Niente fa sì che i progressisti abbandonino i loro valori, o il loro coraggio, quanto menzionare la Palestina

Arwa Mahdawi

12 marzo 2022, The Guardian

Come il padre di Gigi Hadid, anche il mio è un rifugiato palestinese e sono stata vessata per aver sostenuto che anche i palestinesi sono degni dei diritti umani

Progressisti tranne che per la Palestina

Cosa inizia con “P” e finisce con “A” ed è una parola troppo terrificante per molte persone persino da menzionare? “Palestina”, ovviamente! Semplicemente citare la parola con la P in modo anche solo vagamente empatico è sufficiente a suscitare accuse in malafede di antisemitismo. L’argomento è diventato talmente scottante da far pensare che alcune persone preferiscano sostenere che la Palestina e i palestinesi non esistono e ignorare semplicemente tutta la questione. Niente fa sì che i progressisti abbandonino i loro valori, o il loro coraggio, quanto menzionare la Palestina.

Vogue, qui sto parlando di te. Recentemente la rivista ha pubblicato un riferimento alla Palestina tratto da un post su Instagram sulla sua pagina ufficiale nella rete sociale dedicato alla promessa della supermodella Gigi Hadid di donare tutto il suo compenso per la Settimana della Moda alle attività di soccorso in Ucraina e in Palestina. La scorsa domenica Gigi, che è per metà palestinese, ha annunciato che avrebbe devoluto il suo compenso “all’aiuto di quanti sono vittime della guerra in Ucraina, e anche per continuare a sostenere quanti hanno subito la stessa sorte in Palestina. I nostri occhi e i nostri cuori devono essere sensibili a tutte le ingiustizie del mondo.” Inizialmente Vogue ha incluso il riferimento alla Palestina nel post, ma poi lo ha tolto dopo che è stato accusato da alcune voci filo-israeliane, decisamente in malafede, di promuovere l’antisemitismo. Dopo la protesta di persone che hanno evidenziato che non è antisemita appoggiare i palestinesi, Vogue ha poi corretto per la terza volta il post reinserendo il riferimento.

Peraltro non è la prima volta che una Hadid vede cancellare su Instagram i propri commenti sulla Palestina. Lo scorso anno Bella Hadid ha postato su Instagram una foto del passaporto statunitense di suo padre, in cui viene indicata la Palestina come luogo di nascita. La rete sociale l’ha subito cancellata. Perché? Secondo Instagram il post violava “le linee guida della comunità su persecuzione o bullismo”, così come regole sul “discorso d’odio”. Dopo che Bella ha protestato Instagram ha fornito qualche altra spiegazione per la rimozione e poi ha affermato: “Ops, è stato un errore!”

Come il padre delle sorelle Hadid anche il mio è un rifugiato palestinese. Come le sorelle Hadid, anch’io sono stata aggredita e vilipesa per aver osato suggerire che i palestinesi sono degni dei diritti umani. (A differenza delle sorelle Hadid, purtroppo io non sono una supermodella). Come ho scritto in precedenza, a quanto pare per i palestinesi non c’è un modo accettabile di protestare contro l’oppressione o di difendere i propri diritti.

L’invasione russa dell’Ucraina è straziante. Ma voglio essere molto chiara sul fatto che stare dalla parte degli ucraini, come tutti noi dobbiamo fare, non significa ignorare ingiustizie e oppressione altrove. Sollevare domande sul doppio standard non sminuisce la lotta del popolo ucraino. Per esempio, non svia né distrae da quello che sta avvenendo in Ucraina chiedere perché una foto virale di una ragazzina bionda che affronta un soldato davanti a un carrarmato è stata esaltata quando la gente pensava che la ragazza fosse un’ucraina, ma trattata in modo molto diverso quando è stato sottolineato che in realtà si trattava Ahed Tamimi, una palestinese, che affrontava un soldato israeliano.[vedi su Zeitun]

Invece è assolutamente fondamentale fare questo tipo di domande. “L’ingiustizia in qualunque luogo è una minaccia alla giustizia ovunque,” ha affermato Martin Luther King. Queste non sono solo belle parole. Quando ignori le leggi internazionali in un’area ciò contribuisce a indebolire le leggi internazionali in tutto il mondo. Quando alzi le spalle riguardo all’oppressione in un luogo, contribuisci ad aprirle la porta altrove. La solidarietà non è una distrazione, è un verbo.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




L’interdizione di Israele verso i coniugi palestinesi diventa legge definitiva: un trionfo per lo “Stato ebraico”

Jonathan Ofir

11 marzo 2022 – Mondoweiss

Come riportato da Reuters, ieri il parlamento israeliano ha approvato una legge che nega la cittadinanza per naturalizzazione ai palestinesi della Cisgiordania occupata o di Gaza sposati con cittadini israeliani, costringendo migliaia di famiglie palestinesi a emigrare o vivere separate.

La legge definitiva, che vieta l’acquisizione della nazionalità, è stata approvata con 45 voti a favore e 15 contrari, una maggioranza di tre quarti dei voti, trasversale alle componenti della coalizione (solo la metà dell’intero parlamento ha votato sulla legge). Due partiti che fanno parte della coalizione di governo hanno votato contro la legge: il partito sionista di sinistra Meretz e il partito islamista di destra Ra’am. Il resto della coalizione di governo, compresi i laburisti, ha votato a favore della legge razzista, unendo le forze con i politici di estrema destra del parlamento israeliano.

Il parlamentare del partito sionista religioso di destra Simcha Rothman, che ha contribuito a portare il partito kahanista Jewish Power [partito estremista di destra, fondato su un fondamentalismo religioso, ndtr.] in parlamento (con Itamar Ben Gvir, l’ammiratore del terrorista ebreo Baruch Goldstein, in qualità di membro della Knesset), è stato uno dei principali apripista per tale approvazione. Rothman ha esultato già prima del voto di ieri, quando è risultato chiaro che la legge sarebbe stata approvata:

Lo Stato di Israele è ebraico e tale rimarrà… Oggi, se Dio vuole, lo scudo difensivo di Israele risulterà notevolmente rafforzato,

L’altra principale portabandiera di questo provvedimento è un membro di spicco del governo, la ministra dell’Interno Ayelet Shaked, del partito Yamina (di destra) di Naftali Bennett. Con le sue parole di ieri al plenum è stata molto chiara sul suo successo:

Simcha Rothman ha subito compreso il danno che sarebbe derivato in seguito allo scadere della legge e ha lavorato con me per redigere una versione accettabile per entrambe le parti. Dimostrando grande responsabilità, l’opposizione ha contribuito a far approvare la legge.

Lo scorso luglio era scaduta una legge temporanea che vietava l’acquisizione della nazionalità da parte dei coniugi palestinesi, ma da allora Shaked ha incaricato l’amministrazione di continuare ad agire come se fosse in vigore. Poi, a gennaio, in seguito ad una petizione di organizzazioni per i diritti civili, l’Alta Corte le ha ordinato di porre fine al divieto:

Le regole di base del diritto amministrativo non consentono l’applicazione di una legge che non è più in vigore”, ha scritto la giudice Dafna Barak-Erez. Tuttavia, è stata solo questione di poco tempo perché questo problema” legale potesse essere ancora una volta risolto. Come un funzionario vicino a Shaked, citato da The Times of Israel, ha dichiarato:

La ministra intende riesaminare la legge nelle prossime settimane. Si spera che l’opposizione che in precedenza ha fatto decadere la legge non agisca contro lo Stato”.

Ecco cosa è successo ieri. E cosa ne pensano i centristi del governo, parlamentari che per i sionisti progressisti degli Stati Uniti sono degli eroi? Il parlamentare Ram Ben Barak, del partito Yesh Atid (C’è un futuro) [partito centrista e laico, ndtr.] di Yair Lapid, che guida la commissione per gli affari esteri e la difesa, ha approvato la legge “a malincuore”:

Approvo la legge a malincuore e senza gioia. Vorrei che arrivasse un momento in cui non avremo bisogno di questa legge… ma nell’attuale realtà riguardo la sicurezza non possiamo fare altro che difenderci.

Questa legge non è affatto nuova. La novità è che è stata consolidata come legge definitiva. Ha seguito un iter storico di ordinamento temporaneo, di emergenza, che doveva essere rinnovato ogni anno.

Ed è una legge di apartheid. Human Rights Watch [organizzazione non governativa internazionale che si occupa della difesa dei diritti umani, ndtr.], nel suo rapporto di 213 pagine dello scorso anno su apartheid e oppressione israeliane, ha dedicato una sezione a questo problema:

«La legge sulla cittadinanza del 1952 autorizza anche la concessione della cittadinanza per naturalizzazione. Tuttavia, nel 2003 la Knesset ha approvato la legge sulla cittadinanza e l’ingresso in Israele (ordinamento temporaneo), che vieta la concessione della cittadinanza israeliana o dello status legale a lungo termine ai palestinesi della Cisgiordania e di Gaza che sposino cittadini o residenti israeliani. Con poche eccezioni questa legge, rinnovata da allora ogni anno e confermata dalla Corte Suprema israeliana, nega ai cittadini ebrei e palestinesi e agli abitanti di Israele che scelgono di sposare palestinesi il diritto di vivere con il loro partner in Israele. Questa restrizione, basata esclusivamente sull’identità del coniuge come palestinese della Cisgiordania o di Gaza, evidentemente non si applica quando gli israeliani sposano coniugi non ebrei della maggior parte delle altre nazionalità straniere. Questi possono ricevere lo status immediato e, dopo diversi anni, richiedere la cittadinanza.

Nel 2005, nel commentare un rinnovo della legge, il primo ministro dell’epoca, Ariel Sharon, disse: Non c’è bisogno di nascondersi dietro argomenti sulla sicurezza. C’è la necessità dell’esistenza di uno Stato ebraico”. Benjamin Netanyahu, che era allora il ministro delle finanze, disse in quella circostanza nel corso delle discussioni: “Invece di rendere le cose più facili per i palestinesi che vogliono ottenere la cittadinanza, dovremmo rendere le procedure molto più difficili, al fine di garantire la sicurezza di Israele e la presenza in esso di una maggioranza ebraica. “Nel marzo 2019, questa volta come primo ministro, Netanyahu ha dichiarato: “Israele non è uno Stato di tutti i suoi cittadini”, ma piuttosto “lo Stato-nazione del popolo ebraico e solo il loro”.

La legge è simile al famigerato Muslim ban” di Trump [Il bando sui viaggi da paesi a maggioranza musulmana emesso da Donald Trump nel 2017 con il presunto pretesto di prevenire il terrorismo, ndtr.]

E che dire della situazione di sicurezza” che ha spinto Ben Barak a votare tanto a malincuore a favore della legge?

Il Times of Israel [quotidiano online principalmente in lingua inglese, con sede in Israele, ndtr.] riferisce che lunedì lo Shin Bet, il servizio di sicurezza israeliano, ha consegnato un rapporto al parlamento in cui si afferma che tra il 1993 e il 2003 130.000 palestinesi hanno ricevuto la cittadinanza o la residenza attraverso il ricongiungimento familiare e che tra il 2001 e il 2021 48 di questi sono stati coinvolti in attività terroristiche”.

Il Times of Israel non analizza né si interroga su queste cifre, ma penso che ci siano buone ragioni per esaminarle. 48 su 130.000 costituisce uno su 2.708, ovvero lo 0,03%. Consideriamo ora ciò che Israele definisce terrorismo”. L’anno scorso abbiamo appreso che queste persone potrebbero essere membri di importanti organizzazioni per i diritti umani, come Al Haq [organizzazione palestinese indipendente per i diritti umani con sede nella città di Ramallah, ndtr.], o chissà, forse loro segreti sostenitori o simpatizzanti (come me).

Possono essere persone che hanno condiviso qualche generico messaggio sui social media che “si adatta al profilo” di un possibile “sostenitore del terrorismo”, o qualcuno che condivide poesie sulla resistenza, come Dareen Tatour [poetessa, fotografa e attivista palestinese,ndtr.] o la componente del Consiglio legislativo palestinese Khalida Jarrar, ripetutamente incarcerate senza accusa (detenzione amministrativa).

Attenzione, non sto nemmeno parlando di persone che lanciano bottiglie molotov, qualcosa per cui al giorno d’oggi l'”Occidente” sembra avere una grande comprensione quando si tratta della resistenza ucraina all’occupazione russa. Quindi il punto è che la definizione israeliana di “attività terroristiche” è una definizione molto, molto ampia. Lo Shin Bet comunque controlla chiunque entri o si muova attraverso Israele e tra i territori che occupa ecc. Non c’è bisogno di emanare punizioni collettive anche a livello di unificazione familiare solo per rendere le cose più difficili per i palestinesi e più facili per lo Shin Bet, a discapito di un diritto umano fondamentale come il diritto alla vita familiare.

E così il centrista Ram Ben Barak dice che semplicemente non ha altra scelta che difendersi” da questi terroristi. Siede in parlamento con Itamar Ben Gvir [del partito sionista religioso di estrema destra Otzma Yehudit, ndtr.] che idolatra l’autore del massacro di Hebron, Baruch Goldstein, che nel 1994 uccise 29 fedeli musulmani nella moschea di Al-Ibrahimi, e deve difendersi dai terroristi con questa legge. Se il parlamentare israelo-palestinese Ahmad Tibi, o Ayman Odeh [ambedue membri della Lista Comune arabo israeliana, ndtr.] possedessero dei poster di palestinesi che avessero perpetrato massacri simili di ebrei (come Ben Gvir aveva un poster di Goldstein), non sappiamo come andrebbe a finire.

il quadro inverso è impossibile da immaginare. Possiamo pensare che qualcuno suggerisca di vietare agli ebrei il ricongiungimento familiare in quanto sembrerebbe che molti di loro compiano azioni terroristiche contro i palestinesi? Magari di limitare l’unificazione familiare dei coloni della Cisgiordania, dal momento che sembrano avere un ruolo più prominente in quello che può solo essere descritto come terrorismo ebraico, cresciuto negli ultimi anni? E Ayelet Shaked, ministra dell’Interno e porta bandiera di questa legge che mette al bando i coniugi palestinesi, è mai stata incarcerata per il post del 2014 con cui sosteneva un vero e proprio genocidio dei palestinesi, comprese donne e bambini? Le ha forse ciò precluso l’investitura di parlamentare e addirittura di ministra della giustizia (2015-19)?

Dopo l’approvazione della legge, Shaked si è vantata in un tweet:

Uno Stato democratico ebraico – 1

Uno Stato di tutti i suoi cittadini – 0

E quest’ultimo tweet rappresenta l’intera faccenda in poche parole. Quello che Shaked chiama uno “Stato democratico ebraico” non è democratico, è uno Stato di supremazia ebraica dal fiume al mare, proprio come lo chiama l’israeliana B’Tselem [ONG israeliana per i diritti umani nei territori occupati, ndtr.] nel suo rapporto sull’Apartheid dello scorso anno.

Quello che Shaked chiama “uno Stato di tutti i suoi cittadini” è in realtà quello che normalmente chiameremmo uno Stato democratico, in cui sono assicurati i diritti fondamentali come il ricongiungimento familiare. Chiunque sia ingannato dalle argomentazioni da parte di Israele sulla sicurezza e sul “terrore”, dovrebbe leggere di nuovo il testo dell’ultimo tweet di Shaked. Se si vuole riassumerlo ulteriormente, in realtà dice proprio “Uno Stato democratico – 0”.

H/t Ofer Neiman

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Gli ucraini fuggiti in Israele si trasformeranno da un giorno all’altro in coloni e colonizzatori

Azad Essa

10 marzo 2022 – Middle East Eye

Non si può permettere a Israele di strumentalizzare il conflitto Russia-Ucraina per consolidare la propria ‘superiorità demografica’ nella Palestina storica.

I pogrom cominciarono prima che il fumo si dissolvesse e i morti della Prima Guerra Mondiale fossero sepolti. 

Gli ebrei, bloccati nella guerra civile che dal 1918 dilagò nell’impero russo, furono oggetto di almeno mille pogrom. Furono incolpati della Prima Guerra Mondiale e della rivoluzione russa del 1917. Furono accusati di ammassare cibo e ricchezze. Furono vessati e picchiati nelle loro case, aggrediti sessualmente in strada e, in centinaia di occasioni, messi in fila e ammazzati.

Gli storici stimano che entro il 1921 furono uccisi più di 100.000 ebrei ucraini. I pogrom contro di loro ebbero parecchie conseguenze per l’Europa e gli ebrei nel resto del mondo.

Nel suo nuovo libro In the Midst of Civilised Europe: The Pogroms of 1918-1921 and Onset of the Holocaust [Nel cuore della civile Europa: i pogrom 1918-1921 e l’inizio dell’Olocausto], ed. Metropolitan Books, lo storico di Chicago Jeffrey Veidlinger sostiene che la febbrile violenza inflitta agli ebrei in Ucraina agli inizi degli anni ’20 rappresentò un precedente della brutalità degli anni che seguirono.

Nonostante la lunga storia della persecuzione contro gli ebrei in Europa, la spudorata violenza contro gli ebrei nei pogrom dopo la Prima Guerra Mondiale fu un’anticipazione dell’Olocausto vent’anni dopo nella Germania nazista. In altre parole gli assassini di massa approvata dallo Stato con Adolf Hitler ebbero come precedenti parecchi massacri di dimensioni minori per mano di persone comuni e degli eserciti che combattevano i bolscevichi.

Comunque i pogrom contro gli ebrei ucraini ebbero un altro effetto a catena. 

Una patria ebraica

Essi nutrirono la necessità di creare una patria ebraica che divenne estremamente possibile quando, durante la Prima Guerra Mondiale i britannici, subentrarono agli ottomani in Palestina.

I profughi ucraini in Israele, quello stesso popolo appena sfuggito oggi a guerra, fame e occupazione straniera, si trasformeranno da un giorno all’altro in coloni e colonizzatori.

Sumaya Awad e Annie Levin in Palestine: A Socialist Introduction [Palestina: un’introduzione socialista] (ed. Haymarket Books), scrivono che la dichiarazione di Balfour [ministro degli Esteri britannico che impegnò l’impero a favorire un “focolare ebraico” in Palestina, ndtr.] nel 1917 fu “il primo riconoscimento ufficiale delle colonie sioniste”. Il sostegno britannico a una patria ebraica affrettò il trasferimento di migliaia di emigranti ebrei nella Palestina occupata dalla Gran Bretagna.

Fra il 1921 e il 1923 circa 40.000 ebrei ucraini si diressero in Palestina come coloni e colonizzatori

L’arrivo dei profughi ebrei rese permanenti le tensioni con i nativi palestinesi che si videro strappare via la propria terra da sotto i piedi. Catalizzò una serie di schermaglie fra le due comunità, la più conosciuta delle quali fu quella di Giaffa nel 1921, durante la quale furono uccisi 48 palestinesi e 47 ebrei. 

 Il sionismo, come altri progetti coloniali, era fondato sulla disumanizzazione degli indigeni palestinesi. Per gli ebrei fuggiti dall’Ucraina e altrove la Palestina era loro e perciò deserta, e, ove abitata da palestinesi, non civilizzata.

Veidlinger scrive che gli ebrei ucraini erroneamente tracciano paralleli fra la resistenza palestinese alla colonizzazione delle loro case e le persecuzioni subite in Europa.

 Veidlinger afferma: “Nonostante le numerose differenze fra le rivolte in Palestina e i pogrom in Ucraina, non ultima l’elevato numero di morti arabi, che stavano a indicare scontri letali più che pogrom, l’idea che la violenza nella Terra Santa fosse solo un altro pogrom fu alla base di un mito che finì per caratterizzare l’ala destra del movimento sionista”. 

Con l’avvento della Germania nazista negli anni ’30 e poi con la Seconda Guerra Mondiale l’emigrazione ebraica in Palestina diventò ancora più “urgente”, anche perché altri Paesi, come gli USA, limitavano l’immigrazione ebraica.

Si stima che i nazisti massacrarono 17 milioni di persone, fra cui ebrei, russi, polacchi, rom, gay, disabili. E anche se, secondo il quotidiano israeliano Haaretz, i sionisti cooperarono con i nazisti tedeschi, l’Olocausto diventò il più importante attestato della legittimità di Israele. 

Il giornalista australiano Anthony Lowenstein scrive: “I nazisti uccisero sei milioni di ebrei e i leader sionisti, con a capo (David) Ben-Gurion, videro l’opportunità unica di sfruttare le sofferenze degli ebrei per ottenere la simpatia del mondo e fondare una patria ebraica”.

Rifugiati ebrei ucraini 2.0

A pochi giorni dall’invasione russa dell’Ucraina alla fine di febbraio 2022, poco più di un secolo dopo i pogrom in Ucraina, il governo israeliano ha invitato gli ebrei ucraini a fare aliyah, cioè a emigrare nella Terra Santa.

L’hanno chiamata “Operazione Israele garantisce” (Arvut Yisrael), fondata sulla Legge israeliana del ritorno che garantisce agli ebrei di ogni parte del mondo la cittadinanza automatica in base alla loro religione.

Come durante la Seconda Guerra Mondiale non sono solo gli ebrei ad affrontare la calamità della guerra in Europa orientale. Tutti i 44 milioni di abitanti dell’Ucraina stanno affrontando una minaccia esistenziale mentre l’esercito russo attacca con truppe di terra e terrificanti bombardamenti aerei.

In 12 giorni sono sfollati più di 2 milioni di ucraini. “Noi chiediamo agli ebrei in Ucraina di immigrare in Israele, la vostra casa,” ha detto il ministro israeliano per la Aliyah e l’integrazione. Anche il primo ministro Naftali Bennett ha descritto lo Stato di Israele come “un rifugio per ebrei in pericolo”.

“Questa è la nostra missione. Noi compiremo anche questa volta la nostra sacra missione,” ha detto Bennett.

Con perfetto tempismo la sezione per le colonie dell’Organizzazione sionista mondiale (OSM) ha detto che avrebbe costruito abitazioni temporanee per coloro che scelgono di compiere il viaggio. Anche Pnina Tamano-Shata [del partito di centro-destra Blu e Bianco e prima etiope a ricoprire un ruolo di governo, ndtr.], ministra israeliana per l’Immigrazione e l’Integrazione, ha detto che i destini degli ebrei in Israele e di quelli della diaspora sono “intrecciati”.

Quando la decisione del governo verrà approvata i membri del dipartimento per le colonie sono in grado di metterla immediatamente in atto,” dice Yishai Merling a capo della divisione colonie dell’OSM.

E aggiunge: “I combattimenti in corso in Ucraina e l’incertezza richiedono allo Stato di Israele di prepararsi in funzione dell’assorbimento degli immigrati dall’Ucraina. Israele deve prendersi la responsabilità delle comunità ebraiche che vivono là. È quello che Israele ha fatto in passato ed è quello che lo Stato ebraico deve fare oggi.”

Da rifugiati a coloni

In base all’ultimo calcolo almeno 467 ebrei ucraini hanno compiuto il viaggio verso Israele come fecero i loro compatrioti un secolo fa.

Le stime variano, ma secondo parecchie fonti ci sono circa 40.000 persone in Ucraina che si considerano ebrei, incluso il presidente Volodymyr Zelensky. Ce ne potrebbero essere quattro volte tante di origine ebraica e che quindi hanno diritto all’aliyah.

Ayelet Shaked, ministra degli Interni israeliana, questa settimana ha detto che circa 100.000 ebrei ucraini potrebbero arrivare nel Paese e diventare cittadini.

Agli ebrei ucraini, in fuga da guerra e caos in Ucraina, verrà ora dato rifugio, cibo e protezione e chiesto di vivere su terre prese ai palestinesi. Alcuni potrebbero vivere su terre sottratte di recente, note come colonie illegali nei territori palestinesi occupati in violazione del diritto internazionale.

Secondo la divisione colonie dell’OSM i nuovi arrivati saranno collocati in colonie sulle alture del Golan occupato, nel Negev, ad Arava [sul confine sud tra Israele e la Giordania, ndtr.], nella Valle delle Sorgenti e nella valle del Giordano [in Cisgiordania, ndtr.].

Alcune famiglie si sono già spostate a Nazareth Illit (ora Nof Hagalil), su terre sottratte negli anni ’50 alla vicina città di Nazareth, parte di un più vasto tentativo di “ebraizzare” e soffocare lo sviluppo e la crescita palestinese nella regione. All’epoca la zona era prevalentemente abitata da palestinesi.

Altre potrebbero spostarsi in terre precedentemente rubate ed edificate sui villaggi oggetto di pulizia etnica quando Israele fu creato nel 1948 nella Palestina storica. Circa 750.000 palestinesi furono espulsi nel 1948 per far posto allo Stato di Israele.

E come i loro predecessori giunti un secolo fa, si impregneranno del credo sionista secondo cui la terra era vuota e che i palestinesi cacciati nel 1948, di cui circa cinque milioni languono ancora in campi profughi o che vivono in zone diverse del mondo e sono impossibilitati a ritornare alle proprie case o che stanno vivendo come dei prigionieri nella Gaza soggetta a blocco, sono minacce alle loro esistenze di ebrei.

Non un gesto umanitario

In altre parole le stesse persone che sono appena fuggite da guerra, fame e occupazione straniera oggi si trasformeranno in un batter d’occhio in coloni. Semplicemente si inseriranno nel sistema israeliano di segregazione istituzionalizzata e discriminazione conosciuto come apartheid.

Non fraintendetemi: gli ucraini stanno pagando il prezzo di una guerra fra due fragili imperi in lotta per dominio e potenza. 

Ma anche in questo momento di emergenza globale in cui vanno intentate azioni immediate per salvare vite civili in Ucraina non c’è assolutamente motivo per far pagare ai palestinesi i costi di questo conflitto.

Non si può permettere a Israele di strumentalizzare il conflitto Russia-Ucraina per popolare la terra palestinese con altri ebrei per consolidare quello che Lana Tatour, docente di colonialismo e diritti umani alla University of New South Wales a Sydney, descrive come “superiorità demografica”.

Assorbire ebrei da tutto il mondo non è un gesto umanitario, è una politica strategica. Rafforza Israele come patria ebraica.Ma allora, dopo un secolo, chi stiamo prendendo in giro?

Israele è sopravvissuto ed è prosperato come Stato coloniale di insediamento e ha costruito la propria legittimità e credibilità come democrazia liberale nonostante le sue politiche razziste perché, fin dall’inizio, Gran Bretagna, Francia e in particolare gli USA non hanno mai riconosciuto i palestinesi come importanti o persino come esseri umani.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Azad Essa

Azad Essa, giornalista esperto di Middle East Eye, vive a New York. Dal 2010 al 2018 ha lavorato per l’edizione in inglese di Al Jazeera occupandosi dell’Africa meridionale e centrale. È l’autore di The Moslems are Coming [Arrivano i musulmani] (Harper Collins India) e Zuma’s Bastard [Il bastardo di Zuma] (Two Dogs Books). 

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Un premier espansionista, violento e razzista si reca in Russia per verificare se Putin è sano di mente

Jonathan Ofir

9 marzo 2022, Mondoweiss

Il primo ministro israeliano Naftali Bennett si è recato a Mosca sabato scorso e dopo un incontro di tre ore con Vladimir Putin ha dato questo responso:

[Putin] non sta teorizzando il complotto e non è fuori di senno, né soffre di attacchi di collera…”

È abbastanza comico. Mi chiedo cosa avrebbe detto Bennett se Putin avesse affermato “Ho ucciso molti ucraini nella mia vita, e non c’è nessun problema”.

Questa è ovviamente la frase sugli “arabi” che Bennett ha pronunciato nel 2013, e che da allora ha cercato di ammorbidire (con l’aiuto di gruppi di apologeti israeliani) quando è diventata scomoda.

Immaginate se Putin durante l’incontro avesse detto: “Quando ancora gli ucraini si arrampicavano sugli alberi, noi qui avevamo già uno Stato”.

Avrebbe potuto cambiare il giudizio di Bennett: sarebbe stato evidente che chiamava subumani gli ucraini. Eppure questa è semplicemente la battuta di Bennett sui palestinesi, indirizzata al deputato israelo-palestinese Ahmad TIbi nel 2010.

Se Putin avesse detto che gli ucraini sono come “schegge nel sedere” (come ha detto Bennett a proposito dei palestinesi), allora Bennett avrebbe potuto concludere che Putin ha seri problemi di collera e dopo tutto potrebbe non essere così equilibrato. 

Bennett e Putin condividono una quantità inquietante di teorie complottiste e, in fondo, sono molto simili nel negare che i loro presunti nemici – rispettivamente palestinesi e ucraini – siano persone vere che meritano un vero Stato. Come ha scritto ieri Peter Beinart nel suo ottimo articolo su Jewish Currents “Giustificazioni alla distruzione di un popolo”: “Gli argomenti utilizzati dal governo russo per disumanizzare gli ucraini sono sorprendentemente simili a quelli che il governo israeliano usa per disumanizzare i palestinesi.”

Detto questo, c’è una differenza cruciale tra il pensiero israeliano e russo rispettivamente ai palestinesi e agli ucraini. Beinart: “Il discorso ufficiale russo e quello israeliano differiscono in almeno un aspetto importante. Putin sostiene che gli ucraini sono in realtà russi, che devono essere sottomessi e integrati. [Golda] Meir e [Benjamin] Netanyahu non hanno mai sostenuto che i palestinesi siano veramente israeliani o ebrei. Sostenevano invece che i palestinesi siano genericamente arabi, che Israele potrebbe quindi incoraggiarli a reinsediarsi altrove nel mondo arabo. Nonostante questa differenza, i leader israeliani definiscono l’identità palestinese non solo come falsa, ma manipolata dai nemici di Israele, che è ciò che Putin dice dell’identità ucraina.”

Quindi, cosa ha fatto Bennett con Putin per tre ore, oltre a valutare se lo stato mentale di Putin sia o no equilibrato? A quanto pare, non molto. Il Times of Israel riferisce: “Una fonte diplomatica citata nel rapporto ha affermato che Bennett è stato prudente con Putin, visto che il leader russo ‘non è interessato a un cessate il fuoco o ai corridoi umanitari’ “.

Certo, non si vorrà fare pressione su una persona perché accetti una soluzione così radicale come i corridoi umanitari …

In un altro articolo, The Times of Israel cita due esperti russi che si mostrano preoccupati di come Putin stia usando persone come Bennett per guadagnare tempo per riorganizzarsi. Uriel Epshtein della Renew Democracy Initiative di Gary Kasparov afferma semplicemente che “non c’è nessuno spazio, assolutamente nessuno per un contributo di Israele a por fine alla guerra, e che “l’idea che Israele sarà il fulcro del processo decisionale di Putin per arrivare in qualche modo a un accordo tra Russia e Ucraina, o Russia e Occidente, è un’illusione”.

In questo articolo viene citata anche Anna Borshchevskaya, esperta russa del Washington Institute for Near East Policy (uno spin-off del gruppo di lobby israeliano AIPAC [Comitato Americano per gli Affari Pubblici Israeliani, che sostiene le politiche filo-israeliane al Congresso, ndtr.]) Putin “non considera l’Ucraina un vero paese”, ha detto Borshchevskaya. “È abbastanza chiaro che Putin è davvero convinto della sua guerra in Ucraina. In effetti, nonostante gli annunciati corridoi di cessate il fuoco, la Russia continua a bombardare i civili… È difficile per me vedere come funzionerà concretamente la mediazione israeliana in questo momento, in questa fase”.

I due esperti concordano sulle due ragioni del gioco diplomatico di Putin, come riassume Times of Israel: “prendere tempo per riorganizzare la strategia e acquistare legittimità presso i leader mondiali”. Quanto alla legittimità: “Uno degli obiettivi finali di Putin è la legittimità. Vuole essere percepito come legittimo. Sembra essere una delle sue insicurezze più profonde”, ha detto Epshtein.

E questo ci porta in Israele, perché anche Israele vuole legittimità, e questa è anche una delle sue insicurezze di fondo.

Anche Israele cerca legittimità

Bennett è concentrato sulla negazione di uno Stato palestinese, su cui è veramente esplicito. La sua dichiarazione sulle “schegge nel sedere” risale al 2013 quando era ministro dell’Economia e del Commercio nel governo di Netanyahu, . Parlando al consiglio dei coloni di Giudea e Samaria si espresse così: “Vi racconterò una breve storia. Ho un amico che si chiama Yoav. Ha prestato servizio nella Brigata Golani dell’IDF [Forze di difesa israeliane], e in uno scontro una scheggia gli è rimasta conficcata nel sedere. Sono andato a trovarlo in ospedale e lui mi ha detto: ‘Guarda, ho questa scheggia. … Secondo i medici ho due possibilità: o farmi operare per rimuovere la scheggia, correndo il rischio di restare handicappato o paralizzato a vita, oppure lasciarla lì, anche se di tanto in tanto, al cambio di stagione, potrebbe farmi un po’ male.’… Così, decise di continuare a conviverci. … Ci sono situazioni in cui la ricerca ingannevole della perfezione rischia di causare un disastro.”

E se la morale non fosse stata chiara, ha aggiunto: “Il tentativo di istituire uno Stato palestinese nella nostra patria è finito; è arrivato a un punto morto.”

La rozza valutazione di Bennett è una chiara ammissione della sua irremovibile posizione; ora come Primo Ministro Bennett “rifiuta fermamente” la creazione di uno Stato palestinese. I satelliti di sinistra che adornano la coalizione di Bennett non si fanno illusioni, non esiste una tale prospettiva con Bennett.

Ma Bennett è anche un convinto sionista, quindi vuole a tutti i costi uno Stato ebraico. E qual è il risultato di governare le persone negando loro il diritto a una nazione? Avete indovinato, apartheid. Fa parte della logica che ha portato una ampia schiera di organizzazioni per i diritti umani – palestinesi, israeliane e internazionali – a giudicare Israele uno Stato di apartheid.

E gli Stati di apartheid vogliono legittimità per il loro apartheid. Al giorno d’oggi l’apartheid non è considerato legale, poiché è un crimine contro l’umanità secondo solo al genocidio, quindi Israele cerca principalmente di negare il suo apartheid, anche se il cammino intrapreso e i suoi discorsi sono esattamente questo.

Il doppio gioco

Così ora Israele cerca di fare il doppio gioco: essere uno Stato di aggressivo apartheid, e tuttavia presentarsi come un agente di civiltà e pace. Così, il ministro degli Esteri israeliano “progressista” di centro Yair Lapid, che in passato aveva sostenuto l’esecuzione senza processo di palestinesi anche se si limitavano a tenere in mano “un cacciavite” e sostenuto il “massimo numero di ebrei sulla massima estensione di terra in massima sicurezza e con un minimo di palestinesi”, ora si erge a condannare l’invasione russa: “L’attacco della Russia all’Ucraina è un massiccio attacco all’ordine mondiale… Le guerre non sono il modo giusto per risolvere i conflitti. Possiamo fermarlo (l’attacco) e tornare al tavolo dei negoziati per una soluzione pacifica.”

Nel suo articolo su Haaretz “Il bollitore israeliano e la pentola russa” il giornalista israeliano Gideon Levy l’ha definito “sostegno comico”, chiedendosi anche: “Può essere che l’autocoscienza [di Lapid] sia così bassa, o forse il cinismo, l’ipocrisia e il doppio standard hanno raggiunto nuove vette?”

Secondo quanto riferito, Lapid ha incaricato il vice ambasciatore alle Nazioni Unite Noa Furman di trasmettere il suo messaggio, al fine di evitare che lo pronunciasse l’attuale ambasciatore Gilad Erdan, un sostenitore del Likud di Netanyahu noto per essere un falco. Furman ha fatto eco a Lapid sulla “grave violazione dell’ordine internazionale” e ha esortato la Russia “a prestare ascolto agli appelli della comunità internazionale di fermare l’attacco e rispettare l’integrità territoriale e la sovranità dell’Ucraina”.

Israele ha fatto il doppio gioco anche all’ONU, cosa che ha seriamente infastidito i funzionari statunitensi. Israele ha rifiutato di sostenere una risoluzione degli Stati Uniti contro l’invasione della Russia al Consiglio di sicurezza dell’ONU (con il pretesto che la Russia avrebbe comunque posto il veto), ma in seguito ha approvato la risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite che condannava l’invasione, per mostrare di non stare dalla parte della Russia (141 paesi hanno votato a favore, 5 contrari e 35 si sono astenuti). Le risoluzioni dell’Assemblea generale hanno un significato più simbolico delle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza ONU, che sono considerate più come leggi.

L’alleanza strategica di Israele con la Russia ha in gran parte a che fare con il beneplacito russo ai bombardamenti israeliani di obiettivi affiliati all’Iran in Siria.

Ma può darsi che Israele non potrà reggere ancora a lungo questo doppio gioco, dal momento che il suo maggior patron dopo tutto sono gli Stati Uniti, i cui funzionari si stanno seriamente irritando. L’ex segretario alla Difesa degli Stati Uniti William Cohen (repubblicano) ha dichiarato:Ora si tratta di: sei con i russi o sei con gli Stati Uniti e l’Occidente? Devono prendere una decisione in merito.”

Israele non solo ha un’alleanza strategica con la Russia sulla Siria, ha anche fornito alla Siria armi informatiche con cui effettuare attacchi contro oppositori politici, come riferito ieri da Eitay Mack su Haaretz, in un articolo intitolato “Guerra in Ucraina: come Israele sta aiutando Putin a reprimere le proteste in Russia contro la guerra”. C’è voluta un’enorme pressione da parte degli attivisti israeliani per i diritti umani per fermare le vendite, ma i prodotti continuano a fare il loro lavoro. Dice Mack: “Dopo che 80 attivisti israeliani per i diritti umani hanno presentato una petizione contro sia al Ministero della Difesa israeliano che a Cellebrite per revocare la licenza di esportazione di Cellebrite in Russia, la società ha annunciato nel marzo dello scorso anno che avrebbe smesso di fornire servizi alla Russia, ma si è rifiutata di impegnarsi a disabilitare tutte le apparecchiature già consegnate al Comitato Investigativo (russo).”

Israele ha sempre fatto questo doppio gioco: la sua natura di Stato di apartheid colonialista e ebreo-suprematista lo colloca naturalmente tra i regimi più regressivi del pianeta. Purtroppo, cerca di presentarsi come un “avamposto di civiltà contro la barbarie”, come scrisse il fondatore sionista Theodor Herzl nel suo libro Der Judenstaadt (Lo Stato ebraico, 1896). Il modo in cui questa presunta “barbarie” dev’essere respinta è sempre scusato come forse infelice ma necessariamente violento, per preservare l’occidente illuminato di cui Israele sarebbe un “avamposto”.

Questi trucchi propagandistici vengono ora alla superficie con Putin e le sue intenzioni di “denazificazione” come pretesto per l’invasione dell’Ucraina. L'”Occidente” non se la beve.

E questo porta a un’altra preoccupazione per Israele: che la hasbara, la propaganda israeliana progettata per respingere le critiche e ogni condanna allo Stato possa essere vista come simile a quella russa. Se ciò accadesse, c’è anche il pericolo per Israele che la campagna BDS di boicottaggi, disinvestimenti e sanzioni, intesa a far pagare a Israele un prezzo per le sue sistematiche violazioni, possa essere legittimata dal caso ucraino. Con l’Ucraina vediamo che l’Occidente non solo mostra approvazione per una politica totale di boicottaggi, disinvestimenti e sanzioni, ma anche comprensione per la resistenza armata civile ucraina con bombe molotov e tutto il resto, e si parla direttamente di armare l’Ucraina.

Anche quello che Israele ha proclamato “il primo fan di Israele”, il senatore della Carolina del Sud Lindsey Graham sta criticando Israele per non aver partecipato alla campagna di invio di armi: “Hanno chiesto a Israele – nessun fan di Israele più convinto di Lindsey Graham – degli Stinger [armi antiaeree] e a quanto pare Israele ha detto di no. Quindi parlerò al telefono con Israele – sai, sosteniamo Israele sulll’Iron Dome, e Putin è un delinquente, è un criminale di guerra, sta distruggendo una nazione sovrana… E se non facciamo bene con l’Ucraina i cinesi occuperanno Taiwan e gli iraniani verranno fuori con una bomba e dunque è nell’interesse di tutti.”

Graham, nella sua presunta grandiosa percezione delle possibili ramificazioni internazionali, semplicemente non vede che c’è un ovvio parallelo tra Ucraina e Palestina visto che l’Ucraina è invasa, occupata e soggetta all’aggressione imperialista espansionistica. Ma molti altri lo vedono. Israele sta ora camminando sul filo del rasoio su acque davvero imprevedibili per quanto concerne l’opinione pubblica occidentale, perché questa ondata di opposizione all’aggressione russa ha colto molti di sorpresa, me compreso. Se Israele viene considerato troppo favorevole alla Russia, la cosa potrebbe costargli in modi difficili da immaginare, misurare e prevedere. Israele è ora in una posizione molto difficile.

Ma il primo ministro Bennett ora interpreta il ruolo del dottor Freud, valutando lo stato mentale di Putin, per poi riferire in occidente. Il primo ministro israeliano squilibrato, espansionista e razzista Bennett sta verificando se Putin è in sé. E pensa che lo sia, quindi cerchiamo di essere misurati e razionali. Cerchiamo di essere calmi e civili, non c’è bisogno di chiamare le persone scimmie o schegge nel sedere o sparare a molte di loro, anche se non è un problema. Il dottor Bennett sta cercando di difendere la pace nel mondo. E sapete una cosa, sono sicuro che anche Putin sta ridendo.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




‘Eravamo come fratelli’: il campo profughi inorridito dopo che l’esercito spara ad un palestinese che stava passeggiando

Yuval Abraham

10 marzo 2022 – +972 Magazine

Amar Shafiq Abu Afifa stava facendo una passeggiata quando i soldati israeliani lo hanno inseguito e gli hanno sparato alla testa, aggiungendolo al triste bilancio di vittime subìto dal campo profughi di al-Arroub.

Una settimana dopo che i soldati israeliani hanno colpito a morte il diciottenne Amar Shafiq Abu Afifa, il suo amico d’infanzia Mohammed, di 17 anni, è ritornato nel luogo dove è stato ucciso. Mentre saliva sulla collina verso la boscaglia dove è morto Abu Afifa, Mohammed cercava qualcosa tra l’erba alta. Erano stati esattamente in quella zona il giorno prima della sparatoria, dice, ed avevano scritto i loro nomi sull’erba con delle pietre. “Io ho scritto la lettera inglese M per Mohammed e Amar ha scritto il suo nome in arabo.”

Poi siamo saliti sulle rocce, sdraiandoci lì come lapide per un’amicizia spezzata. Hanno fatto un selfie durante quella passeggiata, che adesso è lo sfondo dello schermo del cellulare di Mohammed. I due ragazzi si abbracciano sorridendo alla telecamera. “Eravamo come fratelli”, dice a +972 Mohammed, che era insieme al suo amico quando gli hanno sparato in testa. “Sono ancora sotto shock.”

Le truppe israeliane hanno sparato a Abu Afifa il primo marzo, mentre camminava in cima ad una collina isolata fuori dal campo profughi di al-Arroub nella Cisgiordania occupata, dove sono cresciuti sia lui che Mohammed. Abu Afifa è stato ucciso mentre scappava, come lo stesso esercito ha ammesso in una dichiarazione. Il certificato di morte di Abu Afifa, emesso dal Ministero dell’Interno israeliano, registra una ferita da proiettile alla testa ed un’altra ad una gamba.

La dichiarazione del portavoce dell’esercito israeliano sosteneva che Abu Afifa e Mohammed si erano avvicinati ad un posto di avvistamento vicino alla colonia israeliana di Migdal Oz e che i soldati “li hanno inseguiti…e hanno avviato una procedura di fermo che include sparare al sospettato”.

Ma quando gli inviati di +972 hanno visitato la zona è stato chiaro che la sparatoria è avvenuta a circa 100 metri dal posto di avvistamento – che è semplicemente un gazebo costruito illegalmente a circa 400 metri dalla colonia. Sulla collina c’è anche una piccola torre di comunicazione che sembra essere il posto in cui i soldati hanno teso l’imboscata.

Un soldato è sbucato dagli alberi”, dice Mohammed. “Pensavamo che là non ci fosse nessuno, per cui ci siamo spaventati. Ci ha urlato di fermarci e ha immediatamente sparato in aria. Eravamo così spaventati che ci siamo messi a correre. Allora lui ha aperto il fuoco pesantemente. Non c’era alcun senso. Ho sentito colpi di mitraglia. Tutto è accaduto in pochi secondi. A quel punto non sapevo ancora che Amar fosse morto.”

L’esercito ha detto a +972 che la polizia militare ha avviato un’inchiesta, ma non ha fornito ulteriori dettagli. Secondo l’Ong (israeliana) per i diritti umani Yesh Din, le probabilità che un’inchiesta della polizia militare porti ad un’incriminazione sono inferiori al 4%. Dei 785 casi indagati dalla polizia militare tra il 2013 e il 2018 solo 31 hanno portato ad incriminazioni.

Non riuscivo a smettere di piangere’

Abu Afifa era uno di 7 fratelli. I suoi genitori, Shafiq e Samiha, nel loro salotto hanno una fotografia del figlio morto, che hanno posto su un drappo al suo funerale. Shafiq dice che l’esercito israeliano ha trattenuto il corpo di suo figlio per 10 ore, prima di telefonargli alle 3 del mattino per andare a prendere il corpo di Amar al cancello di una colonia. “Non riuscivo a smettere di piangere”, dice. Quando gli altri hanno incominciato a ricordare Abu Afifa, sua madre Samiha si è scusata ed è uscita dalla stanza.

Il campo profughi di al-Arroub, dove vive la famiglia di Abu Afifa, si trova tra Betlemme e Hebron nel sud della Cisgiordania. Ospita circa 11.000 palestinesi le cui famiglie furono espulse nel 1948 da villaggi come al Faluja e Iraq al-Manshieh, in quella che ora è la parte meridionale di Israele vicino a Kiryat Gat.

Il campo è come una gabbia”, dice Mohammed. “Non c’è dove andare, dove fuggire.” Durante la loro passeggiata il giorno prima della sparatoria, ricorda, avevano discusso del futuro. “Amar frequentava già l’università con molto successo ed io stavo pensando di abbandonare la scuola. Lui mi esortava a rimanere per ottenere il diploma di scuola superiore. Ecco di che cosa parlavamo. Lui veniva a casa mia tutte le settimane per aiutarmi con i compiti.”

Abu Afifa si è diplomato alla scuola superiore l’anno scorso e si è immediatamente iscritto all’università a Ramallah per studiare medicina. “Il suo sogno era diventare medico o infermiere”, dice suo padre. Abu Afifa qualche mese fa ha lasciato gli studi, ritenendo che l’impegno economico fosse troppo pesante per i suoi genitori. Si è iscritto ad un college più piccolo e più economico molto vicino al campo.

Come ragazzo di un campo non hai opportunità di un futuro diverso”, dice il fratello maggiore di Abu Afifa, Issa. “Anche se studi, comunque finisci a fare un lavoro manuale”.

Shafiq, che lavora presso l’UNRWA come operatore ecologico, aggiunge: “Per questo volevo costruire qualcosa di diverso per i miei figli. Ho faticato ogni giorno nel mio disgustoso lavoro per mandare Amar all’università. Dicevo, almeno lui potrebbe avere qualcosa…adesso non so che fare.” Aggiunge: “Mi ammazzo di lavoro. Non ho mai smesso di raccogliere immondizia. Neanche dopo che Amar è morto. Non ho scelta. Devo procurarmi da vivere.”

Una minaccia durante il funerale

Durante il funerale di Abu Afifa un funzionario dello Shin Bet (servizi interni israeliani di intelligence, ndtr.), che si faceva chiamare “Capitano Nidal”, ha telefonato a Shafiq. “Ha detto di essere un investigatore in servizio nell’area di Hebron”, ricorda Shafiq. “Gli ho detto che ero al funerale e gli ho chiesto: ‘Che cosa volete?’. Lui ha risposto: ‘Ora state molto attenti ai vostri figli’. Suonava come una minaccia. Gli ho detto: ‘Viviamo in gabbia, voi avete sparato a mio figlio e adesso mi minacciate?’ Ho avuto l’impressione di non essere niente per lui. Ed ho riattaccato. Da allora non ho più sentito lo Shin Bet.”

Mohammed afferma che non c’è alcun giovane la cui vita non sia stata toccata dallo Shin Bet in un modo o nell’altro. “Ogni villaggio in Cisgiordania ha un capitano che tiene sotto controllo i giovani, soprattutto quelli coinvolti in disordini”, spiega. “Al mio villaggio è in servizio il Capitano Kerem. Telefona ai ragazzi della mia classe. Segue i nostri gruppi di chat su Telegram.”

Il timore di Mohammed riguardo allo Shin Bet è il motivo per cui ha chiesto di usare solo il suo nome di battesimo in questa intervista. “Può farti quel che vuole”, dice a proposito del Capitano Kerem. Lo Shin Bet non ha risposto alla nostra richiesta di un commento.

Oltre alla sorveglianza dello Shin Bet, nel campo profughi di al-Arroub ogni settimana ci sono scontri con l’esercito israeliano. La Route 60, una strada costruita a fianco del campo, è uno dei luoghi preferiti dai ragazzi per tirare pietre alle auto israeliane di passaggio.

Negli ultimi due anni è in costruzione una nuova strada che oltrepasserà il campo più lontano. Nel frattempo i soldati hanno creato dei posti di blocco “mobili” all’entrata del campo ed anche molto all’interno. Chi scrive guida attraverso il campo almeno una volta a settimana e l’anno scorso c’era sempre un posto di blocco con auto palestinesi in coda per passarlo. Lungo la strada proveniente dal campo è stata messa una postazione militare. Le incursioni notturne sono la routine e spesso scoppiano anche scontri.

Normalmente gli scontri vedono lanci di pietre e a volte di bottiglie molotov da parte dei giovani e spari con proiettili veri da parte dei soldati. Mentre io e Issa camminavamo per le tortuose strade del campo, lui indicava una casa dopo l’altra. “Qui non c’è una singola famiglia che non abbia perso un figlio”, dice. Da parte sua Abu Afifa aveva cominciato ad evitare le proteste per concentrarsi sui suoi studi.

Un lungo e triste elenco

Negli ultimi nove anni ad al-Arroub sono stati colpiti undici palestinesi, di cui tre minorenni. Lubna al-Hanash, di 21 anni, è stata colpita nel 2013 mentre camminava nel terreno del college di al-Arroub; l’esercito ha aperto il fuoco dopo che qualcuno ha lanciato una bottiglia molotov contro un’auto israeliana di passaggio, e invece ha ucciso lei.

Iyad Fadailat, di 28 anni, è stato ucciso nel 2014. Si è imbattuto in un posto di blocco mobile appena fuori da casa sua e ha avuto una rissa con i soldati. Gli hanno sparato mentre scappava; l’esercito ha sostenuto che aveva tentato di sottrarre un fucile. Mohammed Jawabra, di 19 anni, è stato colpito nella sua casa nel 2014; i soldati stavano facendo un’imboscata su un tetto lì accanto ed hanno aperto il fuoco quando avrebbero visto una figura sospetta che puntava un’arma improvvisata, ma una successiva indagine di B’Tselem ha smentito l’accusa.

Omar Madi, di 15 anni, è stato colpito nel febbraio 2016 da un soldato di guardia alla torre di controllo lungo la strada; l’esercito ha affermato che stava tirando pietre contro la torre. Omar al-Badawi, di 22 anni, è stato colpito nel 2019 mentre cercava di spegnere un fuoco innescato da una bottiglia molotov che qualche ragazzino aveva lanciato contro dei soldati lì accanto; in seguito l’esercito ha ammesso che non vi era motivo di sparare.

Risibili, sproporzionate, o altro, l’esercito ha fornito giustificazioni per ognuna delle ultime 10 uccisioni di abitanti di al-Arroub – tutte ovviamente eseguite nel contesto di un’occupazione militare lunga 50 anni. Non in questo caso. Il lungo e triste elenco del campo registra ora un’altra voce: Amar Shafiq Abu Afifa, di 18 anni. Causa della morte: colpito alla testa mentre passeggiava nel bosco con il suo migliore amico.

Yuval Abraham è un giornalista e attivista che vive a Gerusalemme.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Israele mi ha arrestata per aver protestato contro l’assedio di Gaza. Ecco perché rifiuto di essere processata

Neta Golan 

8 marzo 2022 – +972 magazine

Essendo israeliana ci ho messo anni a disimparare il sionismo. Ora la mia solidarietà con i prigionieri palestinesi mi impone di respingere un ordine di comparizione davanti al tribunale

Il 21 febbraio sono andata a piedi da casa mia, nella Città Vecchia di Nablus nella Cisgiordania occupata, in un negozio in centro per faxare una lettera alla pretura di Ashdod [una città del sud di Israele, ndtr.]. Sono stata convocata là dopo il mio arresto nel gennaio 2020 durante una manifestazione contro l’assedio di Gaza. Nella mia lettera comunico di non aver intenzione di comparire all’udienza in solidarietà con i prigionieri palestinesi in detenzione amministrativa che sono in sciopero dal primo gennaio e stanno boicottando il sistema dei tribunali militari in protesta contro questa ingiusta pratica.

Il proprietario del negozio che non aveva idea del contenuto della lettera si è rifiutato di farsi pagare. Essendo vissuta nelle comunità palestinesi per 22 anni mi sono praticamente abituata a questi gesti quotidiani di cortesia e generosità. Sono solo una delle manifestazioni di una invisibile rete di protezione che ho imparato a conoscere e da cui dipendo. Ogni società ha i suoi problemi, ma io mi sento incredibilmente fortunata ad avere l’onore di vivere con i palestinesi.

Ma non è sempre stato così. Crescendo a Tel Aviv in una famiglia di ebrei ashkenaziti [cioè di origine europea, ndtr.] sentivo storie su come noi israeliani fossimo moralmente superiori agli “arabi.” Ogni volta che entravamo in un’area palestinese mio padre ci diceva di stare attenti a borse e tasche. Mia nonna ci metteva in guardia perché “un arabo con una mano ti abbraccia e con l’altra ti pugnala alla schiena,” e mentre eravamo tutti a tavola per cena ci diceva che “l’unico arabo buono è l’arabo morto.”

Quando è scoppiata la Prima Intifada avevo 16 anni. Sapevo molto poco dell’occupazione e nulla della Nakba [l’espulsione di centinaia di migliaia di palestinesi dalle loro case ad opera delle milizie sioniste e dell’esercito israeliano nella guerra del 1947-49, ndtr.], ma capivo che i palestinesi stavano lottando per la loro libertà e che noi, per tutta risposta, li stavamo uccidendo. Quando sono stati firmati gli accordi di Oslo speravo che le cose sarebbero cambiate in meglio e volevo far parte di quel cambiamento. Non potevo immaginare che li avrebbero trasformati in un altro meccanismo per la spoliazione dei palestinesi.

Ho cominciato ad andare in Cisgiordania negli anni ‘90. Il primo anno e mezzo ero terrorizzata ogni volta che salivo su un pulmino palestinese in partenza dalla Gerusalemme Est occupata: ero sicura che tutti quelli intorno a me volessero uccidermi. Ma ogni volta, passata l’ansia, vedevo che non era così. Anzi, non erano per niente interessati a me, avevano altre cose per la testa relative alle loro vite. Ero scioccata nello scoprire che “loro” erano persone come tutti gli altri.

Dopo un lungo processo di analisi della mia paura, mi sono resa conto che, nonostante il fatto che nessuno avesse menzionato la Nakba durante la mia infanzia, alla gente le cui case, tombe e alberi erano tutt’intorno a me era impedito di ritornarci, mentre a me era permesso di stare là al loro posto. Non sorprende che li temessi: è la stessa paura che tutti i colonialisti o beneficiari di sistemi razzisti sviluppano verso le persone che loro hanno cacciato od oppresso.

Da israeliani siamo nati dentro il progetto sionista, che è basato sulla continua espropriazione degli indigeni palestinesi. Ma esistono alternative a questo progetto di sottomissione: noi possiamo vivere accanto ai palestinesi invece che a loro spese. E da cittadini israeliani noi possiamo usare i privilegi a noi concessi dal regime di apartheid per smantellare il sistema di discriminazione e oppressione. Per il bene di tutti quelli che vivono qui, indipendentemente da nazionalità o religione, noi possiamo unirci alla lotta per la liberazione palestinese.

Le politiche di apartheid prosperano nell’oscurità, ma quando noi vi prestiamo la dovuta attenzione cominciano ad afflosciarsi. Ecco perché in tribunale ho parlato del caso di Amal Nakhleh, un diciottenne palestinese affetto da una grave malattia, che da oltre un anno è in detenzione amministrativa. I detenuti amministrativi sono imprigionati per un periodo di tempo indefinito sulla base di “prove segrete” secondo le quali in futuro potrebbero commette un reato. I prigionieri non sono mai processati e né loro né i loro avvocati hanno accesso alle prove.

A gennaio Amal, che partecipa allo sciopero dei detenuti amministrativi palestinesi, ha boicottato la sua convocazione da parte di un tribunale militare israeliano. In sua assenza il giudice ha approvato la richiesta dello Shin Bet [servizio di sicurezza interna di Israele, ndtr.] di rinnovare la sua custodia cautelare fino al 17 maggio, quando potrà essere di nuovo estesa. E così di seguito.

Io ho detto al tribunale che, a differenza di Amal, a me è stata data l’opportunità di andare ad Ashdod per difendermi dalle loro accuse. Ma i diritti che mi sono concessi perché i miei nonni sono immigrati in Palestina dall’Europa sono negati ai palestinesi che vivono nei territori occupati da Israele nel 1967 e ai palestinesi espulsi con la forza dalla loro patria nel 1948, come ai loro discendenti a cui Israele impedisce ancora di ritornare.

Data la mia cittadinanza israeliana se venissi incarcerata avrei il privilegio di essere rilasciata dopo aver scontato la mia pena. Non è così per i due milioni di persone imprigionate negli ultimi 15 anni nella Striscia di Gaza assediata, inclusi circa un milione di minori che sono nati e hanno vissuto tutta la loro vita con la costante minaccia di violenza mortale, il cui solo crimine è quello di non essere nati da madri ebree.

Oppressione e apartheid sono disumanizzanti per le vittime e i carnefici. Godere di privilegi a danno di altri non può essere disgiunto dalla paura, dal razzismo e dall’incessante violenza che li supporta. La giustizia, sotto forma di ritorno e risarcimenti per i rifugiati palestinesi, non libererà solo i palestinesi. Libererà anche noi.

Neta Golan è un’attivista israeliana anti-apartheid e una partecipante attiva di Israelis Against Apartheid (Israeliani contro l’Apartheid), Return Solidarity (Ritorno Solidarietà) e Boycott From Within (Boicottaggio dall’interno). Vive a Nablus con il compagno, le loro figlie e il gatto, il che, per le leggi israeliane di apartheid, è considerato un atto illegale.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Palestina e Ucraina: un esperto di diritto internazionale parla dei doppi standard della Corte Penale Internazionale (INTERVISTA ESCLUSIVA)

Romana Rubeo

7 marzo 2022 – PALESTINE CHRONICLE

Il 2 marzo la Corte Penale Internazionale (CPI) ha annunciato che procederà immediatamente ad un’indagine sull’operazione militare russa in Ucraina. Quella che è stata denominata “invasione” dall’Occidente e “operazione militare speciale” da Mosca, ha immediatamente generato una rapida condanna e reazione internazionale. La CPI è stata in prima linea in questa reazione.

Il procuratore della CPI Karim Khan ha affermato in un intervento che l’indagine è stata richiesta da 39 Stati membri e che il suo ufficio ha già trovato una base ragionevole per ritenere che siano stati commessi crimini rientranti nell’ambito giurisdizionale della Corte e ha identificato dei casi come potenzialmente ammissibili.”

Mentre qualsiasi procedura genuina e non politicizzata volta a indagare su possibili crimini di guerra e crimini contro l’umanità in qualsiasi parte del mondo dovrebbe, in effetti, essere accolta favorevolmente, il doppio standard della CPI è palpabile. Tra le altre nazioni, i palestinesi e i loro sostenitori sono perplessi in considerazione dei numerosi indugi da parte della CPI nell’indagare sui crimini di guerra e contro l’umanità in Palestina, che si trova da decenni sotto l’occupazione militare israeliana.

Per comprendere meglio questo argomento ho parlato con il Dr. Triestino Mariniello, professore associato di diritto presso la Liverpool John Moores University, e membro della squadra di avvocati per le vittime di Gaza presso la Corte Penale Internazionale. Gli ho chiesto:

D. Per prima cosa, ci faccia conoscere a quale stadio si trova attualmente il procedimento della CPI sulla Palestina.

R. Il 3 marzo 2021 l’ex procuratrice della CPI Fatou Bensouda ha aperto ufficialmente un’indagine, attualmente incentrata su possibili crimini di guerra, in particolare legati all’aggressione militare del 2014 a Gaza, alla Grande Marcia del Ritorno e alle colonie israeliane illegali in Cisgiordania.

Tecnicamente, il passo successivo dovrebbe essere la richiesta di mandati di arresto o di comparizione, passando quindi da una fase procedurale” a una fase processuale”, sulla base dello Statuto di Roma [trattato internazionale istitutivo della Corte Penale Internazionale, ndtr.].

D. Tuttavia, finora non è successo nulla.

R. Tutto è iniziato molto prima del 2021. La situazione della Palestina è stata inizialmente portata all’attenzione della Corte nel 2009. Nel 2015, a seguito dell’aggressione israeliana alla Striscia di Gaza assediata, lo Stato di Palestina ha formalmente accettato l’autorità della Corte e ha ratificato lo Statuto di Roma. Ci sono voluti quasi sei anni (dicembre 2019) perché Bensouda dichiarasse che sussisteva “una base ragionevole per procedere ad un’indagine sulla situazione in Palestina”. La questione è stata deferita alla Camera preliminare, alla quale è stato chiesto di deliberare in merito alla giurisdizione sulla Palestina. La Camera ha emesso una decisione solo più di un anno dopo, nel febbraio 2021.

D. Come descriverebbe le differenze tra i due casi: Russia in Ucraina, Israele in Palestina? E perché nel caso russo il tribunale ha potuto agire immediatamente e senza indugi?

R. Ovviamente è difficile mettere a confronto le due situazioni.

L’Ucraina ha accettato l’autorità della CPI nel 2013 e l’ex procuratore capo della CPI Bensouda aveva già dichiarato che esisteva una base ragionevole per procedere.

Dopo l’inizio dell’operazione militare russa, l’attuale procuratore della CPI Khan ha annunciato l’apertura ufficiale delle indagini.

Avendo già ricevuto mandati da 39 Stati contraenti la CPI il suo ufficio non è tenuto a richiedere un’autorizzazione alla Camera preliminare competente. In realtà anche nella situazione della Palestina la Corte non necessitava di ulteriori autorizzazioni e la richiesta della Procura alla Camera era del tutto facoltativa.

In qualità di rappresentanti legali delle vittime, abbiamo espresso ai giudici della CPI le nostre preoccupazioni sul fatto che questa richiesta non necessaria della Procura avrebbe causato un ulteriore ritardo nell’apertura delle indagini.

Tra i 39 Stati ci sono tre paesi che si erano apertamente opposti alle indagini in ambito israelo-palestinese, ovvero Austria, Germania e Ungheria.

 Generalmente si dice che i procedimenti penali internazionali siano particolarmente lunghi. Se questo è vero nel caso della Palestina, per l’Ucraina la durata è ridotta al minimo. Lo stesso è accaduto per la situazione libica, dove la decisione di aprire un’indagine è stata presa con una rapidità senza precedenti, a soli sette giorni dal deferimento del Consiglio di Sicurezza [dell’ONU, ndtr.].

Tuttavia, nel caso della Palestina la quantità di prove è molto più significativa. Anche prima di avviare le indagini la Corte dispone di una quantità impressionante di prove, grazie al meticoloso lavoro della società civile palestinese, che non ha mai smesso di raccogliere prove, anche durante le guerre israeliane.

D. Lei fa parte di una squadra che difende le vittime di Gaza. Ritenete che da parte della CPI ci sia una politica di doppio standard?

R. Indagare su gravi violazioni dei diritti umani è sempre un’iniziativa lodevole. Ciò che è meno lodevole è la politica del doppio standard. La realtà dolorosa è che dopo 13 anni non abbiamo ancora un procedimento.

Per decenni i civili palestinesi hanno subito le più gravi violazioni dei loro diritti fondamentali, equivalenti a crimini di guerra e crimini contro l’umanità. L’interesse principale delle vittime di Gaza è che l’indagine tanto attesa e tanto necessaria passi immediatamente alla fase successiva: l’identificazione dei presunti colpevoli. Per loro è davvero difficile capire quali siano gli ostacoli che gli impediscono di presentarsi in tribunale per raccontare finalmente le loro vicende e ottenere giustizia.

L’assenza fino ad ora di misure efficaci adottate dalla Corte rafforza l’opinione delle vittime di aver subito per lungo tempo una negazione della giustizia. Inoltre l’impunità concessa da tanto tempo a Israele incoraggia i responsabili a commettere nuovi crimini.

Dall’inizio dell’operazione militare russa in Ucraina abbiamo assistito al ritorno del diritto internazionale nell’arena globale. Quello che sta accadendo ora mostra che il diritto internazionale può essere, nei fatti, uno strumento efficace, se attuato correttamente.

Le vittime palestinesi continuano a nutrire grandi speranze per le indagini della CPI, ma sono seriamente preoccupate che “la giustizia rimandata sia giustizia negata”.

D. Cosa può fare la società civile per accelerare le procedure relative alla Palestina?

È essenziale continuare a fare pressione sulla CPI anche presentando ulteriori prove che possano attestare gravi violazioni dei diritti umani in corso, equivalenti a crimini di guerra. Pensiamo, ad esempio, ai crimini di guerra commessi lo scorso maggio a Gaza, che dovrebbero essere immediatamente inseriti nell’indagine in corso.

Inoltre, la società civile dovrebbe invitare la CPI ad ampliare l’ambito delle indagini per includere altri crimini internazionali, in particolare crimini contro l’umanità, compreso il crimine di apartheid, anche alla luce dei recenti rapporti di Amnesty International e di altre organizzazioni per i diritti umani.

Il messaggio alla Corte e alla comunità internazionale deve essere chiarissimo: i palestinesi non sono vittime di serie B e continueranno a far sentire la loro voce.

Sebbene apprezziamo gli sforzi della CPI per fare luce sulla situazione ucraina, dobbiamo ribadire che altri casi non dovrebbero essere dimenticati o archiviati.

La CPI è stata creata per porre fine all’impunità di cui godono gli autori dei crimini più gravi. Dopo vent’anni, dovremmo pretendere che lo Statuto sia pienamente attuato, indipendentemente dall’origine geografica delle vittime.

Romana Rubeo è una scrittrice italiana e caporedattrice di The Palestine Chronicle. I suoi articoli sono apparsi su molti giornali online e riviste accademiche. Ha conseguito un Master in Lingue e Letterature Straniere ed è specializzata in traduzione audiovisiva e giornalistica.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Un messaggio da una persona “non civilizzata”

Ghada Hania

7 marzo 2022- Mondoweiss

Ghada Hania risponde all’inviato della CBS Charlie D’Agata che ha messo a confronto la vita nella “civilizzata” Ucraina a luoghi come Iraq, Afghanistan, o forse Palestina, che hanno visto “infuriare conflitti per decenni”.

Sono Ghada. Non sono civilizzata. Mi sono laureate presso il dipartimento di Letteratura inglese. Sto per terminare un master in Linguistica applicata. Sono ricercatrice, traduttrice, scrittrice di contenuti [in rete] e blogger con 4 anni di esperienza sia in arabo che in inglese.

Non sono civilizzata: faccio parte dell’Associazione degli Scrittori Palestinesi. Ho pubblicato un libro con una nota casa editrice giordana ed ho scritto un blog di ottimo livello nei blog di Al Jazeera.

Mio padre non civilizzato è docente di matematica che ha insegnato a generazioni di alunni ed ha ispirato la mia sorella maggiore non civilizzata, docente di matematica. Il mio incivile fratello minore si è recentemente laureato in fisica presso la facoltà di scienze. La mia incivile madre ha una piccola biblioteca con molti libri di vario genere, legge e scrive riassunti su carta filigranata di alta qualità.

Il mio zio non civilizzato ha conseguito un dottorato in chimica ed è docente universitario. La mia zia non civilizzata è infermiera pediatrica all’ospedale. Si prende cura dei pazienti. La mia cugina non civilizzata è ingegnera informatica, sviluppatrice di siti in rete e programmatrice di computer.

Alla mia non civilizzata nipotina piace comprare pupazzi di astronauti e spera di diventare astronauta da grande. La mia non civilizzata nipotina ha un piccolo pianoforte e sta imparando le note musicali grazie a un’applicazione sul telefono di sua madre.

La mia non civilizzata famiglia ha insegnato a me e ai miei fratelli ad amare gli altri, rispettare gli anziani ed essere gentili con i bambini. La mia non civilizzata famiglia ci ha insegnato onore, dignità, giustizia, generosità e onestà. Ci hanno insegnato anche a diffondere amore e armonia.

Il nostro non civilizzato vicino è responsabile operativo all’ospedale al-Shifa. Passa la maggior parte della giornata al lavoro. Può a malapena vedere la sua famiglia. Tuttavia è contento in quanto fornisce servizi umanitari a persone indifese.

La mia amica non civilizzata è un’artista. Disegna personaggi a carboncino e i suoi quadri sono stati esposti in molte mostre d’arte.

Il mio non civilizzato insegnante ha vinto un premio per l’editoria internazionale, e ricordo che ha pubblicato con una prestigiosa casa editrice britannica un libro sulla traduzione giuridica.

La mia non civilizzata compagna di classe ha pubblicato il suo primo romanzo nel 2017. È una scrittrice ed ha ricevuto molti premi letterari. Il suo piccolo figlio non civilizzato è ossessionato dalla raccolta di libri di fumetti per bambini.

Sono iscritta a un corso di formazione sull’imprenditorialità nella produzione letteraria. Ho incontrato una ragazza non civilizzata affetta da una malattia nell’infanzia, eppure ha resistito e non si è arresa. Con il passare del tempo è guarita. È diventata un’artista poliedrica: disegna, scrive e ha un’impresa di piccoli mobili in legno.

La responsabile di questo corso di formazione è una donna non civilizzata che ha un master in chimica medica e ha brevettato una cura per una malattia della pelle.

Sono state aperte due librerie di proprietà di persone non civilizzate che vivono nel quartiere. Lì puoi trovare tutto quello che puoi immaginare.

La nostra società non civilizzata dimostra collaborazione e unità durante le aggressioni da parte dell’occupazione israeliana. Nella nostra casa diamo rifugio a chiunque ne abbia disperatamente bisogno. Li nutriamo e ci prendiamo cura di loro.

Inoltre la nostra società non civilizzata promuove campagne di finanziamento per aiutare persone bisognose. E, cosa più importante, un grande numero di persone non civilizzate risponde alle campagne per la donazione del sangue nei centri sanitari.

I nostri combattenti per la libertà non civilizzati difendono coraggiosamente la loro patria dal vero nemico. Si preparano e si equipaggiano molto bene giorno e notte per la libertà, la dignità e l’onore del loro popolo. Sacrificano le loro anime, anelando alla libertà.

I nostri lavoratori edili non civilizzati ricostruiscono dalle rovine edifici, grattacieli, case, istituzioni, centri educativi. L’occupazione israeliana distrugge ogni cosa e loro continuano a ricostruire, ancora e ancora.

Il nostro popolo non civilizzato ha nel cuore la fervida speranza che un giorno sarà indipendente e libero dall’occupazione.

Siamo non civilizzati e non abbiamo occhi azzurri né capelli biondi.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Il rifiuto di accogliere rifugiati ucraini da parte di Israele dimostra il suo essere tenebra tra le nazioni

[rovesciamento ironico della profezia di Isaia secondo cui Israele avrebbe dovuto essere luce tra le nazioni, ndt]

Gideon Levy

5 marzo 2022 – Haaretz

Quando i profughi di guerra vengono fermati all’aeroporto di Israele e espulsi o viene loro richiesto di versare ingenti somme che non possiedono per assaporare la libertà e la sicurezza, è chiaro che c’è qualcosa di distorto nella bussola morale di Israele.

Il Paese che ha fatto il massimo nel prendersi cura dei suoi cittadini e degli ebrei in Ucraina è anche il Paese che ha chiuso le sue porte – e in una certa misura il suo cuore – a tutte le altre vittime.

Il Paese il cui ethos si basa su un’accusa feroce verso il mondo che ha taciuto, distolto lo sguardo e chiuso i suoi cancelli sta facendo esattamente la stessa cosa in questo momento della verità.

Il Paese che ha così abilmente sfruttato il senso di colpa del mondo per raggiungere i suoi obiettivi politici potrebbe fare i conti con una nuova immagine di sé nel mondo, un mondo che potrebbe non dimenticare il suo silenzio e le sue esitazioni e un giorno regolare i conti con esso.

E infine, il Paese che l’ha fatta franca con la sua occupazione senza fine potrebbe trovarsi di fronte a un mondo nuovo che forse, ma solo forse, non approverà e non tacerà più.

È commovente vedere i diplomatici israeliani fare di tutto per liberare dall’inferno tutti i possessori di un passaporto israeliano, compresi quelli che quasi mai hanno messo piede in Israele, anche se per settimane sono stati pressantemente sollecitati a uscire [dall’Ucraina, ndtr.] anche se non se ne curavano un accidente. In un Paese i cui cittadini cercano un secondo passaporto per motivi di sicurezza il passaporto israeliano si è improvvisamente rivelato una polizza assicurativa.

La preoccupazione per gli ebrei a cui non è mai venuto in mente di trasferirsi qui potrebbe semplicemente infervorare gli appassionati dell’Yiddishkeit [“ebraismo” nel senso di stile di vita ebraico, ndtr.]. Ma quando i profughi di guerra vengono fermati all’aeroporto israeliano ed espulsi o viene loro chiesto di versare ingenti somme che non possiedono per assaporare la libertà e la sicurezza, è chiaro che qualcosa nella bussola morale di Israele è distorto, persino patologico.

Prendersi cura dei propri poveri va bene, ma prendersi cura solo di loro è mostruoso. La preoccupazione per il tuo stesso popolo è comprensibile, ma la preoccupazione solo per loro è una perversione.

C’è davvero differenza tra un bambino ucraino che fugge per salvarsi la vita e che non ha una bisnonna ebrea e un bambino ucraino che ce l’ha? Qual è la differenza? La differenza si chiama razzismo. Questo rovistare nel sangue, anche in tempo di guerra, si chiama “selezione”.

Mentre l’Unione Europea si sveglia lentamente, rivelandosi molto più unita e ideologica di quanto pensassimo, emerge la brutta faccia del Paese dei profughi e dell’Olocausto. Decenni di discriminazioni all’aeroporto Ben-Gurion, compreso il respingimento di rifugiati da tutto il mondo, hanno lasciato il segno; anche i decenni di espropriazioni e occupazione rimasti impuniti da parte della comunità internazionale stanno dando i loro frutti.

In quest’ora di oscurità calata sul mondo Israele si sta ergendo come la terra delle tenebre tra le nazioni. Nessuno si sarebbe aspettato che costituisse una luce tra le nazioni. Perché mai una luce? Ma almeno avremmo potuto aspettarci che fosse come tutte le altre.

Quanto sarebbe stato bello se Israele avesse agito come l’oscura Polonia o l’oscura Ungheria, per non parlare della Svezia o della Germania, che ora rappresentano la vera luce tra le nazioni, e avesse aperto le nostre porte come le loro.

Israele ha un dovere verso i rifugiati non solo a causa del suo passato, ma ha anche un obbligo nei confronti dei rifugiati ucraini principalmente a causa della grande comunità di lavoratori ucraini in Israele. Un Paese che vieta ai devoti custodi dei suoi anziani e a coloro che svolgono le pulizie delle sue case di invitare i propri parenti per salvare le loro vite è chiaramente un paese immorale. La marea di squallide scuse sulla condotta dell’Ucraina durante l’Olocausto non fa che peggiorare il quadro, punendo i nipoti dei nipoti per i peccati dei loro padri e delle loro madri.

A Galina, una donna delle pulizie che vive in questo paese da anni, è vietato portare i suoi figli nella sua nuova casa solo perché non sono ebrei. Questo sta realmente accadendo e, a quanto pare, è persino accettato dalla maggior parte degli israeliani.

No, non è paura della Russia. La paura della Russia è solo la scusa. Non è nemmeno il governo, l’attuale o un altro. Questa crisi ha finalmente dimostrato che non c’è differenza morale tra l’attuale governo e il suo nefasto predecessore.

Sono entrambi ugualmente ottusi e insensibili. Naftali Bennett è uguale a Benjamin Netanyahu, Miri Regev [parlamentare israeliana, già componente del governo Netanyahu, ndtr.] è uguale a Ayelet Shaked [attuale ministra dell’interno del governo Bennet, ndtr.] e anche Merav Michaeli [attuale ministra dei trasporti, ndtr.] è allo stesso livello.

È qualcosa sepolto nel profondo del DNA nazionale, tra anni di lavaggio del cervello sulla necessità di essere forti, solo forti, in mezzo a frottole sul popolo eletto e le uniche vittime nella storia alle quali è permesso di fare qualsiasi cosa. E questa immagine è accompagnata dall’ allevare una xenofobia in dimensioni che sarebbero illegali in qualsiasi altro Paese. Ora tutto questo viene alla luce con un effetto particolarmente orrendo.

Forse è il peccato originale di un paese che è stato fondato sull’espulsione di centinaia di migliaia di profughi, forse è la religione sionista che sostiene la supremazia ebraica in ogni sua sfaccettatura. Qualunque siano le ragioni nulla di tutto ciò giustifica la richiesta di un versamento di un solo shekel [valuta ufficiale israeliana, ndtr.] da un rifugiato di guerra all’aeroporto Ben-Gurion.

Ed oscurità era sulla faccia dell’abisso. [Genesi 1.1, Bibbia ebraica, ndt]

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Guardare l’Ucraina attraverso gli occhi dei palestinesi

Yousef Munayyer

4 marzo 2022 – The Nation

La legittima corsa al sostegno dell’Ucraina ci insegna che quando vuole l’occidente può condannare l’occupazione.

Carri armati che sferragliano per le strade della città. Bombe sganciate dai caccia su palazzi civili. Posti di blocco militari. Città sotto assedio. Famiglie separate, in fuga per cercare rifugio e senza sapere quando rivedranno i loro familiari o le loro case. Quando un’occupazione militare inizia a prendere corpo davanti ai nostri occhi il mondo intero è costretto a prestare attenzione. Ma mentre possiamo guardare tutti la stessa cosa, alcuni di noi la vedono in modo leggermente diverso.

Il mio primo pensiero quando l’invasione russa dell’Ucraina è iniziata la scorsa settimana è stato per la popolazione civile in Ucraina che dovrà affrontare il fardello più pesante dato che una forza molto più potente cerca di imporre loro la propria volontà. Quanti devono morire? Quanti civili saranno uccisi da “bombe di precisione” tutt’altro che precise? Quando arriverà la libertà per loro? La vedranno durante la loro vita? Oppure, come noi palestinesi, vedranno la lotta durare per generazioni? Spero, per il loro bene, che la risposta sia la prima.

Tuttavia, anche se come palestinese è stato facile identificarsi con le scene di bombardamenti, distruzione e rifugiati, la risposta internazionale all’invasione russa dell’Ucraina è stata per noi qualcosa di totalmente alieno.

Da un giorno all’altro, il diritto internazionale sembra essere di nuovo importante. L’idea che un territorio non possa essere preso con la forza è divenuta improvvisamente una norma internazionale da difendere. I Paesi occidentali hanno cercato di promuovere una risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che condannasse le azioni della Russia, nonostante sapessero perfettamente che la Russia, membro permanente del Consiglio di sicurezza, avrebbe posto il veto. “La Russia può porre il veto a questa risoluzione, ma non può porre il veto alle nostre voci”, ha affermato l’ambasciatrice degli Stati Uniti, Linda Thomas-Greenfield. “La Russia non può porre il veto alla Carta delle Nazioni Unite. E la Russia non porrà il veto alla sua responsabilità [di fronte alla comunità internazionale, ndt]”.

Quando è piombato l’inevitabile veto russo, i diplomatici occidentali hanno sottolineato come esso abbia messo in evidenza l’isolamento della Russia. In effetti, la Russia è stata isolata. Proprio come lo sono stati gli Stati Uniti ogni volta che hanno posto un veto solitario al Consiglio di Sicurezza su oltre 40 risoluzioni che condannano le violazioni israeliane del diritto internazionale e gli abusi contro i palestinesi.

Gli Stati Uniti hanno anche deciso di rientrare nel Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite proprio in questo momento. Avevano lasciato l’UNHRC diversi anni fa perché si opponevano agli sforzi del consiglio di chiedere conto a Israele. Nel frattempo, diversi paesi hanno chiesto alla Corte penale internazionale di agire sull’invasione della Russia, la stessa Corte il cui Pubblico Ministero è stato sottoposto a sanzioni dagli Stati Uniti per aver indagato sui crimini di guerra commessi in Palestina.

Poi c’è il regime delle “misure economiche restrittive” che gli Stati Uniti e i loro partner europei hanno adottato contro la Russia. Insieme non solo hanno imposto ampie sanzioni, ma hanno avviato una impressionante serie di sanzioni ad personam per colpire i potenti attori che ritengono responsabili dell’aggressione. Nel frattempo, non solo le nazioni occidentali si sono rifiutate di usare sanzioni per colpire le responsabilità di Israele per le sue violazioni, ma le hanno attivamente favorite attraverso sostegno economico, militare e diplomatico.

L’occidente annuncia anche iniziative di boicottaggio e disinvestimento. I negozi di liquori in Canada e negli Stati Uniti stanno ritirando dagli scaffali la vodka russa. Il Metropolitan Opera ha dichiarato che non impiegherà più artisti che supportano Putin. Entro due giorni dall’invasione, la Russia è stata espulsa dall’Eurovision. È stata anche sospesa dai principali campionati di calcio internazionali come FIFA e UEFA. I balletti russi vengono cancellati.

Tutto questo dopo appena cinque giorni. Non cinque settimane o mesi, per non parlare di decenni. Cinque giorni.

Sorprendentemente, boicottaggi, disinvestimenti e sanzioni non sono controversi se usati per colpire le responsabilità di alcuni trasgressori, ma quando si tratta dei diritti dei palestinesi ci viene ripetutamente detto che misure economiche non violente come il boicottaggio sono sbagliate. In effetti, diversi Stati degli Stati Uniti che hanno preso provvedimenti per vietare l’uso del boicottaggio per i diritti dei palestinesi stanno ora approvando risoluzioni di boicottaggio e disinvestimento contro la Russia!

I doppi standard non si fermano alle iniziative non violente. In Ucraina l’occidente sostiene attivamente la resistenza armata sia inviando armi sia glorificandone l’uso. Anche in Palestina l’occidente sta inviando armi … a un governo israeliano che pratica l’apartheid.

Quando gli ucraini preparano bottiglie molotov da utilizzare nella resistenza contro l’esercito russo, li chiamiamo combattenti per la libertà e il New York Times esalta i loro sforzi con video girati da esperti che mostrano il processo di produzione degli ordigni. Quando i palestinesi lo fanno contro l’esercito israeliano, vengono invariabilmente uccisi da un’arma finanziata dall’occidente nelle mani di un soldato israeliano che poi proteggeremo dal renderne conto presso le Nazioni Unite e la Corte penale internazionale.

E mentre i social media sono pieni di link di crowdfunding per aiutare l’acquisto armi per l’Ucraina, quelli di noi che cercano di inviare denaro per cibo o medicine alle famiglie a Gaza, in Siria o nello Yemen si vedono regolarmente respinte le loro transazioni.

Cosa potrebbe mai spiegare questi sbalorditivi doppi standard che sono stati applicati senza vergogna questa settimana?

Bene, alcuni giornalisti occidentali ci hanno offerto degli indizi. Gli ucraini, ci viene detto, non sono come gli iracheni o gli afgani, perché l’Ucraina è “relativamente civile, relativamente europea”. Questa non è “una nazione in via di sviluppo del terzo mondo”. Le loro auto “sembrano le nostre”. Sembrano “persone prospere della classe media… come qualsiasi famiglia europea a cui potresti vivere accanto”. Sono “persone con gli occhi azzurri e i capelli biondi. O, come ha detto un corrispondente, “sono cristiani. Sono bianchi”.

Quanto profondamente è radicato questo razzismo? Quando i soldati russi sono entrati in Ucraina, la foto di una giovane e bionda ragazza ucraina che si è fatta valere coraggiosamente davanti a un soldato russo è diventata virale sui social media. Cioè, stava diventando virale, finché non è stato rivelato che la ragazza non era ucraina ma palestinese e il soldato era israeliano, non russo.

Sembra che il motivo principale per cui gli occidentali si sono affrettati a difendere i diritti umani degli ucraini mentre hanno ignorato i diritti umani dei palestinesi e di tanti altri è che vedono alcuni di noi come meno umani di altri.

Per essere chiari, la comunità internazionale deve assolutamente chiedere conto a coloro che violano i diritti umani e le leggi: la rapida azione contro l’invasione russa dell’Ucraina dimostra inequivocabilmente che tale azione è possibile quando i governi hanno il coraggio politico di farlo. Ma non farlo quando i nostri alleati sono gli oppressori, o quando le vittime hanno un aspetto diverso da noi, ha costi significativi, più direttamente per persone come i palestinesi e altri con una carnagione e occhi generalmente più scuri, ma anche per il mondo in generale.

Quando il diritto internazionale viene applicato solo quando fa comodo a nazioni potenti farlo rispettare e viene ignorato quando fa comodo a nazioni potenti ignorarlo, allora il diritto internazionale esiste solo come strumento di potere. Se vogliamo che ci sia una norma internazionale contro l’aggressione, la colonizzazione e l’acquisizione di terra con la forza, non possiamo continuare a fare eccezioni per i nostri amici quando la violano.

Quando facciamo queste cose, e lo abbiamo fatto in modo sistematico, per esempio, quando si trattava di Israele, rendiamo evidente che non esiste un ordine internazionale basato su regole: esiste solo la regola della forza. La forza stabilisce il diritto.

Un mondo basato sulla forza che stabilisce il diritto è in definitiva una minaccia per tutti – umani con gli occhi azzurri e marroni allo stesso modo – e chiunque dubiti di questo dovrebbe semplicemente guardare l’Ucraina.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)