopravvissuto alla violenza sessuale dal 7 ottobre (par. 48). A meno che Patten, con pochi contatti sul campo e di fronte a quella che lei stessa ha definito disponibilità estremamente limitata di vittime sopravvissute e testimoni di violenze sessuali, sia stata in qualche modo in grado di evocare una serie completamente nuova di testimoni nell’arco di due settimane dobbiamo presupporre che i testimoni credibilidi Patten provengano da questo gruppo già screditato. È quindi altamente improbabile che siano credibili.

Ancora più problematica è lassenza di citazioni delle fonti, data la provenienza di gran parte delle informazioni contenute nel rapporto. Il rapporto stesso afferma che il raggiungimento dell’obiettivo della squadra è stato limitato dal fatto che le informazioni su cui faceva affidamento provenivano in gran parte da istituzioni nazionali israeliane(Paragrafo 55) fra cui: il Presidente di Israele e la First Lady, i ministeri competentile Forze di Difesa Israeliane (IDF), lAgenzia di Sicurezza Israeliana (Shin Bet), e la Polizia Nazionale israeliana incaricata delle indagini sugli attacchi del 7 ottobre (Lahav 433); [e] diversi incontri di lavoro alla base militare di Shura, lobitorio in cui furono trasferiti i corpi delle vittime, nonché un incontro al Centro Nazionale Israeliano di Medicina Legale” (par. 33).

In tutto, la squadra ha condotto 33 incontri con rappresentanti delle istituzioni nazionali israeliane. (par. 33) Rendere tali informazioni generiche e comunicarle con tono impersonale oscurando le fonti dà lillusione di obiettività”, anche se il rapporto rimane fortemente dipendente dalle fonti israeliane. In quanto tale, il rapporto non è solo metodologicamente imperfetto, ma anche pericoloso.

Nella conferenza stampa del 4 marzo Patten ha ammesso che, senza unindagineci occuperemmo delle violenze sessuali praticamente nel vuoto(Minuto 20:36, corsivo nostro). Questa decontestualizzazione consente di far finta che le storie degli stupri di massa del 7 ottobre non abbiano avuto un ruolo persistente nel giustificare il genocidio di Gaza. In questo senso, la mossa di delegittimare nel rapporto due presunti casi di violenza sessuale che hanno avuto un’ampia diffusione (entrambi completamente confutati molto prima della pubblicazione del rapporto) ha avuto l’effetto di convalidare i giudizi di credibilità espressi nel resto del rapporto e confondere i critici. [3] Il rapporto può quindi sembrare in accordo con i principi di indipendenza, imparzialità, obiettività, trasparenza, integrità” (paragrafo 30), anche se presenta una visione parziale del quadro del 7 ottobre.

Patten afferma di comprendere il rischio che il suo rapporto venga strumentalizzato. Quindi potremmo chiederci perché ha accettato linvito in Israele quando sapeva che gli israeliani stavano rifiutando laccesso alla Commissione dInchiesta dell’ONU, lagenzia con poteri investigativi. Come mostriamo nella nostra analisi della diffusione del rapporto Patten nei media occidentali, il rapporto è già stato citato come sostegno ufficiale dell’ONU alle affermazioni di Israele e utilizzato per rivitalizzare la propaganda sugli stupri di massa, proprio quando quella propaganda era stata pubblicamente sfatata. Ciò essenzialmente rende Patten una complice volontaria del genocidio israeliano a Gaza.

2. Sfatando la narrazione sullo stupro di massa

Nonostante la sua complicità con la narrazione israeliana il rapporto di Patten mina molti dei principi fondamentali di tale versione. Gli organi di informazione di massa occidentali sono attualmente impegnati in una campagna concertata per ignorare questo fatto, dal momento che interpretano il rapporto come una conferma delle affermazioni secondo cui il 7 ottobre Hamas avrebbe commesso uno stupro sistematico. In realtà, il rapporto non giunge esplicitamente a questa conclusione. Qui elenchiamo diversi riscontri del rapporto e spieghiamo come e perché minano la narrazione di Israele.

2.1 Il rapporto delle Nazioni Unite non rileva che il 7 ottobre abbia avuto compimento alcun “disegno preordinato” di violenza sessuale

Questa è stata l’affermazione principale di Jeffrey Gettleman, Anat Schwartz e Adam Sella nel loro articolo, ormai completamente screditato, “‘Screams Without Words’: How Hamas Weaponized Sexual Violence on Oct. 7” [“grida senza parole”: come Hamas il 7 ottobre ha utilizzato la violenza sessuale come arma, ndt], in cui sostenevano che i combattenti di Hamas non avrebbero compiuto atti di stupro occasionali e isolati, ma avrebbero invece messo in attoun più ampio disegno preordinato di violenza di genere, utilizzando lo stupro come arma di guerra. Tuttavia, quando, 52 minuti dopo l’inizio della conferenza stampa di Patten del 4 marzo, Farnaz Fassihi del Times ha chiesto: “Potrebbe affermare di aver riscontrato un disegno preordinato di violenza sessuale come strategia di Hamas, sia negli attacchi del 7 ottobre che riguardo gli ostaggi?” Patten ha risposto no in maniera decisa.

In un momento successivo della conferenza stampa, quando la giornalista di Haaretz Liza Rozovsky le ha chiesto: “Ho ragione nel dire che non si può concludere che la violenza sessuale sia stata di carattere sistematico?” Patten ha ribadito la risposta, affermando: “No…il fattore distintivo rispetto al compito che ci eravamo prefissati, la raccolta e la verifica di informazioni allo scopo di includerle nella relazione annuale del Segretario Generale piuttosto che un’indagine, nel qual caso si sarebbe indagata l’eventuale esistenza di aspetti più ampi e sistematici. Non abbiamo approfondito quegli aspetti. (Minuto 57:53)

Il rapporto di Patten non ha potuto né “stabilire l’estensione della violenza sessuale” (par. 86), né “trarre conclusioni sullattribuzione delle presunte violenze sessuali a specifici gruppi armati”. (par. 78) Patten lo ribadisce più avanti, nella stessa audizione, quando spiega:

Non mi addentro sull’estensione, nella relazione non ho dei numeri. Perché per me un caso è più che sufficiente. Non si tratta di… non ho eseguito un esercizio di contabilità. La prima lettera che ho ricevuto dal governo israeliano parlava di centinaia se non migliaia di casi di brutale violenza sessuale perpetrata contro uomini, donne e bambini. Non ho trovato niente, niente del genere. (corsivo aggiunto)

Qui vale la pena chiarire che, mentre il grado di estensione non rientra nellambito del lavoro della missione, lo è la ricerca di disegni preordinati. Vale a dire, il mandato della SRSG-SVC comprende la raccolta, lanalisi e la verifica delle informazioni esistenti, nonché di quelle ricevute in modo indipendente, su episodi e modelli preordinati di violenza sessuale legata ai conflitti(par. 25, corsivo nostro).

È quindi significativo il fatto che non sia stata constatata di fattol’attuazione il 7 ottobre di un disegno preordinato di violenza sessuale. Questo nonostante l’evidente parzialità nellaffidarsi a fonti (di istituzioni nazionali israeliane) di cui soffre il rapporto. Anche al livello molto più basso di informazione credibile(debole come prova, ma con valore indiziario), Patten è chiara durante la conferenza stampa sul fatto che non sia stato riscontrato alcun disegno preordinato di violenza sessuale.

In effetti, il massimo che si può intendere che il rapporto delle Nazioni Unite affermi sono informazioni credibilisu casi differenti. Potenzialmente per compensare lassenza di uno schema preordinato, il rapporto contestualizza in luoghi diversi informazioni riguardanti lo stupro e lo stupro di gruppo. Elenca almeno treluoghi distinti per i quali sostiene che vi siano informazioni credibili di atti di violenza sessuale: il festival musicale Nova e le aree circostanti”; strada 232 e altre vie di fuga’”; e il Kibbutz Re’im. Questa molteplicità di luoghi è ingannevole. A un esame più attento, almeno due dei contesti risultano indistinguibili: il festival musicale Nova si è svolto in un prato che confina con la strada 232, quindi fingere che il festival e zone circostantinon includesse anche la strada 232 è un gioco di prestigio che porta ad alcune delle peggiori incoerenze del rapporto. Nel rapporto ci viene detto:

“Altre fonti credibili sul sito del festival musicale Nova hanno descritto di aver visto numerosi individui assassinati, per lo più donne, i cui corpi sono stati trovati nudi dalla vita in giù, alcuni completamente nudi, con alcuni colpi di pistola alla testa e/o legati, di cui alcuni con le mani dietro la schiena e legati a strutture come alberi o pali. (Par. 58, corsivo nostro)

Eppure il riepilogo colloca questi corpi legati a strutture come alberi e pali lungo la Strada 232. (punto 13) Questo errore è significativo poiché l’impressione di molteplici testimonianze e di una ripetizione di indizi circostanziali di violenza sessuale, quando, in realtà, sono descritti gli stessi episodi. In altre parole, le conclusioni del rapporto vanno oltre e gonfiano anche le affermazioni minime che si possono ricavare dalle cosiddette informazioni credibili raccolte.

Inoltre, quasi tutti i casi di violenza sessuale trattati dal rapporto ci sono familiari grazie a precedenti rapporti e articoli dei media, che si tratti del New York Times, della presa di posizione di Physicians for Human Rights Israel [medici per i diritti umani Israele, ndt.], del rapporto più recente dellAssociation of Rape Crisis Centers in Israel [associazione dei centri antistupro israeliani, ndt.] o una serie di altre fonti. C’è solo un nuovo caso di stupro che il rapporto dell’ONU tenta di aggiungere alla lista già molto limitata di presunti casi che ha iniziato a circolare all’infinito nella sfera pubblica da quando la propaganda di massa sugli stupri è iniziata in grande stile a novembre. Questo caso è localizzato nel terzo sito, il Kibbutz Re’im (2 km a sud-ovest del sito del festival musicale Nova). Viene descritto come lo stupro di una donna allesterno di un rifugio antiaereo allingresso del kibbutz Reim, confermato da testimonianze e materiale digitale”. (par. 61) È basandosi quasi esclusivamente su questo caso che il rapporto giudica che vi siano fondati motivi per ritenere che nel kibbutz Reim si siano verificati casi di violenza sessuale, tra cui lo stupro”. (par. 61)

Tuttavia la descrizione all’esterno di un rifugio antiaereo all’ingresso del kibbutz Re’im” è fuorviante, perché il rifugio antiaereo si trova all’esterno del kibbutz sulla strada 232. Anche se questo caso è classificato nel rapporto dell’ONU sotto l’intestazione che fa riferimento al kibbutz Re’im, avrebbe potuto benissimo essere classificata sotto l’intestazione: strada 232”; infatti fa parte delle aree circostanti al sito del festival Nova. La ragione per cui ciò è importante è che questo è l’unico caso di presunta informazione credibile di stupro in un kibbutz. Finora, in tutti i resoconti e le storie dei media, pochissimi presunti stupri sono stati localizzati nei kibbutz, e tutti questi sono stati confutati. Lo stesso rapporto dell’ONU giudica le altre accuse di violenza sessuale nei kibbutz non verificate (kibbutz Kfar Aza) o infondate (tre accuse nel kibbutz Beeri, che è lunico kibbutz visitato dalla squadra della missione).

Dato che Hamas non sapeva che il 7 ottobre nel campo vicino a Re’im si sarebbe svolto il Nova Music Festival (il rave avrebbe dovuto concludersi il 6 ottobre), se avesse pianificato di utilizzare lo stupro o la violenza sessuale come arma di guerra contro i civili, avrebbe preso di mira i kibbutz. Eppure non ci sono state presentate informazioni credibili su violenze sessuali in nessuno dei kibbutz. [4]

Nonostante le apparenze contrarie, il rapporto dell’ONU non ha cambiato la situazione. Ciò getta ulteriori dubbi sulle affermazioni secondo cui il 7 ottobre la resistenza palestinese avrebbe commesso uno stupro sistematico.

2.2 Il rapporto non attribuisce alcun atto di violenza sessuale a Hamas o ad altre organizzazioni di resistenza palestinesi

Nonostante la trionfante dichiarazione del presidente israeliano Isaac Herzog secondo cui il rapporto conferma con limpidezza e coerenza morale i crimini sessuali sistematici, premeditati e continui commessi dai terroristi di Hamas contro le donne israeliane, il rapporto non rileva esplicitamente che Hamas in particolare abbia commesso alcun crimine. Nella conferenza stampa, Patten spiega che:

Dati i molteplici attori presenti, Hamas, la Jihad islamica palestinese, altri gruppi armati, civili, armati e disarmati, non mi sono addentrata nellattribuzione, considerati i tempi e dato il fatto che non stavo conducendo unindagine.

Lo stesso rapporto della missione rileva che Hamas ha formalmente negato le accuse di aver commesso degli stupri il 7 ottobre e ribadisce che non ritiene alcun gruppo responsabile di possibili casi di violenza sessuale:

“Dato che la missione non era investigativa non ha raccolto informazioni e/o tratto conclusioni sull’attribuzione di presunte violenze sessuali a specifici gruppi armati.” (Paragrafo 78)

Vari titoli di mezzi di informazione hanno scelto di ignorare tale affermazione: CBS News ha riferito che LONU dichiara di avere ‘fondati motivi per ritenere’ che il 7 ottobre Hamas abbia compiuto attacchi sessuali,” e Associated Press e Time che “Linviata dell’ONU afferma che esistono ‘fondati motivi’ per ritenere che il 7 ottobre Hamas abbia commesso violenze sessuali. Titoli che affermano che il rapporto di Patten abbia attribuito la violenza sessuale a Hamas sono apparsi anche su The Guardian, The Financial Times e The Washington Post.

2.3 Il rapporto non individua un singolo elemento di prova audiovisivo o fotografico che confermi lo stupro

Questo nonostante il fatto che un patologo forense e un analista digitale del team della missione abbiano esaminato:

Oltre 5.000 foto, circa 50 ore e diversi file audio di filmati degli attacchi, forniti in parte da varie agenzie statali e attraverso una revisione online indipendente di varie fonti aperte, per identificare potenziali casi e indicazioni di violenza sessuale legata al conflitto. Il contenuto comprendeva gli attacchi reali e le loro conseguenze immediate, catturati attraverso bodycam e telecamere da cruscotto dei combattenti, cellulari individuali, televisioni a circuito chiuso e telecamere di sorveglianza del traffico. (Paragrafo 34)

Nella sezione dedicata alle conclusioni del rapporto Patten scrive che “Attraverso la valutazione medico-legale delle foto e dei video disponibili non è stato possibile identificare alcuna indicazione tangibile di stupro”. (Paragrafo 74)

Inoltre il rapporto aggiunge in una nota che:

La squadra della missione ha preso atto delle affermazioni delle autorità israeliane secondo cui alcuni dei materiali online incriminanti, compresi quelli che raffiguravano specificamente atti di violenza sessuale, sarebbero stati rimossi… è opinione della squadra della missione che se fossero stati diffuse sui principali mezzi di comunicazione evidenti prove digitali di violenze sessuali o di ordini di commettere violenza sessuale, ciò sarebbe stato probabilmente scoperto, dato il volume delle informazioni pubblicate online e ulteriormente diffuse, rendendo improbabile la rimozione di ogni traccia di tale materiale. (Paragrafo 77)

2.4 Il rapporto conferma che i testimoni hanno diffuso storie false sulle violenze sessuali del 7 ottobre

Confermando ciò che giornalisti e attivisti indipendenti dimostrano ormai da mesi il rapporto si è prodigato nel constatare la manipolazione di prove e testimonianze, affermando che:

“Va rilevato che i testimoni e le fonti con cui la squadra della missione ha collaborato hanno adottato nel tempo un approccio sempre più cauto e circospetto riguardo ai resoconti precedenti, fino a ritrattare in alcuni casi le dichiarazioni rese in precedenza.” (Par. 64)

E:

“interpretazioni forensi imprecise e inaffidabili da parte di alcuni non professionisti hanno costituito una sfida ulteriore.” (Paragrafo 10)

Tra queste interpretazioni imprecise sono compresi rapporti ampiamente diffusi (con riedizioni da parte di BBC, NBC News, The New York Post, Unherd e altri) secondo cui una donna sarebbe stata trovata al Kibbutz Beeri con oggetti come coltelli inseriti nei genitali. Tuttavia, quando la squadra della missione ha esaminato le foto, non ha trovato nulla del genere. (Minuto 55:10)

Nella sua conferenza stampa Patten suggerisce che le interpretazioni errate dei primi soccorritori potrebbero essere state intenzionali: “Potrebbero non essere stati in malafede, non lo so, ma è un fatto che abbiamo trovato molti casi di interpretazioni forensi inaffidabili e imprecise da parte di persone inesperte. (Minuto 56:20)

Le allusioni a “persone inesperte” o ai primi soccorritori si riferiscono quasi certamente alla ZAKA, un’organizzazione religiosa conservatrice ultra-ortodossa intervenuta sulla scia del 7 ottobre come gruppo di primi soccorritori. Mondoweiss ha già ampiamente documentato l’inaffidabilità dell’organizzazione e il loro coinvolgimento nella fabbricazione di prove delle atrocità del 7 ottobre.

Il governo israeliano riconosce la ZAKA come lunica organizzazione responsabile della gestione delle morti dovute ad attacchi terroristici” in Israele. Ormai abbiamo ampie prove che i membri della ZAKA, che mantengono una posizione religiosa radicale contraria alle autopsie e alle procedure forensi, hanno usato la loro immaginazioneper inventare storie elaborate di brutalità sessuale sulla scia del 7 ottobre. Il rapporto di Patten sottolinea le pratiche inaffidabili della ZAKA, ma ignora opportunamente lo stretto rapporto della ZAKA con il governo israeliano: lorganizzazione riceve finanziamenti governativi e si coordina con i principali ministeri governativi, il tutto atteggiandosi a organizzazione non governativa neutrale. Il portavoce della ZAKA Yehuda Meshi-Zahav ha affermato che lorganizzazione agisce come un braccio del ministero degli affari esterie il 23 novembre 2023 Benjamin Netanyahu ha incontrato i membri della ZAKA, dicendo loro: Voi avete un ruolo importante nellinfluenzare lopinione pubblica, che a sua volta influenza i leader. Siamo in guerra; e questa continuerà”.

Il rapporto di Patten funziona come una distrazione dal genocidio

Nonostante il fatto che il rapporto di Patten non riscontri alcuna informazione credibile a sostegno di una serie di stupri avvenuti il 7 ottobre, che non abbia poteri investigativi e che mantenga evidenti lacune di credibilità che non può colmare nellambito del suo mandato, i media occidentali hanno seguito le indicazioni guida del governo israeliano nellinquadrare il rapporto come una conferma della versione di Israele secondo cui il 7 ottobre Hamas avrebbe commesso violenze sessuali sistematiche.

Allo stesso tempo, questi organi di informazione ignorano il totale rifiuto di Israele di collaborare con lindagine ufficiale dell’ONU su tali affermazioni. Dobbiamo vedere il rapporto di Patten per quello che è: un tentativo di dare una patina di legittimità ad affermazioni che sono state ampiamente smentite riciclando testimonianze anonime sotto la copertura della metodologia ONU” – ma senza il mandato investigativo necessario per legittimare quella metodologia. Il rapporto di Patten non individua esplicitamente una tipologia di violenza sessuale, non fornisce alcuna indicazione sulla sua proporzione e non fa il nome di alcun possibile autore. Ciò non sembra preoccupare Patten, che ribadisce continuamente di agire nel suo ruolo di difensora delle vittime di violenza sessuale legata ai conflitti e non di inquirente.

Ma difensora di chi? In definitiva, uno dei maggiori problemi di questo rapporto è che funge da distrazione una distrazione dalla difficile situazione di migliaia di uomini, donne e bambini palestinesi che continuano a essere sottoposti ad abusi sessuali accertati e torture nelle carceri delloccupazione; dal destino attuale di quelle donne i cui indumenti intimi i soldati israeliani hanno fotografato dopo aver bombardato le loro famiglie e le loro case; da persone costrette a identificare i propri figli, mariti e padri spogliati e lasciati con i soli indumenti intimi, umiliati sessualmente e torturati.

È una distrazione dallagonia delle madri che ora sono costrette a guardare i loro figli morire di fame; dal terrore di oltre 50.000 donne incinte a Gaza senza cibo, acqua o assistenza medica e senza un posto sicuro dove partorire; dal dolore delle donne palestinesi che piangono i 30.000 martiri già massacrati nel genocidio in corso da parte di Israele.

Come femministe, rifiutiamo categoricamente luso delle accuse di violenza sessuale come arma per giustificare queste atrocità e ci uniamo alle femministe di tutto il mondo nel chiedere che coloro che condividono questa propaganda siano ritenuti responsabili di complicità nel genocidio e di aver anzi costruito il consenso per la sua attuazione.

Note

[1] La prima e principale raccomandazione del rapporto Patten è che venga svolta unindagine. (Par. 88).

[2] Questa non è la prima volta che Patten si nasconde dietro la sua mancanza di mandato investigativo per diffondere affermazioni dubbie senza prove. Nellottobre 2022, quando le è stato chiesto se avesse prove a sostegno della sua affermazione secondo cui i soldati russi avevano commesso uno stupro di gruppo utilizzando il Viagra (unaffermazione circolata per la prima volta online), Patten è apparsa offesa. Non è compito del mio ufficio andare a indagare, ha ribattuto, ho un mandato di patrociniola mia sede è a New York, in un ufficio a New York, e ho un mandato di patrocinio. L’Ufficio dell’Alto Commissario per i Diritti Umani delle Nazioni Unite (OHCHR), che ha il mandato di indagare, nel suo ampio rapporto non ha fatto menzione delle affermazioni sul Viagra.

[3] Sfatando le invenzioni già falsificate riguardanti il Kibbutz Be’eri (paragrafo 65), screditando ZAKA (già un facile bersaglio per Haaretz) e fornendo interpretazioni alternative di foto e video post mortem di “danni devastanti da ustione”, il rapporto dell’ONU si posiziona come autocorrettivo e quindi rinnova la narrazione dello stupro di massa in una forma più credibile.

[4] Inoltre, alcuni dei sopravvissuti nei kibbutz hanno testimoniato di essere stati trattati umanamente dai combattenti palestinesi che li avevano fatti prigionieri (come nell’esempio spesso citato di Yasmin Porat).

Rete di Solidarietà Femminista per la Palestina

La Rete di Solidarietà Femminista per la Palestina è un collettivo internazionale di accademiche, avvocatesse e organizzatrici femministe antimperialiste e anticolonialiste impegnate contro la propaganda colonialista dei coloni sionisti e a favore di una Palestina libera.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Una nuova ondata di avamposti dei coloni sta terrorizzando e cacciando i palestinesi dalle loro terre

Imad Abu Hawash 

8 marzo 2024 – +972 Magazine

I palestinesi in Cisgiordania raccontano di come i coloni israeliani, con il sostegno dei militari, stiano intensificando la loro occupazione delle terre per costruzioni illegali.

Sin dalla fine di dicembre i palestinesi che abitavano nel villaggio di Battir, a ovest di Betlemme nella Cisgiordania occupata, sono stati allontanati da porzioni significative delle loro terre. Semplicemente un gruppo di coloni israeliani un giorno è arrivato nella zona che l’UNESCO ha designato come sito del patrimonio mondiale e fondato un nuovo avamposto con alcune baracche per viverci e tenere il bestiame.

Alcuni coloni e pastori hanno preso il controllo dell’area e iniziato a pascolare le proprie greggi sulle terre del villaggio, impedendo ai palestinesi di raggiungere i pascoli,” ha detto a +972 Magazine Ghassan Alyan, un abitante del villaggio. “Hanno persino fatto volare dei droni fra le nostre greggi per disperderle, minacciando di sparare.” 

Di conseguenza contadini e pastori di Battir hanno completamente perso l’accesso alla terra che era la fonte del loro sostentamento. “È diventato impossibile per i palestinesi raggiungere la zona, i coloni possono sparare contro chiunque vi si trovi. I coloni indossano uniformi militari e si spostano con la protezione dell’esercito,” ha continuato Allyan, osservando che la tendenza dei coloni ad arruolarsi nella riserva dell’esercito nel corso della guerra di Israele contro Gaza ha reso più difficile distinguerli dai soldati.  

La gente del villaggio era solita andare a fare escursioni in questa zona, ma ora nessuno può uscire e godersi la natura,” ha aggiunto Alyan. “I coloni girano in macchina usando le nuove strade sterrate che hanno aperto dopo aver stabilito l’avamposto. Gli abitanti di Battir sono terrorizzati. Nessuno si avvicina a questa zona.” 

Negli ultimi cinque mesi in Cisgiordania ampie estensioni di terra di proprietà palestinese sono state di fatto annesse dai coloni israeliani. In alcune zone come Battir i coloni hanno stabilito degli avamposti completamente nuovi, nove secondo una relazione di Peace Now [organizzazione progressista e pacifista israeliana, ndt.].

Se tutte le colonie israeliane in Cisgiordania sono illegali ai sensi del diritto internazionale, la costruzione di avamposti non autorizzati è tecnicamente illegale persino per la legge israeliana. Ciononostante l’esercito israeliano invariabilmente protegge i coloni e in genere lo Stato permette loro di allacciarsi alla rete elettrica e idraulica, a differenza delle comunità palestinesi sulle cui terre sono costruite. 

E con l’attuale governo israeliano di estrema destra la distinzione è ancora più nebulosa: a dicembre il ministro della Finanze Bezalel Smotrich ha destinato agli avamposti in Cisgiordania circa 19 milioni di euro di fondi statali.  

Nel frattempo, secondo il rapporto di Peace Now, dal 7 ottobre i coloni hanno anche asfaltato o portato avanti la costruzione di almeno 18 nuove strade senza un’autorizzazione governativa preventiva, permettendo l’espansione di colonie e avamposti e isolando nel contempo i palestinesi dalle proprie terre. E in parecchi casi, con la copertura della guerra e la collaborazione attiva o tacita dell’esercito, i coloni hanno semplicemente occupato le terre con la forza, le minacce o i decreti militari. 

Quando la guerra finirà i coloni si saranno allargati drammaticamente’

Il 26 novembre al calare dell’oscurità sul villaggio di Ar-Rihiya, proprio a sud di Hebron, il rumore delle escavatrici riempiva l’aria. “I coloni (dal vicino insediamento di Beit Hagai) hanno cominciato a tracciare una strada sterrata che si estende su centinaia di dunam,” ha detto a +972 Ahmad al-Tubasi, un abitante di Ar-Rihiya. “Abbiamo chiamato varie volte la polizia israeliana e quando è finalmente arrivata gli escavatoristi erano scomparsi. La polizia ha fatto finta di non sapere cosa stesse succedendo.” 

Poche settimane dopo i coloni sono ritornati. Odeh al-Tubasi, un contadino che ara la terra di molti abitanti del villaggio, ha raccontato cosa è successo: “Stavo lavorando alle colture invernali quando, a circa 250 metri di distanza, è apparso un veicolo militare, seguito da un altro bianco da cui sono scesi quattro coloni. Ero attanagliato dalla paura mentre si avvicinavano. Mi sono allontanato velocemente con il mio trattore e sentivo che i coloni urlavano in ebraico, ‘Non ritornare qua, ti è proibito entrare e lavorare. Questa è la nostra terra!’” 

La sequenza di eventi spesso segue questo schema: prima i coloni erigono case mobili su terra palestinese, poi la occupano o costruiscono infrastrutture chiave come strade, di solito senza permessi, e poi, dopo attacchi sostenuti e molestie senza intervento di esercito o polizia, espellono i palestinesi dai terreni. Dagli attacchi guidati da Hamas nel sud di Israele il 7 ottobre, oltre 1.000 palestinesi sono stati forzatamente sfollati in questo modo dai villaggi dell’Area C della Cisgiordania, circa il 60% del territorio sotto il totale controllo di Israele, dove sono situate tutte le colonie e gli avamposti.  

L’anno scorso gli abitanti di Beit Awwa, a ovest di Hebron, si sono trovati nel bel mezzo di questo processo con la costruzione di un nuovo avamposto sulle terre del villaggio. La scorsa estate coloni israeliani dall’avamposto di Havat Negohot, con l’appoggio dell’esercito, hanno cominciato a spianare parecchi dunam di terra e a erigere strutture temporanee a circa 50 metri dalle case dei palestinesi. I coloni hanno bloccato l’unica strada che consente l’accesso a sei case dei palestinesi e ai terreni agricoli, costringendo gli abitanti di quelle case a percorrere strade distanti e sterrate e portare cibo e acqua sulle spalle o a dorso d’asino. 

Dopo il 7 ottobre i coloni hanno tracciato una nuova strada ed eretto altre cinque baracche di alluminio, espandendo ulteriormente l’avamposto. Il comune di Beit Awwa, in collaborazione con gli abitanti, ha presentato alla Corte Suprema israeliana una petizione urgente richiedendo la riapertura delle strade. Il 29 gennaio c’è stata un’udienza ma non è stata raggiunta alcuna decisione. 

Secondo Peace Now i coloni, nel tentativo di collegare il nuovo avamposto alla colonia di Negohot, essa stessa costruita su terre appartenenti a Beit Awwa, hanno continuato a lavorare sulla strada mentre era in corso l’azione legale. La nuova strada è stata illegalmente asfaltata senza un vero permesso di progettazione o costruzione, mentre la strada che viene usata dagli abitanti palestinesi resta chiusa.  

Insediare un nuovo avamposto esacerba le nostre sofferenze,” ha detto +972 Yousef al-Swaiti, il sindaco di Beit Awwa. “Quando la guerra sarà finita i coloni si saranno allargati drammaticamente nelle vicinanze del villaggio. Nessuno potrà andarci. Coloni armati potrebbero sparare a qualsiasi abitante del villaggio che tentasse semplicemente di avvicinarsi alla terra confiscata.” 

Attacchi contro gli abitanti del villaggio sono ormai all’ordine del giorno da parte sia di coloni che di soldati. Il 15 novembre Nouh Kharub è stato aggredito da soldati mentre se ne stava seduto con la famiglia sul terreno davanti a casa a Khallet a-Taha, nella periferia orientale di Beit Awwa. 

Uno di loro mi ha picchiato varie volte con un fucile,” ha raccontato. “Sia i soldati che il colono che li aveva accompagnati ci urlavano contro: ‘È vietato ritornare qui,’ e, ‘Vi uccideremo.’ Ci siamo trovati intrappolati in casa, nessuno di noi poteva ritornare a casa nostra mentre i coloni erigevano un nuovo avamposto a 100 metri di distanza.” 

La stessa sorte è toccata a Mohammad Aqtil: la costruzione dell’avamposto ha impedito a lui e alla sua famiglia di accedere alle terre a Khallet a-Taha. “Fuori casa i miei movimenti e quelli dei miei figli sono limitati,” ha spiegato Aqtil. “Non ci è permesso fare niente sulla terra.

Soldati mi dicono in continuazione, ‘Questa è una zona militare, questa casa non è vostra, queste sono terre demaniali.’ Allo stesso tempo i coloni erigono un avamposto con edifici e tende, circondandolo di filo spinato e collegandolo con una strada asfaltata che porta a Negohot. La costruzione è avanzata rapidamente dopo la dichiarazione di guerra.”

È come se volessero vendicarsi’

Talvolta non è necessaria una nuova costruzione per buttar fuori i palestinesi dalle loro terre. Il 2 gennaio il 48enne Yousef Makhamra del villaggio di Khirbet al-Tha’la, in una parte della Cisgiordania meridionale nota come Masafer Yatta, è uscito per arare la sua terra con altri due contadini palestinesi. A causa dell’impennata in anni recenti degli attacchi in questa zona da parte di coloni e soldati israeliani contro i palestinesi al lavoro sulle proprie terre erano accompagnati da attivisti israeliani come “presenza protettiva”, nella speranza di scoraggiare o almeno documentare tali incidenti. Quel giorno è stato tutto inutile. 

Avevamo cominciato a seminare quando è arrivato un veicolo militare,” ha detto Makhamra a +972. Dalla camionetta sono usciti parecchi soldati israeliani e 3 coloni vestiti con pantaloni militari, uno dei quali era Bezalel Dalia che Makhamra sapeva provenire dall’avamposto di Nof Nesher. 

Si sono lanciati contro di noi e mi hanno ammanettato le mani dietro la schiena e lo stesso hanno fatto con Jamil [un altro contadino],” ha continuato. “Alcuni dei coloni hanno impedito agli attivisti israeliani di fare delle riprese mentre Dalia mi prendeva a calci. “Gli ho detto, ‘Vattene via, sono malato,’ ma ha continuato a prendermi a calci. 

Ho avuto molta paura perché i coloni erano con i soldati,” ha continuato Makhamra. “Era come se cercassero vendetta [per il 7 ottobre]. Uno di loro ha detto, ‘Questa è terra per i coloni.’”

Dopo pochi minuti sono arrivati altri attivisti israeliani e i soldati hanno prontamente tolto le manette a Makhamra e Jamil. Uno degli attivisti ha consegnato ai soldati una decisione della Corte che afferma il diritto dei contadini palestinesi a coltivare la terra. Tuttavia l’ufficiale ha insistito che smettessero di lavorare fino a che qualcuno dell’Amministrazione Civile, il corpo dell’esercito responsabile dell’amministrazione dell’occupazione, potesse confermare che i contadini avevano veramente questo diritto. 

I contadini hanno aspettato parecchie ore prima che arrivasse un rappresentante dell’Amministrazione Civile e li autorizzasse a continuare a lavorare. Ma un’ora dopo, un altro colono, Issachar Mann dell’avamposto di Havat Maon, è arrivato con dei soldati che di nuovo hanno chiesto ai contadini palestinesi di interrompere il lavoro fino a una valutazione dell’Amministrazione Civile, nonostante fosse appena arrivato un rappresentante ad autorizzare i lavori. 

Questa volta non è arrivato nessun altro e dopo altre quattro ore i soldati hanno emesso un ordine militare di abbandonare la zona. Da allora i contadini palestinesi di Khirbet al-Tha’la che, come Makhamra, lavorano terre vicine alle colonie e agli avamposti non sono più stati in grado di raggiungerle. 

Il primo marzo il comandante della divisione cisgiordana dell’esercito israeliano ha emesso un ulteriore ordine militare dichiarando che le terre di Khirbet al-Tha’la vicino alle colonie e agli avamposti sono una zona militare chiusa. L’esercito ha rifiutato di confermare a +972 se l’ordine resta in vigore.

E se i miei bambini fossero stati in casa?’

Raed Yassin e la sua famiglia vivono alla periferia del villaggio di Burqa, a nord ovest di Nablus. La loro casa è situata ad appena 50 metri da un avamposto che in anni recenti è diventato un simbolo del potere dei coloni: Homesh.

All’inizio un insediamento autorizzato dal governo alla fine degli anni ’70 su terre appartenenti agli abitanti di Burqa, è stato uno dei quattro insediamenti nella Cisgiordania settentrionale che Israele aveva abbandonato in concomitanza con il “disimpegno” da Gaza nel 2005. Ma presto i coloni cominciarono a ritornare illegalmente alla colonia smantellata, ricostruendo una yeshiva (scuola religiosa) tutte le volte che le autorità la demolivano.

La loro persistenza ha dato frutti alla fine del 2022 con l’insediamento del governo israeliano di estrema destra che, come uno dei suoi primi ordini del giorno, ha abrogato la Legge del Disimpegno, permettendo quindi ai coloni di entrare legalmente nei territori che erano stati abbandonati. Lo scorso maggio i coloni hanno cominciato lavori di costruzione per espandere la yeshiva, sempre in violazione della legge ma con l’appoggio del ministero della Difesa. Dal 7 ottobre quella costruzione, e gli attacchi contro i palestinesi di Burqa, hanno visto un’impennata. 

L’aggressione più recente è avvenuta il 9 gennaio. “Ero nel mio campo e mia moglie e i bambini erano fuori casa in visita a parenti,” ha raccontato Yassin. “Nel corso della giornata ho ricevuto una chiamata da uno degli abitanti della zona perché i coloni stavano attaccando la nostra casa. Ci sono ritornato di corsa ma quando sono arrivato si erano già ritirati. 

Dalle immagini delle nostre cineprese di sorveglianza ho visto 15 coloni mascherati tagliare la recinzione intorno alla casa, danneggiare i dintorni, rompere i tubi della fogna, sradicare alberi e cercare di togliere le protezioni di finestre e porte,” ha continuato. “Era spaventoso: e se i miei bambini fossero stati a casa?” 

Dall’inizio della guerra Yassin e la sua famiglia sono stati costretti a dormire varie notti a casa di parenti che vivono nel villaggio, ma più all’interno, lontano da Homesh. “Le notti che passiamo a casa io sto sempre sveglio,” ha detto. “Potrebbero venire i coloni e incendiarla.” 

Coloni con uniformi militari controllano tutto’

Anche i palestinesi del villaggio di Qaryut, situato tra Nablus e Ramallah, sono stati privati dell’accesso a una porzione ancora maggiore delle loro terre in conseguenza della violenza dei coloni. 

Qaryut si estende su un’area di circa 20.000 dunam (circa 2000 ettari), la maggior parte classificata come Area C e piantata a olivi. Tuttavia negli ultimi 50 anni il villaggio è stato gradualmente circondato da colonie israeliane: Eli, costruita nel 1984, Shvut Rachel, del 1995 e Shilo del 1979. Collettivamente queste colonie, così come parecchi altri insediamenti recentemente costruiti, hanno confiscato più di 14.000 dunam (1400 ettari) delle terre del villaggio.

Dal 7 ottobre la situazione è ulteriormente peggiorata. “Alla maggior parte della popolazione del villaggio, oltre 3.000 persone, è stato impedito di raccogliere le olive,” si è lamentato Ghassan al-Saher, un abitante del villaggio. “Sia i coloni che l’esercito hanno impedito l’accesso ai terreni, bloccando la strada con del terriccio. I coloni hanno occupato i campi e tagliato numerosi alberi.” 

Secondo al-Saher i coloni hanno deliberatamente distrutto infrastrutture palestinesi nel villaggio. Hanno attaccato una struttura agricola costruita con il sostegno della Croce Rossa Internazionale di cui avevano beneficiato 10 famiglie palestinesi, danneggiando serre, serbatoi dell’acqua e tagliando le tubature dell’acqua. Hanno anche occupato la sorgente di Qaryut, vitale per il villaggio. “L’hanno trasformata in un parco per loro,” ha detto al-Saher. “Chiunque si avvicini alla sorgente rischia di essere ucciso.”

Un altro abitante, Bashar al-Qaryuti, ha aggiunto: “Quando è cominciata la guerra abbiamo perso tutte le terre del villaggio classificate come Area C. La vita nel villaggio si è paralizzata: non possiamo raggiungere le nostre terre nelle vicinanze. Hanno attaccato il villaggio e aperto il fuoco. Molti giovani del villaggio non dormono la notte per paura di un attacco dei coloni. 

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




La storia riconoscerà che Israele ha commesso un olocausto

Susan Abulhawa

6 marzo 2024 – The Electronic Intifada

In questo momento a Gaza e in Palestina sono le 20:00: è la fine del mio quarto giorno a Rafah e il primo momento in cui ho potuto sedermi in un posto tranquillo per riflettere.

Ho provato a prendere appunti, foto, immagini mentali, ma questo è un momento troppo grande per un taccuino o per la mia memoria in difficoltà. Niente mi aveva preparato a ciò a cui avrei assistito.

Prima di attraversare il confine tra Rafah e l’Egitto ho letto tutte le notizie provenienti da Gaza o su Gaza. Non ho distolto lo sguardo da nessun video o immagine inviata dal territorio, per quanto fosse raccapricciante, scioccante o traumatizzante.

Sono rimasta in contatto con amici che hanno riferito della loro situazione nel nord, nel centro e nel sud di Gaza – ciascuna area soffre in modi diversi. Sono rimasta aggiornata sulle ultime statistiche, sulle ultime mosse politiche, militari ed economiche di Israele, degli Stati Uniti e del resto del mondo.

Pensavo di aver capito la situazione sul campo. Ma non è così.

Niente può veramente prepararti a questa distopia. Ciò che raggiunge il resto del mondo è una frazione di ciò che ho visto finora, che è solo una frazione della totalità di questo orrore.

Gaza è un inferno. È un inferno brulicante di innocenti che boccheggiano in cerca di aria.

Ma qui anche l’aria è bruciata. Ogni respiro irrita la gola e i polmoni e vi si attacca.

Ciò che una volta era vibrante, colorato, pieno di bellezza, possibilità e speranza contro ogni aspettativa, è avvolto da un grigiore di sofferenza e sporcizia.

Quasi nessun albero

Giornalisti e politici la chiamano guerra. Gli informati e gli onesti lo chiamano genocidio.

Quello che io vedo è un olocausto, lincomprensibile culmine di 75 anni di impunità israeliana per i ripetuti crimini di guerra.

Rafah è la parte più meridionale di Gaza, dove Israele ha stipato 1,4 milioni di persone in uno spazio grande quanto laeroporto di Heathrow a Londra.

Scarseggiano acqua, cibo, elettricità, carburante e provviste. I bambini sono privati della scuola: le loro aule sono state trasformate in rifugi di fortuna per decine di migliaia di famiglie.

Quasi ogni centimetro dello spazio precedentemente vuoto è ora occupato da una fragile tenda che ospita una famiglia.

Non è rimasto quasi nessun albero poiché le persone sono state costrette ad abbatterli per produrre legna da ardere.

Non ho notato lassenza di verde finché non mi sono imbattuta in una bouganville rossa. I suoi fiori erano polverosi e soli in un mondo deflorato, ma ancora vivi.

La discrepanza mi ha colpito e ho fermato l’auto per fotografarla.

la bouganvillea sopravissuta a Gaza (Susan Abulhawa)

Ora cerco il verde e fiori ovunque vada, finora nelle zone meridionali e centrali (anche se nel centro è diventato sempre più difficile entrare). Ma ci sono solo piccole macchie derba qua e là e qualche albero occasionale che aspetta di essere bruciato per cuocere il pane per una famiglia che sopravvive con le razioni ONU di fagioli in scatola, carne in scatola e formaggio in scatola.

Un popolo orgoglioso con ricche tradizioni e consuetudini culinarie a base di alimenti freschi è stato ridotto e abituato a una manciata di impasti e poltiglie rimaste sugli scaffali per così tanto tempo che può essere avvertito solo il sapore metallico e rancido delle lattine.

Al nord è peggio.

Il mio amico Ahmad (non è il suo vero nome) è una delle poche persone che hanno Internet. Il segnale è sporadico e debole, ma possiamo ancora scambiarci messaggi.

Mi ha inviato una sua foto in cui sembrava l’ombra del giovane che conoscevo. Ha perso più di 25 kg.

Inizialmente le persone si sono ridotte a nutrirsi di mangime per cavalli e asini, ma è finito. Ora stanno mangiando gli asini e i cavalli.

Alcuni mangiano cani e gatti randagi che a loro volta stanno morendo di fame e talvolta si nutrono dei resti umani che ricoprono le strade, dove i cecchini israeliani hanno preso di mira le persone che hanno osato avventurarsi nel campo visivo dei loro mirini. I vecchi e i più deboli sono già morti di fame e di sete.

La farina è scarsa e più preziosa delloro.

Ho sentito la storia di un uomo nel nord che di recente è riuscito a mettere le mani su un sacco di farina (che normalmente costava 7 euro) e gli sono stati offerti gioielli, dispositivi elettronici e contanti per un valore di 2.300 euro. Ha rifiutato.

Sentirsi piccoli

A Rafah le persone si sentono privilegiate nel ricevere farina e riso. Te lo diranno e ti sentirai umiliato perché si offrono di condividere quel poco che hanno.

E ti vergognerai perché sai che puoi lasciare Gaza e mangiare quello che vuoi. Ti sentirai piccolo qui perché non sei in grado di fare davvero nulla per placare il bisogno e la perdita catastrofici e perché capirai che loro sono migliori di te, poiché in qualche modo sono rimasti generosi e ospitali in un mondo che è stato tanto e per così tanto tempo ingeneroso e inospitale nei loro confronti.

Ho portato tutto quello che potevo, pagando il bagaglio extra e il peso di sei bagagli e aggiungendone altri 12 in Egitto. Per me ho portato quello che stava nello zaino.

Ho avuto la lungimiranza di portare cinque grandi sacchi di caffè, che si è rivelato essere il regalo più apprezzato dai miei amici qui. Preparare e servire il caffè ai colleghi di lavoro del luogo in cui mi trovo è la cosa che preferisco fare, per la gioia assoluta che ogni sorso sembra portare.

Ma anche quello presto finirà.

Difficile respirare

Ho assunto un autista per trasferire sette pesanti valigie di rifornimenti a Nuseirat [campo profughi al centro della Striscia, ndt.], e lui le ha trasportate giù per alcune rampe di scale. Mi ha detto che portare quelle borse lo faceva sentire di nuovo umano perché era la prima volta in quattro mesi che andava su e giù per le scale.

Gli ha ricordato di quando viveva in una casa invece che nella tenda dove ora abita.

È difficile respirare qui, letteralmente e metaforicamente. Una foschia immobile di polvere, degrado e disperazione intride l’aria.

La distruzione è così massiccia e persistente che le particelle sottili della vita polverizzata non hanno il tempo di depositarsi. La mancanza di benzina ha portato le persone a riempire le loro auto di stearato, olio esausto che ha una combustione sporca.

Emette un odore particolarmente sgradevole e una pellicola che si attacca all’aria, ai capelli, ai vestiti, alla gola e ai polmoni. Mi ci è voluto un po’ per capire la fonte di quell’odore pervasivo, ma è facile riconoscere gli altri.

La scarsità di acqua corrente o pulita compromette l’igiene di chiunque di noi. Tutti fanno del loro meglio nella cura di sé stessi e dei propri figli, ma a un certo punto smetti di farci caso.

Ad un certo punto lumiliazione della sporcizia è inevitabile. Ad un certo punto aspetti semplicemente la morte, proprio come aspetti anche un cessate il fuoco.

Ma la gente non sa cosa farà dopo il cessate il fuoco.

Hanno visto le foto dei loro quartieri. Quando vengono pubblicate nuove immagini provenienti dall’area settentrionale le persone si ritrovano insieme per cercare di capire di quale quartiere si tratti, o da chi fosse la casa ridotta in quel cumulo di macerie. Spesso questi video provengono da soldati israeliani che occupano o fanno saltare in aria le loro case.

Cancellazione

Ho parlato con molti sopravvissuti estratti dalle macerie delle loro case. Raccontano quello che è successo con espressione impassibile, come se non fosse capitato a loro; come se sia stata sepolta viva la famiglia di qualcun altro; come se i loro corpi straziati appartenessero ad altri.

Gli psicologi dicono che si tratta di un meccanismo di difesa, una sorta di intorpidimento della mente finalizzato alla sopravvivenza. La resa dei conti arriverà più tardi, se sopravvivranno.

Ma come si può affrontare la perdita dell’intera famiglia, mentre si osservano i corpi disintegrarsi tra le macerie e si avverte l’odore, mentre si attende il salvataggio o la morte? Come si fa a considerare la cancellazione totale della propria esistenza nel mondo: la casa, la famiglia, gli amici, la salute, l’intero quartiere e il paese?

Nessuna foto della tua famiglia, del tuo matrimonio, dei tuoi figli, dei tuoi genitori; anche le tombe dei tuoi cari e dei tuoi antenati sono state rase al suolo. Tutto questo mentre le forze e le voci più potenti ti diffamano e ti incolpano per il tuo miserabile destino.

Il genocidio non è solo un omicidio di massa. È una cancellazione intenzionale.

Di storie. Di ricordi, libri e cultura.

Cancellazione delle risorse di una terra. Cancellazione della speranza in e per un luogo.

Cancellazione come impulso alla distruzione di case, scuole, luoghi di culto, ospedali, biblioteche, centri culturali, centri ricreativi e università.

Il genocidio è la demolizione intenzionale dellumanità di un altro. È la riduzione di unantica società orgogliosa, istruita e ben funzionante a oggetti di carità privi di mezzi, costretti a mangiare lindicibile per sopravvivere; vivere nella sporcizia e nella malattia senza nulla in cui sperare se non la fine delle bombe e dei proiettili che piovono sui loro corpi, sulle loro vite, sulle loro storie e sul loro futuro.

Nessuno può pensare o sperare in ciò che potrebbe accadere dopo un cessate il fuoco. Il massimo possibile delle loro speranze in questo momento è che i bombardamenti cessino.

È il minimo che si può chiedere. Un minimo riconoscimento dellumanità dei palestinesi.

Nonostante Israele abbia tagliato l’energia e Internet i palestinesi sono riusciti a trasmettere in streaming limmagine del loro stesso genocidio a un mondo che permette che questo vada avanti.

Ma la storia non mentirà. Ricorderà che nel 21° secolo Israele ha perpetrato un olocausto.

Susan Abulhawa è una scrittrice e attivista. Questo pezzo è stato scritto durante la sua visita a Gaza a febbraio e all’inizio di marzo.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Israele cambierà il testo della canzone presentata all’Eurovision dopo l’intervento del suo Presidente

Redazione

4 marzo 2024-Middle East Eye

Su richiesta del Presidente israeliano rivisto il testo della canzone presentata al concorso che conteneva riferimenti all’attacco di Hamas del 7 ottobre.

Israele ha accettato di cambiare il testo della canzone con cui intende partecipare all’Eurovision Song Contest dopo che gli organizzatori hanno contestato gli evidenti riferimenti alla guerra a Gaza.

L’emittente nazionale Kan è responsabile della scelta delle candidature nazionali per la competizione, che si svolgerà a Malmö, in Svezia, dal 7 all’11 maggio.

La principale proposta israeliana è October Rain, una ballata dell’artista solista Eden Golan.

Il testo originale della canzone, secondo Kan, include versi come “Non c’è più aria per respirare” e “Erano tutti bravi bambini, ognuno di loro”.

I testi sono evidenti riferimenti all’attacco a sorpresa dei combattenti palestinesi nel sud di Israele il 7 ottobre.

Kan ha annunciato domenica di aver chiesto agli autori di October Rain e del secondo classificato, Dance Forever, di modificare i testi “preservando la loro libertà artistica”.

A seguito delle revisioni, Kan presenterà ufficialmente la canzone israeliana al comitato dell’Eurovision.

La canzone October Rain verrà ribattezzata Hurricane, ha annunciato l’emittente. Il testo modificato non è stato ancora rivelato.

Kan inizialmente aveva detto che non avrebbe cambiato il testo, ma ha accettato di farlo su richiesta del Presidente israeliano Isaac Herzog.

“Il Presidente ha sottolineato che in questo particolare momento, in cui coloro che ci odiano cercano di emarginare e boicottare lo Stato di Israele in ogni modo, Israele deve far risuonare la sua voce con orgoglio e a testa alta e alzare la sua bandiera in ogni forum mondiale, soprattutto quest’anno”, ha scritto l’emittente Kan in una nota.

“Non politico”

Gli organizzatori di Eurovision, la European Broadcasting Union (EBU), affermano che il concorso è un evento non politico e che i concorrenti possono essere squalificati per aver violato le regole.

Il mese scorso hanno annunciato che stavano indagando sui testi della proposta israeliana, ma che le procedure erano riservate.

“Se una canzone è ritenuta inaccettabile per qualsiasi motivo, alle emittenti viene data l’opportunità di presentare una nuova canzone o un nuovo testo, secondo le regole del concorso”, ha affermato l’EBU.

Diversi musicisti – tra cui artisti provenienti da Svezia, Danimarca, Norvegia, Finlandia e Islanda – hanno chiesto che Israele venga sospeso dal concorso per l’uccisione dei palestinesi a Gaza dal 7 ottobre.

Due anni fa la Russia fu squalificata dalla competizione per l’invasione dell’Ucraina.

L’EBU ha sostenuto che la situazione a Gaza è diversa da quella dell’Ucraina e ha resistito alle richieste di rimuovere Israele.

Israele ha gareggiato all’Eurovision dal 1973, vincendo la competizione in quattro occasioni.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Guerra a Gaza: un bambino palestinese muore di fame e malnutrizione a Gaza

Nadda Osman

4 marzo 2024 – Middle Est Eye

Yazan al-Kafarna, un bambino di 10 anni affetto da paralisi cerebrale infantile, è morto all’ospedale al-Najjar a Rafah per le conseguenze della malnutrizione

Un bambino di Gaza, identificato come Yazan al-Kafarna, è stato uno degli ultimi a morire di fame e malnutrizione nell’enclave assediata dall’inizio della guerra il 7 ottobre.

Secondo quanto riportato dai media locali Kafarna è morto all’ospedale al-Najjar di Rafah lunedì, portando il numero totale di bambini morti per malnutrizione a 16 da ottobre.

Immagini e video di Kafarna diffusi dal 2 marzo lo mostrano disteso in un letto di ospedale con le guance scavate.

In un video suo padre mostra una foto del figlio, in evidenti condizioni di salute, risalente a prima della guerra.

Prima della guerra stava bene, poteva usufruire di tutto il cibo e le cure mediche di cui aveva bisogno. Quando è iniziata la guerra tutto è stato interrotto…questo è successo perché gli è mancato il nutrimento e il cibo necessario”, ha detto, aggiungendo che la foto di suo figlio era stata scattata solo una settimana prima dell’inizio della guerra.

La famiglia di Kafarna è stata sfollata da Beit Hanoun a (nord-est di) Gaza a Rafah nel sud.

In un’intervista i familiari hanno detto a Al Jazeera in versione araba che Kafarna è arrivato a un punto in cui sopravviveva con solo qualche boccone di pane.

Viveva dei pezzi di pane che trovavamo con molta difficoltà e compravamo a costi altissimi. Se non riuscivamo a trovare del cibo gli davamo dello zucchero perché potesse restare in vita. La ragione principale per cui ha raggiunto uno stadio in cui sembra uno scheletro è la mancanza di cibo”, ha detto Mohammed al-Kafarna, un membro della famiglia.

Secondo Kafarna Yazan è arrivato a un punto in cui aveva bisogno di cibo e di nutrienti specifici perché si mantenesse in vita dopo aver perso così tanto peso corporeo, tuttavia la famiglia non poteva procurarsi ciò di cui necessitava.

Yazan era affetto da paralisi cerebrale infantile fin dalla nascita, il che significa che aveva dovuto seguire una dieta speciale e assumere integratori alimentari. Tuttavia la famiglia ha detto che dall’inizio della guerra non aveva avuto più accesso a queste cose.

I giornalisti a Gaza hanno documentato la morte di altri bambini a causa di malnutrizione e fame.

La guerra della fame’

Hossam Shabat, un giornalista di Gaza, ha detto che una bambina è morta per mancanza di latte, mentre un’altra, Heba Ziadeh, è morta all’ospedale Kamal Adwan nel nord di Gaza per disidratazione e malnutrizione.

La scorsa settimana il portavoce del Ministero della Sanità di Gaza, Ashraf al-Qudra, ha affermato che “l’occupazione israeliana sta conducendo una nuova guerra contro gli abitanti di Gaza, la guerra della fame”, aggiungendo che il numero delle persone che muoiono di fame e malnutrizione è in crescita, soprattutto tra i bambini.

Ha spiegato che il sistema sanitario nel nord di Gaza ora è del tutto incapace di soddisfare le necessità del territorio assediato, soprattutto dopo che l’ospedale Kamal Adwan è stato occupato dalle forze israeliane. 

Gaza è sull’orlo della carestia, ha avvertito a fine febbraio il capo dell’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati Palestinesi (UNRWA).

L’ultima volta che l’Unrwa è stata in grado di fornire aiuti alimentari nel nord di Gaza è stata il 23 gennaio”, ha scritto Philippe Lazzarini sui social media.

Almeno 500.000 persone stanno affrontando la carestia mentre quasi l’intera popolazione di Gaza, 2.3 milioni di persone, sta patendo una grave penuria di alimenti, come mostrano i dati dell’ufficio ONU per il Coordinamento degli Affari Umanitari.

A fine febbraio almeno due neonati sono morti per malnutrizione e disidratazione a Gaza.

Le organizzazioni di aiuti hanno avvertito che il blocco di cibo e acqua verso l’enclave palestinese può configurare un crimine contro l’umanità.

Randa Ghazy dell’ONG Save the Children ha affermato che Gaza sta subendo “il peggior livello al mondo di malnutrizione”.

Le donne incinte non ricevono il nutrimento e le cure di cui necessitano, il che le rende più vulnerabili alle malattie e al crescente rischio di morte durante il parto”, ha detto a Middle East Eye.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Il New York Times ha un orribile pregiudizio anti-palestinese

BEN BURGIS

29 febbraio 2024 – Jacobin

Il fatto che il New York Times abbia affidato la sua inchiesta sulle denunce di aggressioni sessuali del 7 ottobre ad Anat Schwartz, una giornalista non professionista con convinzioni antipalestinesi e rapporti con l’esercito israeliano, è un esempio estremo della indefettibile tendenziosità del giornale a favore di Israele.

Il New York Times forse è il quotidiano più prestigioso del mondo anglofono. I suoi articoli hanno ottenuto 132 premi Pulitzer, a cominciare da quello che il giornale ricevette nel 1918 per i suoi servizi sulla Prima Guerra Mondiale. Ne ha aggiunti altri tre solo l’anno scorso.

In un’epoca in cui è diventato sempre più comune per i lettori vantarsi non di leggere o vedere reportage oggettivi ma piuttosto di consultare fonti “delle due parti”, il Times può essere percepito come la reliquia di un tempo passato, quando vigeva ancora l’ideale della neutralità. Il giornale è stato storicamente soprannominato “La Vecchia Signora”, sia per la sua tradizione di stamparlo solo in bianco e nero – non ha iniziato a includere immagini a colori fino agli anni ’90 – e per una certa etica di prudenza e accuratezza giornalistiche.

Tuttavia, come ha evidenziato Mona Chalabi, una delle giornaliste che ha aggiunto un Pulitzer al giornale lo scorso anno, una delle aree in cui questa reputazione è più difficile da conciliare con la realtà è l’informazione del Times su Israele/Palestina. Poco prima di presentarsi alla cerimonia del Pulitzer a novembre Chalabi ha postato sulla sua pagina Instagram un grafico che fa un bilancio devastante.

Persino mentre il numero di morti palestinesi rende minimo quello degli israeliani – le stime attuali del numero di civili israeliani uccisi il 7 ottobre è di centinaia, mentre decine di migliaia di civili palestinesi sono stati uccisi durante i molti mesi di brutale rappresaglia israeliana – il Times ha destinato molta più attenzione ai morti israeliani. Di fatto, come mostra la tabella, la disconnessione dalla realtà è effettivamente aumentata nello stesso momento in cui i morti palestinesi stavano aumentando in modo esponenziale.

Più di recente la polemica sulla giornalista freeelance del Times Anat Schwartz ha rivelato l’orribile profondità della tendenziosità. Nonostante non abbia esperienza giornalistica, ha fatto parte del piccolo gruppo di reporter designati a coprire una delle vicende più delicate e importanti di cui il Times si è occupato da quando è iniziata la guerra di Israele contro Gaza: le accuse secondo cui Hamas avrebbe sistematicamente utilizzato aggressioni sessuali come arma di guerra durante l’attacco del 7 ottobre. Da allora dettagli fondamentali di questa vicenda si sono dimostrati discutibili, e Schwartz ha evidenziato di essere quanto più lontana si possa immaginare da una giornalista neutrale.

Prima di diventare regista – e, improvvisamente lo scorso anno, giornalista freelance del New York Times — Schwartz ha fatto parte del reparto di intelligence dell’aviazione militare israeliana. E le sue opinioni sul conflitto israelo-palestinese, che sono di dominio pubblico, tendono a un razzismo genocida.

Anat Schwartz e il New York Times

La firma di Schwartz è comparsa, insieme a quelle di suo nipote Adam Sella e dell’esperto giornalista Jeffrey Gettleman, in un articolo intitolato “Urla senza parole: come Hamas ha utilizzato sistematicamente la violenza sessuale il 7 ottobre”. L’articolo è stato scelto per una lode speciale dal direttore esecutivo del Times, Joe Kahn, che in una mail alla redazione ha affermato: “Il gruppo” di Gettleman, Schwartz e Sella ha trattato una vicenda “molto politicizzata e delicata” in “modo sensibile e dettagliato”.

Da allora l’articolo è stato messo sotto accusa per evidenti imprecisioni. In particolare, circa un terzo dell’articolo è stato dedicato fondamentalmente a un solo incidente: il presunto stupro di Gal Adbush, uccisa il 7 ottobre, diventata nota come “la donna vestita di nero” per la sua apparizione in un video che la mostra a terra morta con il corpo in parte denudato. Il video non mostra un’aggressione sessuale, anche se alcuni osservatori l’hanno interpretato come una prova che avrebbe potuto avvenire in precedenza.

Un successivo reportage della pubblicazione progressista ebraica Mondoweiss ha messo in dubbio praticamente ogni elemento di questo articolo:

“Al momento non c’è alcuna traccia del video su internet, nonostante le affermazioni del Times secondo cui “è diventato virale”. Oltretutto la stampa israeliana, benché abbia raccontato centinaia di vicende sulle vittime del 7 ottobre, non ha mai citato “la donna vestita di nero” neppure una volta prima dell’articolo del 28 dicembre. Non sembra che il video di fatto sia diventato il simbolo ampiamente diffuso che il Times sostiene sia. Ma comunque dopo un giorno dalla pubblicazione del reportage sono emersi fatti che smentiscono l’articolo del Times.

In particolare i genitori e i fratelli di Adbush hanno strenuamente smentito l’idea che ci sia una qualche prova del fatto che Gal sia stata stuprata ed hanno manifestato disgusto nei confronti del comportamento dei giornalisti del Times. Non hanno interpretato il video nello stesso modo e dicono che non avrebbero collaborato con l’articolo se avessero saputo che sarebbe stato centrato su queste accuse.

Per essere chiari, niente di quanto detto intende affermare che nessuna donna o ragazza israeliana sia stata violentata il 7 ottobre. Anche se Adbush non è stata una di loro, sarebbe sorprendente se il 7 ottobre fosse la prima volta nella storia dell’umanità che migliaia di soldati infuriati ed esaltati siano stati mandati in territorio nemico per una missione che include l’uccisione e il rapimento a caso di civili senza che nessuno di questi soldati abbia commesso alcuna aggressione sessuale.

Ma la specifica accusa fatta da Schwartz e dai suoi co-autori in “Urla senza parole” è che “le aggressioni contro le donne non sono state eventi isolati ma parte di un modello di comportamento più generale.” È un’accusa estremamente grave e la posta in gioco è molto alta. Un organo informativo con valori etici se ne sarebbe occupato con cautela e avrebbe controllato rigorosamente ogni dettaglio.

La posta in gioco è alta perché la narrazione dello Stato di Israele sugli avvenimenti del 7 ottobre, che ha incluso una pesante insistenza sulle aggressioni sessuali, è stata utilizzata per giustificare atrocità su grande scala. Nel momento in cui scrivo 1,9 milioni dei 2.3 milioni di abitanti di Gaza sono stati espulsi dalle loro case e la fame sta dilagando. Le Forze di Difesa Israeliane [l’esercito israeliano, ndt.] (IDF) sono state così metodiche nel loro obiettivo di distruggere le infrastrutture civili del territorio che l’ultima università rimasta a Gaza è stata distrutta con una esplosione controllata. Decine di migliaia di civili, tra cui oltre dodicimila bambini, sono stati uccisi. E, con un colpo di scena deprimente ma prevedibile, ci sono prove credibili che le atrocità israeliane abbiano incluso violenze sessuali, il che non sarebbe una novità.

Proprio a causa della gravità dei crimini sessuali e della giustificazione che essi spesso conferiscono ai nemici di chi li ha commessi, è estremamente importante avere una chiara e concreta attendibilità delle prove. Quanto ci vorrà – quanto ci vorrebbe – perché un giornale come il New York Times dichiari che aggressioni sessuali da parte di membri delle IDF sono “non incidenti isolati ma parte di un modello di comportamento più generale?”

È possibile immaginare che il Times assegni un articolo che faccia una simile accusa a un gruppo di tre giornalisti, uno dei quali membro di Hamas senza esperienze giornalistiche che non abbia mai preso le distanze dal suo passato e un altro che sia nipote dell’ex membro di Hamas? Se ciò per qualche ragione avvenisse, potete immaginare che l’articolo poi venga gestito senza verificare accuse cruciali, persino mentre i genitori e fratelli della principale presunta vittima negassero chiaramente che lo stupro fosse avvenuto?

Se potete arrivare con la vostra immaginazione così lontano, aggiungete un dettaglio in più. Immaginate che l’ex membro di Hamas abbia recentemente approvato sulle reti sociali post che chiedono l’uccisione di massa di israeliani, e che lo abbia fatto molto prima che la sua firma apparisse per la prima volta sul Times.

In effetti il più recente cambiamento nella saga di Schwartz è che si è scoperto che lei, prima che il suo lavoro comparisse sul Times, aveva approvato un grottesco post che definiva i palestinesi “animali umani” e chiedeva che Gaza venisse “trasformata in un mattatoio”. Il post proponeva anche che Israele abbandonasse l’idea di “proporzionalità” a favore di una “risposta sproporzionata” e incoraggiava le IDF a “violare ogni regola” per garantire la vittoria.

Perché Chomsky digrigna i denti

Molto chiaramente Schwartz è uno dei sintomi di un problema molto più generale riguardo alla copertura di Israele/Palestina pubblicata dal New York Times. Un indizio di come abbia potuto avvenire viene da uno sguardo più attento sul direttore esecutivo succitato.

Come hanno scritto su Intercept Ryan Grim e Daniel Boguslaw, il padre di Kahn, Leo Kahn, è stato per molto tempo consigliere del Committee for Accuracy in Middle East Reporting and Analysis [Comitato per l’Accuratezza dell’Informazione e dell’Analisi sul Medio Oriente] (CAMERA), che intendeva imporre l’adesione a una linea filo-israeliana nell’informazione dei mezzi di comunicazione “denigrando giornalisti con il cui lavoro era in disaccordo e lanciando campagne di boicottaggio contro organizzazioni di comunicazione che ritiene non rispondano con sufficiente acquiescenza alle sue richieste.” E, secondo lo stesso profilo di Joe Kahn pubblicato dal Times quando è diventato direttore esecutivo del giornale nel 2022, padre e figlio “spesso ‘hanno analizzato insieme l’informazione giornalistica’”. Mentre il Times nega che CAMERA abbia una particolare influenza sulle sua informazione, Grim e Boguslaw notano che il livello di adesione del giornale alle continue richieste di CAMERA” è “in sorprendente contrasto con la sua tradizionale resistenza a correggere i propri articoli.”

Né, osservano, questo è l’unico rapporto familiare che suscita serie domande riguardo alla capacità del giornale di informare su Israele/Palestina in accordo con la sua aura di pesante integrità giornalistica. “Nel corso degli ultimi 20 anni i figli di tre giornalisti del Times si sono arruolati nelle IDF mentre i genitori coprivano questioni riguardanti il conflitto israelo-palestinese,” notano gli autori di Intercept.

Tuttavia sotto la superficie di questi strati di tendenziosità antipalestinese potrebbe esserci una questione più profonda e più semplice. Come hanno sostenuto Noam Chomsky e il defunto coautore Edward Herman in Manufacturing Consent [La fabbrica del consenso. La politica e i mass media, Il Saggiatore, 2014], uno dei pregiudizi caratteristici dei mezzi di comunicazione più importanti in generale – di cui il New York Times è stato emblematico molto prima dell’inizio di questi recenti drammatici conflitti di interesse – sono state la profonda deferenza e l’affinità ideologica rispetto alla sicurezza nazionale statunitense.

Questo era vero per come hanno informato sulla guerra del Vietnam quando i presidenti Lyndon B. Johnson e Richard Nixon bombardavano a tappeto quel Paese per reprimere una rivoluzione contadina. Lo era nella guerra contro l’Iraq, quando il Times pubblicò acriticamente le menzogne dell’amministrazione di George W. Bush sulle “armi di distruzione di massa”. Non dovremmo sorprenderci di scoprire che è vero riguardo a Gaza, dove il massacro di massa e l’espulsione di civili vengono portati avanti con fondi e armi americani.

Questa dinamica ha ispirato una classica storiella riguardo a una visita di Chomsky dal dentista. Come raccontato da Gore Vidal e Christopher Hitchens, il dentista disse a Chomsky: “I tuoi denti sono a posto, ma devi smettere di digrignarli.” Chomsky smentì di digrignare i denti, e il dentista gli garantì che lo faceva, come evidenziato dal fatto che il suo smalto era consumato. Era presente la moglie di Chomsky, che assicurò al dentista che Noam non digrignava i denti di notte mentre dormiva. In seguito la coppia capì. Noam digrignava i denti quando la signora Chomsky era fuori dalla stanza mentre lui beveva il suo caffè mattutino “e leggeva il New York Times.

Collaboratore

Ben Burgis è editorialista di Jacobin, docente di filosofia a contratto alla Rutgers University e conduttore del programma e podcast di YouTube Give Them An Argument [Date loro un argomento]. E’autore di vari libri, il più recente dei quali è Christopher Hitchens: What He Got Right, How He Went Wrong, and Why He Still Matters [Christopher Hitchens: quello che ha fatto bene, come si è sbagliato e perché è ancora importante. Hitchen è stato un intellettuale e giornalista britannico naturalizzato statunitense originariamente trotzkista e passato poi a posizioni di destra, ndt.].

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Coloni israeliani entrano a Gaza per fondare un avamposto ‘simbolico’

Oren Ziv

1 marzo 2024 – +972 Magazine

Decine di coloni e attivisti di destra hanno assaltato il valico di Erez e costruito due strutture di legno senza che soldati e polizia intervenissero.

Ieri pomeriggio oltre 100 israeliani hanno assaltato il valico di Erez nel nord di Gaza nel più significativo tentativo di ristabilire colonie ebraiche nella Striscia dall’inizio della guerra. Un gruppetto è riuscito a penetrare a Gaza per parecchie centinaia di metri prima di essere intercettato da soldati israeliani, mentre circa altri 20 sono entrati nell’area fra i due muri che costituiscono la barriera che cinge la Striscia. Là hanno stabilito un “avamposto” nello stile che si vede comunemente in Cisgiordania, costruendo per parecchie ore senza interventi da parte di esercito o polizia. 

Dai primi momenti della guerra è stato chiaro che i politici israeliani di destra e i leader dei coloni hanno percepito l’opportunità di cambiare radicalmente lo status quo in Israele-Palestina. Per mesi ci sono state richieste sempre più pressanti, non ultima a gennaio in un’importante conferenza a Gerusalemme in cui alti funzionari hanno presentato i loro piani per rioccupare Gaza, spesso mentre si chiedeva contestualmente di espellere dalla Striscia i suoi 2.3 milioni di abitanti palestinesi. In parallelo attivisti di destra, quasi tutti giovani, hanno cominciato regolarmente a dimostrare contro l’ingresso di aiuti umanitari nella Striscia nei pressi della recinzione di Gaza. Tuttavia l’azione di ieri ha marcato un nuovo picco nelle loro attività. 

Verso le 14 gli attivisti hanno cominciato a riunirsi in una stazione ferroviaria a Sderot, città nel sud di Israele vicino a Gaza. In quel punto di incontro iniziale per quella che era ufficialmente una “protesta” per rendere onore a Harel Sharvit, un colono ucciso mentre prestava servizio a Gaza, l’atmosfera era calma, persino sonnolenta. Un’auto della polizia è passata nei pressi senza reagire a quanto stava avvenendo. Da qui gli attivisti si sono mossi in auto private verso il checkpoint di Erez, l’unico valico civile fra Israele e la Striscia di Gaza, classificato dall’esercito israeliano come “zona militare chiusa” da quando è stata brevemente occupata dai palestinesi nel corso dell’attacco guidato da Hamas nel sud di Israele il 7 ottobre. 

Arrivati vicino al posto di blocco gli attivisti sono usciti dalle loro auto e hanno iniziato una manifestazione. A questo punto hanno incontrato un altro convoglio di veicoli pieni di “giovani delle colline”, giovani coloni violenti che regolarmente stabiliscono nuovi avamposti in Cisgiordania e attaccano i palestinesi per costringerli a lasciare le loro terre. Almeno due di loro erano armati di fucili come quelli usati dall’esercito, e hanno portato materiali da costruzione per erigere un avamposto. 

A un certo punto alcuni di loro hanno cominciato a correre verso il posto di blocco e sono riusciti ad attraversarlo non ostacolati dai pochi soldati presenti incapaci di fermarli. Nello spazio fra i due muri che circondano la Striscia circa una ventina di loro ha cominciato a erigere due strutture usando i materiali che avevano portato: assi e pali di legno e lamiere di ferro per i tetti. Nel frattempo un gruppetto di giovani coloni è penetrata di corsa ancora più dentro Gaza, sempre senza che i soldati glielo impedissero.

Le radio dei soldati hanno ricevuto il messaggio che un certo numero di persone era entrato a Gaza e sono stati mandati jeep militari e persino due carri armati per cercarli. Circa mezz’ora dopo una jeep militare ha riportato i giovani sul lato israeliano del valico senza arrestarli. Sono usciti dalla jeep fra gli applausi degli altri attivisti, unendosi al gruppo più grande che cantava “È nostra.”

Per parecchie ore chi era arrivato nello spazio fra i due muri ha continuato senza impedimenti a costruire l’avamposto che hanno chiamato New Nisanit, come una delle colonie di Gaza abbandonate come parte del “disimpegno” del 2005. Come in Cisgiordania i soldati sono rimasti nei pressi a offrire protezione invece di cercare di fermarli.

Questo è il nostro Paese’

Amiel Pozen e David Remer, entrambi diciottenni, sono due dei coloni che sono riusciti a penetrare per circa 500 metri entro Gaza. Dopo essere stati prelevati e riportati al posto di blocco dall’esercito israeliano hanno parlato con +972

Non avevamo paura di entrare (a Gaza), il Santo è con noi e le Forze di difesa israeliane erano lì per aiutarci,” ha detto Remer. “Noi siamo venuti qua (perché) vogliamo tornare a casa. Io vivo in una comunità di deportati da Gush Katif (blocco di insediamenti ebraici a Gaza sfollato nel 2005) e abbiamo voluto ritornarci. Dopo tutto quello che è successo non c’è dubbio che dobbiamo ritornarci. 

La sensazione è molto bella, come tornare a casa,” ha continuato Remer. “È nostra. Il Santo, che Egli sia benedetto, ha detto che è nostra. Se non ci saremo noi sappiamo cosa ci sarà.”

Pozen ha aggiunto: “Siamo venuti in rappresentanza dell’intera popolazione, del popolo ebraico. Noi vogliamo ritornare in tutta la Terra di Israele, in tutte le parti della nostra Terra Santa. Non ci sono ‘due stati per due popoli’, è sbagliato. Il popolo di Israele appartiene alla Terra di Israele.”

Riguardo alla possibilità di persuadere il governo a sostenere il reinsediamento a Gaza Pozen ha affermato: “Vorrei che il governo capisse (ciò che) la maggioranza delle persone ha già capito: noi siamo qui. È nostra. Non ci sono ostacoli politici o internazionali. Non dobbiamo tenere nessun altro in considerazione. È una questione interna. Dobbiamo andare a Gaza, distruggere tutti i terroristi là e costruirvi noi.”

Un altro dei coloni fermati dall’esercito dopo essere penetrato in profondità dentro Gaza ha mostrato ai suoi amici sul cellulare la foto di una pianta di fragole in un orto palestinese dicendo: “Guardate com’è bello il Paese.”

Nel corso della serata i giovani coloni hanno continuato ad aggirare l’esercito e a correre verso l’avamposto. Molti l’hanno fatto strisciando in un buco nella recinzione probabilmente creato durante gli eventi del 7 ottobre, finché i soldati non hanno portato un bulldozer per chiuderlo con del terriccio.

Molti dei giovani erano delle stesse organizzazioni che hanno passato parecchie delle scorse settimane cercando, spesso senza successo, di impedire agli aiuti umanitari di raggiungere Gaza. Ai loro occhi c’è un legame fra il trattenimento degli aiuti per i palestinesi e la rifondazione di colonie ebraiche a Gaza: entrambi sono visti come un mezzo per ottenere una “vittoria” decisiva.

Mechi Fendel, un’attivista di destra di Sderot, ha detto a +972: “Siamo venuti qui ad affermare che il giorno dopo la fine della guerra dobbiamo insediarci ed espandere le città ebraiche su tutta la Striscia di Gaza. Perché se non lo facessimo diventerà come un nido di vespe. Non si può lasciare un vuoto. Non c’è motivo per volere che si ripeta. Io vivo a un chilometro dalla Striscia di Gaza. Non posso avere dei terroristi come vicini e il 7 ottobre ci hanno fatto vedere di cosa sono veramente capaci.”

Per quanto riguarda la costruzione di un avamposto vicino alla recinzione ha spiegato: “Far vedere che abbiamo costruito due case è un atto simbolico. Sono venuti con queste grosse assi di legno e in pratica hanno costruito due strutture qui nella Striscia di Gaza. Naturalmente è simbolico perché non ci passeranno la notte. Ma il punto è: qui è dove dobbiamo stare. Questo è il nostro Paese. Non possiamo lasciare disabitata un’intera striscia di terra.”

E cosa succederebbe ai palestinesi di Gaza se si stabilissero delle colonie ebraiche? “Se sono disposti ad accettare la giurisdizione israeliana, a lasciarci entrare e controllare il loro sistema educativo e aiutarli finanziariamente, allora, se sono pacifici, lasciamoli stare,” ha sostenuto Fendel. “Fino ad ora non ho mai trovato un palestinese che sia pacifico. Come ho scritto, i lavoratori palestinesi (che lavorano in Israele) per decine di anni sono diventati terroristi in un secondo.

Penso che il governo quando vedrà che noi siamo con loro, che il popolo lo vuole, sarà d’accordo,” ha continuato. “Perché neanche il governo vuol vedere nascere un nido di vespe. Penso che se noi abbiamo le persone e la volontà e facciamo vedere di essere là, siamo coraggiosi e vogliamo farlo, il governo ci aiuterà.”

Prima gli assalti dei soldati, adesso dei coloni’

Le dinamiche hanno ricordato le tipiche scene in Cisgiordania, con i coloni a cui viene data la libertà di azione mentre i soldati restano a guardare nonostante siano in una zona militare chiusa e alcuni di loro entrino persino in una zona di combattimento. Si sono visti alcuni dei soldati abbracciare gli attivisti. Un soldato ha detto a +972 che loro li sostengono e che il problema sono “i media che vogliono azione per filmare i soldati che picchiano ebrei.”

Anche se i soldati hanno l’autorità di sottoporre a fermo dei cittadini israeliani, e lo hanno fatto con giornalisti e altri civili che negli ultimi mesi si sono avvicinati alla recinzione, invariabilmente evitano di trattenere coloni che infrangono la legge in Cisgiordania, e è successo anche ieri. Uno degli attivisti, che ha detto a +972 di essere un soldato non in servizio che portava la sua arma militare su abiti civili, ha riferito di aver lasciato prima l’area perché i soldati l’hanno avvisato che l’avrebbero “buttato fuori dall’esercito.”

 I soldati parlano con calma con gli attivisti, fra cui il ben noto Baruch Marzel, un kahanista [seguace del defunto rabbino estremista Meir Kahane ndt.] arrivato in un momento successivo. “Sono come i soldati che hanno fatto irruzione [a Gaza], adesso sono loro (i giovani coloni) a fare irruzione,” dice Marzel a uno dei soldati. 

Più tardi, mentre se ne stavano andando, Marzel ha detto a +972 che l’azione gli ha ricordato “la prima colonia a Sebastia”, un villaggio vicino a Nablus, in Cisgiordania, dove circa 50 anni fa un gruppo di coloni del movimento Gush Emunim (Blocco dei Fedeli) [movimento dei coloni nazional-religiosi sorto nel 1974, ndt.] tentò di stabilire una colonia ebraica sfidando i tentativi del governo di cacciarli fino a quando non cedette. Egli aggiunge che il problema principale per lui non è insediarsi a Gaza, ma deportare i palestinesi in “tutti i Paesi che li sostengono.” 

Un funzionario della sicurezza presente sulla scena ha espresso a +972 il suo disappunto su come gli attivisti siano riusciti ad attraversare con tale facilità il posto di blocco. “Se sono riusciti a entrare a Gaza ciò significa che anche (i palestinesi) possono entrare dalla direzione opposta,” ha detto. 

Funzionari di polizia arrivati sul posto si sono comportati con la stessa indifferenza dei soldati. Sembrava non avessero fretta di intervenire e all’inizio hanno arrestato solo uno dei manifestanti. Dopo il tramonto, verso le 19, alcuni attivisti hanno cominciato ad andarsene e in seguito il resto è poi stato disperso dalla polizia. La scorsa notte un totale di nove persone è stato arrestato e portato a una stazione di polizia.

La scorsa notte, in risposta alle domande di +972, un portavoce della polizia ha dichiarato: “Le forze della polizia israeliana sono state chiamate nel pomeriggio vicino al valico di Erez in seguito all’arrivo di manifestanti e alla penetrazione di un gruppetto nella Striscia di Gaza attraverso la recinzione, violando l’ordine di un generale. Alla luce di un pericolo reale per le vite dei manifestanti le forze di polizia sono state costrette ad agire nel territorio della Striscia di Gaza dove alcuni di loro li hanno affrontati e si sono rifiutati di andarsene, non lasciando alla polizia altra scelta che arrestarne nove per aver violato l’ordine di un generale e non aver (obbedito) a un ufficiale di polizia.

I manifestanti sono stati portati a una stazione di polizia per essere interrogati, dopo di che si deciderà chi di loro verrà deferito domani alla Corte di Appello per discutere la loro causa.” Oggi la polizia non ha risposto a un’altra richiesta di informazioni circa quali degli arrestati siano stati accusati, ma sembra che siano stati tutti rilasciati la scorsa notte.

Oren Ziv è una fotogiornalista e reporter di Local Call e fra i fondatori del collettivo di fotografi Activestills.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Cultura della memoria in Germania, i sionisti antisemiti e la liberazione della Palestina

Rachael Shapiro *-

1 marzo 2024 – Aljazeera

La tanto proclamatacultura della memoria” tedesca è nient’altro che vuota propaganda autocelebrativa.

Sono un’attivista ebrea solidale con la causa filo-palestinese originaria dell’area di New York e ora residente a Berlino. Mia nonna, di Colonia, era sopravvissuta all’Olocausto, fuggita a 16 anni negli Stati Uniti nel corso della Seconda Guerra Mondiale. I suoi genitori e gran parte della sua famiglia furono assassinati durante l’Olocausto. Sono tornata” in Germania circa cinque anni fa, una decisione nata in gran parte dal desiderio di guarire i traumi intergenerazionali miei e di mia nonna, allepoca ancora viva. Ho imparato il tedesco e nel corso degli ultimi anni della sua vita ho potuto parlarle nella sua lingua madre. Le raccontavo storie sulla vita in Germania, lei ha conosciuto alcuni dei miei amici ed apprezzava il modo in cui il Paese e la sua gente sembravano aver progredito elaborando le colpe della loro orribile storia.

Sono contenta che sia morta prima che avessi l’occasione di capire quanto fosse un’ingenua e idealistica illusione.

Negli ultimi anni della mia formazione sono diventata un’attivista nel movimento per la liberazione della Palestina liberandomi dal condizionamento estremista sionista e dal lavaggio del cervello insiti nella mia educazione; il mio apprezzamento per la Erinnerungskultur” (cultura della memoria”) tedesca si è rapidamente trasformato nella consapevolezza che lintero concetto non è altro che vuota propaganda autocelebrativa. Si basa sullo spostamento intenzionale e razzista dellantisemitismo e della responsabilità per lOlocausto dai tedeschi che lo hanno perpetuato agli arabi, ai musulmani e soprattutto ai palestinesi, che ora demonizzano e fanno capro espiatorio attraverso un meccanismo di deviazione e diversione.

Un documentario del 1985, Maloul Celebrates Its Destruction [Ma’loul commemora la sua distruzione, ndt.], fornisce un resoconto della distruzione di interi villaggi durante la Nakba del 1948. In esso, un intervistatore dice a un palestinese sfollato: Ma hanno ucciso sei milioni di ebrei”. La sua giusta risposta è: Li ho uccisi io? Coloro che li hanno uccisi devono essere ritenuti responsabili. Io non ho fatto male a una mosca. Il fatto che una verità così fondamentale sia stata sepolta così profondamente nel linguaggio della complessità” e del conflitto” è una prova dell’impegno e dell’estensione della narrazione imperialista diffusa da Israele, Stati Uniti e Germania (e dallOccidente in generale). Nel frattempo, più del 90% di tutti gli incidenti antisemiti in Germania è attribuibile allestrema destra, nonostante i dilaganti sforzi dei media di ignorare le statistiche, distorcere la realtà della violenza e del razzismo verso i palestinesi e mascherare il reale disinteresse per la così detta lotta allantisemitismo”.

Mentre gli episodi reali di antisemitismo rimangono in gran parte impuniti quelli di noi che sono solidali con la Palestina sono avvezzi alla brutale violenza di Stato, alla repressione e alla sorveglianza da parte della polizia e del governo tedesco in risposta a proteste pacifiche e boicottaggi. Ciò si è intensificato enormemente da quando è iniziato il genocidio a Gaza in ottobre, come sempre sotto il pretesto delle accuse di antisemitismo e Judenhass” (odio verso gli ebrei”). Ci impegniamo pertanto a rimanere forti e visibili, anche attraverso il nostro rifiuto di essere esclusi dalla lotta contro il crescente fascismo e il partito di estrema destra Alternativa per la Germania (AfD).

Il 3 febbraio ho partecipato a una manifestazione anti-AfD a Berlino nellambito della coalizione filo-palestinese con il gruppo rivoluzionario marxista Sozialismus von Unten (Socialismo dal basso”), di cui sono membro attivo. Avevo un po’ di trepidazione allidea di partecipare a questa protesta dopo le esperienze violente, razziste e inquietanti vissute dai miei compagni palestinesi e filo-palestinesi durante le proteste anti-AfD delle ultime settimane. In tutta la Germania le persone che protestavano contro lAfD esprimendo anche solidarietà alla Palestina sono state vessate e attaccate senza pietà, denunciate alla polizia e allontanate violentemente sia dai manifestanti che dalla polizia.

In generale l’atmosfera era positiva e sembrava esserci una solidarietà più tangibile rispetto alle manifestazioni precedenti. Portavo un cartello che diceva: Jüdin gegen die AfD und Zionismus, für ein freies Palaestina” (Ebrea contro AfD e sionismo, per una Palestina libera”). Abbiamo distribuito volantini che sostenevano una mobilitazione strategica e sistematica contro lAfD. Abbiamo parlato con i manifestanti del legame tra la lotta al fascismo e la lotta per la liberazione della Palestina. Abbiamo spiegato che i palestinesi in Palestina stanno attualmente soffrendo a causa delle politiche fasciste contro le quali stiamo manifestando in Germania e che in Germania i palestinesi e coloro che sono solidali con loro sono già vittime di una concreta violazione e negazione di diritti umani fondamentali (libertà di parola, libertà di espressione, libertà di riunione). Abbiamo sottolineato limportanza di una solidarietà internazionale incondizionata.

Alcuni manifestavano con prudenza, evidentemente per paura di essere considerati antisemiti, ma molti erano curiosi, interessati e aperti a saperne di più. Per quanto i media tradizionali abbiano cercato di distorcere e manipolare le notizie sul genocidio in corso a Gaza un recente sondaggio ha mostrato che tra gli elettori tedeschi solo il 25% ha risposto affermativamente alla domanda se credano che gli attacchi di Israele a Gaza siano giustificati; Il 61% crede di no. Quest’ultimo gruppo era chiaramente presente alla manifestazione.

Dopo circa un’ora sono entrata in contatto con un rappresentante del 25% del sondaggio. Un uomo tedesco anziano con unespressione aggressiva si è avvicinato fermandosi davanti a me e ha quasi urlato: Allora quali sono secondo te le somiglianze tra lAfD e Israele? Capivo che non era disponibile ad affrontare una conversazione ragionevole, ma comunque ho iniziato a cercare di spiegare. Dopo poche parole ha alzato gli occhi al cielo e mi ha sputato addosso.

È difficile descrivere la particolare tonalità di rosso che ci ho visto, l’amaro del sangue che pompava alla testa, il gusto acre della furia sulla mia lingua. Era come se vedessi i volti senza vita dei miei bisnonni in balia dei nazisti, deportati e assassinati nel Ghetto di Varsavia così come appaiono nei miei sogni fin da quando ero bambina. Era la risolutezza con cui avrei difeso incondizionatamente fino al mio ultimo respiro la resistenza palestinese, il diritto di ogni popolo a resistere al proprio oppressore in qualsiasi forma. Ho sentito il sapore della rabbia e dellincredulità che tracimano dagli angoli delle nostre bocche mentre urliamo a squarciagola, vedendo il mondo osservare passivamente il massacro di uomini, donne e bambini palestinesi da più di quattro mesi e mezzo – muto, complice e accompagnato dall’eco implacabile di oltre 75 anni di occupazione, apartheid, furto, pulizia etnica, menzogne, disumanizzazione ed impressionante ingiustizia.

Ho rincorso quelluomo urlandogli che la mia famiglia era stata uccisa durante un genocidio a causa del fascismo; in risposta mi ha di nuovo sputato addosso.

Mi ha provocato: Che ne sai? LAfD è un partito fascista. Cosa centra questo con Israele?” Ho cominciato a sostenere l’evidenza: Mentre parliamo Israele sta commettendo un genocidio a Gaza…”, ma prima che finissi la frase mi ha sputato in faccia per la terza volta.

Mentre tremavo, infuriata e disgustata, il mio commento finale è stato: Sei chiaramente un antisemita”. Fino a quel momento era stato borioso e carico di disprezzo, ma (come già sapevo) questa battuta finale lo ha reso furioso. Mentre mi voltavo e me ne andavo, ha urlato: “COSA hai detto?”

Di recente un mio amico mi ha detto: I tedeschi non perdoneranno mai gli ebrei per lOlocausto”. Queste parole riecheggiano nelle mie orecchie e le sento vagare senza sosta nel petto, una dura e orribile verità nel cuore della società tedesca che riflette esattamente la mia esperienza di vita al suo interno. È sconcertante, comico e corrisponde al vero.

Dai neonazisti dellAfD agli esponenti della sinistra anti-tedeschi”, che affermano di combattere lantisemitismo tedesco sostenendo ossessivamente e incondizionatamente il sionismo, molti tedeschi di oggi sono carichi di rabbia repressa nei confronti degli ebrei. Che ne siano consapevoli o meno, ciò emerge in modo clamoroso dalla profonda, isterica ipocrisia di una reazione come quella dell’uomo della manifestazione, che ha sputato in faccia a una ebrea che manifestava contro il fascismo e il genocidio sulla base del suo rapporto personale e generazionale con il fascismo e il genocidio e si è di conseguenza arrabbiato per essere stato identificato come antisemita.

Questa furia è apparentemente una reazione all’”ingiustizia” dei tedeschi, che devono pentirsi per le azioni dei loro antenati, qualcosa per cui sono stati ampiamente lodati sulla scena globale. Il risentimento prende la forma di ottusità e fondamentalismo: gli unici concetti accettabili di ebraismo, popolo ebraico e vita ebraica” sono quelli che loro stessi, i tedeschi non ebrei, approvano esplicitamente. (Un esempio sono i commissari per la lotta all’antisemitismo” che affermano di rappresentare gli interessi del popolo ebraico in Germania, nessuno dei quali è ebreo o esperto in qualsiasi campo attinente o correlato.) Per molti tedeschi, lunico ebraismo accettabile è il sionismo, che in realtà non è affatto una forma di ebraismo. Quando sono costretti a confrontarsi con prospettive in conflitto con questa narrazione tossica o con un ebraismo non in linea con ciò che loro intendono la loro rabbia emerge in modo violento ed esplosivo. Gli Anti-tedeschisi armano della feticizzazione degli ebrei con il loro sionismo ossessivo, guidando aggressive campagne di odio e diffamazione contro coloro che non condividono le loro opinioni (inclusi gli ebrei antisionisti). Come osa qualcuno, soprattutto gli ebrei, mettere in discussione l’autorità dei tedeschi nel definire e relazionarsi con l’ebraismo, l’antisemitismo e il genocidio?

La pluridecennale collaborazione patologica tra Israele e Germania e la diffusa affermazione secondo cui la sicurezza di Israele è una ragione di Stato tedesca” (Staatsräson”), che sostiene l’integrazione sionista a fini politici e razzisti, hanno creato unatmosfera di paura, vergogna, senso di colpa e, in definitiva, ipocrisia che permea gran parte della società tedesca. Punisce le domande, dissuade dallapprendimento e annulla la necessaria comprensione dellebraismo come cultura ampia, differenziata e storicamente diasporica che esisteva molto prima del sionismo, ed esisterà molto tempo dopo.

La definizione di tutti gli ebrei e di tutto lebraismo come ununica entità uniforme, che parla necessariamente la stessa lingua (lebraico moderno), sostiene gli stessi valori (sionismo) e condivide unidentica cultura (che in Germania deve essere determinata dai tedeschi) è di fatto la precisa definizione di segregazione razziale antisemita e nazista e anche la retorica alienante e disumanizzante impiegata al suo servizio. La concezione rigida e intrinsecamente antisemita degli ebrei come popolo indifferenziato nativo” di ununica terra strutturata dal movimento nazionalista-coloniale sionista è semplicemente servita a continuare lopera di Hitler. Ha cancellato l’ebraismo laico in Europa. Ha sradicato lo yiddish, il ladino, l’ebraico-arabo, l’ebraico-persiano e altre lingue ebraiche. Ottantanni dopo lOlocausto è riuscita a sostenere la visione degli ebrei come un monolite, un incomodo straniero lontano dalla società tedesca, il cui tentativo di annientamento può ora essere sfruttato per giustificare lannientamento di un altro gruppo.

In Germania ormai da generazioni si tramanda la tradizione di controllo dellebraismo che, come nel caso delluomo della manifestazione anti-AfD, non ruota solo intorno ad una definizione consolidata e omogenea di ebrei ma anche e soprattutto al diritto e obbligo esclusivo dei tedeschi di dettarla.

Allora cosa ci rimane? Credo che possiamo vederlo nella statistica riportata sopra. La maggioranza dei tedeschi sa, nonostante quello a cui è stato portato a credere col condizionamento, che ciò che sta accadendo a Gaza è quanto meno sbagliato. Molti si accorgeranno che manca qualcosa di significativo e rilevante nella narrazione tradizionale sullantisemitismo, su Israele e sulla Palestina. Oserei dire che la maggior parte di coloro che marciano nelle strade contro lAfD lo fa perché vuole sinceramente stare dalla parte giusta della storia. Contemporaneamente, quella che in realtà è una minoranza è semplicemente più rumorosa, più arrabbiata e più visibile nel propagare il proprio razzismo anti-arabo, anti-musulmano e anti-palestinese, lantisemitismo e le opinioni a favore del genocidio e, così facendo, intimidisce gli altri coll’imporre loro un docile silenzio.

Nessuno nei principali media tedeschi ha riferito della mia esperienza alla protesta anti-AfD. Considerato il contesto culturale, questa non è una sorpresa. Ma mettere in rilievo questa ipocrisia e le narrazioni prevalenti e sempre più distruttive evidenziate da un simile incidente rappresenta una potente opportunità di educazione e responsabilizzazione. L’evidenziare le cause profonde e il contesto sociale di questi fatti consente di metterli a disposizione di tutti perché ognuno vi si possa confrontare. Dato che in così tanti scendono in strada è nostra responsabilità dargli i fatti come carburante per consentire a ogni singola persona di alzare la voce e sapere con fermezza di cosa parla e contro cosa parla. Così continueremo con più determinazione che mai nella lotta per una Palestina libera e nella mobilitazione contro il razzismo, il sionismo, lantisemitismo (di fatto), il fascismo e il genocidio. Lo ripeteremo ancora e ancora finché il ritmo delle nostre parole non diventerà il battito del cuore di una società che tenta di spegnere la nostra resistenza ma alla fine non ci riuscirà: Mai più significa mai più per nessuno.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono allautrice e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera.

*Attivista ebrea antisionista residente a Berlino

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Gli spudorati raid israeliani su Jenin alimentano una più accanita resistenza palestinese

Mariam Barghouti

27 febbraio 2024 +972 Magazine

Dal 7 ottobre le continue incursioni israeliane nel campo profughi di Jenin hanno ucciso quasi 100 palestinesi, tra cui molti civili. Ma mentre aumenta la repressione i figli della Seconda Intifada stanno imbracciando le armi

Nelle prime ore del 23 febbraio le forze armate israeliane hanno bombardato un veicolo nel campo profughi di Jenin, uccidendo tre residenti palestinesi del campo. L’obiettivo dell’attacco operato con i droni era il 27enne Yasser Mustafa Hanoun, comandante sul campo della Brigata Jenin – ufficialmente il braccio armato della Jihad islamica palestinese (PIJ), ma che negli ultimi anni ha operato come gruppo ombrello per una varietà di giovani palestinesi che vanno dal PIJ a Hamas, Fatah e persino al Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP), di sinistra e laico. Hanoun è stato ucciso sul colpo, in un attentato che ha ucciso anche Saeed Jaradat, 17 anni, e Majdi Nabhan, 20 anni, ferendo altri 15.

Negli ultimi mesi e in concomitanza con il continuo bombardamento israeliano della Striscia di Gaza, la Cisgiordania ha subito un forte aumento delle violente incursioni da parte delle forze israeliane. Se il 2023 è stato in Cisgiordania l’anno più mortale in circa due decenni con più di 500 vittime, almeno un quinto proveniva dalla sola Jenin.

Con la stessa tendenza dal 7 ottobre soldati e coloni israeliani hanno ucciso nel territorio 410 palestinesi, di cui 93 solo a Jenin. L’anno scorso la città ha dovuto spianare un appezzamento di terreno appena fuori dal campo profughi per farne un nuovo cimitero, poiché il cimitero comune era diventato troppo pieno e troppo in fretta.

Il campo profughi di Jenin è un microcosmo degli attacchi israeliani ai palestinesi che osano resistere alle sue politiche di esproprio e sfollamento. Mentre l’esercito israeliano sta pianificando un’operazione di “controinsurrezione” a lungo termine a Gaza come fase successiva alla guerra, Jenin getta luce su ciò che potrebbe esserci in serbo.

Il punto sono i palestinesi, non i palestinesi che resistono

Le incursioni dell’esercito israeliano a Jenin e nel suo campo profughi si sono susseguite quasi ininterrottamente dal 7 ottobre. L’invasione di gran lunga più vasta si è verificata tra il 12 e il 15 dicembre, quando i soldati israeliani hanno assediato l’intero campo per 60 ore: il raid più lungo e violento del suo genere da quando il campo fu quasi distrutto durante l’“Operazione Scudo Difensivo” nel 2002, nel pieno della Seconda Intifada.

Dopo aver portato a termine l’offensiva, il portavoce dell’esercito israeliano ha affermato di aver arrestato 14 persone ricercate e “eliminato 10 terroristi” nel campo. Ma secondo testimoni oculari e residenti, almeno 12 palestinesi sono stati uccisi – 10 dei quali erano civili e non combattenti, compreso un bambino – mentre almeno altri 42 sono rimasti feriti da colpi di arma da fuoco, gas lacrimogeni e droni d’attacco israeliani.

Non esiste qualcosa come ‘questo è un combattente e questo no’ ”, ha detto a +972 Sami, un uomo sulla trentina che ha scelto di usare uno pseudonimo per paura di misure punitive da parte dell’esercito israeliano, in merito all’incursione che ha avuto luogo la sera del 13 dicembre. “Siamo tutti un bersaglio”, ha aggiunto, mentre le jeep militari pattugliavano le strade appena fuori dal campo profughi.

Alcune ore dopo il ritiro dell’esercito, la mattina del 15 dicembre, Umm Imad Ghrayeb, 72 anni, camminava per le strade fangose e in rovina del campo per la prima volta da tre giorni. Non sapeva da dove cominciare a raccontare le ore di orrore che aveva dovuto sopportare.

Eravamo solo noi anziani e mio marito non riusciva nemmeno ad alzarsi”, ha raccontato Ghrayeb a +972. “[L’esercito] ha sfondato la porta di casa nostra, anche se l’avevamo lasciata aperta per dimostrare che non abbiamo nulla da nascondere”.

Come è successo a molte altre famiglie, i soldati hanno chiuso Ghrayeb e suo marito in una stanza mentre l’esercito ha trasformato la casa in una base militare. Nel frattempo, intorno alle case continuavano spari e bombardamenti. “Tutto quello che potevamo sentire erano colpi forti, uno dopo l’altro”, ha ricordato Ghrayeb.

L’attacco di dicembre non è stata una semplice operazione di ricerca e arresto, e nemmeno un’operazione contro i combattenti della resistenza come affermato dall’esercito israeliano. Secondo quanto riferito, almeno 1.000 palestinesi – tutti uomini e ragazzi, per lo più giovani, comprese persone con malattie croniche – sarebbero stati arrestati nel corso delle 60 ore di invasione. La maggior parte è stata infine rilasciata, ma non prima di essere portata al campo militare di Salem a nord-ovest di Jenin o sottoposta a brutali interrogatori sul campo.

Quelli sottoposti a quest’ultima pratica venivano spesso bendati, spogliati e lasciati in faticose posizioni da seduti spesso all’aperto al freddo e alla pioggia. Alcuni detenuti hanno riferito che mentre erano detenuti i soldati li hanno coperti con la bandiera israeliana; i video hanno successivamente confermato queste testimonianze.

Da una casa del campo i soldati hanno pubblicato video sui loro account TikTok e sui social media in cui si mostravano fumare allegri il narghilè in un soggiorno con uomini palestinesi bendati costretti a star seduti sul pavimento.

Più che voler descrivere gli abusi subiti, gli abitanti del campo continuano a porsi la stessa domanda: “Perché?” Tenendo i palmi uniti e riuscendo comunque a mantenere un sorriso, Ghrayeb ha ricordato con voce tremante: “Tutto quello che abbiamo fatto è stato pregare: ‘Oh caro Dio, aiutaci’. Cos’altro potevamo fare?”

Se ce ne andiamo, chi resta?”

Mentre i residenti del campo di Jenin stavano subendo una campagna del terrore, i combattenti della resistenza palestinese hanno affrontato i soldati israeliani all’esterno del campo. Si sono radunati anche giovani disarmati provenienti da zone vicine, alcuni lanciando pietre, altri facendo la guardia e altri ancora imprecando ad alta voce contro i soldati.

Quando ho chiesto ad alcuni giovani palestinesi perché fossero in strada durante l’incursione pur sapendo che non avrebbero potuto entrare nel campo assediato, molti hanno risposto con un sentimento collettivo: “Almeno ci stiamo provando” e “Forse potremmo attirare l’attenzione dei soldati su di noi, per contribuire a mitigare la forza della violenza sul campo”.

Con i combattenti della resistenza armata non più all’interno del campo la popolazione dei rifugiati è rimasta senza protezione e alla mercé dei soldati israeliani. L’esercito ha assediato la zona, bloccato la circolazione delle merci e tagliato la fornitura di elettricità e acqua. “Non è consentito l’ingresso dei beni di prima necessità per esseri umani”, ha detto a +972 Eli, che ha scelto anche lui di usare uno pseudonimo, mentre osservava da lontano le jeep militari.

Guarda il campo”, diceva Sami mentre la sera del 13 dicembre si faceva più fredda, con i militari che si avvicinavano a un gruppo di giovani riuniti vicino a una clinica adiacente al campo. “Nessuno può entrare. Nessuna ambulanza. Niente latte per i neonati. Nemmeno il pane”, diceva.

Oltre a ciò, i soldati israeliani, compresi i cecchini, hanno ostacolato l’ingresso nel campo dei giornalisti e delle ambulanze nel campo. Ogni tentativo di avvicinarsi al campo veniva accolto dagli israeliani con violenta ostilità, incluso il lancio di proiettili veri direttamente contro il personale medico e i giornalisti.

Nel frattempo all’interno del campo le forze israeliane hanno danneggiato gravemente numerosi edifici imperversando di strada in strada. Nash’at Samara, insieme alla moglie e ai figli, si trovava a casa di suo fratello fuori dal campo quando è iniziata l’incursione; ha potuto rientrare nel suo quartiere solo dopo il ritiro dell’esercito. Non è tornato a una casa, ma alle rovine di una casa: era stata fatta saltare in aria, le piastrelle della cucina erano staccate dai muri e gli averi della famiglia erano stati saccheggiati.

“Perché hanno distrutto la nostra casa?” chiedeva a +972 mentre camminava tra le macerie della sua cucina. Guardando il cibo sul pavimento, diceva con una voce addolorata: “La resistenza si combatteva nelle strade, o fuori, non nelle case, e certamente non nel frigorifero”.

Il punto era umiliarci”, ha detto dell’invasione Walid Abu el-Fahed, 45 anni, il giorno che le forze israeliane si sono ritirate, percorrendo la scia di distruzione che avevano lasciato nel campo.

Più che umiliazione, tuttavia, queste pratiche servono a cacciare i palestinesi. Per l’esercito israeliano, le invasioni e le operazioni militari nelle case civili, negli ospedali o nelle scuole, oltre alle demolizioni di case e ai pogrom dei coloni, sono diventate una pratica sempre più comune che contribuisce all’espropriazione deliberata e allo sfollamento dei palestinesi.

Nell’arco di 116 giorni, tra ottobre 2023 e gennaio di quest’anno, Israele ha sfollato in Cisgiordania 2792 palestinesi. Si tratta di un aumento del 775% delle persone rimaste senza casa rispetto al numero dei palestinesi sfollati in tutti i primi nove mesi del 2023. Inoltre, come a Gaza, la maggioranza dei palestinesi uccisi in Cisgiordania non sono combattenti della resistenza ma civili, di cui quasi un terzo sono bambini e minori.

Tuttavia, nonostante le difficoltà, molte famiglie scelgono ancora di rimanere nelle proprie case. “Restiamo perché dobbiamo restare nella nostra patria”, spiega Abu el-Fahed guidando per le strade demolite dai bulldozer del campo profughi di Jenin mentre i suoi figli giocano sul sedile posteriore dell’auto. “Se io me ne vado con i miei figli, e lei se ne va con i suoi figli, e lui se ne va con i suoi figli”, comincia a chiedere Abu el-Fahed, “allora chi rimane?”

Nascita della resistenza

Sono nato con l’occupazione e i soldati, e morirò con l’occupazione e i soldati”, ha detto Eli mentre l’invasione e l’assedio continuavano per la terza notte. “Sparare, uccidere, sangue: questa è la vita dell’intera popolazione palestinese”, ha continuato depresso.

L’ultima volta che Israele ha condotto un’operazione così massiccia, tuttavia, è stato al culmine della Seconda Intifada, nel 2002. I danni di quell’incursione – parte dell’“Operazione Scudo Difensivo”, durante la quale le forze israeliane hanno invaso diverse città palestinesi in Cisgiordania nel corso di un mese –, la distruzione delle infrastrutture e delle istituzioni palestinesi ammonta secondo la Banca Mondiale ad una cifra stimata in più di 330 milioni di euro.

Oltre alle perdite materiali, l’incursione ha creato una generazione di palestinesi traumatizzati che non solo sono stati profondamente scossi dagli eventi di quell’anno, ma da allora hanno dovuto crescere con ulteriori violenze militari israeliane. All’epoca, le associazioni per i diritti umani avevano avvertito dell’impatto negativo che l’invasione del 2002 avrebbe avuto su quei bambini.

Più di due decenni dopo l’esercito israeliano continua ancora a effettuare raid regolari e intensi nelle città palestinesi della Cisgiordania. Anche la costruzione di colonie è in aumento, e con esse il tasso e la gravità degli attacchi ai palestinesi dei coloni che continuano a godere di un’impunità quasi totale ai sensi del sistema giudiziario israeliano. Gli arresti arbitrari e le umiliazioni dei palestinesi ai posti di blocco militari israeliani restano la norma, e gli omicidi extragiudiziali sono diventati il modus operandi degli ultimi anni.

Per i palestinesi in Cisgiordania l’intensificarsi degli attacchi israeliani è avvenuto soprattutto all’indomani dell’“Intifada dell’Unità” del maggio 2021, durante la quale i palestinesi tra il fiume e il mare si sono ribellati contro il governo israeliano e le forze di occupazione. Successivamente Israele ha lanciato l’“Operazione Break the Wave” (Spezzare l’onda), una serie di operazioni militari in tutta la Cisgiordania che hanno visto l’uso di forza letale contro i civili e missioni di assassinio extragiudiziale, illegali secondo il diritto internazionale.

Non sorprende, quindi, che la determinazione dei giovani palestinesi a prendere parte agli scontri militari con l’esercito israeliano non abbia fatto che crescere. Dopo l’Intifada dell’Unità un gran numero di palestinesi ha preso a impegnarsi nella resistenza armata, spesso unendosi a battaglioni locali non allineati con i tradizionali partiti politici palestinesi.

Ricordatevi, i ragazzi del 2002 ora sono la resistenza”, ha detto a +972 Abu el-Fahed, residente a Jenin, alcune ore dopo il ritiro dei militari dell’incursione di dicembre. Ricorda ancora la brutalità e la paura di quelle settimane. “[Israele] ha cercato di spostarci nel 2002”, dice. “Ci hanno distrutto la casa sopra la testa, ci hanno detenuti in massa e ci hanno ucciso”.

Questa inevitabile realtà non è né segreta né nuova per i palestinesi in generale, e per quelli di Jenin in particolare. “Ciò che distruggono lo ricostruiremo e i nostri figli saranno dei leader”, ha detto Abu el-Fahed.

Tuttavia, per poter crescere leader i bambini devono rimanere in vita. Israele ha portato avanti l’operazione di dicembre con il pretesto di prendere di mira sospetti combattenti palestinesi, usando gli attacchi di Hamas del 7 ottobre nel sud di Israele come scusa per giustificare l’incursione letale, ma almeno un quinto delle persone uccise a Jenin sono bambini e minorenni.

“Veniamo uccisi comunque”

Continuando la tendenza, il 30 gennaio le forze israeliane sotto copertura hanno effettuato un omicidio mirato nell’ospedale Ibn Sina di Jenin. Poco dopo l’alba, i soldati della famigerata unità Duvdevan – travestiti da personale medico e pazienti palestinesi – sono entrati nell’ospedale, hanno estratto le armi davanti al vero personale e ai pazienti e hanno marciato verso il terzo piano dell’ospedale.

Lì le forze sotto copertura hanno assassinato extragiudizialmente Basel al-Ghazzawi, un combattente di 18 anni della Brigata Jenin che stava ricevendo cure per le ferite riportate in un precedente attacco a Jenin dell’esercito israeliano. Da un anno e mezzo Israele cercava di assassinarlo.

Sono stati uccisi anche altri due uomini che erano in visita ad al-Ghazzawi: suo fratello Mohammed al-Ghazzawi, di 23 anni, uno dei cofondatori della Brigata Jenin, e il loro amico Mohammad Jalamnah, 27 anni, che è un combattente senior della Brigata. Secondo giornalisti locali sul posto, l’unità israeliana sotto copertura ha ucciso i tre uomini con pistole silenziate.

Nonostante gli uomini fossero combattenti attivi nella Brigata Jenin, il loro assassinio all’ospedale Ibn Sina non solo è illegale perché si tratta di un omicidio extragiudiziale, ma viola anche la Convenzione di Ginevra. Ancora più allarmante, questo attacco segnala un’escalation degli spudorati crimini di Israele in Cisgiordania.

Nell’ottobre 2022 ho intervistato un protagonista combattente della resistenza palestinese, Nidal Khazem, chiedendogli perché avesse scelto di imbracciare le armi nonostante il rischio che ciò rappresenta per la sua vita. Khazem ha detto con molta calma: “[L’esercito israeliano] viene qui, uccide i nostri amici e la nostra famiglia, abusa e umilia le donne e ci nega l’accesso [al culto] ad Al-Aqsa”. Questo sentimento è condiviso dalla maggior parte dei combattenti della resistenza che ho intervistato negli ultimi due anni in Cisgiordania, e tutti ripetevano la stessa opinione: “Verremo uccisi comunque”.

Khazem è stato ucciso diversi mesi dopo, nel marzo 2023, in un assassinio extragiudiziale compiuto da forze israeliane sotto copertura appartenenti a Duvdevan. Anche Yousef Shriem, un altro combattente della resistenza e amico intimo di Khazem, è stato ucciso. Anche un terzo ragazzo di 13 anni è stato ucciso mentre attraversava Jenin in bicicletta durante l’operazione.

Nel luglio 2023, appena tre mesi dopo l’uccisione di Khazem e Shreim, Israele ha effettuato un’altra incursione distruttiva nel campo di Jenin utilizzando droni, un elicottero armato e artiglieria pesante a terra. Nel corso di due giorni l’esercito israeliano ha provato, senza riuscirci, a mantenere il pieno controllo del campo profughi, finendo sotto il fuoco dei combattenti della resistenza con una frazione delle loro capacità e risorse militari. Durante i raid letali contro campi profughi palestinesi, paesi, città e villaggi, l’esercito israeliano ha ucciso più civili che militanti palestinesi. Israele non solo non è stato in grado di fermare la crescita dei gruppi di resistenza armata nel campo profughi di Jenin, ma ha provocato l’ascesa di una maggiore resistenza armata in diversi distretti tra cui Tulkarem, Nablus, Ramallah, Hebron, Tubas e Gerico.

L’unica difesa che sembrano avere i palestinesi sono i gruppi di resistenza armata, nonostante le loro piccole dimensioni e la mancanza di armi. Nel tentativo di sradicarli, Israele sta aprendo la strada alla creazione di una comunità palestinese completamente indifesa – composta da anziani, minori e malati – che resta un bersaglio facile per uno degli eserciti più avanzati del mondo. Incapace di limitare la resistenza o di prendere di mira efficacemente i combattenti, tuttavia, l’esercito israeliano si è ridotto a tentativi di omicidio extragiudiziale nei momenti in cui i combattenti sono più vulnerabili e non impegnati in battaglia.

Quello che hanno fatto nel campo è una replica di Gaza: dall’umiliazione degli uomini spogliati nudi all’attacco alla moschea e alla distruzione di case”, ha riassunto Abu El-Fahed, indicando gli edifici grigi che un tempo erano case del campo.

L’obiettivo è uno: liberare la Palestina”

A differenza di Gaza, tuttavia, i gruppi armati palestinesi in Cisgiordania non dispongono di un unico organismo organizzato per lo scontro armato. Sono invece gruppi di uomini della comunità, vicini di casa, parenti e amici d’infanzia che si ritrovano ad affrontare non solo un esercito potente, ma anche un esercito che opera con politiche discriminatorie che producono persecuzioni e apartheid.

Cosa pensi che significhi essere [affiliato a] Hamas o Jihad islamica palestinese?” chiede un combattente di Hamas sulla trentina, che chiameremo “A”, seduto a metà ottobre in un piccolo soggiorno nel campo profughi di Jenin. E dice: “Significa poter acquistare un’arma”, mentre un altro combattente accanto a lui annuisce in segno di approvazione.

L’altro uomo, “B”, all’inizio dell’anno scorso aveva disertato dalle forze di sicurezza palestinesi dell’Autorità Palestinese – di cui era ufficiale. Sebbene i due appartengano a fazioni politiche rivali, uno di Fatah e l’altro di Hamas, sono insieme in un unico battaglione sotto l’egida della Brigata Jenin.

“Per la Jihad islamica palestinese non è una questione di potere o denaro”, ha detto a +972 un terzo combattente “C”, che ha appena 20 anni ed è il più giovane del gruppo, seduto accanto ai due uomini. “L’obiettivo è uno: liberare la Palestina per poter vivere liberamente. Ecco perché combatto con [la Jihad], ma non per loro.

Tutti gli uomini hanno sottolineato che, si tratti di Hamas, Fatah, PIJ o qualsiasi altra fazione, alla fine fanno tutti parte della stessa comunità che cerca di difendersi dai continui e intensi attacchi alla loro vita da parte delle autorità, dell’esercito e dei coloni israeliani.

Capisci che per noi sono queste le vie di confronto”, spiega A. “Siamo persone umili, dobbiamo racimolare i soldi per permetterci un’arma con cui reagire”.

Per i combattenti della resistenza palestinese a Jenin e altrove in Cisgiordania, l’affiliazione politica come procedura per tracciare linee di divisione è cosa del passato. Non si tratta più del quadro Hamas contro Israele o di attacchi di lupi solitari, ma di una comunità riunita sotto l’ombrello dell’opposizione all’occupazione israeliana che ha raggiunto l’apice delle sue pratiche violente nel genocidio in corso dei palestinesi.

Anche se la linea politica è diversa da quella di Gaza, alla fine Israele tratta i palestinesi ovunque allo stesso modo. “Siamo una serie di bersagli per [il Ministro della Sicurezza nazionale israeliano Itamar] Ben Gvir e [il primo ministro Benjamin] Netanyahu”, ha spiegato “D”, un combattente sulla quarantina che teneva d’occhio le due jeep israeliane nelle vicinanze, pronte a caricare il centro città in qualsiasi momento.

L’esercito israeliano sta fallendo a Gaza ed è venuto a ottenere risultati a Jenin”, ha continuato. “È così che i media israeliani possono mostrare alla gente che stanno raggiungendo gli obiettivi”.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Nuovi rapporti confermano mesi di torture, abusi e violenze sessuali da parte di Israele contro i prigionieri palestinesi

Yumna Patel

27 febbraio 2027 Mondoweiss

Per mesi i prigionieri palestinesi hanno dato testimonianze di torture per mano delle autorità militari e carcerarie israeliane. Nuovi rapporti fanno luce sugli abusi perpetrati all’interno dei centri di detenzione israeliani, in particolare sulla violenza sessuale.

La settimana scorsa sono apparsi due nuovi rapporti riguardanti la tortura e il crudele trattamento dei palestinesi nelle carceri e nei centri di detenzione israeliani dopo il 7 ottobre, comprese testimonianze di violenza sessuale contro donne e ragazze palestinesi. I rapporti hanno rinnovato il dibattito sulle dure condizioni dei palestinesi prigionieri in Israele, sulle quali gli stessi detenuti palestinesi e alcune associazioni per i diritti umani lanciano l’allarme da mesi.

Il 19 febbraio esperti dei diritti umani delle Nazioni Unite hanno espresso il loro allarme per quelle che hanno descritto come “vergognose violazioni dei diritti umani” perpetrate dalle forze israeliane contro donne e ragazze palestinesi a Gaza. Oltre alle esecuzioni extragiudiziali e arbitrarie di donne e bambini a Gaza, gli esperti delle Nazioni Unite hanno sottolineato il trattamento delle detenute palestinesi nelle carceri israeliane.

Secondo quanto riferito, molte sono state sottoposte a trattamenti inumani e degradanti, sono state private di assorbenti mestruali, cibo e medicine e sono state duramente picchiate. In almeno un’occasione, le donne palestinesi detenute a Gaza sarebbero state tenute in gabbia sotto la pioggia e al freddo, senza cibo”, si legge nella nota.

Siamo particolarmente angosciati dalle notizie secondo cui le donne e le ragazze palestinesi in detenzione sono state sottoposte anche a molteplici forme di violenza sessuale, come essere spogliate nude e perquisite da ufficiali maschi dell’esercito israeliano. Almeno due detenute palestinesi sarebbero state violentate, mentre altre sarebbero state minacciate di stupro e violenza sessuale”, hanno detto gli esperti, aggiungendo che foto di detenute palestinesi in “circostanze degradanti” sarebbero state scattate dall’esercito israeliano e caricate online.

Nel loro insieme, questi presunti atti possono costituire gravi violazioni dei diritti umani internazionali e del diritto umanitario, e rappresentare crimini gravi ai sensi del diritto penale internazionale che potrebbero essere perseguiti ai sensi dello Statuto di Roma”, hanno detto gli esperti. “I responsabili di questi presunti crimini devono essere incriminati e le vittime e le loro famiglie hanno diritto a pieno risarcimento e giustizia”, hanno aggiunto.

Lo stesso giorno delle dichiarazioni degli esperti delle Nazioni Unite, Physicians for Human Rights Israel (PHRI, Medici per i Diritti Umani di Israele) ha pubblicato un rapporto di 41 pagine sulla condizione dei detenuti palestinesi nelle carceri israeliane dal 7 ottobre, che l’organizzazione ha detto essere diventate “un apparato di vendetta e punizione.”

Il rapporto PHRI descrive nel dettaglio le estese violazioni dei diritti dei prigionieri da parte del Servizio penitenziario israeliano (IPS) e di altri organismi di sicurezza israeliani a partire dal 7 ottobre, compreso l’isolamento dei prigionieri dal mondo esterno, la mancanza di accesso all’assistenza sanitaria, la negazione della luce del giorno o dell’ora d’aria e il sovraffollamento delle celle prive di arredi e risorse di base come materassi e coperte, nonché di acqua ed elettricità.

Oltre a tali condizioni, il PHRI descrive nel dettaglio anche il “trattamento crudele, inumano e degradante” dei prigionieri, comprese le molestie sessuali e la violenza. “In decine di casi… le guardie sono entrate in uno o due alla volta nelle celle e hanno picchiato brutalmente [i prigionieri] con i manganelli… le persone in carcere hanno anche riferito di aggressioni fisiche che includevano pugni, schiaffi e calci quando uscivano dalle loro celle o mentre venivano trasferiti in un’altra struttura, anche contro persone malate e disabili”, afferma il rapporto PHRI.

Persone entrate di recente in detenzione hanno raccontato che le guardie dell’IPS li hanno costretti a baciare la bandiera israeliana e chi si rifiutava veniva violentemente aggredito”.

Similmente a decine di rapporti redatti in precedenza da associazioni per i diritti dei prigionieri palestinesi e da esperti in diritti umani, il rapporto PHRI sottolinea che i modelli di abuso e tortura indicano che “non si tratta di episodi isolati di guardie ribelli, ma di modelli di violenza sistematica”.

Dopo il 7 ottobre vengono alla luce gli abusi

All’indomani degli attacchi di Hamas del 7 ottobre, mentre Israele iniziava la sua campagna militare su Gaza, un’altra campagna è partita nella Cisgiordania occupata. I raid militari israeliani, consueti eventi notturni nel territorio, sono diventati molto più frequenti.

Nel giro di poche settimane migliaia di palestinesi, compresi i lavoratori giornalieri di Gaza intrappolati [in Israele], sono stati arrestati nel cuore della notte. Con la stessa rapidità con cui la popolazione carceraria ha cominciato ad aumentare, hanno cominciato ad arrivare le testimonianze dei palestinesi di soldati israeliani violenti che picchiavano i fermati e le loro famiglie e saccheggiavano le case.

Allo stesso tempo ha iniziato ad emergere una tendenza inquietante. Sui social media hanno iniziato a circolare video e foto che mostravano le forze israeliane sottoporre detenuti palestinesi ad abusi fisici, sessuali e verbali. Le riprese sono state filmate e pubblicate online con orgoglio dagli stessi soldati.

Il 31 ottobre uno dei primi video di questo tipo ha iniziato a circolare sui social media.

Mostrava un gruppo di uomini palestinesi distesi a terra, bendati con mani e piedi legati, molti dei quali parzialmente o completamente nudi. Gli uomini venivano portati in giro, presi a calci e picchiati da soldati militari israeliani in uniforme. Alcuni uomini piangevano di dolore, altri giacevano inerti, i corpi nudi ammucchiati uno sopra l’altro.

L’allarmante video ha provocato un’onda d’indignazione all’interno della comunità palestinese. Molti utenti online hanno paragonato le scene inquietanti alle famigerate foto dei corpi ammucchiati dei prigionieri iracheni torturati dalle forze armate statunitensi nella prigione di Abu Ghraib in Iraq quasi 20 anni fa.

Sono emerse voci contrastanti su dove siano avvenute le torture: alcuni indicavano che avessero avuto luogo nella Cisgiordania occupata, mentre altri dicevano che fossero scene di palestinesi detenuti nelle aree fuori dalla Striscia di Gaza. Mondoweiss non ha potuto verificare il luogo esatto dei fatti. Tuttavia, due associazioni per i diritti dei prigionieri hanno verificato che si tratta di un video autentico, girato in Cisgiordania dopo il 7 ottobre.

Secondo quanto riportato dai media israeliani, gli uomini palestinesi torturati erano lavoratori della Cisgiordania arrestati nella zona delle colline a sud di Hebron dopo aver presumibilmente tentato di entrare in Israele senza permesso.

In una rara ammissione di colpa l’esercito israeliano ha affermato di stare indagando sull’incidente, dichiarando: “la condotta [dei soldati] che emerge da queste scene è grave e non corrisponde ai valori dell’IDF”.

Ma la montagna di prove di torture, abusi e molestie nei confronti dei detenuti palestinesi per mano delle forze israeliane accumulata negli ultimi mesi continua a contraddire chiaramente le dichiarazioni dell’esercito israeliano sui suoi “valori” e sulla moralità dei suoi soldati. .

Secondo gli ultimi dati di Addameer, un’organizzazione per i diritti dei prigionieri palestinesi con sede a Ramallah dal 7 ottobre, l’esercito israeliano ha rastrellato e arrestato più di 6.000 palestinesi.

Video e denunce di abusi fisici e torture hanno cominciato ad emergere già alla fine di ottobre ma le denunce non sono cessate e hanno continuato ad accumularsi sia in Cisgiordania che nella Striscia di Gaza. Mentre un gran numero di palestinesi vengono sottoposti a detenzione arbitraria, coloro che sono potuti uscire hanno condiviso varie testimonianze di derisioni e molestie sino alle percosse fisiche e alle aggressioni sessuali.

Dal 7 ottobre almeno otto prigionieri palestinesi sono morti nelle carceri israeliane. Le associazioni per i diritti umani sospettano fortemente che si tratti di crimini, anche se è impossibile confermarlo poiché Israele si rifiuta di rilasciare i loro corpi.

Questo è il momento più pericoloso e violento degli ultimi anni per essere arrestati in Cisgiordania”, ha detto a Mondoweiss Abdullah al-Zghari, portavoce dell’Associazione dei prigionieri palestinesi. “Loro [Israele] stanno arrestando tutti, persone di età diverse, giovani e anziani, bambini, donne, ragazze, ex prigionieri, tutti”.

È evidente dal modo in cui arrestano le persone, dal tipo di aggressioni e abusi a cui abbiamo assistito, che questa è una campagna di vendetta”, ha detto al-Zghari.

Stanno portando avanti la loro vendetta per quanto accaduto il 7 ottobre”.

In un rapporto approfondito di gennaio, Addameer ha dipinto un quadro simile, affermando che gli arresti di massa e l’intensificarsi della brutalità contro i prigionieri palestinesi in risposta ad atti di resistenza palestinese sono tattiche comuni utilizzate da Israele fin dall’inizio della sua occupazione.

Con il tempo, l’intensità della brutalità e degli arresti non fa che aumentare come forma di

punizione e come modo per sopprimere la resistenza, con l’obiettivo di controllare tutti gli aspetti della vita palestinese e punire un’intera società”, ha affermato Addameer.

Arresto arbitrario e abusi: “Sono stato picchiato per cent’anni della mia vita”

Comune a tutti i resoconti sulla campagna di arresti e incarcerazioni di massa di Israele delle organizzazioni per i diritti umani è la natura del tutto arbitraria con cui i palestinesi vengono presi di mira, arrestati e maltrattati.

Mentre Israele considera tutti i palestinesi sotto detenzione come “prigionieri di sicurezza”, quasi 3.500 dei circa 9.000 prigionieri sono detenuti nelle carceri israeliane senza essere mai stati accusati di un crimine o sottoposti a processo. Quel numero comprende persone comuni nonché attivisti, giornalisti e operatori per i diritti umani.

Altre centinaia di palestinesi arrestati ma poi rilasciati hanno raccontato di essere stati arbitrariamente fermati ai posti di blocco e successivamente arrestati e maltrattati fisicamente e verbalmente.

Questo è il caso del diciannovenne Mahmoud Dweik, un adolescente palestinese della città di Hebron nel sud della Cisgiordania occupata.

Il 4 novembre Dweik era in giro con i suoi amici per Hebron quando una jeep militare israeliana ha fermato la loro macchina. I soldati israeliani hanno iniziato a perquisire il veicolo e i telefoni dei ragazzi.

La perquisizione dei soldati ha portato alla luce prove sufficienti per arrestare i tre giovani: un bastone e un taglierino trovati in una cassetta degli attrezzi nel bagagliaio dell’auto e la foto di un posto di blocco israeliano sul telefono di Mahmoud, scattata più di un anno prima.

I soldati hanno poi portato Mahmoud e i suoi due amici in un accampamento militare in cima alla collina che domina la città di Hebron. E allora sono iniziate le violenze.

Circa 40 soldati, in gruppi, si sono alternati a picchiarci dall’inizio del nostro sequestro, dalle 19:00 fino alle 5 del mattino”, si legge in una testimonianza scritta da Mahmoud, condivisa con Mondoweiss da suo padre Badee. Il giovane adolescente l’ha descritta come una “festa di botte”.

“Sono stato picchiato [abbastanza] per cent’anni della mia vita”, ha detto Mahmoud, aggiungendo che i soldati hanno usato mani, piedi, fucili e bastoni per picchiare i ragazzi. Dopo circa otto ore di abusi i ragazzi sono stati portati in una stazione di polizia israeliana nell’insediamento illegale di Kiryat Arba, nel cuore della città vecchia di Hebron. I ragazzi hanno trascorso un’ora alla stazione di polizia prima di essere trasportati nuovamente al campo militare dove erano stati picchiati.

Abbiamo dormito per terra senza coperte o altro per proteggerci. Abbiamo semplicemente dormito all’aperto”, ha detto Mahmoud. Poche ore dopo, i ragazzi sono stati riportati alla stazione di polizia di Kiryat Arba. Ogni speranza di essere rilasciati e tornare a casa è stata delusa quando, poco dopo, i tre amici sono stati portati nella prigione militare di Ofer fuori Ramallah, nella Cisgiordania centrale.

Un viaggio che avrebbe dovuto durare due ore è stato tirato per le lunghe sino a più di 12 ore, ha detto Mahmoud, descrivendo il trasporto in “gabbie” all’interno di veicoli militari israeliani, dove stavano seduti su massacranti panche di ferro. Non è stato dato loro alcun cibo e l’acqua è stata fornita solo una volta.

Quando è arrivato in prigione è stato spogliato dei suoi vestiti e perquisito dalle guardie carcerarie, che lo hanno costretto a “piegarsi su e giù più volte con la faccia rivolta al muro”, ha detto Mahmoud.

Alla fine Mahmoud è stato accusato di “possesso di materiale sul telefono che minaccia la sicurezza dello Stato di Israele”. Il materiale in questione era la foto del posto di blocco militare che Mahmoud aveva scattato con il suo cellulare più di un anno e mezzo prima. Dopo 12 giorni di prigione, è stato rilasciato dietro pagamento di una cauzione di 1.000 shekel (250 euro).

Mahmoud dice di essere stato rilasciato a un posto di blocco vicino alla città di Ramallah nel cuore della notte senza telefono, con indosso solo i boxer e un paio di pantaloni da carcerato troppo grandi.

Grazie alla gentilezza di sconosciuti Mahmoud si è potuto vestire e prendere in prestito un telefono per chiamare suo cugino che viveva a Ramallah. Ha trascorso la notte a casa di suo cugino prima di tornare a Hebron il giorno successivo dove si è ricongiunto con i genitori.

“Sono stati i giorni più infernali della mia vita”, ha detto.

Di tendenza sui social media: i soldati documentano i propri abusi

Quando un palestinese viene arrestato dalle forze israeliane spesso passano diversi giorni prima che la sua famiglia venga a conoscenza di dove e in quali condizioni il congiunto è detenuto.

Questo rimane un dato di fatto, ma dal 7 ottobre sempre più famiglie palestinesi sono venute ad avere notizie dei loro cari attraverso i social media, imbattendosi in foto e video di membri della loro famiglia degradati, torturati e umiliati, registrati e pubblicati dai soldati israeliani.

Wajd Jawabreh, 33 anni, è madre di tre ragazze di età inferiore ai 10 anni e residente in un campo profughi nella zona di Betlemme. Il 31 ottobre Jawabreh era a casa e dormiva con suo marito, Khader Lutfi e le figlie, quando le forze israeliane hanno fatto irruzione in casa e arrestato suo marito.

Circa 30 minuti dopo il suo arresto a Wajd, già sconvolta, è stato inviato il link a un video sui social media. Ciò che ha visto è stato un colpo al cuore.

Nel video si vedeva suo marito, Khader, bendato e con le mani legate, in ginocchio davanti a un soldato israeliano, e si può sentire il soldato, che sembra essere quello che ha filmato il video, urlare imprecazioni a Khader, dicendo in arabo: “Buongiorno stronzo”, mentre gli dà un calcio nello stomaco.

Sono rimasta scioccata e sopraffatta. Mi ha spezzato il cuore. Non riuscivo a smettere di piangere”, ha detto Wajd a Mondoweiss a dicembre, più di un mese dopo l’arresto di Khader. “È davvero difficile vedere la persona con cui hai condiviso la vita in quelle condizioni.”

Wajd ha detto a Mondoweiss che il video è stato “girato con uno scopo”, ovvero umiliare suo marito, che è molto stimato nella loro comunità. “Da quando ho visto il video fino ad ora ho cercato di non lasciare che il video spezzasse la mia determinazione, perché è ciò che vuole l’occupazione”.

Il video di Khader è stato ampiamente diffuso sui social media, accumulando centinaia di migliaia di visualizzazioni. Wajd ha detto che ha cercato più di ogni altra cosa di assicurarsi che le sue figlie non lo vedessero mai, e che ogni nuova visione e condivisione del video la feriva ancora di più.

Non voglio che mio marito venga visto o ricordato in questo modo. Voglio che venga ricordato come la persona gentile e forte che è”, ha detto.

L’umiliazione e la vergogna che Wajd ha provato guardando il video di suo marito picchiato e umiliato sono proprio l’obiettivo di quei contenuti, dicono le associazioni per i diritti dei palestinesi.

Gli israeliani stanno cercando di umiliare i prigionieri e i detenuti dopo quello che è successo a Gaza [il 7 ottobre]. Li stanno mettendo alla prova in modi disgustosi, li spogliano dei loro vestiti, li picchiano nudi a terra, li rilasciano senza vestiti in modo che provino vergogna e umiliazione nelle loro comunità”, ha detto Abdullah al-Zghari a Mondoweiss.

Anche questo fa parte della tortura e della paura collettive instaurate dall’occupazione nella popolazione palestinese: far sì che le persone abbiano paura di essere arrestate. Questa è la prova di quanto ci disumanizzino e non ci considerino come esseri umani”, ha detto.

Torture e violenze sessuali nelle carceri

Se gli abusi sui detenuti palestinesi iniziano al momento dell’arresto, i rapporti delle associazioni per i diritti umani e degli stessi prigionieri indicano che alcune delle peggiori torture e maltrattamenti avvengono mentre i palestinesi sono chiusi nelle carceri e nei centri di detenzione israeliani.

Testimonianze strazianti sono ripetutamente emerse da parte dei palestinesi di Gaza che sono stati imprigionati durante l’invasione di terra da parte di Israele, con i detenuti che hanno raccontato di essersi visti negare l’accesso al cibo, all’acqua e ai bagni. Video e foto hanno mostrato segni profondi e tagli sui polsi e le caviglie dei detenuti di Gaza rilasciati, che hanno affermato di essere stati legati per giorni senza alcun sollievo o riposo. In alcuni casi, secondo quanto riferito, le forze israeliane hanno utilizzato i cani dell’esercito per minacciare i detenuti.

A gennaio, durante una visita a Gaza, Ajith Sunghay, capo dell’Ufficio delle Nazioni Unite per i diritti umani nei territori palestinesi occupati, ha dichiarato di aver visitato un certo numero di detenuti palestinesi che erano stati detenuti “in luoghi sconosciuti” per un periodo compreso tra 30 e 55 giorni.

Hanno raccontato di essere stati picchiati, umiliati, sottoposti a maltrattamenti e a ciò che può costituire tortura. Hanno riferito di essere stati bendati per lunghi periodi, alcuni di loro per diversi giorni consecutivi”, ha detto Sunghay. “Un uomo ha detto di aver avuto accesso a una doccia solo una volta durante i 55 giorni di detenzione. Ci sono segnalazioni di uomini che sono stati successivamente rilasciati ma solo in mutande e senza indumenti adeguati per questo clima freddo”.

Si stima che circa 600 palestinesi di Gaza siano detenuti nelle carceri israeliane. Di contro altre centinaia sono trattenute nei campi di detenzione israeliani, anche se il numero esatto di quest’ultima categoria è sconosciuto. Nei campi di detenzione Haaretz ha riferito che i prigionieri dormono praticamente nudi ed esposti al rigido freddo invernale, sono costantemente bendati e sottoposti a continue torture quasi ad ogni ora del giorno.

Nel dicembre 2023, è stato riferito, un numero non dichiarato di detenuti di Gaza “è morto” all’interno dei campi di detenzione israeliani. Tali rapporti non includevano gli almeno altri otto palestinesi non originari di Gaza che sono morti nelle carceri israeliane dal 7 ottobre.

Mentre i prigionieri di Gaza stanno probabilmente affrontando torture e abusi estremi a causa della loro identità, pratiche simili di tortura e abusi di ogni tipo, inclusa la violenza sessuale, sono stati impiegati anche contro palestinesi provenienti da altre parti dei territori occupati che sono detenuti nelle carceri israeliane.

Citando un avvocato palestinese che ha visitato i detenuti palestinesi ogni settimana dal 7 ottobre Amnesty International ha affermato: “Ai detenuti palestinesi è stato negato il diritto all’attività fisica all’aperto e una delle forme di umiliazione a cui sono sottoposti durante il conteggio dei detenuti è di essere costretti a inginocchiarsi sul pavimento.”

L’avvocato Hassan Abadi ha aggiunto che ai palestinesi detenuti “sono stati confiscati e talvolta bruciati tutti gli effetti personali inclusi libri, diari, lettere, vestiti, cibo e altri oggetti. Le autorità carcerarie hanno confiscato gli assorbenti alle detenute palestinesi nel carcere di al-Damon”. Secondo Abadi, una cliente da lui difesa gli ha detto che quando è stata arrestata e bendata un ufficiale israeliano “l’ha minacciata di stupro”.

Nel suo rapporto di gennaio, Addameer ha dettagliato diversi casi di minacce sessuali e violenze da parte delle forze israeliane contro uomini e donne palestinesi in detenzione. L’associazione ha affermato che tale violenza è strutturalmente impiegata dall’occupazione israeliana che è “ben consapevole dello stigma nei confronti degli uomini e delle donne palestinesi e dell’importanza dell’integrità e dell’onore del loro corpo. Ciò è particolarmente importante nelle società arabe”.

Molte testimonianze provenienti da donne vittime includono aspetti di molestie sessuali, minacce di stupro e perquisizioni forzate delle donne all’interno delle carceri e spesso persino

davanti ai propri figli durante le intrusioni domestiche. Questi sono tutti metodi di coercizione attuati per far sentire le donne impotenti e dare all’occupazione un senso di controllo sulle donne e sul loro corpo. È un abuso di potere e di autorità e gioca sulla paura delle vittime”, ha affermato l’associazione.

Addameer ha segnalato il caso di un prigioniero maschio di Gerusalemme, denominato “O.J.” nel rapporto, il quale afferma di essere stato sottoposto ad una perquisizione durante la quale gli agenti israeliani “hanno accarezzato ripetutamente le sue parti intime con la scusa di una perquisizione approfondita. Una volta denudato lo avrebbero fatto sedere e alzarsi più volte. Inoltre, mentre era nudo e veniva perquisito, l’ambiente in cui era tenuto aveva finestre senza vetri, così che il vento freddo entrava nella stanza.”

In un altro caso documentato da Adammeer, le forze israeliane hanno fatto irruzione nella casa di una donna a Gerusalemme, l’hanno minacciata di stupro, le hanno sputato in faccia e l’hanno costretta a spogliare del tutto la sua nipotina appena nata di due settimane.

Questi atti di costrizione di uomini e donne a denudarsi toccandoli in modo inappropriato con la scusa della perquisizione di sicurezza sono compiuti con l’intento di mettere in imbarazzo e molestare sessualmente uomini e donne palestinesi”, ha detto Addameer.

Nel rapporto di Medici per i Diritti Umani, un prigioniero di nome “A.G.” che è stato detenuto nella prigione israeliana di Ktzi’ot, ha detto che le forze speciali israeliane sono entrate nella loro cella e hanno picchiato tutti, urlando insulti sessualmente espliciti tra cui “voi puttane”, “vi scoperemo tutti”, “scoperemo le vostre sorelle e mogli”, ecc. A.G. è stato poi portato in un bagno dove le forze israeliane urinavano su di loro.

A.G. ha anche descritto dettagliatamente episodi di perquisizioni violente, in cui le guardie carcerarie “bloccavano insieme individui nudi e infilavano un dispositivo di ricerca in alluminio nelle natiche. In un caso, le guardie hanno fatto passare una tessera magnetica fra le natiche di una persona. Ciò è avvenuto davanti agli altri detenuti e alle guardie, che hanno espresso il loro divertimento”.

Con il pretesto della guerra a Gaza, il Ministero della Sicurezza Nazionale, il suo ministro e il Ministero della Difesa, con il sostegno attivo e passivo di altri membri e ministri della Knesset, hanno promosso abusi senza precedenti dei diritti dei palestinesi in custodia militare e in detenzione. ” conclude il rapporto PHRI.

Lo Stato ha ripetutamente insistito sul fatto che si tratta di misure necessarie adottate nell’ambito delle ordinanze di emergenza per mantenere la sicurezza nazionale. Eppure, in realtà, queste misure violano il diritto locale e internazionale, nonché i trattati internazionali”.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)