I bulldozer dei coloni abbattono negozi palestinesi nella Città Vecchia di Hebron

Basil Adra e Yuval Abraham 

1 agosto 2022, +972Magazine

Per vent’anni i coloni hanno saccheggiato e bruciato negozi palestinesi chiusi dall’esercito israeliano. Ora li stanno abbattendo per espandere una colonia.

Tareq al-Kiyal aveva una volta un negozio nella Città Vecchia di Hebron. Per più di 20 anni gli è stato impedito di accedervi dopo che l’esercito ne ha ordinato la chiusura e proibito ai palestinesi di entrare nell’area. Ora è in rovina: il mese scorso un colono israeliano ha distrutto il negozio con un bulldozer.

Il negozio di Al-Kiyal non è l’unico; il 6 luglio i coloni hanno distrutto quattro negozi palestinesi che l’esercito israeliano aveva inizialmente chiuso in seguito al massacro della moschea di Ibrahimi nel 1994, quando un colono israeliano uccise a colpi di arma da fuoco 29 fedeli musulmani. Sette anni dopo, al culmine della Seconda Intifada, l’esercito ha emesso un ordine formale di chiusura. Secondo i residenti palestinesi locali, anche altri due negozi sono stati parzialmente distrutti dai coloni.

I negozi si trovavano nell’area nota come mercato di Kiyal (detto anche “mercato dei cammelli”), a pochi metri dal complesso della colonia di Avraham Avinu, nel cuore di Hebron. In passato, i proprietari dei negozi palestinesi vendevano dolci, farina e formaggi. “Era la principale fonte di reddito per la mia estesa famiglia”, ha detto al-Kiyal. Abbiamo circa 20 negozi e magazzini in quest’area”.

Un funzionario dell’Amministrazione Civile – il ramo dell’esercito israeliano responsabile della vita quotidiana dei palestinesi nella Cisgiordania occupata – ha definito le azioni dei coloni “lavori di pulizia”, eseguiti secondo lui “senza autorizzazione e senza previo coordinamento”. Il portavoce dell’Amministrazione Civile ha affermato che, dopo l’intervento dell’esercito, “i lavori sono stati immediatamente sospesi, senza alcun danno alle cose”.

Ma la documentazione dei palestinesi nel giorno delle demolizioni mostra il bulldozer in azione e una visita al sito due settimane fa ha rivelato che gli edifici erano stati notevolmente danneggiati. “Nulla si muove nella Città Vecchia – e certamente nessun bulldozer entra e distrugge gli edifici – senza il via libera dell’esercito”, dice al-Kiyal.

Dalla Seconda Intifada, circa 2.500 negozi palestinesi sono stati chiusi nell’area conosciuta come H2, la parte del centro di Hebron sotto il controllo civile e militare israeliano, abitata da circa 35.000 palestinesi. Alcuni negozi sono stati chiusi su ordine militare, mentre altri sono stati abbandonati dai proprietari a causa delle severe restrizioni imposte dall’esercito alla circolazione dei palestinesi nell’area.

Quello che era il centro commerciale della Cisgiordania meridionale è diventato una città fantasma, comprese diverse strade quasi totalmente interdette ai palestinesi. Circa 800 coloni ebrei vivono nell’area sotto la piena protezione di un analogo numero di soldati e beneficiando dei diritti civili israeliani, mentre i loro vicini palestinesi vivono sotto il regolamento militare.

“In passato c’era lì un vivace mercato commerciale”, rammenta al-Kiyal. “Nel 2001 i negozi della mia famiglia sono stati chiusi su ordine militare. Negli anni successivi, i coloni hanno cercato di rimuovere le porte e trasformare il posto in un parcheggio per le loro auto. Ora hanno semplicemente distrutto i nostri negozi”. I familiari hanno sporto denuncia alla polizia, che ha precisato che “al ricevimento della denuncia è stata aperta un’indagine, ora in fase iniziale, nell’ambito della quale saranno svolte tutte le azioni necessarie per acquisire la verità.”

“L’obiettivo è ripulire la zona dai palestinesi”

Danneggiare gli edifici palestinesi chiusi non è un fenomeno nuovo. Hagit Ofran, direttore del programma Peace Now’s Settlement Watch [Osservatorio sulle colonie di Peace Now, ONG di patrocinio liberale e attivismo, ndt.] che monitora e fa campagne contro l’edilizia israeliana nella Cisgiordania occupata, ha descritto come ci si sente a camminare tra questi negozi in strade riservate solo agli ebrei: “Ci sono negozi dove sbircio dentro e vedo un ristorante con un calendario alla parete dove l’anno è ancora il 2001. Le sedie sono tirate su come si farebbe prima di pulire i pavimenti a fine giornata. Ci sono ancora le ricevute dei clienti sul tavolo.

“Un anziano palestinese, che aveva un negozio dove vendeva olio, mi ha detto che non è ancora in grado di entrarvi per svuotarlo della sua attrezzatura”, continua Ofran. “Ad oggi ha ancora dei costosi macchinari lì dentro.”

I coloni iniziarono a fare irruzione in questi negozi dopo la loro chiusura in seguito al massacro della moschea Ibrahimi, e soprattutto durante la Seconda Intifada. “Hanno fatto dei buchi nei muri e sono andati negozio dopo negozio, attraverso i muri, saccheggiando”, ha spiegato Ofran. “Ancora oggi, di tanto in tanto, irrompono in un altro negozio e prendono ciò che vi è rimasto.

Alcuni negozi sono diventati spazi ricreativi e in altri ci sono persone che oggi ci vivono. Hanno semplicemente preso possesso. Molti dei negozi sono diventati magazzini dei coloni. Vedo all’interno materassi, attrezzi da giardino e tavoli.”

Tawfiq Jahshan è direttore dell’ufficio legale del Comitato per la Costruzione di Hebron, un’organizzazione palestinese che lavora per lo sviluppo economico della Città Vecchia e la documentazione delle violazioni dei diritti umani nell’area. Ha detto a +972 che i palestinesi sul posto hanno chiamato la polizia mentre i coloni stavano distruggendo gli edifici. “Ci è stato detto al telefono che i coloni si muovevano per conto proprio, senza alcun collegamento con l’esercito, e che sarebbero andati ad arrestarli. E dopo infatti le demolizioni si sono interrotte e abbiamo sporto denuncia alla polizia”.

Secondo Jahshan, durante la Seconda Intifada l’esercito ha emesso 512 ordini di chiusura presumibilmente temporanea per i negozi nell’area di proprietà palestinese. Nella maggior parte dei casi, però, i titolari dei negozi abitano nelle vicinanze e aspettano ancora di riaprirli.

“Gli ordini di chiusura sono stati emessi con il pretesto della sicurezza, ma quello che è successo mostra che il vero obiettivo è ripulire l’area dai palestinesi e trasferire i terreni nelle mani dei coloni”, dice Jahshan. “I negozi che sono stati distrutti si trovano a 30-40 metri dalla colonia di Avraham Avinu. Li hanno distrutti in modo da poter espandere ulteriormente [la colonia]”.

“Hanno fatto di questo posto un museo dell’apartheid”

Secondo un rapporto redatto dall’Amministrazione Civile nel 2001 sul tema “Violazioni della legge – Ebrei” nella città di Hebron, i coloni agiscono secondo un metodo “sistematico e pianificato” per forzare gli edifici e i negozi palestinesi chiusi da ordini militari. In una serie di diapositive intitolate “Il Metodo”, vengono descritte tre fasi: i leader dei coloni “identificano un obiettivo” – un edificio o un negozio di proprietà palestinese; i giovani coloni irrompono, saccheggiano o danno fuoco alle attrezzature all’interno ed infine entrano nel “bersaglio” attraverso un foro praticato nel muro interno, attraverso un cortile, o attraverso uno stretto passaggio, con lo scopo di stabilirvisi. La presentazione contiene un lungo elenco di negozi di proprietà palestinese che i coloni hanno bruciato o saccheggiato in questo modo.

Nell’ultima diapositiva, l’Amministrazione Civile esprime preoccupazione per il danno all’immagine di Israele a seguito di queste azioni. “Le attività ebraiche a Hebron qui descritte, sono rappresentate, anche se in modo errato, come se fossero svolte sotto la copertura del governo israeliano”, si legge nella presentazione. “A Hebron lo Stato di Israele si presenta molto male rispetto allo stato di diritto.”

Imad Abu Shamsiyah, la cui casa si trova nella Città Vecchia di Hebron, ha documentato nel 2016 l’esecuzione di un aggressore palestinese disarmato da parte del soldato israeliano Elor Azaria. Da allora, Abu Shamsiyah è stato vittima di continue vessazioni da parte sia dei coloni che delle forze di sicurezza israeliane.

Oggi, Abu Shamsiyah guida un’organizzazione di volontariato chiamata Human Rights Defenders, i cui volontari documentano la dura realtà che li circonda e la postano su Facebook, compreso il video dei coloni che hanno demolito i negozi palestinesi alcune settimane fa. In un altro recente video caricato sulla pagina Facebook, si possono vedere coloni che prendono possesso di una casa palestinese nella Città Vecchia.

Mentre Abu Shamsiyah parlava dei negozi distrutti, i soldati stavano trattenendo un ragazzo palestinese al vicino posto di blocco. Nell’area H2, che rappresenta circa il 20% dell’area totale di Hebron, l’esercito israeliano ha allestito circa 20 posti di blocco, rendendovi i movimenti dei palestinesi difficili al punto da essere quasi impossibili. Alcuni giovani si sono avvicinati ai soldati e Abu Shamsiyah ha gridato loro di stare alla larga.

Spiega che i soldati consentono l’ingresso nell’area solo ai palestinesi di un elenco che si limita ai proprietari di appartamenti. “I miei genitori, per esempio, non possono venire a trovarmi. Non possono entrare nel quartiere passando per il posto di blocco. Sono fuori lista. Anche mio figlio non può venire a trovarmi. È stato arrestato più volte, quindi il suo nome è stato cancellato.

La distruzione dei negozi è una piccola parte di una grande ingiustizia”, continua Abu Shamsiyah. “Una volta, questo era il centro della città. Ricordo come prendevamo i taxi da qui per Jaffa, Yatta e Gaza. Ora è tutto deserto. Hanno trasformato questo posto in un museo dell’apartheid”.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




In prima linea nell’umiliare i palestinesi

Amira Hass

2 agosto 2022 – Haaretz opinion

Poco dopo le tre del mattino squilla il telefono nella sala operativa dell’Ufficio di Coordinamento e Collegamento per la Sicurezza palestinese. L’ufficiale in servizio ascolta assonnato la voce del suo omologo, un assonnato soldato dell’Amministrazione Civile israeliana, che annuncia che l’esercito sta per fare irruzione in questa o quella località palestinese. Ciò significa che tutti i poliziotti palestinesi devono rientrare immediatamente nei propri uffici. Nel gergo interno dell’Amministrazione Civile, questo compito è noto come “ripiegamento SHOPIM”, con SHOPIM che è l’acronimo ebraico di “poliziotti palestinesi”. L’avviso telefonico e il “ripiegamento” sono una routine che entrambe le parti si assicurano di rispettare, perché “nessuno vuole che una parte spari contro l’altra”, come ha detto ad Haaretz un ex soldato dell’unità.

Ricorda che il lasso di tempo concesso ai palestinesi per ripiegare” è di circa mezz’ora. Un’ex soldatessa dell’unità ricorda 45 minuti. Un altro veterano di sesso maschile ricorda come i palestinesi si sbrigassero ad obbedire; lei invece ricorda il loro tergiversare. Tutti ricordano il divieto di rivelare l’obiettivo e lo scopo (arresto, mappatura, ricerca di armi, confisca di fondi, dimostrazione di “autorevolezza”) dell’incursione.

Questi sono tre fra le decine di ex soldati che hanno prestato servizio nell’Amministrazione Civile e hanno testimoniato a proposito dell’unità militare a Breaking the Silence [ONG israeliana che raccoglie le testimonianze da parte di militari dell’esercito israeliano sulla quotidianità delle loro esperienze nei territori palestinesi occupati, ndt.] nel loro nuovo opuscolo, “Military Rule”, pubblicato lunedì. Questa organizzazione di protesta continua ad analizzare meticolosamente il regime militare sui palestinesi, smascherando la menzogna della “sicurezza” e la falsità della “moralità“.

I soldati in servizio non parlavano ai loro colleghi palestinesi di “ripiegamento di poliziotti” quanto piuttosto del fatto che c’era “un’attività” in corso. Nel gergo delle forze di sicurezza palestinesi, la sparizione dei poliziotti dalle strade a causa di un imminente incursione è chiamata zero-zero”. Una fonte della sicurezza palestinese non conosceva il termine “ripiegamento SHOPIM” e ha detto che era umiliante. Ma la realtà – il fatto cioè che i poliziotti palestinesi si affrettino a nascondersi nelle loro roccaforti poco prima che i soldati israeliani irrompano nella casa di una famiglia puntando fucili contro donne e bambini appena svegliati – è ancora più umiliante. Mortalmente umiliante è vietare alla sicurezza palestinese di difendere il proprio popolo non solo dai soldati, ma anche dai civili israeliani che lo attaccano nei loro campi e frutteti, a casa e quando sono fuori a pascolare le loro mandrie. E’ umiliante il rispetto di questo divieto da parte dell’Autorità Nazionale Palestinese.

Ed è umiliante anche il comportamento opposto rispetto al ripiegamento: quando la parte palestinese ha bisogno di chiedere l’approvazione israeliana affinché i suoi poliziotti si rechino da una determinata città a un villaggio vicino che si trova nell’Area B [sotto controllo congiunto israeliano e palestinese, ndt.], o perché si trovano su una strada che attraversa l’Area C [sotto controllo esclusivo israeliano, ndt.] Non fanno una mossa senza che glielo diciamo noi. … Anche se non ci sono coloni di mezzo, [anche se] vanno senza uniformi, senza armi, se devono indagare solo su un incidente d’auto: devono comunque coordinarsi con la squadra”, si afferma in una delle testimonianze del libretto.

Il fattore dell’umiliazione altro strumento del regime ostile di una giunta militare si ritrova sia nel contesto che tra le righe del libretto: nell’arabo stentato parlato dai soldati presso agli sportelli per i palestinesi, nel trattamento sprezzante anche verso coloro chi e hanno la stessa età dei loro nonni e nonne, nell’assegnare acqua ai coloni a spese di una comunità palestinese, nella revoca su larga scala dei permessi di movimento. L’umiliazione dell’altro è parte inseparabile della violenza burocratica assassina dell’anima, del tempo e della speranza che noi ebrei israeliani, espropriando un popolo della sua terra, abbiamo trasformato in una forma d’arte. Usiamo il potere degli editti che noi abbiamo scritto, le leggi, le procedure e le sentenze di onorevoli giudici per abusare continuamente delle altre persone. L’Amministrazione Civile non ha inventato il sistema, ma è la punta di diamante e l’arma di questa violenza burocratica.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Kafr Qasim non fu solo un massacro, ma parte di un piano di pulizia etnica

Motasem A Dalloul

1 agosto 2022-Middle East Monitor

Venerdì gli archivi delle forze di occupazione israeliane hanno rilasciato documenti giudiziari relativi al processo contro i soldati israeliani che massacrarono brutalmente 49 palestinesi il 29 ottobre 1956. Il massacro ebbe luogo nella città palestinese di Kafr Qasem.

Era il primo giorno dell’invasione israeliana, britannica e francese del Sinai, avvenuta in risposta alla chiusura del Canale di Suez da parte dell’Egitto. Israele impose il coprifuoco notturno sulla maggior parte delle aree ad alta popolazione palestinese (araba) in Israele.

Il defunto generale di brigata, Issachar Shadmi era il comandante della brigata dell’esercito israeliano che occupava Kafr Qasem, situata al centro della Palestina recentemente occupata che divenne Israele, ovverosia vicino alla linea dell’armistizio con la Giordania, che allora controllava la Cisgiordania. Ordinò che quel giorno il coprifuoco iniziasse prima e impose ai suoi ufficiali di applicarlo rigorosamente

I contadini palestinesi o arabi, che si trovavano nelle loro fattorie fuori dal villaggio, tornarono a casa senza sapere nulla degli aggiornamenti relativi al coprifuoco. Gli agenti di polizia di frontiera comandati da Shadmi aprirono senza pietà il fuoco contro i contadini disarmati, uccidendo 49 persone, tra cui anziani, donne e bambini

Il massacro fu ampiamente condannato, anche da funzionari del governo di occupazione israeliano, che mandarono Shadmi e gli altri ufficiali coinvolti nel massacro a processo e li condannarono tutti. Gli ufficiali trascorsero un periodo molto breve in prigione prima di ottenere la grazia presidenziale.

Per quanto riguarda Shadmi, all’epoca il più alto ufficiale della zona, i giudici gli ordinarono di pagare una multa di 10 centesimi, secondo Haaretz, per aver modificato il coprifuoco senza l’approvazione del governatore militare. I giudici stabilirono che lo aveva fatto “in buona fede”. In questo modo fu chiusa la questione della strage, ma gli atti del tribunale rivelati venerdì hanno esposto nuovi fatti al riguardo.

La trascrizione [della testimonianza, ndt] di Haim Levy, che era un comandante di compagnia, mostra che c’era un ordine esplicito di sparare ai palestinesi che avessero infranto il coprifuoco senza sapere del cambiamento dell’ora di inizio. Levy affermò anche, secondo i documenti del tribunale, che il comandante di battaglione, Shmuel Malinki gli disse: “È auspicabile che ci sia un certo numero di vittime”.

Milinki disse alla corte di aver risposto ai soldati, che gli chiedevano come avrebbero dovuto comportarsi con i palestinesi che non erano a conoscenza del cambiamento dei tempi del coprifuoco, che avrebbero dovuto ucciderli. “Allah yerhamu”, disse in arabo. Significa: “Che Dio abbia pietà di loro”. Ciò dimostra che prima del massacro erano stati predisposti dei piani per uccidere i palestinesi.

Per dimostrare che l’uccisione intenzionale di palestinesi era un ordine importante legato alla situazione a Kafr Qasim il comandante Gabriel Dahan affermò, secondo il Jerusalem Post, che Melinki gli disse “mettiamo da parte i sentimenti, è meglio avere qualche morto perché ci sia pace nella zona”.

Durante le udienze i soldati israeliani menzionarono, più volte, un piano chiamato “Hafarferet” (“Talpa”), che era stato preparato per essere attuato durante l’invasione del Sinai, ma Israele volle che iniziasse “spontaneamente”, per non risultare, come l’invasione dell’Egitto, ufficialmente avviato dal suo esercito.

Levy affermò che come parte di questa operazione c’erano misure intese a spostare i palestinesi dalle loro case, inclusa l’imposizione del coprifuoco, la confisca di proprietà e lo spostamento di interi villaggi da un luogo all’altro. Secondo il Jerusalem Post, Levy disse che, nel caso di Kafr Qasim, “l’intera popolazione del villaggio doveva essere trasferita a Tira”.

L’obiettivo non era solo quello di spostare i palestinesi da un’area a un’altra all’interno della Palestina o di Israele, ma anche di spostarli fuori dal paese. Levy affermò che alle forze di occupazione israeliane fu detto “di non mettere vedette e posti di blocco sul lato orientale [di Kafr Qasim] in modo che se gli arabi avessero deciso di fuggire, avrebbero potuto oltrepassare col consenso il confine giordano [Linea dell’armistizio]”.

Levy disse anche di aver capito che c’era un legame diretto tra sparare ai palestinesi che avevano violato il coprifuoco e cambiare la composizione demografica di Israele. “Il collegamento è che, di conseguenza, parte della popolazione si sarebbe spaventata e avrebbe deciso che era meglio vivere dall’altra parte. È così che lo interpreto”, disse ai giudici, secondo l’agenzia di stampa Wafa.

Tutti questi fatti provano che il massacro di Kafr Qasim faceva parte di un’operazione di pulizia etnica e che i successivi procedimenti giudiziari, tenuti segreti per più di sei decenni, furono solo un tentativo di mascherare i crimini dell’esercito di occupazione israeliano.

Questo è normale in Israele, che ha una lunga storia di queste ingiustizie. Il tribunale israeliano ritenne che Shadmi, che fu multato di soli 10 centesimi per aver brutalmente comandato il massacro di 49 palestinesi, avesse agito “in buona fede”.

Il suo collega alla Kadoorie Agricultural High School, Yitzhak Rabin, la cui sanguinosa storia include l’uccisione di circa 1.000 prigionieri egiziani quando era comandante in capo durante la guerra del 1967, è stato nominato vincitore del Premio Nobel per la Pace solo per aver affermato di aver raggiunto un accordo di pace con i palestinesi.

Moshe Dayan, Menachem Begin, Yitzhak Shamir e altri hanno massacrato palestinesi e versato molto sangue palestinese e israeliani e non israeliani li chiamano eroi. Anche i leader israeliani di oggi stanno facendo lo stesso. L’attuale ministro della Difesa israeliano, Benny Gantz, orgoglioso di aver bombardato Gaza [riportandola fino, ndt] all’età della pietra, è ancora descritto come una “colomba della pace”.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la linea editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Testimoni sostengono che il sedicenne palestinese è stato ucciso dal fuoco dei coloni israeliani

Mariam Barghouti  

1 agosto 2022 – Mondoweiss

Testimoni oculari dicono che Amjad Abu Alia è stato ucciso dal fuoco proveniente dal luogo in cui si trovavano dei coloni israeliani ripresi mentre sparavano e tiravano pietre contro i palestinesi nella zona.

Sabato 30 luglio la città di al-Mughayyir ha reso l’estremo omaggio a uno dei suoi figli, Amjad Nashaat Abu Alia, ucciso il giorno precedente, venerdì 29 luglio. 

Abu Aliaa aveva solo sedici anni quando è stato ucciso mentre cercava di sfuggire a coloni e soldati israeliani che stavano sparando proiettili veri e tirando pietre contro manifestanti palestinesi disarmati nel paesino del distretto di Ramallah, nella Cisgiordania occupata. 

Abu Alia stava partecipando a una protesta con abitanti della cittadina e attivisti che provenivano da fuori nel tentativo di contenere l’escalation, nel corso delle ultime settimane, di attacchi da parte dei coloni contro il loro villaggio.

I manifestanti disarmati che sventolavano bandiere palestinesi e gridavano slogan contro l’espansione degli insediamenti sono stati accolti da coloni israeliani provenienti dal vicino avamposto illegale di Adei-Ad. L’esercito israeliano ha anche lanciato lacrimogeni e sparato pallottole di gomma contro i dimostranti. 

Il colono armato insieme al soldato si confronta con un palestinese nel giorno dell’uccisione del ragazzo sedicenne. Foto :Hadi Sabarna

Secondo i testimoni oculari anche parecchi coloni israeliani armati hanno attaccato manifestanti e giornalisti e tirato pietre contro di loro mentre i soldati stavano a guardare senza intervenire. 

La violenza dei coloni insieme a quella dell’esercito ha aggravato lo scontro e i giovani palestinesi del villaggio hanno risposto lanciando pietre. Le riprese video dei giornalisti presenti mostrano i soldati israeliani che sparano proiettili veri contro i dimostranti mentre i coloni tirano pietre verso i palestinesi.

Testimoni oculari e giornalisti hanno detto a Mondoweiss che anche vari coloni armati hanno sparato proiettili veri verso i palestinesi. Resta da confermare se la pallottola che ha ucciso Abu Alia provenisse dai soldati israeliani o dai coloni. 

Dopo essere stato colpito al petto da proiettili veri, Abu Alia è stato portato in ospedale dove poco dopo ne è stata dichiarata la morte. Almeno due altri palestinesi sono stati feriti con proiettili veri: uno, colpito alla coscia, è in condizioni critiche. Tre altri sono stati colpiti da pallottole di acciaio ricoperte di gomma.

Laila Ghannam, governatrice di Ramallah, ha detto ai giornalisti: “Noi non abbiamo ancora indagato a fondo, ma i testimoni affermano che lo sparo che ha colpito il ragazzo proveniva dalla parte dei coloni, non da quella dell’esercito.”

Secondo Haaretz l’esercito israeliano ha ammesso di essere “a conoscenza della denuncia” dell’uccisione di un palestinese, ma non ha approfondito. Questa è una posizione consueta dell’esercito israeliano. Abu Alia è il diciassettesimo minore palestinese ucciso dalla violenza israeliana dall’inizio di quest’anno. 

Coloni armati di pistole e M16: ‘È stato spaventoso’

Hadi Sabarna, un fotogiornalista palestinese sulla scena nel momento in cui Abu Alia è stato ucciso, ha detto a Mondoweiss che sia i soldati israeliani che i coloni hanno sparato verso il ragazzo. 

È stato spaventoso, c’era una giovane colona vestita casual con un telefonino in una mano e una pistola nell’altra.”

la colona armata di pistola .Foto : Hadi Sabarna

C’erano anche coloni con i loro M-16 [fucili d’assalto dell’esercito USA]. Era come se l’esercito li stesse addestrando a sparare e attaccare e intervenisse solo a favore dei coloni,” continua Sabarna.  

Maher Naasan, un attivista palestinese presente durante la protesta, anche lui ferito al petto da un proiettile ricoperto di gomma, ha detto a Mondoweiss che “il ragazzo [Abu Alia] era stato preso di mira dai coloni. Non costituiva in alcun modo una minaccia alle loro vite.”

Naasan aggiunge che i coloni hanno provocato l’escalation della situazione fin dall’inizio, quando sono apparsi alla protesta armati di pistole e hanno cominciato ad attaccare i manifestanti palestinesi.  

Sabarna spiega che non è stato solo l’esercito, ma che anche uno dei coloni ha sparato contro Abu Elia nel momento in cui sparavano i soldati. 

Ricordando la scena vicino alla strada principale di al-Mughayyir, Sabarna spiega: “Amjad e altri giovani si stavano allontanando dai coloni che lanciavano sassi.”

I soldati hanno inseguito gli shabab (giovani) sparando contro di loro mentre i coloni continuavano ad attaccare stando alle loro spalle.” 

Sabarna dice che soldati e coloni continuavano a prendere di mira i giovani che a questo punto cercavano di sfuggire alla violenza armata: “Gli shabab  tiravano pietre per difendersi.” I coloni e l’esercito hanno continuato a sparare contro i palestinesi e alla fine ne hanno colpiti tre, incluso Abu Alia. 

Amjad aveva sete, ho visto che quando gli hanno sparato aveva una bottiglia d’acqua in mano,” ricorda Sabarna. “L’ha aperta, ma non è riuscito a bere, correva con la bottiglia in mano.” 

Attacchi di coloni imbaldanziti

Al-Mughayyir è una cittadina di 3.102 abitanti a 27 km a nord est di Ramallah. Per anni la comunità ha subito la continua minaccia di attacchi sempre più intensi dei coloni e le annessioni forzate con l’esercito israeliano in prima linea. 

Solo poche settimane fa, il 10 luglio, ad al-Mughayyir alcuni coloni hanno attaccato un palestinese le cui ferite hanno richiesto il ricovero in ospedale. Nel gennaio 2019 un gruppo di coloni armati ha attaccato la cittadina e ucciso il trentottenne Hamdi Naasan e inseguito e ferito oltre 30 altri abitanti.  Nonostante i tentativi dei giovani palestinesi di lanciare pietre contro i coloni come deterrente, in quell’occasione nove palestinesi sono stati gravemente feriti con proiettili veri e ricoverati in ospedale.

Tutto ciò continua a succedere. Le nostre proteste pacifiche avvengono a fronte della violenza da parte dei coloni che hanno chiuso gli ingressi al villaggio, aggredito noi e i pastori nella zona,” dice Naasan.

Nel 2011 e nel 2014 in due occasioni separate i coloni israeliani di Adei-Ad hanno dato fuoco alla moschea di al-Mughayyir, profanando un luogo di culto. L’avamposto di Adei-Ad, fondato da un gruppetto di coloni israeliani nel 1998, è illegale ai sensi di leggi internazionali e israeliane. 

Nonostante l’ordine di abbandonare gli avamposti agli inizi degli anni 2000, i coloni ci mantengono una presenza e frequentemente attaccano i palestinesi nelle zone circostanti, anche ad al-Mughayyir. C’è un progetto di inglobare Adei-Ad nella vicina colonia di Amihai, legalizzando in tal modo l’avamposto. 

Noi viviamo in mezzo a un esercito che blocca l’accesso alle nostre terre e caccia i palestinesi con il pretesto delle ‘aree militari chiuse,’ eppure, non si sa come, permette a civili e cittadini israeliani di muoversi a loro piacimento,” dice Naasan. 

Fa tutto parte del tentativo dei coloni di cacciarci via.” 

(tradotto dall’inglese da Mirella Alessio)




Meta agevola le intimidazioni contro gli attivisti palestinesi

Omar Zahzah

28 luglio 2022 – The Electronic Intifada

Il gigante tecnologico Meta, proprietario di Facebook, viene sempre più spesso caratterizzato da censura e rimozione di contenuti filo-palestinesi.

L’impresa ha sistematicamente preso di mira account che promuovono la lotta di liberazione palestinese a vario titolo, sottoponendoli a ogni forma di ostruzione, dall’oscuramento alla cancellazione totale.

Ma finora il fanatismo politico di Meta ha trovato espressione soprattutto nel nascondere, bloccare e togliere contenuti centrati sulla Palestina.

Ora pare che la piattaforma stia anche tacitamente appoggiando soprusi espliciti e chiaramente rivolti contro contenuti filopalestinesi da parte di account anti-palestinesi orchestrati da JewBelong, un’associazione no profit creata di recente.

JewBelong è un sito in rete che afferma di promuovere e spiegare l’ebraismo per lo più a ebrei, così come di agire come uno spazio comunitario per ebrei che si sentano distanti o insicuri riguardo alla religione, alla tradizione e alla cultura ebraica.

Tuttavia esso sta apertamente prendendo di mira account palestinesi, dando ogni tanto premi in denaro, in chiara violazione delle norme di comunità stabilite da Meta di “includere opinioni e convinzioni diverse, soprattutto di persone e comunità che altrimenti potrebbero essere ignorate o marginalizzate.”

Se effettivamente ci sono valori a cui Meta si attiene, a quanto pare la Palestina è un’eccezione alla regola.

Denaro per intimidire

La promozione della persecuzione in rete di account filo-palestinesi è stata a lungo una strategia sionista. Per anni Israele ha offerto “borse di studio di hasbara”, che sono essenzialmente lezioni a studenti perché si impegnino nella propaganda digitale a favore del sionismo e del regime colonialista israeliano.

L’ormai scomparsa app Act.IL, che era schierata con il governo israeliano, offriva ai propri utenti vari “premi” e lezioni per portare a termine “missioni” digitali, tra cui segnalare come spam la posta in arrivo di imprese o università che ospitano materiale filo-palestinese allo scopo di insistere per la loro cancellazione.

E, benché non risultasse che offrivano compensi in denaro, siti che stilano una lista nera come Canary Mission e il più recente Stopantisemitism.org utilizzano come arma il cliché della “lotta all’antisemitismo” per incoraggiare i sionisti a segnalare negativamente in massa i palestinesi e i loro sostenitori.

JewBelong è un’organizzazione no profit fondata nel 2017 da Archie Gottesman e Stacy Stuart che, secondo la sua pagina su Propublica [sito giornalistico indipendente USA, ndt.], dipende interamente come risorse da “contributi”, cioè donazioni. Il suo proposito iniziale era apparentemente di “fornire semplici spiegazioni, chiare definizioni, utili letture e facili rituali in modo che chiunque sia interessato a iniziare o riprendere una pratica ebraica possa trovare un suo personale percorso.”

Ora pare che JewBelong si sia votato al sostegno a favore di Israele e del sionismo, il che include intimidazioni nei confronti di account filo-palestinesi.

Un’onesta rivelazione

Questo potrebbe non essere tanto un cambio di attività quanto un’onesta rivelazione. Parecchi membri di JewBelong hanno rapporti diretti con organizzazioni e istituzioni sioniste.

La co-fondatrice Archie Gottesman ha fatto parte del direttivo di organizzazioni come Israel Campus

Il membro del consiglio consultivo Yuval David è un “ideale conduttore e narratore per organizzazioni e iniziative ebraiche, israeliane, LGBTQ, artistiche, culturali e umanitarie” che includono la sezione statunitense del colonialista Jewish National Fund [ente no profit dell’Organizzazione sionista mondiale e proprietario del 13% della superficie fondiaria in Israele, ndt.] e dell’organizzazione di estrema destra della lobby israeliana StandWithUs.

Noa Tishby, collega nel consiglio consultivo, è un’attrice e scrittrice israeliana il cui primo libro è intitolato Israel: A Simple Guide to the Most Misunderstood Country on Earth [Israele: una guida semplice al Paese più incompreso della terra]. È anche la “prima inviata speciale da sempre del ministero degli Affari Esteri israeliano per combattere l’antisemitismo e la delegittimazione” di Israele.

E non è tutto: i Premi Partizan, lanciati di recente dall’organizzazione, hanno fornito compensi di 360 dollari a “valorosi influencer sulle reti sociali che lavorano giorno e notte per denunciare l’antisemitismo e proteggere il diritto di Israele a difendersi.”

JewBelong sostiene di aver insignito 23 giovani con premi in denaro per il sostegno digitale a Israele. Account premiati comprendono quelli della giornalista sionista Eve Barlow e di Zioness.

Uno dei premiati, che si fa chiamare @partisanprincess su Instagram (attribuendo l’origine di questo nome utente alla creazione del Partisan Prize da parte di JewBelong) ha ripetutamente e sistematicamente messo in atto segnalazioni di massa di account filo-palestinesi nel tentativo esplicitamente riconosciuto di farli cancellare.

Schermate ottenute da The Electronic Intifada rivelano storie e post di @partisanprincess che incoraggiano i follower a segnalare negativamente in massa account come Palestine Pod, un podcast sulla Palestina ospitato da Lara Elborno [avvocatessa palestinese-statunitense di diritto internazionale, ndt.] e Michael Schirtzer [attore e attivista filo-palestinese statunitense di origine ebraica, ndt.].

“@thepalestinepod è stato tolto di mezzo una volta, possiamo farlo di nuovo,” afferma un testo che definisce “vile propaganda” un episodio di Palestine Pod con un relatore ospite palestinese.

L’account Palestine Pod è stato temporaneamente cancellato da Instagram, tuttavia è stato riattivato in seguito a una massiccia campagna giudiziaria e sulle reti sociali.

In seguito dipendenti di Meta hanno affermato che l’account era stato erroneamente segnalato per estrazione di dati, per accesso automatico agli stessi o per furto di informazioni da prodotti Meta. Di solito tali faccende si risolvono prima della cancellazione, ma questo non è avvenuto con Palestine Pod.

Brutale reazione

Questa incentivazione delle segnalazioni di massa sta avendo una serie di conseguenze. La pagina Instagram di @crackheadbarneyandfriends – un artista performer che si definisce un eroe popolare e antifascista di New York – è stata cancellata dopo che il programma ha dedicato una puntata all’assassinio della giornalista palestinese Shireen Abu Akleh da parte di Israele (la pagina è stata in seguito ripristinata).

Ma persino quando la campagna di segnalazione di massa di JewBelong non dà come risultato la cancellazione di un account essa incoraggia un’aggressione mirata che può a sua volta avere un effetto dissuasivo.

L’ospite di Palestine Pod Michael Schirtzer ha detto a The Electronic Intifada che “i sionisti minacciano regolarmente di morte gli attivisti che sostengono i diritti dei palestinesi. Ciò include attivisti palestinesi ed ebrei attivamente anti-sionisti.”

Il fatto che anche ebrei anti-sionisti siano stati duramente presi di mira in quest’ultima campagna di intimidazioni dimostra che la questione non è l’antisemitismo, come i sionisti sono soliti sostenere, ma piuttosto la minaccia incarnata da una coalizione tra palestinesi ed ebrei che rifiuti esplicitamente la colonizzazione sionista.

Schirtzer dice che, facendo una ricerca sulla campagna contro Palestine Pod, ha scoperto un gruppo WhatsApp di “hasbara digitale” che “incoraggia i suoi membri a segnalare negativamente account palestinesi ed ebrei anti-sionisti, compreso il rabbino Brant Rosen.”

Rosen è il fondatore di Tzedek Chicago, una sinagoga di Chicago formata nel tentativo di creare uno spazio comunitario ebraico al di fuori dei principi sionisti. Nel marzo 2022 Tzedek Chicago è passata da una posizione “non-sionista” a una “anti-sionista”, diventando probabilmente la prima sinagoga antisionista negli USA.

Rosen ha detto a The Electronic Intifada che la reazione all’annuncio è stata forte, soprattutto in rete.

“Ci aspettavamo una qualche reazione, ma quasi subito Twitter e Instagram sono semplicemente esplosi,” afferma Rosen. “Le risposte sono state brutali e crescenti. La maggioranza di esse sono arrivate da luoghi che non ho riconosciuto. Stavo conquistando follower da account Twitter con nomi israeliani, e zero follower…chiaramente si trattava di un tipo di nuova campagna in rete che non avevo mai visto prima. Sono stato particolarmente sorpreso da quanto è durata. Si è protratta per settimane.”

Rosen ha aggiunto che a suo parere “Israele e il movimento sionista hanno tra le più sofisticate infrastrutture BOT [rete composta da software (bot) in grado di agire in maniera autonoma o coordinata, ndt.] su Twitter. È capillare e orrendo, e molto ben organizzato. Non avevo mai visto niente di simile.”

Zone grigie

Si potrebbe pensare che un contesto di aggressioni di massa sia qualcosa che le imprese tecnologiche dovrebbero cercare di contrastare. Ma, nonostante la frequente, dettagliata e sostanziosa corrispondenza con i dipendenti di Meta, a Michael Schirtzer di Palestine Pod è stato detto che queste campagne di intimidazione non violano le “regole della comunità” spesso pubblicizzate dall’impresa.

“Incoraggiare la gente a segnalare non viola la nostra politica e di conseguenza non possiamo prendere alcuna iniziativa,” afferma una mail condivisa con The Electronic Intifada. Il dipendente ha aggiunto che l’impresa “interverrebbe” se la vittima ricevesse commenti o minacce inappropriati.”

Meta si è rifiutata di fare commenti per questo articolo.

Ma, a parte il fatto che Schirtzer e altri creatori di contenuti esplicitamente filo-palestinesi sono stati molestati, la risposta rigida e prudente di Meta trascura il carattere coordinato della campagna in sé – per incentivare con il denaro i tentativi di molestare e silenziare contenuti palestinesi.

Oltretutto, qualunque cosa Meta sostenga, è difficile non vedere come intimidazioni di ogni genere siano una violazione delle cosiddette “regole della comunità”. In questo caso le convenzioni di queste piattaforme digitali sono state utilizzate come arma contro creatori di contenuti per la loro identità e le loro convinzioni politiche per farli tacere e cancellarli – un chiaro esempio di prevaricazione.

Le intimidazioni e le campagne di minacce dei sionisti spesso sfruttano la lettera della legge e politiche ufficiali per massimizzare l’impatto delle loro intimidazioni minimizzando nel contempo il fatto di doverne rispondere.

“Le istituzioni sioniste hanno costantemente costruito le loro pratiche di lawfare [uso della legge come arma in un conflitto, ndt.], che eludono le politiche antidiscriminatorie di imprese come Meta,” dice a The Electronic Intifada l’attivista antisionista e docente dell’università di New York Emmaia Gelman.

“Tecnicamente non stanno violando le norme. Ma l’effetto è che le regole di Meta diventano uno strumento nelle mani di istituzioni razziste per intimidire, punire e mettere a tacere interiormente persone già sottoposte alla violenza razzista di Stato.”

Rifiutandosi di intervenire direttamente in quest’ultima ondata di aggressioni anti-palestinesi e antisemite, Meta sta consentendo che la sua piattaforma venga utilizzata per un’aggressione e una censura mirate su base razziale. Pare che ci possa benissimo essere un’eccezione palestinese alle cosiddette “regole della comunità”.

Omar Zahzah è coordinatore educativo e per il sostegno legale di Eyewitness Palestine [progetto educativo a favore dei palestinesi, ndt.] e membro del Palestinian Youth Movement [Movimento della Gioventù Palestinese] e della US Campaign for the Academic and Cultural Boycott of Israel [Campagna USA per il Boicottaggio Accademico e Culturale di Israele].

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Ora Israele può togliere la cittadinanza ai palestinesi del ‘48

Lana Tatour

25 luglio 2022 –  Middle East Eye

La sentenza di un tribunale israeliano secondo cui la “violazione della fedeltà” allo Stato è motivo di denaturalizzazione faciliterà notevolmente il suo piano di vecchia data volto ad espellere i cittadini palestinesi di Israele

La scorsa settimana, con una decisione che costituisce un precedente, la Corte Suprema israeliana ha stabilito che lo Stato ha il potere di revocare la cittadinanza a una persona condannata per reati equiparabili ad una “violazione della fedeltà”, anche se ciò renderebbe la persona apolide e in violazione del diritto internazionale.

La sentenza riguarda il caso di Alaa Zayoud, palestinese con cittadinanza israeliana. Nell’ottobre 2015 Zayoud ha speronato con la sua auto una stazione degli autobus e ha accoltellato tre israeliani. Nel 2017, un anno dopo la sua condanna, il ministero dell’Interno ha notificato a Zayoud la sua intenzione di revocargli la cittadinanza, in conformità con la legge sulla cittadinanza.

Il tribunale amministrativo di Haifa ha approvato questa decisione. Zayoud ha fatto appello e il caso è giunto davanti alla Corte Suprema.

Nella propria sentenza la Corte Suprema ha stabilito: “Non c’è stato alcun vizio costituzionale nella disposizione che consente la revoca della cittadinanza di una persona che ha commesso un atto che costituisce una violazione della fedeltà allo Stato di Israele, come ad esempio un atto di terrorismo, un atto di tradimento o di grave spionaggio oppure l’acquisizione della cittadinanza o il permesso di soggiorno permanente in uno Stato o territorio ostile.”

Ciò anche se, a causa della revoca della cittadinanza, l’individuo divenisse apolide, fermo restando che in tal caso il ministero dell’Interno deve concedergli lo status di residenza permanente in Israele o un altro status giuridico appropriato “.

L’importanza di questa decisione non deve essere sottovalutata. Le sue implicazioni sono gravi e saranno chiare a breve e lungo termine. Questa sentenza ha istituito una procedura legale per la revoca della cittadinanza ai palestinesi del ’48 [cittadini di Israele di origine araba, discendenti dai palestinesi residenti in quello che divenne territorio israeliano e che vi rimasero dopo il 1948, ndt.] (noti anche come cittadini palestinesi di Israele), un passo cruciale negli sforzi di Israele tesi a promuovere la pulizia etnica e l’espulsione dei palestinesi.

‘Intento terroristico’

A livello pratico, la corte ha spianato la strada a quella che diventerebbe la denaturalizzazione di routine dei palestinesi con cittadinanza israeliana, esponendoli all’espulsione, qualcosa a cui Israele aspira da tempo.

La decisione di sostituire la cittadinanza con un cosiddetto status di residenza permanente potrebbe consentire alle persone di continuare ad avere accesso ad alcuni servizi sociali, ma le priverebbe della più importante protezione che la cittadinanza è in grado di garantire: il diritto di rimanere a casa propria.

Israele sa che per rendere i palestinesi del ’48 passibili di espulsione deve prima revocare loro la cittadinanza. La decisione del tribunale facilita proprio questo.

E sono Israele e i suoi servizi di sicurezza a definire ciò che costituisce una “violazione della fedeltà”, che secondo la legge sulla cittadinanza crea i presupposti per la revoca della cittadinanza. Al momento Israele basa la definizione di “violazione della fedeltà” sulla legge israeliana contro il terrorismo, che gli consente di classificare diversi reati come atti terroristici.

Israele usa regolarmente il termine “intenti terroristici” quando si tratta di palestinesi. Ad esempio, all’indomani dell’Intifada dell’Unità del maggio 2021 [ondata di proteste, che ha visto coinvolti anche i palestinesi con cittadinanza israeliana, ndt.] Israele ha arrestato migliaia di palestinesi e ha intentato processi contro centinaia di manifestanti, di cui 167 con l’accusa di reati terroristici sulla base della legge antiterrorismo.

A seguito della recente decisione della Corte Suprema rischiano tutti la revoca della cittadinanza. I palestinesi sanno fin troppo bene cosa questo potrebbe potenzialmente significare: l’espulsione dalla loro patria.

L’atto di revoca della cittadinanza renderebbe apolidi i palestinesi colpiti. Israele ha già reso apolidi tutti i palestinesi nel 1948 con l’annullamento della cittadinanza palestinese [posseduta, ndt.] sotto il mandato britannico. Molti palestinesi sono rimasti apolidi. I palestinesi rimasti dopo la Nakba (la catastrofe) [nome con cui i palestinesi indicano l’esodo forzato di ca. 700.000 palestinesi dai territori occupati da Israele nel corso della guerra arabo-israeliana del 1948, ndt.] del 1948 hanno ricevuto la cittadinanza israeliana nei primi due decenni dello Stato [israeliano, ndt.].

Ora Israele minaccia ancora una volta di renderli apolidi.

Sebbene tale decisione violi chiaramente il diritto internazionale, la corte ha comunque stabilito che la denaturalizzazione dei palestinesi è costituzionale affermando erroneamente che la condizione di apolidia può essere sanata attraverso la concessione di una “residenza permanente in Israele o di un altro appropriato status giuridico”.

Un piano segreto

L’esperienza dei gerosolimitani ci insegna che non c’è nulla di permanente nella “residenza permanente” quando si tratta di palestinesi. Dal 1967 Israele ha frequentemente revocato la residenza ai gerosolimitani, bandendoli di fatto in modo permanente dalla loro città e dalle loro case. Finora, nel quadro dello sforzo continuo rivolto ad eliminare i palestinesi dalla città, sono state revocate oltre 15.000 residenze.

Israele non ha mai accettato l’esistenza dei suoi cittadini palestinesi.

Nel corso del suo primo decennio ha perseguito piani per l’espulsione di massa dei palestinesi del ’48. Il massacro di Kafr Qasim dell’ottobre 1956, in cui l’esercito giustiziò 51 palestinesi, faceva parte di un più ampio piano segreto, chiamato Operazione Hafarperet, per estromettere la popolazione palestinese dal Piccolo Triangolo [concentrazione di città e villaggi arabo-israeliani, ndt.].

Inoltre, all’inizio degli anni ’50 Israele tentò di portare avanti un piano per l’espulsione di 10.000 palestinesi da sette villaggi della Galilea, nonché altri piani per il reinsediamento di palestinesi in Argentina e Brasile.

Il proposito di espellere i palestinesi è stato mantenuto. È riapparso nel panorama pubblico e politico israeliano durante gli anni ’80 con l’ascesa di Meir Kahane, un rabbino nazionalista ultra-ortodosso di origine americana, e del suo partito fascista, Kach. Kach sosteneva la denaturalizzazione dei cittadini palestinesi e il loro trasferimento, nonché l’espulsione dei palestinesi dai territori occupati nel 1967.

Dagli anni 2000 sono stati compiuti sforzi significativi per facilitare la revoca della cittadinanza ai palestinesi. I piani proposti per ridurre il numero di cittadini palestinesi sono ora parte integrante del discorso politico predominante in Israele e sono supportati dalla maggioranza dell’opinione pubblica israeliana.

Abbiamo visto appelli con la richiesta che i palestinesi del ’48 firmino un giuramento di fedeltà allo Stato israeliano come Stato ebraico; l’adozione dello Stato-nazione del popolo ebraico nel 2018; l’avanzamento di quello che è noto come il piano di “scambio di popolazione” – il trasferimento pianificato dei villaggi del Piccolo Triangolo e dei loro circa 300.000 abitanti nello Stato palestinese contro la volontà degli abitanti palestinesi di queste aree.

Uno strumento del sumud

Attraverso una progressione allarmante negli ultimi anni Israele ha revocato la cittadinanza ai beduini palestinesi del Negev come apparente banco di prova per un più ampio progetto di denaturalizzazione dei cittadini palestinesi. Nel 2010 il Ministero dell’Interno ha avviato una revisione dello status di cittadinanza dei beduini.

Il suo rapporto concludeva che migliaia di beduini erano stati erroneamente registrati come cittadini. Successivamente Israele ha denaturalizzato centinaia di beduini del Negev rendendoli apolidi.

Non è un caso che Israele abbia iniziato con i beduini, la popolazione più vulnerabile ed emarginata tra i palestinesi del ’48.

Non è un segreto che Israele voglia vedere scomparire tutti i palestinesi, inclusi i palestinesi del ’48. Anche se a questi ultimi è stata concessa la cittadinanza israeliana, Israele vede i palestinesi del ’48 come ospiti la cui presenza non solo è indesiderabile, ma sempre condizionata.

Israele vede la loro cittadinanza come una concessione, non come un diritto – e le concessioni possono sempre essere revocate – come ben espresso dall’ex ministro dei Trasporti israeliano, Bezalel Smotrich: “Noi siamo i proprietari di questa terra. Questa terra è appartenuta al popolo ebraico per migliaia di anni. Dio ci ha promesso tutta la Terra d’Israele, una promessa che ha mantenuto. Siamo semplicemente stati le persone più ospitali del mondo dai giorni di Abramo e per questo siete ancora qui. Almeno per ora”.

Dobbiamo vedere le cose come sono: Israele lavora passo dopo passo nel creare percorsi giuridici per rendere possibile la denaturalizzazione, e quindi l’espulsione, dei palestinesi del ’48. Per loro la cittadinanza israeliana è stata uno strumento di sumud [risolutezza in arabo, parola simbolo della cultura palestinese derivante dall’esperienza prolungata della dialettica dell’oppressione e della resistenza, ndt.], ferma perseveranza.

Essa garantisce per lo più la continuazione della permanenza in patria. Per i palestinesi del ’48 cittadinanza significa sopravvivenza.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Lana Tatour è docente/ricercatrice di sviluppo globale presso la School of Social Sciences, University of New South Wales (Sydney, Australia).

 

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Dall’Ungheria a Israele, il razzismo non si limita all’estrema destra

Zvi Bar’el

28 luglio 2022 – Haaretz

“Noi [ungheresi] non siamo una razza mista e non vogliamo diventare una razza mista”, ha detto lo scorso fine settimana il primo ministro ungherese Viktor Orban durante un discorso in un’università rumena di una provincia della Transilvania con una numerosa popolazione di etnia ungherese. “La migrazione ha diviso in due l’Europa, o potrei dire che ha diviso in due l’Occidente. Metà è un mondo in cui convivono popoli europei e non europei. Questi Paesi non sono più nazioni: sono soltanto un miscuglio di popoli”, ha affermato il leader che governa il suo Paese da dodici anni e che per un anno ha frequentato l’Università di Oxford.

Per un breve momento è sembrato che non fosse Orban a esporre la sua teoria sulla razza con una semplicità tanto agghiacciante, e che si trattasse piuttosto di un plagio dai politici israeliani, per cui il razzismo è un credo. E questo vale non solo per i partiti della “nazione pura” o del “salvare la razza”. Bezalel Smotrich [leader del Partito Sionista Religioso, ndt.] e Itamar Ben-Gvir [leader del partito israeliano di estrema destra Otzma Yehudit, Potere Ebraico, ndt.] non hanno il monopolio sul marchio del razzismo, ma il loro razzismo diretto ed esplicito, di cui sono così orgogliosi, fornisce un paravento di nobiltà liberale a tutti gli altri. Quando Benny Gantz [vice primo ministro dell’attuale governo israeliano dimissionario, ndt.) e Yair Lapid [attuale primo ministro di Israele, ndt.] parlano degli “estremisti” con i quali rifiuterebbero di sedere in una futura coalizione di governo, insinuano che, rispetto a Sionismo Religioso e a Otzma Yehudit, i membri di Yesh Atid [partito liberale di centro fondato da Yair Lapid, ndt.], Kahol Lavan [Blu e Bianco, partito di centro di Benny Gantz, ndt.], New Hope [Nuova Speranza, partito di destra formato da ex-membri del Likud, ndt.] e naturalmente Yamina [alleanza di partiti dell’estrema destra dei coloni, ndt.] insieme ad altri partiti “legittimi” sono esenti dalla macchia del razzismo. Ma il confronto è distorto e fallace. Il razzismo non è relativo. Un “po’ di razzismo” è razzismo.

Dopotutto, la stessa incontaminata coalizione di cui sono membri ha votato con entusiasmo la legge discriminatoria dello Stato-nazione. I suoi ministri danno la caccia ai richiedenti asilo e non si sono opposti alle decisioni del ministro dell’Interno, Ayelet Shaked [esponente del partito di estrema destra Yamina nota per le sue posizioni oltranziste, ndt.].

È Shaked, non Smotrich o Ben-Gvir, ad aver riportato in vita il termine “Pale of Settlement” [Zona di residenza, regione occidentale della Russia imperiale istituita dal 1791 al 1917 in cui era consentito risiedere agli ebrei, ndt.] quando ha stabilito che i richiedenti asilo provenienti dall’Ucraina potranno lavorare solo in un numero limitato di posti di lavoro in 17 città israeliane. Questo regolamento si applicherà a tutti gli altri richiedenti asilo a partire da ottobre. Secondo le condizioni poste, coloro che violano la regola osando assumere lavoratori stranieri per lavori che non siano dei peggiori dovranno affrontare pesanti sanzioni. E qual è la fase successiva? Forse segnalare le aziende che impiegano lavoratori stranieri in violazione della legge? o ripristinare la struttura di detenzione di Holot? [centro di reclusione nel Negev in cui nel 2015 furono rinchiusi 1.178 richiedenti asilo eritrei, ndt.]

La tranquillità con cui è stata accolta questa contorta “procedura” – presentata da Shaked per ingannare l’Alta Corte di Giustizia – dimostra fino a che punto sia diffusa la metastasi del razzismo. Nessun membro della Knesset ha avuto paura di essere infettato dallo smotrichismo. Dopotutto, è stata Shaked – una dei nostri – a concepire e dare alla luce il mostro. E non è sola.

La legge sulla cittadinanza presentata da Shaked e dal parlamentare Simcha Rothman (di Sionismo Religioso), che impedisce il ricongiungimento di 1.680 famiglie palestinesi e israeliane, è stata sostenuta da 45 parlamentari – più di sette volte il numero dei seggi conquistati da Yamina nelle ultime elezioni.

Per inciso, agli occhi del suo partner ideologico, Shaked non è degna di una medaglia per razzismo. In un’intervista al sito religioso sionista Srugim circa tre settimane fa, Rothman ha chiarito che “chiunque abbia votato per un partito guidato da qualcuno che ha fatto affari con Mansour Abbas [leader di un partito arabo islamista entrato nella coalizione di governo con Shaked e altri esponenti di estrema destra, ndt.] e che in una fase successiva farà affari con la Lista Araba Unita [il partito di Abbas, ndt.] è già nel blocco di sinistra. Non credo che nessuna persona di destra che si rispetti voterà per Ayelet Shaked”. Sionismo Religioso sa come rintracciare quei finti razzisti e lanciare avvertimenti contro di loro. Dopotutto, il razzismo è una risorsa elettorale e la destra dal cuore tenero o i liberali di centro sinistra non possono essere autorizzati a rubare il marchio.

Quando nel 1993 Viktor Orban fu eletto presidente del suo partito, Fidesz era un classico partito liberale collocato a destra del centro. Nel giro di pochi anni, sotto la sua guida, è diventato un partito di destra radicale e razzista che si oppone ai diritti LGBTQ e al “trend dei no-gender”, così come ai lavoratori e residenti stranieri. Questo processo non è avvenuto nell’ombra e non sono necessarie approfondite ricerche per scoprirlo. Tutto è accaduto alla luce del sole.

Le impressionanti vittorie politiche di Orban hanno dimostrato che il razzismo è una potente leva politica. In Israele il processo è stato ancora più rapido. I partiti di sinistra devono avvicinarsi al centro per sopravvivere. I partiti di centro devono indossare un velo di destra e i partiti di destra sono già in competizione con i partiti della “nazione pura” per conquistare il trofeo del razzismo. Estremisti? Non tra di noi.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Fassino contro Albanese: l’Italia sta dal lato sbagliato della storia quando si tratta di Palestina?

 

Ramzy Baroud e Romana Rubeo

25 luglio 2022 – Monitor de Oriente

La nuova relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati dal 1967, Francesca Albanese, deve affrontare un compito colossale. Ci si aspetta che difenda i diritti umani dei palestinesi in un’istituzione politica che, per il momento, è dominata in gran parte dagli Stati Uniti e dai loro alleati occidentali.

Un recente scambio di opinioni nel parlamento italiano ha confermato questa affermazione. Il 6 luglio la Commissione Esteri del parlamento italiano ha tenuto una seduta informale con Albanese per discutere delle risoluzioni parlamentari sulla riattivazione del “processo di pace” in Medio Oriente. La commissione era presieduta da Piero Fassino, politico italiano del Partito Democratico.

Fino a pochi giorni fa il partito di Fassino faceva parte della coalizione di governo italiana guidata da Mario Draghi. Fassino era già noto per essere un sostenitore di Israele. Nel 2009, durante la guerra israeliana contro Gaza, partecipò a una manifestazione organizzata dalla Comunità Ebraica di Roma, durante la quale accusò i palestinesi della guerra dichiarando: “La responsabilità (della guerra) è di Hamas, un’organizzazione che nega a Israele il diritto di esistere”. Come era prevedibile le sue parole furono accolte con un grande applauso.

Ma, indipendentemente dalle posizioni filo-israeliane di Fassino, Albanese non era in discussione. Da anni fa ricerche, scrive e difende i diritti dei rifugiati, in particolare di quelli palestinesi. Il suo libro Palestinian Refugees In International Law [I rifugiati palestinesi nel diritto internazionale], scritto insieme a Lex Takkenberg, è una lettura imprescindibile per chi intenda conoscere i diritti legali dei rifugiati palestinesi in base alle leggi internazionali.

Purtroppo Fassino non era dello stesso parere. Dopo la sua introduzione, nella quale ha cercato di confondere le violazioni israeliane del diritto internazionale con la mancanza di democrazia dei dirigenti palestinesi, è stata data la parola ad Albanese. Nella sua esposizione l’esperta di diritto internazionale ha riferito la situazione attuale dei palestinesi sottoposti all’occupazione israeliana, e nel contempo ha spiegato l’importanza delle leggi internazionali di fronte alle sistematiche violazioni dei diritti dei palestinesi da parte di Israele.

“È necessario che ci siano attori internazionali in grado di portare avanti un processo di costruzione della pace, (…) a cui partecipino anche l’Europa e l’Italia,” ha detto Albanese. “Di conseguenza mi piacerebbe proporre due spunti di riflessione: il primo, la necessità di contestualizzare l’attuale situazione; il secondo, vederla attraverso il prisma del diritto internazionale.”

“Non si tratta propriamente di un conflitto,” ha continuato Albanese. “La realtà è che c’è un’occupazione militare iniziata 55 anni fa e che si è trasformata in uno strumento di colonizzazione. E quando dico ‘colonizzazione’ mi riferisco al significato giuridico del termine, nel tentativo di escludere dalla discussione ogni componente ideologica.”

Fassino si è subito messo sulla difensiva. Prima ha attaccato Albanese, accusandola di non essere imparziale. Poi è passato ad elaborare una visione falsa della storia. Nella versione di Fassino della storia la Nakba, la catastrofica distruzione della patria storica palestinese, è stata totalmente assente. Per lui la spoliazione di quasi un milione di palestinesi delle loro terre e la distruzione di quasi 500 città e villaggi tra il 1947 e il 1948 non è degna di essere menzionata.

Invece ha accusato della loro stessa sofferenza i palestinesi, e non il movimento sionista e poi Israele: “Perché non venne fondato uno Stato palestinese?” ha chiesto in modo retorico prima di proporre una risposta: “Perché i palestinesi e altri Paesi arabi non accettarono la partizione del Mandato britannico e scatenarono una guerra contro Israele. Non possiamo dire che non venne creato perché qualcuno lo impedì. Questa è storia. Ci sono precise responsabilità.”

Una volta terminata la sua analisi storica senza fondamento, Fassino ha dedicato una parte del suo discorso a respingere totalmente il diritto internazionale, affermando: “Che una questione tanto complessa possa essere risolta solo sulla base della legalità è un’illusione astratta.”

Di per sé questa affermazione scandalosa esige una seria analisi, dato che viene da un parlamentare il cui lavoro è preservare la legalità del proprio Paese, dando importanza alla centralità del diritto internazionale.

Alcuni giorni dopo la seduta parlamentare e le bizzarre dichiarazioni di Fassino, Albanese ha scritto sul quotidiano italiano Il Manifesto un articolo in cui ha manifestato la propria preoccupazione per la difficoltà di discutere razionalmente di Palestina, non solo nelle istituzioni statali, ma in tutta Italia.

“L’idea che il diritto internazionale sia cogente per i nemici e facoltativo per gli alleati è una declinazione pericolosa del concetto di autonomia della politica, che da giurista non posso esimermi dal condannare,” ha scritto nel suo articolo. “Parlare di Palestina in Italia è impossibile, anche in parlamento.”

Fassino ha subito replicato, sempre su Il Manifesto. Nonostante la sua affermazione secondo cui egli “lotta per una pace giusta” e crede nella soluzione a due Stati, ha riproposto gli stessi vecchi luoghi comuni sionisti secondo cui Israele è “un Paese democratico… (Israele è) un Paese a cui, per molto tempo, i suoi vicini hanno negato (il diritto di esistere) … È un errore dare la colpa solo a Israele…Mi risulta difficile accettare la definizione di Israele come Paese razzista…”

Purtroppo gli inganni di Fassino non sono l’eccezione ma la norma tra i politici, gli intellettuali e i mezzi di comunicazione italiani. È piuttosto triste quello che è successo in Italia negli ultimi decenni. SI tratta di un Paese che ha avuto un numeroso elettorato socialista che, nel corso degli anni, nonostante le pressioni degli Stati Uniti e dell’Occidente, ha appoggiato la Palestina e i palestinesi.

Negli anni ’80 l’atteggiamento del governo italiano fu apertamente filo-palestinese, almeno rispetto ad altri Paesi dell’Europa occidentale. Ciò provocò spesso scontri in politica estera con Israele e i suoi benefattori statunitensi, soprattutto durante la cosiddetta crisi di Sigonella nel 1985.

Durante un discorso al parlamento italiano il primo ministro socialista Bettino Craxi arrivò fino a difendere il diritto dei palestinesi alla lotta armata.

Nel 1982, durante il tradizionale discorso di fine anno alla nazione, il presidente italiano Sandro Pertini fece lungamente riferimento all’orrore del massacro di Sabra e Shatila.

Il fatto che uno dei tradizionali club di tifosi dell’AS Roma, una delle squadre di calcio più amate in Italia, si chiami “Fedayn”, in riferimento ai combattenti palestinesi per la libertà, dice molto di quanto nel corso del tempo la solidarietà filo-palestinese sia penetrata in tutti gli aspetti della società italiana.

Negli ultimi anni tuttavia le cose hanno iniziato a cambiare. Il sentimento filo-israeliano è cresciuto in modo esponenziale in molti settori della vita italiana, soprattutto nel governo e sui mezzi di comunicazione. La lobby filo-israeliana ora è un attore importante della politica italiana. Anche il mondo accademico italiano, che una volta era un esempio del pensiero politico radicale – in fin dei conti Gramsci era italiano -, ora vomita spazzatura orientalista e propaganda filo-israeliana.

Per quanto possa sembrare strano, un tempo, prima di convertirsi in apologeta di Israele e del sionismo, Fassino era membro del Partito Comunista Italiano.

Tuttavia c’è speranza. Dopotutto la stessa Albanese è italiana. Inoltre i gruppi di solidarietà italiani stanno crescendo molto rapidamente, sfidando l’ideologia sionista che ora imperversa nella classe dirigente italiana.

Voltando le spalle alla Palestina, l’Italia rinnegherebbe la sua storia, definita dalla lotta esistenziale contro il fascismo e il nazismo. Se Fassino avesse compreso la sua storia, avrebbe capito anche che la lotta palestinese contro il sionismo è essenzialmente la stessa storia dell’Italia che si ripete. Disgraziatamente Fassino, consciamente o meno, si trova ora dalla parte sbagliata della storia.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Monitor de Oriente.

(traduzione dallo spagnolo di Amedeo Rossi)

 




Accusare di apartheid non basta: un’intervista a Miloon Kothari, Alto Commissario ONU per i diritti umani 

David Kattenburg

25 luglio 2022 – Mondoweiss

Miloon Kothari, Alto Commissario ONU per i diritti umani chiarisce perché l’apartheid non basta a spiegare le cause alla radice della crisi palestinese.

Il viaggio di Joe Biden in Israele, nella Palestina occupata e in Arabia Saudita è finito in un lampo.

La Dichiarazione di Gerusalemme firmata da Biden e dal premier israeliano Yair Lapid cita le “ostilità con Hamas durate undici giorni nel maggio 2021,” e riafferma l’impegno di Washington a fornire a Israele, una potenza nucleare, 1 miliardo di dollari destinati alla difesa missilistica (oltre ai 3,8 miliardi che già riceve) e ad aiutare Israele a costruire “sistemi di armi laser ad alta energia” per difendersi da Iran e dai suoi “terroristi per procura.”

Nella Dichiarazione è degno di nota il riferimento al conflitto del maggio 2021 in cui furono uccisi oltre 250 gazawi, di cui 66 minori, e furono feriti migliaia di palestinesi. In seguito a quell’attacco il Consiglio ONU dei Diritti Umani (HRC) ha istituito una Commissione di Inchiesta per identificare “le cause profonde” degli undici giorni di violenza.

La Commissione ha presentato il suo primo rapporto al Consiglio ONU per i Diritti Umani il 7 giugno, probabilmente mentre si stilava la Dichiarazione di Gerusalemme di Biden e Lapid. A giudicare dal contenuto, il sostegno incondizionato che gli USA hanno sempre offerto a Israele sarà più complicato.

Il nome completo è lunghissimo e la dice lunga. Secondo Ia “Commissione d’Inchiesta indipendente e internazionale (COI) sui Territori palestinesi occupati, compresa Gerusalemme Est e Israele”, “Israele” è effettivamente un unico Stato dal fiume [Giordano] al mare [Mediterraneo], uno Stato chiaramente di apartheid, ma dove il problema fondamentale sono i coloni.

Navanethem (Navi) Pillay, giurista sudafricana con straordinarie credenziali (vedi sotto), presiede la Commissione, con l’australiano Chris Sidoti, consulente per i diritti umani, e Miloon Kothari, accademico e attivista indiano per i diritti umani e difensore del diritto alla casa.

Dopo il primo rapporto della Commissione, Mondoweiss ha intervistato Miloon Kothari. Le sue opinioni sono schiette e taglienti.

Un mandato sulle cause profonde

A differenza delle passate commissioni d’inchiesta dell’ONU sul “conflitto” in Medio Oriente, il mandato della Commissione Pillay non ha limiti temporali, non è soggetto a rinnovi annuali né a restrizioni nell’esame del conflitto che ha portato alla sua costituzione. Al contrario, le è stato detto di procedere con calma ed esaminare le “cause profonde sottostanti alle tensioni ricorrenti.”

E, in contrasto con le passate commissioni e i passati relatori speciali sui Territori Palestinesi Occupati (OPT), la Commissione è stata incaricata di esaminare la situazione sia nei Territori che in Israele “propriamente detto”, (“Israel itself,” come definito nel rapporto di giugno della Commissione).

“Quindi essenzialmente stiamo esaminando la situazione dei diritti umani dal fiume al mare,” dice Kothari a Mondoweiss. “Ci sono somiglianze dentro e fuori la Linea Verde [il confine tra Israele e la Cisgiordania prima dell’occupazione nel 1967, ndt.] e quindi bisogna fare dei collegamenti.”

Il rapporto di giugno della Commissione sottolinea questi collegamenti.

“L’impunità alimenta il crescente risentimento fra il popolo palestinese nei Territori Palestinesi Occupati, compresa Gerusalemme Est e in Israele … La continua occupazione dei Territori Palestinesi Occupati, compresa Gerusalemme Est, il blocco di Gaza che dura da 15 anni e la pluriennale discriminazione entro i confini di Israele sono tutti intrinsecamente legati e non possono essere analizzati singolarmente” [corsivo aggiunto].

Miloon Kothari approfondisce il discorso.

“Ciò che è emerso nei territori occupati dal ’67 è già successo entro la Linea Verde fin dal ’48: i livelli di discriminazione, le leggi differenziate e lo spossessamento dei palestinesi in Israele,” dice Kothari a Mondoweiss. “Così io penso sia importante fare questa distinzione, ma anche tracciare dei parallelismi.”

Più facile a dirsi che a farsi. Israele non permetterà alla Commissione Pillay l’ingresso nello “Stato Ebraico” e l’Egitto non la lascerà entrare a Gaza (per ora). Quindi i commissari hanno incontrato palestinesi e israeliani ad Amman e in Europa. Una delegazione di trenta accademici ebrei israeliani, giornalisti ed ex diplomatici ha incontrato la Commissione a Ginevra.

Kothari dice a Mondoweiss: “In generale erano d’accordo con noi e ci hanno incoraggiato a continuare. L’ambasciatore israeliano non ha risposto a una richiesta di un incontro a Ginevra. Se pensano di avere qualcosa da dire dovrebbero lasciarci entrare e spiegare il loro punto di vista sull’intera situazione. Comunque non abbiamo perso la speranza. Continuiamo a provare. E a sperare che, prima o poi, ci permettano di entrare.”

Un’occupazione permanente

Una delle osservazioni più esplicite del primo rapporto della Commissione (limitato in questa fase alla revisione dei risultati delle precedenti commissioni ONU e dei relatori speciali) si riferisce all’apparente permanenza dell’occupazione israeliana.

“La Commissione nota la forza della prova indiziaria credibile che indica in modo convincente che Israele non ha intenzione di porre fine all’occupazione, attua chiaramente politiche per assicurare il controllo completo sui Territori palestinesi occupati e opera per alterare la demografia tramite il mantenimento di un contesto repressivo contro i palestinesi e favorevole ai coloni israeliani,” afferma il rapporto.

Come ha fatto notare Michael Lynk, ex relatore speciale ONU, un’occupazione belligerante “permanente” secondo il diritto internazionale è un ossimoro. Miloon Kothari va oltre.

“È stata illegale fin dagli inizi,” dice Kothari a Mondoweiss.

“Mi spingerei a sollevare la domanda sul perché (Israele è) membro delle Nazioni Unite. Perché… il governo israeliano non rispetta i propri obblighi come Stato membro dell’ONU. In realtà, sia direttamente che tramite gli Stati Uniti, cerca sempre di minare il funzionamento dell’ONU.”

E Kothari e gli altri commissari sostengono che Israele pratica il grave crimine di apartheid.

Citando osservazioni del Comitato ONU sui diritti Civili e Politici, la Commissione Pillay nota il “sistema a tre livelli sistema giuridico (israeliano) che concede uno stato civile, diritti e protezione legale differenziati a seconda che si tratti di cittadini ebrei israeliani, cittadini palestinesi di Israele e palestinesi residenti a Gerusalemme Est.”

Inoltre nel suo rapporto iniziale la Commissione sottolinea che “Israele applica una parte sostanziale della sua legislazione interna ai coloni israeliani in Cisgiordania, mentre i palestinesi sono soggetti alla legge militare israeliana.”

Limiti dell’apartheid

Ma la Commissione Pillay non è ancora pronta a uscire dal limbo dell’apartheid.

“L’apartheid è un paradigma/quadro per capire la situazione, ma non è sufficiente,” dice Kothari a Mondoweiss.

“Dobbiamo includere il colonialismo, temi generali come la discriminazione, l’occupazione e altre dinamiche per ottenere un quadro completo delle cause alla radice della crisi attuale… porre fine all’apartheid non porrà fine alla crisi dell’occupazione per il popolo palestinese … il tema dell’autodeterminazione richiede molti altri cambiamenti.”

Ma la Commissione Pillay “in futuro arriverà al tema dell’apartheid perché prenderemo in esame la discriminazione in generale, dal fiume al mare.” dice Kothari.

Nel frattempo la Commissione sta raccogliendo dati forensi per presentarli alla Corte Penale Internazionale (ICC) e alla Corte Internazionale di Giustizia.

“Il nostro lavoro consiste nel formare un archivio di tutte le testimonianze che riusciamo a raccogliere e poi, al momento appropriato, consegnarlo agli organi giudiziari che possono agire,” dice Kothari.

Documentare lo spossessamento

Il segretariato della Commissione Pillay ha a sua disposizione competenze in materia di indagine e consulenza legale, dice Kothari, ed è in contatto con la ICC. A giugno Kothari e i suoi colleghi si sono recati presso la Corte Penale Internazionale, dove hanno incontrato Nazhat Shameem Khan (nessun rapporto con il procuratore capo Karim Khan), la sostituta procuratrice e il suo team.

Mentre raccoglie testimonianze legali per futuri casi giudiziari, la Commissione Pillay progetta anche di individuare “la responsabilità di terzi” dalle “alte parti contraenti” della IV Convenzione di Ginevra. L’articolo 1 della Ginevra IV richiede loro di “rispettare e garantire il rispetto della convenzione in ogni circostanza.”

Fra i temi che la Commissione prenderà in esame con parti terze come USA, Canada e UE ci sono il trasporto di armi in Israele e il coinvolgimento delle loro imprese nell’occupazione a quanto pare permanente di Israele e l’impresa delle colonie, palesemente illegale.

“Speriamo di convincere questi Paesi ad andare oltre l’ideologia e la cieca fiducia in qualsiasi cosa faccia Israele,” dice Kothari.

La Commissione ha in mente di andare in Libano, Giordania, Egitto, Siria e Nord America, per parlare con la diaspora palestinese.

“Ci sono rifugiati che storicamente sono stati espropriati nei territori occupati,” dice Miloon Kothari a Mondoweiss.

Per documentarlo la Commissione userà dati geospaziali che “mostrano molto chiaramente… fino a che punto le dimensioni dell’occupazione si siano consolidate in Cisgiordania e i danni arrecati, per esempio, dal blocco di Gaza.”

Il rapporto della Commissione presenterà questi e altri risultati nel suo secondo rapporto all’Assemblea Generale dell’ONU nella terza settimana di ottobre 2022.

Pressioni politiche

Alcuni membri della Commissione andranno due settimane negli USA per partecipare a tavole rotonde in università e incontrare i parlamentari che siano interessati a incontrarla.

Kothari attira l’attenzione di Mondoweiss sull’Atto di Eliminazione della COI (Commissione di inchiesta). Appoggiato da 73 Repubblicani e 15 Democratici (inclusi Henry Cuellar, Josh Gottheimer e Ritchie Torres), la Risoluzione 7223 della Camera (dei Rappresentanti) chiede una riduzione del 25% degli stanziamenti USA per il Consiglio per i diritti umani che sembra corrispondere al lavoro della Commissione Pillay.

Niente fa arrabbiare gli alleati di Israele più della presidentessa sudafricana della Commissione. Navi Pillay è stata oggetto di attacchi al vetriolo dal momento della sua istituzione.

Le credenziali di Pillay sono notevoli. La prima donna ad aprire uno studio legale nella sua provincia natale di Natal, ha difeso attivisti anti-apartheid incarcerati a Robben Island, è stata giudice dell’Alta Corte del Sud Africa e poi del Tribunale Penale Internazionale per il Ruanda. Pillay al momento fa parte della Corte Internazionale di Giustizia, della Commissione Internazionale contro la pena di morte e del Consiglio Consultivo dell’Accademia Internazionale dei Principi di Norimberga. Presiede inoltre l’inchiesta para-giudiziaria sulla Detenzione nella Repubblica Popolare Democratica di Corea.

Le sue credenziali non fanno vacillare i suoi oppositori negli USA o in Canada. La [lobby filoisraeliana canadese] B’Nao Brith ha fatto pressione sul governo canadese per farla licenziare ed è stata consigliata (o almeno così dice) di parlare direttamente con Bob Rae, l’ambasciatore canadese.

“Su suggerimento di Rae,” riferisce la BBC, ha anche “richiesto l’aiuto della missione canadese a Ginevra.”

Global Affairs Canada (dipartimento del Governo canadese) a cui è stato chiesto se la BBC avesse veramente chiesto alla missione canadese a Ginevra di far licenziare la dott.ssa Pillay, “educatamente” mi ha detto che non hanno “nulla da aggiungere.”

Dopo il rapporto della Commissione del 7 giugno, quando la porta della stalla era spalancata e i buoi scappati, il Canada si è unito agli Usa e ad altri venti Paesi nella condanna del lavoro della Commissione. La loro lettera al Consiglio per i diritti umani esprime “profonda preoccupazione” circa il mandato “aperto” della Commissione senza “clausola di caducità, data finale o limiti precisi.”

“Nessuno è al di sopra del controllo,” sottolinea la lettera. “Dobbiamo lavorare per opporci all’impunità e promuovere il principio di responsabilità sulla base di criteri applicati in modo coerente e universale.”

Comunque, continua la lettera, “noi crediamo che la natura del COI… dimostri ulteriormente la lunga e sproporzionata attenzione verso Israele da parte del Consiglio… Noi continuiamo a credere che questo esame lungo e sproporzionato debba terminare e che il Consiglio debba affrontare tutti i temi riguardanti i diritti umani, indipendentemente dal Paese, in modo imparziale.”

Miloon Kothari concorda che ‘il Consiglio debba affrontare tutti i temi riguardanti i diritti umani, indipendentemente dal Paese, in modo imparziale”, ma respinge la “doppiezza” e il “doppiopesismo” contenuti nel resto della lettera.

“Quando si parla di Ucraina, il diritto internazionale diventa molto, molto importante,” ha detto a Mondoweiss. “E si procede a testa bassa facendo notare tutte le violazioni commesse dalla Russia. Ma le stesse violazioni di occupazione e spossessamento compiute da Israele non ricevono lo stesso trattamento.”

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




La Germania fornisce un timbro kosher all’occupazione israeliana

Avraham Burg

26 luglio 2022 – Haaretz

La destra israeliana razzista e conservatrice controlla le azioni della Germania riguardo agli ebrei, all’antisemitismo e a Israele

Qualche settimana fa ho preso parte ad un’importante conferenza in Germania sul sequestro della memoria dell’Olocausto e la nuova destra. E’ stata una delle più intense, particolari e impegnate conferenze a cui abbia mai partecipato.

L’establishment ebraico locale ha immediatamente reagito con una prevedibile risposta pavloviana: “Antisemiti!”, “Sostenitori del BDS!”. Ci sono state anche sgradevoli e scorrette insinuazioni riguardo ad uno dei più importanti storici della nostra generazione (ovviamente non ebreo). Io c’ero: mentono e distorcono la realtà. Ecco perché adesso mi è chiaro che è tempo di far scoppiare il bubbone di cui sono responsabili.

Negli anni scorsi si sono svolti in Germania parecchi eventi che hanno messo in questione il discorso ebraico-israeliano-tedesco. Uno scrittore ebreo, che sta fuori dal coro dei conservatori, è stato messo a tacere perché sua madre non è ebrea. Contemporaneamente il direttore del museo ebraico di Berlino è stato costretto a dimettersi a causa di un tweet sulla libertà di espressione.

Ora sono nel mezzo di una feroce campagna di delegittimazione nei confronti di alcune tra le più importanti istituzioni di ricerca e culturali sia in Germania che nel mondo: l’Einstein Forum e il Centro Internazionale di Berlino per lo studio dell’antisemitismo. Nella miglior tradizione della falsa propaganda, hanno rinominato quest’ultimo “l’istituzione per l’antisemitismo”.

Stanno cercando di intimidire e intimorire centri importantissimi e validi ricercatori la cui unica colpa è lottare per una ricerca in profondità e universale, senza che vengano imposte a priori delle mistificazioni demagogiche. Chiunque osi esprimere un’opinione o una posizione diversa dalla loro rischia di essere giustiziato pubblicamente.

La Germania ha un governo eletto, ma quando si tratta di sensibilità su questioni legate alla storia ebraica-tedesca o all’attuale problema dell’antisemitismo tutto viene controllato dal Consiglio Centrale degli Ebrei in Germania. Questo ente dovrebbe rappresentare la totalità degli ebrei della Germania, ma di fatto ne rappresenta solo una piccola parte.

Sotto molti aspetti ciò è logico e giustificabile. Ma pochi colgono la catena di connessioni: l’estrema destra guida la politica dello Stato di Israele; Israele modella le posizioni del Consiglio Centrale e a sua volta questo ente detta la linea delle discussioni politiche più delicate in Germania. Ciò significa che la destra israeliana conservatrice e razzista ha il controllo di una gamma di sentimenti dei tedeschi relativi al loro passato riguardante gli ebrei, l’antisemitismo e Israele.

Come è successo? Israele ha trasformato l’antisemitismo in una potente arma diplomatica. Il suo governo conservatore ha ampliato molto questo concetto. Ogni critica è antisemita; ogni oppositore è un nemico; ogni nemico è Hitler; ogni anno è il 1938.

Questa è la struttura portante della sensibilità politica e dell’arte di governo di Israele e la Germania vi gioca un ruolo chiave: funge da certificazione kosher [di purezza dal punto di vista della religione ebraica, ndt.] per le ingiustizie perpetrate dagli ebrei israeliani. Lo Stato tedesco è terrorizzato da ogni confronto o chiarificazione con Israele sulla natura dell’antisemitismo contemporaneo e sulla questione di che cosa sia una critica corretta delle illegittime politiche israeliane.

Tramite questa elusione la Germania è diventata il maggior garante e complice della realtà in cui i palestinesi sono privi di diritti e di status nella loro stessa patria. Non ci sarà mai pace in Medio Oriente, né esisterà un Israele sano e duraturo, finché la Germania sarà prigioniera delle complessità del suo passato.

L’Olocausto e lo Stato di Israele devono rimanere componenti cruciali dell’identità politica ed etica della Germania – ma non si tratta di questo. In tutti gli ambiti relativi ad Israele e al popolo ebreo, in Germania attualmente non esiste una reale libertà di espressione. Viene attivata automaticamente una stretta e severa censura, anche se si può capire. Ma un meccanismo di cinico sfruttamento politico ha preso il controllo, trasformando l’Olocausto e la sua memoria in strumento per respingere ogni critica ad Israele.

Non esiste nessun altro Paese nell’Occidente democratico che nega i diritti naturali di milioni di persone a votare ed essere eletti, a vivere nel proprio Paese in virtù del diritto all’autodeterminazione, come fa Israele al popolo palestinese. Israele è in grado di fare questo perché gli Stati Uniti considerano giusta la loro visione distorta e la Germania sostiene ogni capriccio israeliano automaticamente e cecamente.

C’è ancora del vero antisemitismo nel mondo e non si deve mostrare alcuna comprensione o legittimazione verso di esso. In piccola parte si tratta del vecchio e tradizionale antisemitismo; in parte è una variante diffusa da gruppi anti-israeliani che usano il crimine dell’occupazione per attaccare tutti gli ebrei dovunque siano e negano la loro esistenza come individui e come comunità.

C’è anche un livello ancor più subdolo e pericoloso di antisemitismo: quello che si ammanta di un falso sostegno ad Israele per nascondere la propria xenofobia e odio per gli immigrati. E’ l’antisemitismo dei fascisti e dei neo-nazisti che “amano” Israele. E sorprendentemente parecchi ebrei perbene e tedeschi dell’establishment li sostengono perché, almeno per il momento, appaiono come filo-ebrei o filoisraeliani. In termini più chiari: ci sono ebrei e tedeschi che sostengono l’antisemitismo sottoforma di amore per Israele.

C’è un altro modo per combattere l’antisemitismo globale e l’odio per gli ebrei in Germania. E’ accettabile criticare Israele, esattamente come è accettabile difenderlo. Si può contestare le sue politiche, così come si può appoggiarle. Ed è persino possibile che esista un antisionismo ideologico e intellettuale che non è antisemitismo.

Inoltre la lotta contro il vero antisemitismo non è un problema solo per gli ebrei. Si deve costituire un’alleanza contro ogni forma di odio, sia locale che globale. Quando qualcuno odia un turco, odia anche me. Quando offende i musulmani, offende me. E quando perseguita gli immigrati, le donne e i membri della comunità LGBTQ+, anche io vengo perseguitato. Perché questo è il volto del vero ebraismo, dalla Bibbia a Martin Buber: una civiltà che non ignora mai i propri obblighi universali verso tutte le persone.

L’odio per gli ebrei non deve costituire un’eccezione nell’elenco di odi dei nostri tempi. Solo in questo modo, attraverso la solidarietà con tutte le vittime, possiamo ottenere la vittoria sulla coalizione degli odiatori e dei populisti. In questa lotta globale tedeschi ed ebrei hanno un ruolo strategico di enorme importanza. La Germania è la chiave dell’intero Occidente. È una vergogna che i suoi dirigenti siano un’irresponsabile banda di ebrei egocentrici e tedeschi incapaci di distinguere la luce dal buio.

Come presidente a mio tempo della Knesset [il parlamento israeliano, ndt.] e come ex presidente dell’Organizzazione Mondiale Sionista, che è stata coinvolta per molti anni in questa questione, chiedo al governo tedesco e a Josef Schuster, presidente del Consiglio Centrale degli ebrei in Germania: scegliete una data e un luogo e discutiamo del modo in cui l’Olocausto deve essere ricordato nel XXI secolo; del fatto che è vietato sfruttarlo per fini politici impropri; di come rappresentare gli ebrei e l’ebraismo. E soprattutto di come costruire un mondo in cui Israele sia un esempio per risolvere i conflitti e non un certificato kosher per tutti i meschini interessi nel mondo populista di oggi.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)