Cosa c’è dietro la rinnovata guerra della destra israeliana contro i cittadini palestinesi?

Meron Rapoport

10 febbraio 2022 – +972 magazine

Articolo pubblicato in collaborazione con Local Call.

Fallito il tentativo di annettere formalmente la Cisgiordania, la destra israeliana prende nuovamente di mira un suo vecchio bersaglio.

Ascoltando la retorica della destra israeliana dello scorso anno sembra di avere fatto un passo indietro nel tempo e di essere tornati ai giorni precedenti la fondazione di Israele. I fatti violenti del maggio 2021 sono etichettati come “tumulti” e “pogrom,” mentre il commentatore Amit Segal considera piantare alberi nel Negev/Naqab: “un’attività naturale e sionista”, un’attività il cui obiettivo, secondo Avraham Duvdevani, presidente del Jewish National Fund, (JNF) [Fondo Nazionale Ebraico, ente no profit dell’Organizzazione Sionista Mondiale, ndtr.] è di “appropriarsi tramite il rimboschimento degli spazi aperti vicino agli insediamenti beduini per bloccare l’occupazione delle terre.” A sentire il giornalista Kalman Liebskind ciò che al momento sta succedendo in tutto il Paese è una “guerra contro il sionismo, la sovranità e la madrepatria.”

Questi tre uomini appartengono tutti all’ala militante del sionismo religioso che, anche se raccoglie al massimo i voti del 10% degli ebrei israeliani, occupa alcune delle cariche più ambite nel cuore dei media e dell’establishment politico israeliano. Segal è il principale commentatore politico di Channel 12 e del quotidianoYedioth Ahronoth [giornale di centro fra i più letti in Israele, ndtr.], Liebskind ha il suo show sull’Israeli Public Broadcasting Corporation (KAN) [l’emittente radiofonica e televisiva pubblica dello Stato di Israele, ndtr.] e Duvdevani è il capo di un’organizzazione che controlla più del 10% della terra del Paese.

Non meno interessante della sproporzionata rappresentanza di quest’ala radicale nella struttura di potere statale è il linguaggio che ideologi e politici di destra hanno cominciato a usare l’anno scorso, in particolare in seguito alle violenze di maggio e dalla formazione del governo Bennett-Lapid: un linguaggio che dà l’impressione che la comunità ebraica in Israele debba ancora conquistarsi il proprio Stato. Fanno sembrare il sionismo come se fosse ancora nella sua fase prestatale, pre-sovrana. Come se nel 1948 Israele non si fosse costituito sulle rovine del popolo palestinese né avesse continuato a stabilirsi in oltre 700 colonie, paesi e città solo per cittadini ebrei. Come se non avesse imposto l’occupazione militare su 4,5 milioni di palestinesi per oltre 50 anni.

Ci sono varie ragioni che hanno fatto emergere questa azione retorica concentrata e deliberata che – pur provenendo dalla destra, è fermamente integrata nel mainstream israeliano – per un ritorno alle “radici del sionismo”, collocate a prima della fondazione di Israele. Esse si possono così riassumere: l’estrema destra teme che il sionismo e lo Stato di Israele abbiano deviato, o stiano per deviare, dalla loro strada e che invece di stabilire uno “ Stato ebraico” il cui unico scopo sia servire la collettività ebraica, il sionismo possa inavvertitamente portare alla creazione di una vera democrazia in cui tutti, inclusi i cittadini palestinesi, abbiano la loro parte di potere.

L’idea stessa di democrazia, uno Stato che sia in ugual misura al servizio dei propri cittadini, è vista come una minaccia imminente. Questo è il messaggio centrale proveniente da quasi tutti gli oratori a una sequela di recenti manifestazioni di destra e pro-Netanyahu a Tel Aviv: lo Stato ebraico deve essere salvato e va evitata ad ogni costo l’istituzione di uno “Stato per tutti i suoi cittadini”. È come se avessero letto il rapporto di Amnesty prima che fosse pubblicato e concordato con la sua diagnosi, ma respinto le conclusioni: Israele è uno Stato di apartheid e deve rimanere tale.

Alla ricerca di una nuova frontiera

La guerra della destra contro uno Stato di tutti i suoi cittadini che si sta rivelando una guerra contro i cittadini palestinesi di Israele è il risultato del fallimento del suo progetto di annessione. Il fallimento dell’annessione formale dei territori occupati, un progetto che la destra ha cullato per oltre un decennio, è un segnale diretto alla base che, almeno per l’immediato futuro, non è possibile espandere i confini della sovranità israeliana in modo sistematico e concordato senza ricorrere alla guerra. Di fatto i coloni hanno visto l’ultima frontiera, il confine definitivo, scomparire davanti ai loro occhi.

Per la destra il sionismo è un movimento in preda a una costante lotta espansionista e perciò sempre bisognoso di trovare “nuove frontiere.” Questo fa da sfondo alla nascita dei Garinim Toranim, i gruppi del movimento dei coloni che in anni recenti hanno cercato di ebraicizzare ulteriormente le “città miste” in Israele.

È anche lo sfondo su cui prospera un’organizzazione come HaShomer HaChadash che afferma di “proteggere la terra, assistere contadini e allevatori e rafforzare il legame del popolo ebraico con la terra, i valori ebraici e l’identità sionista.” Tutto ciò fa parte della “Guerra per il Negev,” oggi lo slogan centrale della battaglia della destra che ha di nuovo conquistato i titoli questa settimana, quando attivisti della destra hanno tentato di fondare una “nuova colonia” per ebrei vicino alla città beduina di Rahat, più o meno con le stesse modalità con cui i coloni stabiliscono avamposti non autorizzati in Cisgiordania.

Ma appena la destra ha distolto lo sguardo dalla Cisgiordania per rivolgerlo su Israele ha scoperto una nuova realtà che non conosceva. Nell’ultimo decennio, e soprattutto durante le ultime quattro tornate elettorali, i cittadini palestinesi in Israele hanno ottenuto un potere su istruzione, economia e specialmente in politica, molto maggiore a quello che aveva nel passato.

Che Mansour Abbas e il suo partito Ra’am [islamista israelo-palestinese, ndtr.] facciano parte del governo israeliano è un diretto risultato del crescente potere dei palestinesi nell’arena politica israeliana. È vero che questa non è la prima volta che un partito arabo fa parte di una coalizione israeliana, ma è difficile negare che il riconoscimento del potere politico dei cittadini palestinesi, e in particolare la legittimità che ha di reggere il timone, è diventato molto ampio.

Questo crescente potere palestinese minaccia di indebolire la storica “divisione del lavoro” fra un “Israele ufficiale,” che afferma di essere democratico e basato sull’uguaglianza fra tutti i suoi cittadini, e un “Israele non ufficiale,” che opera sistematicamente per il beneficio della collettività ebraica in quasi tutti i campi immaginabili. Il JNF che è responsabile della confisca di terre di proprietà araba per piantare alberi nel Negev/Naqab, è uno dei principali agenti di questo Israele non ufficiale.

Per vedere quanto sfacciatamente razzista sia l’Israele non ufficiale basti considerare alcune citazioni del presidente del JNF. A una conferenza agli inizi di dicembre Duvdevani ricorda che quando era alla Jewish Agency [Agenzia Ebraica, ente parastatale israeliano, ndtr.] aveva spinto affinché lo Stato limitasse gli assegni familiari alle famiglie con due o tre figli mentre l’Agency si sarebbe impegnata ad aiutare famiglie più numerose, ma solo se erano ebree. “Siccome l’Agency si concentra solo sugli ebrei,” aveva spiegato che avrebbe potuto funzionare. Oggi comunque non si potrebbe. “Lo Stato è cambiato,” si lamenta, e “oggi si parla di più di uguaglianza e contro il razzismo e uno non può più far niente.” In breve la democrazia danneggia i “veri” sionisti come Duvdevani.

La legge dello Stato-Nazione ebraico è un tentativo di istituzionalizzare questa discriminazione razzista e renderla parte dell’Israele ufficiale, ma sembra che non abbia raggiunto i suoi scopi, almeno secondo la destra: la sua approvazione ha solo propiziato la crescita dell’influenza politica dell’elettorato palestinese, portando alcuni dei suoi rappresentanti al governo.

Qui il rischio per la destra è non solo che la collettività ebraica stia perdendo il suo monopolio assoluto sul potere in Israele o persino che il Movimento Islamico conquisti parte di questo potere per sé e sia in grado di prendere decisioni su politiche riguardanti sia arabi che ebrei. Il vero pericolo è che quelle parti dell’opinione pubblica ebraica, al di là della sinistra radicale, siano ora disponibili a questo partenariato. In altre parole, quello che temono è che troppi ebrei e troppi cittadini palestinesi in Israele possano cominciare a concretizzare la pretesa che Israele sia uno Stato democratico, e farlo veramente diventare “uno Stato per tutti i suoi cittadini.”

Bezalel Smotrich, forse il politico più acuto della destra, ha identificato questo rischio fin da subito e perciò si è rifiutato di entrare in coalizione con Abbas, anche se ciò avrebbe permesso a Netanyahu di restare al potere. Per Smotrich Israele può essere o ebraico o democratico. Non c’è spazio per compromessi. Ha fatto la sua scelta e il resto dell’estrema destra lo ha seguito.

L’obiettivo finale è il conflitto violento

A maggio la violenza fra comunità ha gettato benzina sul fuoco. Non è qui il luogo per un resoconto dettagliato di cosa è successo, ma a destra, anzi non solo a destra, questi eventi sono la prova che il vero nemico è dentro i confini sovrani di Israele, compreso il territorio annesso di Gerusalemme Est. Ci sono pochi dubbi che la destra abbia usato la violenza di rivoltosi arabi ed ebrei nelle cosiddette città miste, Lydda, Ramle, San Giovanni d’Acri e Giaffa, per presentare tutti i cittadini palestinesi di Israele come “il nemico interno.”

Coniare in ebraico l’espressione ‘disordini del 5781’ (alludendo alla rivolta in Palestina del 1929 o del 5689, secondo il calendario ebraico, durante il mandato britannico) ha lo stesso scopo. A chiunque sia cresciuto nel sistema scolastico israeliano-ebraico la parola “Meoraot” (ebraico per “disordini”) immediatamente richiama alla memoria il vero caposaldo del conflitto ebraico-palestinese: gli arabi non ci volevano qui e non ci hanno lasciato altra scelta che combatterli e in ultimo scacciarli, questa è la storia. “Meoraot” catapulta il conflitto a livello della comunità, svincolandolo dall’elemento civile: noi non siamo cittadini dello stesso Stato democratico, noi siamo ebrei e arabi, due comunità eternamente in guerra.

In questo senso lo scopo dei fondamentalisti sionisti è tanto sfacciato quanto semplice: istigare la violenza fra arabi ed ebrei entro i confini di Israele o, più precisamente, istigare un conflitto fra lo Stato e i suoi meccanismi di oppressione (specialmente esercito e polizia) da un lato e i suoi cittadini arabi dall’altro, e neanche lontanamente in senso metaforico, ma in senso molto diretto, fisico.

Il fatto che i rivoltosi della Lod araba questa mattina non contino i propri morti non è perché ci si sia contenuti e moderati. È codardia e volontaria cecità,” ha twittato il giornalista Amit Segal il 12 maggio 2021, due giorni dopo l’inizio degli scontri. “Il fatto che l’ebreo che ha sparato a un manifestante per proteggere la propria famiglia sia ancora in carcere dovrebbe far tremare tutto lo Stato,” aggiunge. Inutile dire che a Lydda l’ebreo che ha sparato e ucciso Musa Hassuna è invece stato subito rilasciato senza accuse: invece gli abitanti arabi di Lydda accusati di aver ucciso l’abitante ebreo Yigal Yehoshua sono stati condannati.

L’ultima settimana di gennaio a una conferenza che aveva organizzato con l’organizzazione di estrema destra Im Tirzu, il parlamentare del Likud Yoav Galant ha chiesto di ampliare la polizia di frontiera paramilitare con “tre battaglioni regolari e una forza di riservisti di alta qualità” per combattere contro la “scatenata criminalità nazionalista.” Galant continua mettendo in guardia che “se noi perdiamo il Negev e la Galilea perderemo anche Tel Aviv e Gerusalemme.” Altri oratori hanno fatto eco a questo sentimento.

I pericoli di questa narrazione, che invoca la soppressione violenta dei cittadini palestinesi in Israele con il debole pretesto di un ritorno alle radici sioniste, non può essere sottostimato, precisamente perché questo discorso, dal piantare boschi a lottare contro i “rivoltosi,” è così profondamente radicato nella coscienza israeliana che è quasi impossibile non prevedere che culminerà nella violenza che cerca di fomentare.

Apartheid formalizzato o una seconda Nakba

Noi dovremmo anche ricordare che a capo dello stesso governo che include il Movimento Islamico siede un uomo della destra con cui la retorica sui pericoli dei “disordini” di maggio e la necessità di difendere la terra della Nazione risuona tanto quanto quello di tutti gli altri. “L’idea è di radunare [i beduini] e concentrarli in una manciata di comunità riconosciute,” ha detto il primo ministro Bennett a Maariv durante il weekend.

Sarebbe una situazione vantaggiosa per tutti, per il sionismo, per lo Stato, per conservare la terra statale,’ continua Bennett. “Noi erigeremo un muro di ferro contro l’ingovernabilità. È una minaccia reale. Lo scoppio di violenza durante Guardian of the Walls (I guardiani delle mura, nome israeliano per l’operazione militare a Gaza del maggio 2021) ci ha scossi tutti. È stato un campanello d’allarme.” Ayelet Shaked, da lungo tempo compagna ideologica di Bennett e attuale ministra degli interni ha aggiunto più tardi nella settimana, parlando della Legge sulla Cittadinanza [che intende impedire ai palestinesi immigrati per ricongiungimento familiare di acquisire la cittadinanza israeliana, ndtr.] che sta cercando di far passare alla Knesset, che “i dati parlano da sé, senza la Legge sulla Cittadinanza noi perderemo il Negev a favore del nazionalismo palestinese.”

Ma c’è il rovescio della medaglia della minaccia. La realtà israeliana del 2022 non è quella delle comunità ebraiche del 1929, 1936, o persino del 1948. Negli anni ’30 l’acquisto di terre condotto da Yosef Weitz per conto dello JNF portò alla cacciata di contadini palestinesi affittuari e alla loro sostituzione con coloni ebrei. Oggi persino se il JNF trasformasse il Negev in una lussureggiante e vasta giungla la possibilità che chiunque a Sawe al-Atrash [villaggio beduino al centro del conflitto sulla riforestazione, ndtr.] lasci le proprie terre è virtualmente nulla. Anche gli abitanti palestinesi-arabi delle “città miste,” sopravvissuti a molti decenni di sfratti, repressione e discriminazioni, non andranno da nessun’altra parte.

Com’è noto Karl Marx disse che la storia si ripete: “la prima volta come tragedia, la seconda come farsa.” Ci si potrebbe chiedere se il ritorno della destra alla storia del primo sionismo sia poco più di una farsa e, al di là della spacconata, un’ammissione di fallimento. “Noi abbiamo deciso di non raccontare quella battaglia” contro i beduini del Negev, scrive Liebksind nell’articolo che ho citato sopra. E con “noi” egli non vuole dire sé stesso e i suoi camerati della destra. Egli intende l’intera comunità ebraica. La vera chiamata all’azione è ricolma dell’ammissione della sconfitta.

Il motivo per cui Liebskind, Smotrich e compagnia temono che la battaglia sia persa è proprio perché vedono il crescente potere dei palestinesi nella politica israeliana, proprio perché ritengono che parti sempre più vaste della società ebraica come mai prima d’ora stiano mettendosi l’anima in pace in merito alla legittimità della presenza palestinese nel governo israeliano, proprio perché capiscono le implicazioni di lungo termine di questa presenza, sia per la democrazia israeliana che per il futuro dell’occupazione.

Le sole due opzioni rimaste alla destra sono l’apartheid formalizzato o una seconda Nakba [Catastrofe in arabo, l’espulsione dei palestinesi dal territorio in cui nacque lo Stato di Israele, ndtr.], nessuna delle quali appare particolarmente probabile in un prossimo futuro. Smotrich, fra l’altro, sembra spingere per entrambe: da un lato cercando di privare del potere i cittadini palestinesi di Israele e dall’altro ribattendo ai parlamentari arabi con la battuta: “Tu sei qui solo perché nel ’48 (il primo ministro David) Ben-Gurion non finì il lavoro di cacciarvi.”

È importante capire cosa ci troviamo davanti con l’improvviso revival degli slogan vintage, antecedenti lo Stato sionista, e quello che ci sta dietro. Farlo ci permetterà di comprendere i rischi radicati in questa narrazione, ma anche a essere consapevoli dei suoi limiti.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




A Nablus soldati israeliani aprono il fuoco contro un’auto uccidendo dei palestinesi

Al-Jazeera

8 febbraio 2022 – Al Jazeera

L’Autorità Nazionale Palestinese condanna l’assassinio di tre palestinesi nella Cisgiordania occupata, definendolo un “crimine efferato”.

Il Ministero della Salute palestinese ha affermato che l’esercito israeliano ha ucciso tre palestinesi a Nablus, nella Cisgiordania occupata, suscitando la condanna dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP).

Martedì il ministero ha affermato che “tre cittadini sono stati martirizzati nella città di Nablus in seguito ad una sparatoria mirata dell’esercito israeliano”. Secondo l’agenzia stampa palestinese Wafa [il ministero, ndtr.] ha identificato le vittime come Ashraf Mubaslat, Adham Mabrouka e Mohammad Dakhil.

Secondo un rapporto da Nablus di Rania Zabaneh di Al Jazeera Un testimone oculare con cui abbiamo parlato ha detto che l’esercito [israeliano] ha sparato contro l’auto su cui si trovavano i tre palestinesi. Ha affermato di aver continuato a sentire degli spari per più di un minuto”.

Quando siamo arrivati ​​sul posto l’auto, interamente crivellata di proiettili, stava per essere portata via. All’ospedale dove sono stati portati i corpi i medici hanno detto che hanno avuto difficoltà a riconoscere le vittime a causa delle ferite provocate dagli spari.

L’inviata di Al Jazeera ha affermato che “Il ministro della difesa israeliano ha elogiato l’esercito per l’operazione portata a termine”.

Dei testimoni hanno riferito all’agenzia Anadolu che l’incidente ha coinvolto un membro delle forze speciali israeliane che, a bordo di un veicolo civile, ha preso d’assalto il quartiere cittadino di al-Makhfieh e ha aperto il fuoco contro l’auto.

Il Ministero degli Affari Esteri dell’Autorità Nazionale Palestinese ha chiesto un’indagine internazionale sugli omicidi mentre il consiglio dell’ANP ha descritto il fatto come un “crimine efferato”.

Il ministero degli esteri ha ritenuto il governo israeliano e il primo ministro Neftali Bennett pienamente e direttamente responsabili di questo crimine”.

“Il silenzio della comunità internazionale nei confronti delle violazioni e dei crimini israeliani fornisce una copertura a questi atti criminali e incoraggia l’occupante israeliano a continuare la sua guerra aperta contro i palestinesi”, si legge in una nota.

Israele, da parte sua, ha affermato che i tre uomini erano “militanti” palestinesi responsabili di recenti attentati.

L’agenzia di sicurezza per gli affari interni Shin Bet ha detto che i tre erano a bordo di un veicolo e sono stati uccisi in uno scontro con le forze di sicurezza. Nessun israeliano è stato ucciso o ferito nella sparatoria, ha aggiunto.

Organizzazioni palestinesi e internazionali per i diritti umani hanno condannato da tempo quella che descrivono come una politica caratterizzata dallo sparare per uccidere e da un uso eccessivo della forza.

B’Tselem, un’organizzazione israeliana per i diritti umani, ha affermato di aver registrato lo scorso anno in Cisgiordania 77 morti palestinesi per mano dell’esercito israeliano. Più della metà delle persone uccise non era implicata in alcun attacco, ha aggiunto.

Attacchi dei coloni

Alla fine dell’anno scorso i soldati israeliani hanno ucciso un palestinese durante un’incursione nel quartiere di Ras al-Ain a Nablus.

Nel dicembre 2021 militari israeliani hanno ucciso un palestinese nel villaggio di Beita, in Cisgiordania, durante una protesta contro gli insediamenti coloniali illegali. Le forze israeliane hanno ucciso un minore palestinese dopo un presunto speronamento d’auto ad un posto di blocco militare nel nord della Cisgiordania.

Nello stesso periodo un ebreo ultraortodosso sarebbe rimasto ferito da coltellate inferte da un palestinese fuori dalle mura della Città Vecchia di Gerusalemme.

Una settimana prima un membro di Hamas avrebbe aperto il fuoco nella Città Vecchia uccidendo un israeliano. Entrambi i sospetti sono stati uccisi dai soldati israeliani.

Nel frattempo, all’inizio di questo mese, Amnesty International ha affermato in un nuovo rapporto che Israele sta commettendo “il crimine di apartheid contro i palestinesi” e deve essere ritenuto responsabile per il trattamento degli stessi come “un gruppo razziale inferiore”.

I palestinesi sono stati anche colpiti da una recrudescenza dei violenti attacchi da parte dei coloni israeliani in Cisgiordania e Gerusalemme est.

Israele occupò Gerusalemme Est e la Cisgiordania nella guerra mediorientale del 1967. I territori ora ospitano più di 700.000 coloni ebrei che vivono in 164 insediamenti e 116 avamposti, che i palestinesi individuano come parte del loro futuro Stato indipendente.

Sulla base del diritto internazionale tutte le colonie ebraiche nei territori occupati sono considerate illegali.

I palestinesi, insieme alla maggior parte della comunità internazionale, considerano le colonie uno dei principali ostacoli alla pace.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Il discorso dell’ambasciatrice israeliana a Cambridge è stato interrotto quando gli studenti hanno inscenato un sit-in

Areeb Ullah

8 febbraio 2022 – Middle East Eye

In precedenza Tzipi Hotovely aveva descritto la Nakba come una “menzogna araba” e si era opposta alle rivendicazioni palestinesi sulla Cisgiordania

Impugnando le bandiere della Palestina e cantando “Palestina libera”più di 100 studenti dell’Università di Cambridge hanno manifestato contro l’ambasciatrice israeliana in Gran Bretagna, Tzipi Hotovely, della quale era previsto un discorso martedì alla Cambridge Union

Hotovely, che ha servito come ministro delle colonie sotto l’ex primo ministro Benjamin Netanyahu, ha parlato alla Cambridge Union mentre all’esterno imperversavano le proteste contro l’ambasciatrice.

La “Union”, un club privato ​​per il quale i partecipanti devono pagare, ha ospitato l’evento nonostante le critiche di una serie di organizzazioni studentesche.

I manifestanti stazionavano fuori dall’edificio della “Union”, dove i partecipanti erano in coda per entrare. Gli organizzatori hanno vietato ai partecipanti di portare borse all’evento e hanno proibito loro di registrare il discorso.

Quando l’evento è iniziato, i manifestanti si sono spostati sul retro dell’edificio, dove era parcheggiato il convoglio dell’ambasciatrice, e hanno bloccato l’ingresso del parcheggio.

I manifestanti hanno portato tamburi e cartelli mentre gridavano slogan tramite un altoparlante come “Palestina libera” e “dal fiume al mare, la Palestina sarà libera”.

Fonti all’interno della “Union” che hanno assistito al discorso hanno riportato a Middle East Eye che il discorso della Hotovely è stato interrotto a causa del rumore proveniente dalle proteste.

I manifestanti hanno quindi organizzato un sit-in e bloccato l’ingresso del parcheggio dove sostava il convoglio dell’ambasciatrice israeliana, mentre la polizia armata di taser cercava di sgomberare i manifestanti.

Opposizione

Gli organizzatori della protesta alla fine hanno ceduto e hanno interrotto il loro sit-in dopo che era stato loro riportato che la protesta era riuscita a interrompere il discorso dell’ambasciatrice.

Hotovely è stata successivamente nascosta da un ombrello e impacchettata nella sua macchina mentre i manifestanti sono rimasti fuori a cantare “vergognati” e “Palestina libera”.

Un portavoce della Cambridge University Palestine Society, che ha voluto rimanere anonimo, ha affermato che la protesta è stata organizzata in opposizione al “sistema” rappresentato da Hotovely.

“Hotovely rappresenta e sostiene un apparato statale che diverse organizzazioni hanno accusato di praticare l’apartheid e crimini contro l’umanità “, ha detto il portavoce a MEE.

Pensiamo che a chiunque rappresenti uno Stato impegnato in pratiche illegali e abusi dei diritti umani non dovrebbe essere dato uno spazio nella nostra città e università. Questa protesta non riguarda solo la condanna di Hotovely come singola persona e per ciò che ha detto, ma vuole rappresentare rifiuto delle pratiche in cui si impegna e rappresenta, come mobilitazioni violente dei coloni contro i palestinesi, le pratiche illegali e le violazioni dei diritti umani”.

‘Solidarietà ebraica’

Anche Chaya Kasif, una studentessa ebrea dell’Università di Cambridge, ha partecipato alla protesta pro-Palestina di martedì contro Hotovely.

Tenendo un cartello che diceva: “Solidarietà ebraica da Gadigal [in Australia] a Gaza”, Kasif ha descritto la sua presenza alla protesta come un’opportunità per mostrare sostegno ai palestinesi.

Il discorso di Hotovely arriva dopo che Amnesty International ha pubblicato un rapporto lungamente atteso che accusa Israele di praticare l’apartheid nei territori palestinesi e in Israele.

L’anno scorso, centinaia di studenti hanno protestato contro la presenza di Hotovely alla London School of Economics, dove ha tenuto una conferenza sul conflitto israelo-palestinese.

Hotovely ha fatto notizia a livello nazionale quando è stato pubblicato online il filmato di lei mentre veniva accompagnata di corsa alla sua macchina mentre gli attivisti studenteschi protestavano contro la sua presenza nel campus.

L’ambasciatrice ha accusato gli studenti di antisemitismo, ma gli studenti hanno risposto affermando che la loro protesta non era razzista.

Da quando è diventata ambasciatrice in UK Hotovely ha cercato la polemica.

Nel 2020, durante un evento ospitato dal consiglio dei rappresentanti degli ebrei britannici [Il Board of Deputies of British Jewish è la più grande organizzazione comunitaria ebraica nel Regno Unito, ndtr.], Hotovely ha affermato che la Nakba, l’espropriazione di massa e l’espulsione dei palestinesi dalle loro case durante la fondazione di Israele, è una “menzogna araba”

Si è anche opposta a qualsiasi pretesa palestinese sulla Cisgiordania, a Gaza o a Gerusalemme est, ha sostenuto l’espansione delle colonie israeliane e si è opposta ai matrimoni misti di ebrei e palestinesi.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Sconfiggere la caccia alle streghe dell’IHRA: un’intervista all’attivista e docente palestinese Shahd Abusalama

Ramona Wadi

7 febbraio 2022 – Mondoweiss

Shahd Abusalama riflette sulla sua ingiusta sospensione dall’università Hallam di Sheffield dovuta a false accuse di antisemitismo e sulla mobilitazione popolare che ha contribuito alla sua riammissione.

L’università Hallam di Sheffield aveva sospeso Shahd Abusalama dal suo incarico di lettrice associata dopo che il mese scorso erano state lanciate contro di lei accuse anonime. L’iniziativa ha provocato un’ondata di appoggi all’accademica palestinese e ha acceso una discussione sul modo in cui governi ed istituzioni sono complici di Israele nell’adottare la definizione di antisemitismo [che negli esempi assimila antisionismo e critiche a Israele all’antisemitismo, ndtr.] dell’Alleanza Internazionale per la Memoria dell’Olocausto [ente intergovernativo cui aderiscono 34 Stati, ndtr.] (IHRA) allo scopo di reprimere le critiche a Israele e silenziare la narrazione palestinese.

Abusalama è stata sospesa in seguito ad una serie di tweet in cui esprimeva la propria opinione sull’uso da parte di uno studente del primo anno delle parole “Stop all’olocausto palestinese” in un manifesto del dicembre 2021. ‘Jewish News – UK’ [Il quotidiano gratuito filoisraeliano che si rivolge alla comunità ebraica della zona di Londra, ndtr.] ha riferito che l’università stava indagando sui tweet. Il 21 gennaio, mentre si preparava a tenere una lezione, ad Abusalama è stata notificata la sospensione e la sua lezione è stata annullata. La natura dell’accusa e l’identità di chi stava dietro la denuncia non sono trapelati.

Non è la prima volta che Abusalama, dottoranda ed attivista di Gaza trasferitasi nel Regno Unito nel 2014, è stata presa di mira dai propagandisti sionisti per le sue attività. Parlando a Mondoweiss, Abusalama sottolinea che il suo caso è stato paragonato a quelli di Jeremy Corbyn e David Miller, entrambi bersagli dei sionisti. “Ma occorre fare una distinzione. Sì, si è vittime della stessa caccia alle streghe, ma le conseguenze sono diverse perché viviamo in una società ineguale in cui alcune persone hanno maggiori privilegi di altre. Loro due sono bianchi, anziani ed hanno cittadinanza europea. Io non ho nessuna di queste caratteristiche, sapete. Io sono vulnerabile in così tanti modi che il fatto che la definizione dell’IHRA sia stata usata dall’università per la prima volta contro una palestinese dimostra come noi siamo i più vulnerabili a questa nefasta e subdola definizione.”

Abusalama descrive la campagna contro di lei come malvagia. “Ma mostra anche un modo di agire storicamente ricorrente di come i palestinesi vengono trattati come eccezione alla regola.” I palestinesi, dice, sono trattati come un’eccezione quando si tratta di diritti umani e autodeterminazione, e le azioni dell’università nei suoi confronti hanno ribadito la radicata politica israeliana di razzismo e colonialismo, che fondamentalmente assoggetta i palestinesi, le loro storie e le loro esperienze per mantenere i privilegi concessi ai colonizzatori.

Abusalama ha detto che durante un precedente incontro con il responsabile delle risorse umane dell’università le è stato espresso rammarico per la cattiva gestione della situazione e l’insensibilità verso il benessere degli studenti, le cui lezioni sono state bruscamente annullate. “Infatti non dimentichiamo che la mia sospensione ha implicato che le lezioni sarebbero state annullate fino a nuova comunicazione e quindi anche i miei studenti sono stati colpiti dal comportamento scorretto e dalla risposta da parte dell’università. Il fatto che riconoscano tutti gli errori commessi è un passo nella giusta direzione, ma l’indagine è ancora in corso, perciò tutto questo non è ancora finito. Essa si basa sulla definizione dell’IHRA e l’università ha parlato alla stampa sionista senza prima consultarmi. Si sono letteralmente arresi alla campagna di diffamazione condotta dai media sionisti, comunicando con loro riguardo al mio lavoro senza parlarmene prima e dicendo loro che la mia università stava indagando su di me, senza che io lo sapessi.”

L’immagine che Israele ha costruito nei decenni contando sull’appoggio colonialista si sta lentamente incrinando, grazie alla maggioranza, come Abusalama definisce i palestinesi e gli oppressi. “La pressione popolare funziona e se noi contrattacchiamo possiamo vincere”, sostiene Abusalama, “grazie a tutta questa ondata di sostegno arrivata da ogni parte del mondo – sostenitori di tutte le nazioni, di tutte le fedi, di tutte le razze in tutto il mondo – e questo sostegno è una carta fondamentale nella lotta per la Palestina. Dobbiamo ricordare che siamo la maggioranza e che abbiamo dalla nostra parte la giustizia, le risoluzioni dell’ONU, il diritto internazionale e tutte le convenzioni internazionali – anche la Corte Internazionale di Giustizia è dalla nostra parte. E lo sono persino le organizzazioni israeliane per i diritti umani.”

Certo, l’ondata di sostegno ad Abusalama sulle piattaforme social contrasta con l’attività della lobby sionista, che conta sulle campagne per intimidire e mettere a tacere. Usare come arma la definizione dell’IHRA, che è abbastanza ambigua da rispondere alla strategia politica suprematista israeliana, è una tattica che dovrebbe essere accuratamente analizzata.

Ci sono stati molti timori che la definizione dell’IHRA potesse essere usata per soffocare le critiche a Israele, in particolare prendendo di mira sia persone di nazionalità che sono direttamente coinvolte con le politiche israeliane, come ad esempio la popolazione palestinese o libanese, sia accademici i cui percorsi di ricerca includono analisi delle politiche israeliane. Altri, al di fuori dell’ambito universitario, si sono preoccupati che l’eliminazione delle critiche ad Israele possa condurre alla “censura e cancellazione dell’opposizione palestinese alla violenza che continua a espropriarli.” A questo punto risulta chiaro che, quando le università adottano la definizione dell’IHRA, ciò comporta una partecipazione diretta all’ostilità sionista nei confronti dei palestinesi e delle voci filopalestinesi. Inoltre essa disprezza la memoria collettiva dei palestinesi e l’esperienza vissuta della perdurante Nakba di Israele.

Se chiedete a qualcuno come me se Israele ha un comportamento razzista, è superfluo dire che lo è. Io sono una vittima della loro pulizia etnica. La mia famiglia è una vittima della loro pulizia etnica – 531 villaggi e città palestinesi completamente spopolati dalle loro popolazioni native e distrutti, cosa che è un atto di memoricidio che è denunciato da molte persone, persino da storici israeliani”, dice Abusalama. “Israele cerca disperatamente di arrogarsi il ruolo di vittima, ma solo per distogliere l’attenzione dalla reale vittima del suo crimine e questo è stato denunciato prima della creazione dello Stato.”

Abusalama sottolinea che all’interno del consiglio per le colonie del governo britannico vi erano degli ebrei che si sono schierati contro la costruzione del giudaismo come identità nazionale. “È stata una grande ingiustizia anche solo pensare di costruire uno Stato sionista in cui i palestinesi sarebbero stati del tutto trascurati e questo avvenne contemporaneamente alle promesse britanniche agli arabi sull’autodeterminazione della Palestina. Cosa che era l’orientamento della potenza mandataria in quell’epoca seguente alla prima guerra mondiale: sosteneva di voler condurre quella popolazione occupata all’indipendenza e all’autonomia. Ma, mentre la maggioranza delle comunità colonizzate nel mondo andava verso la decolonizzazione, i palestinesi rimasero bloccati sotto il colonialismo ed il potere coloniale passò dai britannici ad Israele. La Gran Bretagna lasciò la Palestina il 14 maggio 1948, dopo 30 anni di distruzione e colonialismo di insediamento. Trascorsero poche ore tra il ritiro britannico dalla Palestina e la dichiarazione dello Stato di Israele il 15 maggio 1948. Ciò avvenne sullo sfondo della pulizia etnica che schiacciò e distrusse la terra di Palestina ed il suo popolo. E questo processo continua tuttora a Sheikh Jarrah, a Gerusalemme, nella maggior parte dei quartieri di Gerusalemme, a Beita, Hebron e dovunque, anche nel nord della Palestina. Questo è chiarissimo nei rapporti di B’Tselem che condannano l’apartheid israeliano. Un regime di apartheid che si estende dal fiume Giordano al mar Mediterraneo.”

In un contesto di prove storiche della pulizia etnica di Israele e delle perduranti ripercussioni dell’ espansione delle sue colonie di insediamento, ora si criminalizza l’attivismo invece di richiamare Israele alle sue responsabilità in base al diritto internazionale.

Dice Abusalama: “Quando noi diciamo ‘Palestina libera dal fiume [Giordano] al mare [Mediterraneo]’ vogliamo dire che queste prassi oppressive dal fiume al mare e anche oltre, come evidenzia il mio caso, devono finire. Devono finire. Ma persino questo bello slogan di liberazione viene tacciato di antisemitismo. Persino ‘la solidarietà è un verbo’ [altro slogan del movimento filo-palestinese, ndtr.] in questa atmosfera è antisemitismo. È preoccupante e deve preoccupare le persone a cui importa qualcosa dell’umanità e dei diritti umani. Nessuno è al sicuro. Nessuno è al sicuro finché continua l’ingiustizia in tutto il mondo. Basta vedere come Israele usa il suo modello di oppressione contro i palestinesi e lo vende ad altri Stati oppressivi perché lo usino contro i diversi che non vogliono avere sul loro territorio.”

Abusalama è stata categorica nel non accettare alcuna inchiesta basata sulla definizione dell’IHRA. “Non accetterò di essere valutata sulla base di falsi presupposti e credo che questa indagine dovrebbe essere lasciata cadere. Si tratta di una motivazione intrinsecamente razzista e fuorviante, che viene imposta alle università da politici al governo qui nel regno Unito, tagliando loro i fondi se non adottano la definizione dell’IHRA. Gavin Williamson, Ministro dell’Istruzione del Regno Unito, ha imposto alle università la definizione dell’IHRA ed ha addirittura fissato una scadenza entro la quale la mancata adozione della definizione dell’IHRA comporterà la cancellazione dei finanziamenti. Questo è un vulnus all’autonomia universitaria che non può essere accettato, che tu sia palestinese o no. L’ingerenza del governo nelle attività universitarie dimostra quanto sia politico questo strumento della definizione dell’IHRA e quanto sia utile praticamente solo agli interessi britannici, israeliani ed imperialisti.”

Dopo la nostra conversazione Abusalama è stata reintegrata. Il 2 febbraio il sindacato dell’università e del college Hallam di Sheffield ha approvato una mozione che chiede all’università di chiedere pubblicamente scusa, di interrompere ogni indagine contro di lei che sia basata sulla definizione dell’IHRA e di stabilire una sospensione dell’utilizzo della definizione nelle azioni disciplinari dell’università.

Il giorno seguente Abusalama è stata informata dall’università che non verrà condotta alcuna ulteriore indagine. Ora è completamente scagionata dalle false accuse di antisemitismo sollevate contro di lei in base alla definizione dell’IHRA e le è stato offerto un contratto più stabile con l’università.

Ramona Wadi

Ramona Wadi è ricercatrice indipendente, giornalista freelance, critica letteraria e blogger. I suoi lavori si occupano di una serie di tematiche relative a Palestina, Cile e America Latina.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




‘Vogliono una guerra’: l’approvazione dell’avamposto da parte del procuratore generale in Cisgiordania scatena le proteste palestinesi

Agar Shezaf

6 febbraio 2022 – Haaretz

Dalla fondazione di Evyatar l’anno scorso i palestinesi di Beita hanno manifestato ogni settimana e otto persone sono morte. Con il suo ultimo intervento ufficiale Mendelblit ha rinvigorito le proteste

La decisione del procuratore generale uscente Avichai Mendelblit di stabilire un insediamento coloniale sul sito dell’avamposto di Evyatar non ha raffreddato l’ardore degli abitanti di Beita, il villaggio palestinese sulle cui terre è situato l’avamposto. Anzi. “Rafforza solo la nostra volontà di resistere e combattere”, ha detto ad Haaretz un diciassettenne che partecipa alla manifestazione contro l’avamposto, la più grande protesta settimanale in Cisgiordania.

L’adolescente, uno studente delle superiori, è arrivato alla manifestazione con le stampelle. Le usa da quando è stato colpito alla gamba dai soldati israeliani due settimane fa. Dice che non è la prima volta che viene ferito. Nella prima settimana in cui si sono svolte le proteste contro l’avamposto un proiettile Ruger (un proiettile calibro 22 usato per la dispersione della folla) gli è sfrecciato sulla testa, ferendolo e rendendo necessario il trasporto in un vicino ospedale.

Eppure continua a protestare ogni giorno contro l’avamposto. “Cosa farei a casa?” si chiede, stupito da una tale domanda. “Questa è la missione del nostro villaggio: rimuovere l’avamposto. Non si tratta solo di dimostrazioni. Sin svolgono anche ‘operazioni notturne di disturbo’ e a volte veniamo qui”.

Operazioni notturne di disturbo è l’appellativo degli incendi notturni di pneumatici e dell’uso occasionale di laser tag [gioco di simulazione militare con l’impiego di strumenti a raggi infrarossi, totalmente innocui, ndtr.] da parte dei giovani di Beita ai piedi dell’avamposto. Sono iniziate ancor prima che i coloni venissero sfrattati dall’avamposto, quando nell’area si potevano scorgere incessanti volute di fumo nero, e continuano ora che l’avamposto è presidiato dai militari.

Le notizie sulla concessione da parte di Mendelblit del permesso di costruzione di una colonia nella località di Evyatar sono state tradotte e distribuite sui gruppi Whatsapp di protesta. “Vogliono una guerra”, afferma Khaled, un abitante di Beita sulla quarantina, che protesta contro Evyatar sin dalla sua fondazione a maggio.

Come ogni venerdì, lo scorso fine settimana centinaia di residenti di Beita sono andati a protestare contro l’avamposto. Sebbene i coloni abbiano lasciato Evyatar circa sei mesi fa, le strutture che vi hanno eretto sono rimaste, così come una grande stella di David in legno, chiaramente visibile dal luogo della manifestazione. Alla manifestazione settimanale partecipano bambini piccoli, ragazzi e anche adulti sulla sessantina. Alcuni hanno con sè delle fionde e prendono di mira i soldati con le pietre.

Altri offrono ai manifestanti bottiglie d’acqua, altri ancora osservano quanto succede e di tanto in tanto urlano contro i soldati. L’esercito usa gas lacrimogeni, proiettili di gomma e proiettili veri. Dall’inizio delle proteste sono stati uccisi otto palestinesi. Secondo la Mezzaluna Rossa questo venerdì tre palestinesi sono stati feriti alle gambe da proiettili veri, nove sono stati feriti da proiettili di gomma e 26 sono stati curati per inalazione di gas.

L’esercito pattuglia continuamente l’avamposto e non permette a nessuno di avvicinarsi, quindi le proteste non si svolgono ai piedi dell’avamposto ma nel letto del torrente tra l’avamposto e il villaggio, e talvolta tra il villaggio e la Statale 60 [la strada che percorre da nord a sud Israele e Cisgiordania unendo Beersheba a Nazareth, ndtr.]. La protesta inizia dopo che la gente del luogo ha pregato sul posto. Oggi i manifestanti hanno affermato che l’esercito si è avvicinato più che mai alle case del villaggio.

Pensano che ciò abbia a che fare con l’annuncio di Mendelblit e che Israele stia cercando di fare pressione su di loro affinché smettano di protestare. “Oggi hanno iniziato subito in modo pesante. Ci sono state molte sparatorie e molto gas”, dice uno dei manifestanti mentre un candelotto lacrimogeno gli cade vicino. “Anche i bambini di Beita sanno in che direzione il gas si diffonde e la differenza tra il suono dello sparo di un proiettile vero e di un Ruger [proiettile considerato dall’esercito israeliano “meno letale” in quanto di calibro ridotto, ndtr.]”.

Più tardi la gente del posto ha respinto l’esercito nel letto del torrente. Alcune decine di giovani, nascosti tra gli ulivi, hanno lanciato pietre contro i soldati; altri osservavano dall’alto. “Questo ha cambiato molto la vita a Beita”, aggiunge Khaled, “ma non sono andato io contro ai coloni, sono loro che sono venuti da me e hanno preso la terra del mio bisnonno. Vogliamo solo che gli edifici vengano rimossi”.

La peculiarità del villaggio, attestano i suoi abitanti, è che tutti sono impegnati in funzione delle proteste: le donne del villaggio producono cibo per i manifestanti, le attività di protesta si svolgono durante la settimana e non sono attribuite ad alcun gruppo politico.

Ogni settimana l’esercito pattuglia la strada che proviene dal villaggio cercando di impedire l’ingresso delle auto. In pratica, questo non impedisce l’arrivo dei manifestanti, ma rende più difficile il lavoro dell’equipe medica. “L’ambulanza continua a rimanere bloccata nel fango”, dice il dottor Abd al-Jaleel, direttore dell’ospedale da campo di Beita, mentre le due ambulanze in servizio dietro la manifestazione sono impantanate nel terreno nel tentativo di partire. L’ospedale è gestito solo da volontari, alcuni di Beita e altri di Nablus e delle aree circostanti.

All’inizio – dice Al-Jaleel – nel villaggio non c’era una clinica adatta per i trattamenti di emergenza. Sin dal primo giorno abbiamo prestato le cure alle persone ferite durante le manifestazioni contro l’avamposto, ma presto ci siamo resi conto che qui il numero di ferite gravissime da arma da fuoco è molto elevato. Dato che l’ospedale di Nablus è a 17 chilometri di distanza e i soldati spesso bloccano la strada, è difficile evacuare le persone abbastanza velocemente”, spiega.

L’ospedale da campo è stato creato all’interno della scuola del villaggio e all’inizio le persone sono state curate su materassi per terra. Al Jaleel stima che ogni venerdì vengano trattati circa cento feriti e nell’ultimo anno sono state prese in cura sette persone con ferite da arma da fuoco che hanno richiesto un trattamento di rianimazione.

E’ riuscito a salvarne uno. Mostra delle foto di ambulanze con i finestrini rotti perché l’esercito gli ha sparato contro proiettili di gomma. “Da quando tutto questo ha avuto inizio non abbiamo alcuna vita sociale né [pausa del, ndtr.] venerdì. Siamo sempre qui”, dice. Il prezzo delle proteste può essere visto dappertutto nel villaggio, dice, e osserva: “Passeggiando per Beita ogni pochi metri si incontra qualcuno con le stampelle”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




La cooperante Juana Ruiz esce dal carcere dopo 300 giorni di detenzione in Israele

Juan Carlos Sanz

07 febbraio 2022 – El País

Il peggio è stato all’inizio, stavo per arrendermi”, afferma l’operatrice umanitaria spagnola dopo essere stata liberata a un posto di blocco in Cisgiordania

Jenin (Cisgiordania) – “In carcere il peggio è stato all’inizio, mi sono sentita vacillare e stavo per arrendermi”. Così ha detto, con le lacrime agli occhi per l’emozione, la cooperante spagnola Juana Ruiz Sánchez, di 63 anni, una volta in territorio palestinese dopo essere uscita lo scorso lunedì al pomeriggio dalla prigione di Damon ad Haifa, nel nord di Israele. “Sono stati momenti orribili,” ha ricordato così il suo “doloroso” periodo di detenzione nelle carceri israeliane.

Era stata arrestata in casa sua a Beit Sahur (nei pressi di Betlemme) più di 300 giorni fa. L’operatrice umanitaria ha accolto di buonumore i giornalisti che l’aspettavano al posto di blocco militare israeliano di Yamala, a Jenin (Cisgiordania), dove, dopo la sua scarcerazione, è stata accolta da un diplomatico del Consolato Generale di Spagna a Gerusalemme.

Si è subito dimostrata contenta della libertà appena riconquistata. Poche ore prima la procura israeliana aveva deciso di non presentare ricorso contro la decisione di concederle la libertà condizionale adottata la settimana scorsa da una commissione penitenziaria a Nazareth (nel nord).

In seguito l’operatrice umanitaria spagnola ha potuto ritrovare suo marito, il palestinese Elías Rishmawi, e i suoi figli Maria e George in un ristorante della zona di Jenin. “Adesso voglio solo stare con loro,” ha affermato dopo essere stata definitivamente liberata al muro di separazione tra Israele e la Palestina.

Sicuramente ci sarà molto da raccontare, ma ora l’unica cosa di cui ho bisogno è un po’ di riposo, di riprendermi moralmente e fisicamente e stare di nuovo con la mia famiglia,” ha dichiarato ai mass media. Tra qualche tempo andrà in Spagna per cercare di cambiare aria.

Ha spiegato di essere stata quasi sul punto di crollare, finché non ha potuto trovarsi nella stessa cella con altre detenute palestinesi, dopo essere rimasta varie settimane in isolamento. Ricorda l’aiuto che ha ricevuto dalle sue compagne di reclusione e le visite di rappresentanti consolari come momenti fondamentali per riuscire a non perdersi d’animo durante tutti questi mesi dietro le sbarre.

Dopo aver passato quasi 10 mesi in prigione e aver dovuto accettare una condanna per evitare una lunga permanenza in carcere in attesa di essere giudicata, Juana Ruiz ha insistito sulla sua innocenza: “Ho lavorato solo per la salute dei palestinesi e le autorità israeliane lo sanno,” ha affermato dopo essere stata liberata. Ora la cooperante dovrà tornare a casa sua in Cisgiordania. “È stata un’esperienza fortissima e molto dolorosa,” ha confessato.

A casa mia, dove vivono persone che hanno più di 60 anni, sono arrivati 25 soldati alle 5 del mattino. L’occupazione è questo,” ha ricordato così il suo arresto, il 13 aprile dell’anno scorso.

In novembre davanti al tribunale militare israeliano di Ofer (Cisgiordania occupata) ha accettato una condanna a 13 mesi di carcere. La giustizia militare ha condannato Ruiz, che vive in Cisgiordania con suo marito palestinese da più di trent’anni, anche a una multa di 50.000 shekel (circa 14.000 euro) per i reati di “aver prestato servizio in un’ organizzazione illegale” e di “traffico di valuta in Cisgiordania”, all’interno dell’Ong sanitaria palestinese Comitato di Lavoro per la Salute, con la quale collabora.

Per accelerare il processo che l’avrebbe obbligata a passare molto tempo dietro le sbarre, Ruiz ha accettato di dichiararsi colpevole delle due accuse nel contesto di un accordo con la procura militare che ha cancellato altre tre gravi imputazioni per reati legati al terrorismo. Alla fine lo scorso dicembre un tribunale di Haifa ha ordinato il riesame della richiesta di scarcerazione dell’operatrice umanitaria perché aveva scontato due terzi della condanna, cosa che inizialmente era stata respinta dalla cosiddetta Giunta per la Libertà Condizionale di Nazareth.

Questa commissione carceraria, composta da un giudice, un’assistente sociale e uno psicologo, aveva stabilito per due voti contro uno che Ruiz avrebbe dovuto rimanere in carcere fino a metà maggio e scontare interamente la pena. Ora l’operatrice umanitaria dovrà rimanere nel territorio occupato sotto il controllo di Israele senza poter viaggiare all’estero almeno fino a che non avrà scontato tutto il tempo della sua condanna formale.

Dopo la sua liberazione il ministro degli Esteri spagnolo José Manuel Albares ha parlato per telefono con Juana Ruiz nel posto di controllo militare di Yamala, presso il muro di separazione. In seguito il capo della diplomazia spagnola ha ringraziato su Twitter il suo omologo israeliano, Yair Lapid, per la telefonata con cui gli ha confermato la notizia della liberazione della cooperante.

Nello stesso messaggio Albares ha anche sottolineato il lavoro dei funzionari consolari durante questi mesi per prestarle la loro assistenza. “Ho espresso il mio ringraziamento al popolo spagnolo,” ha raccontato Ruiz, visibilmente emozionata. “Ho detto al ministro che mi piacerebbe abbracciare tutti quanti quando andrò in Spagna,” ha spiegato.

Non so la ragione di tutto questo. È stata una prima parte (della strategia di Israele) per mettere fuorilegge tutte le organizzazioni dei diritti umani dei palestinesi,” ha concluso le sue dichiarazioni alla stampa con questa riflessione sulla sua detenzione e sul suo processo. “Io faccio parte di una di queste,” ha affermato con convinzione, “e non facciamo male a nessuno.”

Juan Carlos Sanz

Dal 2015 è il corrispondente per il Medio Oriente a Gerusalemme. Prima è stato capo di Internacional. In vent’anni come inviato di El País ha coperto conflitti nei Balcani, nel Maghreb, in Iraq e in Turchia, tra le altre destinazioni. Si è laureato in Diritto all’università di Saragozza ed ha conseguito un master in giornalismo presso l’Università Autonoma di Madrid.

(traduzione dallo spagnolo di Amedeo Rossi)




Diritto Internazionale: Amnesty International analizza a fondo l’apartheid di Israele

Jean Stern

1 febbraio 2022 – Orient XXI

L’organizzazione per la difesa dei diritti umani Amnesty International attacca il crudele sistema di dominazione sulla popolazione palestinese che sia in Israele, nei territori occupati, a Gaza o rifugiata. Questo importante punto di svolta di Amnesty, che invoca il deferimento alla Corte Penale Internazionale, è un duro colpo per il governo israeliano. Orient XXI ha letto il rapporto in anteprima.

Il primo scossone è avvenuto nel 2020, quando l’organizzazione israeliana di giuristi Yesh Din ha utilizzato il termine “apartheid” per definire un sistema che si auto-proclama democratico e che, fino ad ora, è riuscito ad evitare un’analisi politica oggettiva. Dato che la vicinanza rende lucidi, un’altra ong israeliana, B’Tselem, nel 2021 è andata oltre, sostenendo che è tempo di dire “no all’apartheid dalle rive del Giordano al Mediterraneo”. Le due Ong sono state seguite dall’aprile 2021 da Human Rights Watch (HRW). Tuttavia l’organizzazione parla di apartheid solo per i territori occupati e Gaza, facendo un distinguo riguardo alle discriminazioni specifiche dei palestinesi israeliani. Il rapporto pubblicato da Amnesty International martedì 1 febbraio 2022, e di cui Orient XXI ha avuto l’anteprima, va molto oltre e utilizza il termine “apartheid” per tutti i palestinesi qualunque sia il loro luogo di residenza e il loro status.

Per la prima volta Amnesty International (AI), una delle più importanti organizzazioni mondiali in difesa dei diritti umani e anche una delle più caute nella scelta delle parole per definire le situazioni, in un rapporto pubblicato martedì primo febbraio 2022 e che dovrebbe provocare accese discussioni ritiene che “l’apartheid israeliano contro la popolazione palestinese è un sistema crudele di dominazione e un crimine contro l’umanità.” Il documento inoltre farà epoca, poiché tratta senza distinzione la situazione delle e dei palestinesi “che vivono in Israele e nei territori palestinesi occupati (TPO) così come rifugiate/i e profughe/i in altri Paesi.

Questo rifiuto di dividere i palestinesi in frammenti, di ritenere che i loro interessi avrebbero finito con il differenziarsi in base al loro luogo di residenza, è una rivoluzione notevole nel linguaggio della comunità umanitario-diplomatica internazionale. Si ispira agli argomenti di lunga data dei numerosi palestinesi (e di molti altri) sull’unità di un popolo frammentato dalla creazione dello Stato di Israele nel 1948.

Riportare indietro l’orologio

Questo corposo materiale descrive l’oppressione israeliana e i meccanismi di dominazione dei palestinesi. Decine di interviste, centinaia di documenti analizzati soprattutto relativamente al periodo 2017-2021, mesi di elaborazione in totale segreto: il rapporto di Amnesty porta con sé un importante cambiamento politico. Offre anche una quantità considerevole di informazioni sulla situazione che vivono i palestinesi, che siano a Gaza, in Cisgiordania, a Gerusalemme, ad Haifa… e risale spesso alle origini dello Stato di Israele per comprendere meglio le radici di una politica la cui continuità era già stata messa in luce negli ultimi anni da molti storici di ogni origine. Anche lì Amnesty riporta indietro l’orologio. “Sta succedendo l’esatto contrario di quello che immaginavano,” mi disse in modo premonitore nella primavera del 2016 Yuli Novak, direttrice generale di Breaking The Silence, un’organizzazione israeliana di veterani dell’esercito israeliano che raccoglie le testimonianze sulle vessazioni commesse nei territori occupati dai soldati.

I rapporti di Breaking The Silence, così come quelli di altre Ong israeliane e palestinesi, hanno d‘altra parte alimentato il lavoro dei ricercatori di Amnesty International, ottenendo finalmente l’eco che meritavano.

Ciò che sta succedendo è semplicemente che il potere di persuasione di Israele (e dei suoi numerosi alleati di ogni latitudine e di ogni continente, da Los Angeles a Dubai) non è riuscito a soffocare le voci dissidenti, in primo luogo in Palestina, ma anche in Israele, tra gli ebrei come tra gli arabi. Al contrario, riprendono la parola. Con questo nuovo impegno molto convinto di AI l’uso del termine apartheid a proposito di Israele non sarà più soggetto a un fuoco di bombardamento, anche se forse è meglio non farsi illusioni, soprattutto in Francia. In ogni caso Amnesty propone un notevole salto in avanti sulla scena mondiale.

Un crimine contro l’umanità

Il suo rapporto di 211 pagine fitte analizza le detenzioni amministrative, l’esproprio di proprietà fondiarie e immobiliari, gli omicidi illegali, i trasferimenti forzati, le restrizioni agli spostamenti, gli ostacoli all’educazione. Si fonda su numerosi esempi documentati, in varie parti del Paese, nella Valle del Giordano, a Gaza. Raccoglie molte informazioni, il che ha permesso all’organizzazione di dedicarsi a un minuzioso inventario del sistema messo in atto da Israele. Si tratta di identificare altrettanti “fattori costitutivi” di un sistema di apartheid ai sensi del diritto internazionale. Per Amnesty “questo sistema viene perpetuato dalle violazioni che costituiscono il crimine contro l’umanità di apartheid come definito nello Statuto di Roma e nella Convenzione sull’apartheid.” Agnès Callamard, dal 2021 nuova segretaria generale dell’organizzazione di difesa dei diritti umani, chiarisce la questione:

“Il nostro rapporto svela la vera dimensione del regime di apartheid di Israele. Che sia nella Striscia di Gaza, a Gerusalemme est, a Hebron o in Israele, la popolazione palestinese è trattata come un gruppo razziale inferiore ed è sistematicamente privata dei suoi diritti.”

Amnesty International “invita la Corte Penale Internazionale (CPI) a prendere in considerazione la definizione di crimine di apartheid nel quadro della sua attuale inchiesta nei TPO e chiede a tutti gli Stati di esercitare la competenza universale per portare davanti alla giustizia i responsabili dei crimini di apartheid.

Un sistema in vigore dal 1948

Il rapporto specifica ciò che Amnesty intende per “sistema di apartheid” e su questo punto specifico vale la pena citarlo per esteso:

“Il sistema di apartheid è nato con la creazione di Israele nel maggio 1948 ed è stato costruito e mantenuto per decenni dai governi israeliani che si sono succeduti su tutto il territorio da loro controllato, indipendentemente dal partito politico al potere all’epoca. Israele ha sottoposto diversi gruppi di palestinesi a differenti insiemi di leggi, di politiche e di pratiche discriminatorie e di esclusione in momenti diversi, in seguito alle conquiste territoriali realizzate prima nel 1948, poi nel 1967, quando annetté Gerusalemme est e occupato il resto della Cisgiordania e della Striscia di Gaza. Nel corso dei decenni le preoccupazioni demografiche e geopolitiche israeliane hanno plasmato le politiche nei confronti dei palestinesi in ognuno di questi contesti territoriali.

Anche se il sistema di apartheid di Israele si manifesta in modi diversi nelle differenti zone sotto il suo controllo effettivo, esso ha sempre lo stesso obiettivo di opprimere e dominare i palestinesi a favore degli ebrei israeliani, che sono privilegiati dal diritto civile israeliano qualunque sia il loro luogo di residenza. È concepito per conservare una schiacciante maggioranza ebraica che abbia accesso e abbia a disposizione il massimo di territorio e di terre acquisite o controllate, limitando nel contempo il diritto dei palestinesi a contestare la spoliazione delle proprie terre e dei propri beni. Questo sistema è stato applicato ovunque Israele abbia esercitato un controllo effettivo su territori e terre o sull’esercizio dei diritti dei palestinesi. Si concretizza nel diritto, in politica e nella prassi e si riflette nei discorsi dello Stato dalla sua creazione fino ad oggi.”

Discriminazione razziale e cittadinanza di serie B

Il rapporto insiste ovviamente sulle discriminazioni globali di un sistema la cui geometria variabile non è in fondo che un fattore di adeguamento.

Le guerre del 1947-49 e del 1967, l’attuale regime militare di Israele nei TPO e la creazione dei regimi giuridici e amministrativi differenti sul territorio hanno isolato le comunità palestinesi e le hanno separate dalla popolazione ebraica israeliana. Il popolo palestinese è stato frammentato geograficamente e politicamente e vive diversi livelli di discriminazione in base al suo status e al suo luogo di residenza.

Attualmente i cittadini palestinesi di Israele hanno più diritti e libertà dei loro omologhi dei TPO, e del resto la vita quotidiana dei palestinesi non si è dimostrata molto diversa che vivano nella Striscia di Gaza o in Cisgiordania. Le ricerche di Amnesty International mostrano tuttavia che l’insieme della popolazione palestinese è soggetta a un solo e identico sistema. Il trattamento dei palestinesi da parte di Israele in tutti i territori risponde allo stesso obiettivo: privilegiare gli ebrei israeliani nella distribuzione delle terre e delle risorse e ridurre al minimo la presenza della popolazione palestinese e il suo accesso alle terre.

Un solo e unico sistema, fondato secondo AI sulla discriminazione razziale e su status di cittadini di serie B. Questa svalutazione si accompagna ovviamente alla spoliazione, e il rapporto torna sulla “messa in atto di crudeli espropriazioni fondiarie su vasta scala contro la popolazione palestinese,” e sulla demolizione “dal 1948” di centinaia di case ed edifici palestinesi. Evoca anche le famiglie dei quartieri palestinesi di Gerusalemme est vessate dai coloni che si appropriano delle loro abitazioni “con il totale sostegno del governo israeliano.

Amnesty chiede a tutti i Paesi che intrattengono buoni rapporti con Israele “tra cui alcuni Paesi arabi e africani” di non sostenere più un sistema di apartheid. Per uscire da questo “sistema”, ormai documentato da Amnesty, “la reazione internazionale di fronte all’apartheid non deve più limitarsi a condanne generiche e a scappatoie. È necessario aggredire le radici del sistema, altrimenti le popolazioni palestinesi e israeliane resteranno imprigionate nel ciclo senza fine di violenze che ha annientato tante vite,” conclude Agnès Callamard.

La mia identificazione con questa storia è finita”

Con un’altra storia e attraverso altre vie Yuli Novak è arrivata alla stessa conclusione di Agnès Callamard. Oggi quarantenne, nel 2017 ha lasciato il suo incarico a Breaking The Silence per fare un viaggio con varie destinazioni, dall’Islanda al Sudafrica. Lì ha incontrato gente che aveva lottato contro l’apartheid, cercato di comprendere “le paure” degli uni e degli altri. Ma ha capito soprattutto l’apartheid nel suo stesso Paese. “La sua struttura politica era destinata fin dall’inizio a preservare una maggioranza ebraica, e in questo senso è stata antidemocratica. La mia identificazione con questa storia è finita,” continua Yuli Novak in un lungo ritratto pubblicato il 28 gennaio 2022 dal quotidiano progressista [israeliano] Haaretz.

In un libro che ha da poco pubblicato, Yuli Novak descrive parecchi anni infernali, di vessazioni quotidiane, la delusione di scoprire che un impiegato di Breaking The Silence era un agente dello Shin Bet, il servizio di spionaggio interno [israeliano, ndtr.]. Prima ha pensato che “quel tipo un po’ strano, un po’ solitario, commovente” sapeva tutto di lei, dei suoi piccoli “pettegolezzi”, prima di capire che la democrazia si dissolveva davanti ai suoi occhi. Allora ha compreso che il contratto con il suo Paese era per così dire “condizionato: finché obbedivo. Nel momento in cui qualcosa non gli andava bene, il sistema si rivoltava contro di me. Mi dicevano: ‘Se tu sei contro l’occupazione e pensi che si debba manifestare riguardo alla situazione a Gaza, allora non sei una di noi.

Prende atto del fatto che parlare di apartheid riguardo a Israele non è che un dato di fatto. E se ciò diventa psicologicamente e politicamente doloroso da sopportare per molti israeliani, lo è ancora di più e da molto più tempo per milioni di palestinesi. Per gli uni come per gli altri il sostegno internazionale, se fa il suo ritorno in forze senza insensatezze, sarà il benvenuto.

Jean Stern

Ex-giornalista di Libération, La Tribune e La Chronique d’Amnesty International. Nel 2012 ha pubblicato Les Patrons de la presse nationale, tous mauvais [I proprietari della stampa nazionale, tutti cattivi], La Fabrique; per le edizioni Libertalia nel 2017 Mirage gay à Tel Aviv [Miraggio gay a Tel Aviv] e nel 2020 Canicule [Canicola].

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)




Cosa rende diverso il rapporto di Amnesty?

Maureen Clare Murphy

3 febbraio 2022 – Electronic Intifada

Cosa rende diverso da quelli che l’hanno preceduto il nuovo rapporto di Amnesty International secondo cui Israele pratica il crimine di apartheid contro i palestinesi?

Sicuramente la reazione di Israele, “isterica” nelle parole di un titolo di Haaretz [giornale israeliano di centro sinistra, ndtr.], all’analisi di Amnesty è notevolmente diversa dalla sua risposta, relativamente di basso profilo, a rapporti simili recentemente resi pubblici da B’Tselem, un’associazione israeliana per i diritti umani, e da Human Rights Watch, con sede a New York.

Organizzazioni palestinesi per i diritti umani come Al-Haq e Al Mezan hanno da molto prima presentato un quadro generale di apartheid, e i rapporti delle summenzionate associazioni israeliane e internazionali prendono spunto dal loro lavoro.

Amnesty, Human Rights Watch e B’Tselem hanno esaminato il sistema di controllo di Israele che privilegia gli ebrei israeliani in tutta la Palestina storica, emargina i palestinesi e viola i loro diritti in vario modo, in larga misura a seconda di dove essi vivano.

E, a differenza delle analisi pubblicate dalle associazioni palestinesi, questi tre rapporti, accolti come rivoluzionari e innovativi, sono inadeguati nel collocare il sistema dell’apartheid di Israele nel contesto del colonialismo di insediamento. (Una ricerca delle parole chiave nel rapporto di Amnesty dà tre risultati per i termini “colonialismo” e “coloniale”, che si trovano nei titoli di lavori citati nelle note.)

Amnesty sottolinea ripetutamente “il tentativo di Israele di conservare il suo sistema di oppressione e dominazione” senza mettere esplicitamente in chiaro che l’apartheid è un mezzo il cui fine è la colonizzazione di insediamento: cacciare i palestinesi dalla terra in modo che siano sostituiti da coloni provenienti dall’estero.

L’organizzazione per i diritti afferma che “dalla sua fondazione nel 1948 Israele ha perseguito una politica esplicita di creazione e conservazione di un’egemonia demografica ebraica e massimizzazione del suo controllo sulla terra a favore degli ebrei israeliani, riducendo nel contempo al minimo il numero di palestinesi, limitandone i diritti e ostacolandone la possibilità di resistere a questa spoliazione.”

Onore al merito: Amnesty fa piazza pulita del mito fondativo di Israele, riconoscendo che è stato razzista fin dall’inizio, una presa di distanza dal tipico atteggiamento progressista secondo cui nel corso del tempo Israele in qualche momento si è allontanato dai suoi ideali.

Amnesty evidenzia persino che “molti elementi del sistema militare repressivo di Israele nei TPO [territori palestinesi occupati, ndtr.] (Cisgiordania e Gaza) hanno origine nel regime militare israeliano sui palestinesi cittadini di Israele durato 18 anni,” iniziato nel 1948, “e che la spoliazione dei palestinesi di Israele continua fino a oggi.”

Amnesty riconosce anche che “nel 1948 singoli individui e istituzioni ebraiche detenevano circa il 6,5% della Palestina mandataria, mentre i palestinesi erano in possesso del 90% della terra di proprietà privata,” in riferimento a tutta la Palestina storica prima della fondazione dello Stato di Israele. “In soli 70 anni la situazione è stata ribaltata,” aggiunge l’organizzazione.

E questo è l’obiettivo di Israele – il “sistema di oppressione e dominazione” sottolineato da Amnesty è il mezzo attraverso cui esso ha usurpato la terra palestinese a favore di coloni provenienti dall’estero.

Dopotutto i coloni sionisti non sono andati in Palestina dall’Europa con l’intenzione di dominare e opprimere i palestinesi: essi sono arrivati con l’intenzione di colonizzarne la terra.

Come afferma il Jerusalem Legal Aid and Human Rights Center [Centro Palestinese di Assistenza Legale e Diritti Umani di Gerusalemme, ndtr.], un’organizzazione palestinese, “ogni riconoscimento di Israele come Stato di apartheid dovrebbe essere collocato all’interno del contesto del suo regime di colonialismo d’insediamento.”

Amnesty evita anche di esaminare e mettere in discussione il sionismo, l’ideologia razzista dello Stato di Israele attorno alla quale si è organizzato il suo progetto di colonialismo d’insediamento.

Come ha chiesto mercoledì Adalah-NY, un’associazione di sostegno con sede negli USA: “È possibile porre fine all’apartheid senza fare altrettanto con il progetto colonialista d’insediamento sionista?”

Un lavoro preliminare per obbligare a pagare le conseguenze

Nonostante questi limiti problematici, l’analisi di Amnesty pone una solida base per considerare Israele responsabile all’interno del carente contesto delle leggi internazionali e fa energiche raccomandazioni per porvi fine.

Amnesty si unisce alle associazioni palestinesi che sollecitano la Corte Penale Internazionale a “indagare sulla messa in atto del crimine di apartheid” e la sua procura generale a “prendere in considerazione l’applicabilità del crimine contro l’umanità di apartheid all’interno della sua attuale indagine formale” in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza.

Dato che la CPI non ha giurisdizione territoriale in Israele, Amnesty chiede al Consiglio di Sicurezza dell’ONU di sottoporre “tutta la situazione alla CPI” oppure di creare “un tribunale internazionale per processare i presunti responsabili” del crimine contro l’umanità di apartheid.

Amnesty aggiunge che il Consiglio di Sicurezza “deve anche imporre sanzioni mirate, come il congelamento dei beni, contro i politici israeliani più coinvolti … e un complessivo embargo militare contro Israele.”

Ripetendo il suo “appello di lunga data” agli Stati perché sospendano ogni forma di assistenza militare e vendita di armamenti a Israele, Amnesty chiede anche alle autorità palestinesi di “garantire che ogni tipo di accordo con Israele, principalmente attraverso il coordinamento per la sicurezza, non contribuisca a mantenere il sistema di apartheid contro i palestinesi” in Cisgiordania e a Gaza.

Amnesty afferma inoltre che Israele deve riconoscere il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi e fornire alle vittime palestinesi “risarcimenti completi”, compresa la “restituzione di tutte le proprietà acquisite su base razziale.”

Queste richieste di Amnesty, che afferma di essere la principale organizzazione mondiale per i diritti umani, vanno molto oltre quelle fatte da Human Rights Watch e da B’Tselem.

Ciò spiega in certa misura perché Israele e i suoi alleati e apologeti abbiano tentato di fare pressione su Amnesty perché ritirasse il suo rapporto prima della pubblicazione e, non essendovi riusciti, ora stanno ricorrendo alle solite accuse senza fondamento di antisemitismo.

Yair Lapid, ministro degli Esteri di Israele, ha cercato di screditare il rapporto di Amnesty affermando che esso “riecheggia la propaganda” e “le stesse menzogne condivise da organizzazioni terroristiche,” in riferimento a importanti associazioni palestinesi recentemente dichiarate illegali da Israele.

Se Israele non fosse uno Stato ebraico, nessuno ad Amnesty avrebbe osato fare simili affermazioni contro di esso,” ha aggiunto Lapid.

Nel suo rapporto Amnesty osserva che “le organizzazioni palestinesi e i difensori dei diritti umani che hanno guidato la sensibilizzazione contro l’apartheid e si sono impegnati in campagne hanno subito per anni la repressione israeliana come punizione per il loro lavoro.”

Mentre definisce “organizzazioni terroristiche” le associazioni palestinesi per i diritti umani, Israele sottopone “le organizzazioni israeliane che denunciano l’apartheid a campagne di calunnie e delegittimazione,” aggiunge Amnesty.

Israele potrebbe scoprire che tali tattiche, quando utilizzate contro la principale organizzazione mondiale per i diritti umani, potrebbero non convincere nessuno al di fuori della sua cerchia.

Il suo tentativo di “anticipare la faccenda”, che sarebbe stato guidato dal primo ministro israeliano Naftali Bennett insieme a Lapid attaccando preventivamente il rapporto di Amnesty, è solo servito a rafforzare la correlazione tra Israele e l’apartheid.

Ha anche garantito che “il rapporto avesse una pubblicità molto maggiore di quella di cui avrebbe beneficiato,” come ha osservato un editorialista di Haaretz.

Rendere noto al grande pubblico il contesto di apartheid

C’è un’altra differenza fondamentale tra il rapporto di Amnesty sull’apartheid e quelli che lo hanno preceduto.

Amnesty International è un’organizzazione che fa campagne con milioni di membri e sostenitori che, afferma l’organizzazione, “rafforzano la nostra richiesta di giustizia.”

Amnesty ha accompagnato il suo rapporto con un corso in rete di 90 minuti intitolato “Decostruire l’apartheid israeliano contro i palestinesi.”

Ha anche prodotto un documentario di 15 minuti per un vasto pubblico disponibile su YouTube che analizza la domanda se Israele pratica l’apartheid.

Finora la lista di attività di Amnesty include solo il fatto di inviare una cortese lettera a Naftali Bennett, primo ministro israeliano, contro le demolizioni di case e le espulsioni, cose per niente entusiasmanti.

Invece la sezione statunitense di Amnesty ha fatto bizzarre smentite per distinguersi dal movimento per il boicottaggio, disinvestimento e le sanzioni guidato dai palestinesi ed ha persino affermato che l’organizzazione non prende posizione sull’occupazione in sé, concentrandosi invece sugli obblighi di Israele “come potenza occupante, in base alle leggi internazionali”.

Sia Amnesty International che Human Rights Watch hanno sede in Paesi imperialisti e sono state create nel contesto della guerra fredda perché si concentrassero principalmente sulla rivendicazione dei diritti di persone nei Paesi comunisti dell’Europa orientale.

Il loro quadro ristretto e l’ideologia costitutiva le hanno portate ad opporsi alle lotte di liberazione anticolonialiste e alla violenza che esse implicavano perché, come ha detto Nelson Mandela, “è l’oppressore che definisce la natura della lotta e spesso l’oppresso è lasciato senza altri mezzi se non ricorrere a metodi che rispecchiano quelli dell’oppressore.”

Queste contraddizioni fondamentali significano che le associazioni occidentali per i diritti umani prenderanno sempre posizioni di compromesso, se non dannose, contrarie alla liberazione dei palestinesi, e Human Rights Watch recentemente ha suggerito un’equivalenza etica tra la violenza utilizzata da Israele contro i palestinesi assediati a Gaza e quella della resistenza palestinese contro di esso.

Ma i materiali didattici di Amnesty, comprendenti un lungo documento con domande e risposte, contribuiranno a preparare i militanti di base per rispondere ai sostenitori di Israele che intendano sviare le critiche alle prassi dello Stato attaccando chi le divulga.

Dopotutto, come ha detto su Twitter un acuto osservatore, questa è l’unica freccia a disposizione dell’arco di quanti sono impegnati a mantenere il governo di apartheid di Israele e la situazione di impunità.

Il rapporto di Amnesty è un potente indicatore che un’analisi al di là dell’occupazione del 1967 in Cisgiordania e a Gaza sta diventando di dominio pubblico.

Nel contempo Israele e i suoi alleati e sostenitori nel Congresso USA e nel Dipartimento di Stato hanno tirato in ballo triti argomenti, ignorando nel contempo la sostanza dei risultati di Amnesty.

(Al contrario, pochi parlamentari del partito Democratico hanno pubblicamente sostenuto le conclusioni di Amnesty, e Cory Bush [afroamericana eletta nel Missouri, ndtr.] ha chiesto di porre fine al “sostegno USA, con i soldi dei contribuenti, a questa violenza”).

Ma, come politici dell’ONU e dell’UE che blaterano noiosamente all’infinito sul loro impegno per un’inesistente processo di pace verso la soluzione a due Stati, quanti ripetono a pappagallo questi argomenti della lobby israeliana così slegati dalla realtà appaiono sempre più ridicoli.

Israele teme un rapporto ONU

Mentre respingono il termine “apartheid” e attacca Amnesty, Israele e i suoi alleati e sostenitori hanno gli occhi puntati su una minaccia ancora maggiore per l’impunità di Israele.

Secondo un dispaccio del ministero degli Esteri israeliano visionato dal periodico Axios [sito statunitense di notizie, ndtr.], Israele ha pianificato una campagna che cerca di screditare una commissione d’inchiesta permanente dell’ONU sulle violazioni dei diritti dei palestinesi da parte di Israele in tutto il territorio sotto il suo controllo.

Lo scorso maggio la Commissione ONU per i Diritti Umani ha approvato di stretta misura una risoluzione che crea questa commissione d’inchiesta in seguito all’attacco israeliano di 11 giorni contro Gaza durante il quale i palestinesi si sono ribellati in tutta la loro patria.

Associazioni palestinesi hanno a lungo chiesto agli Stati di “affrontare le cause che sono alla radice del colonialismo d’insediamento e dell’apartheid imposto sul popolo palestinese nel suo complesso,” come ha affermato Al-Haq prima del voto.

La commissione d’inchiesta condotta da tre esperti di diritti umani indipendenti scelti dalla Commissione per i Diritti Umani dovrebbe presentare i suoi risultati a giugno.

La scorsa settimana Axios ha informato che i politici israeliani sono “molto preoccupati che il rapporto della commissione faccia riferimento a Israele come uno ‘Stato di apartheid’.”

La rivista aggiunge che “l’amministrazione Biden non appoggia l’inchiesta e ha giocato un ruolo centrale nel tagliarle i fondi del 25% nei negoziati sul bilancio ONU.”

Nel contempo un gruppo bi-partisan di 42 membri del Congresso ha chiesto al Segretario di Stato USA di “guidare un tentativo di porre fine alla vergognosa e ingiusta commissione permanente d’inchiesta.”

Ma evidentemente Israele teme che questo intervento non sia sufficiente.

Questa settimana Haaretz ha informato che “importanti politici israeliani” non meglio identificati sono preoccupati che l’ONU “possa presto accettare una narrazione secondo cui Israele è uno ‘Stato di apartheid’, infliggendo un duro colpo allo status di Israele a livello internazionale.”

Il consenso dell’ONU riguardo all’apartheid israeliano “potrebbe portare all’esclusione di Israele da varie manifestazioni internazionali, comprese competizioni sportive o eventi culturali,” aggiunge la rivista.

In altre parole, i politici israeliani temono che lo Stato venga trattato come un paria a livello globale nello stesso modo in cui lo fu il Sudafrica prima del crollo dell’apartheid in quel Paese.

Il comitato direttivo del movimento guidato dai palestinesi per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni, che si ispira alla campagna di boicottaggio globale che contribuì alla fine dell’apartheid in Sudafrica, sostiene che “indagini sull’apartheid israeliano da parte dell’ONU e dei suoi membri sono passi necessari per raggiungere la libertà, la giustizia e l’uguaglianza per il popolo palestinese.”

Questo comitato esorta le Nazioni che sono state colonizzate a riprendere “il ruolo di guida che hanno assunto all’ONU per l’eliminazione dell’apartheid nell’Africa meridionale.”

Human Rights Watch ha invitato a nominare un incaricato internazionale ONU per i crimini di persecuzione e apartheid.

Amnesty afferma che l’Assemblea Generale dell’ONU “dovrebbe ripristinare la Commissione Speciale contro l’Apartheid, creata in origine nel novembre 1962 per concentrarsi su ogni situazione… in cui sia stata commessa la grave violazione dei diritti umani e crimine contro l’umanità di apartheid.”

Secondo il comitato direttivo del movimento BDS queste iniziative avrebbero conseguenze al di là della causa palestinese all’interno del sistema dell’ONU, dove “le intimidazioni e la pressione politica hanno impedito l’analisi e la discussione, per non parlare delle sanzioni, sull’apartheid israeliano.”

In definitiva, la ricerca di Amnesty non sarebbe fondamentalmente diversa da quelle che l’hanno preceduta. Ma il contesto in cui compare – mentre si consolida il consenso internazionale riguardo al riconoscimento dell’apartheid israeliano, è in corso un’indagine della Corte Penale Internazionale e con le ripercussioni del programma di spionaggio israeliano – suggerisce che potrebbe essere iniziato un nuovo capitolo nella lotta globale per la libertà dei palestinesi.

Maureen Clare Murphy è caporedattrice di The Electronic Intifada.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Nel caso della morte di un anziano palestinese l’esercito israeliano ignora la questione principale

Amos Harel

1 febbraio 2022 – Haaretz

Il battaglione Netzah Yehuda, i cui soldati hanno lasciato morire al freddo un uomo di 80 anni, ha un passato preoccupante ed un’ideologia estremista – e qualcosa in comune con l’incidente di fuoco amico che ha ucciso due ufficiali israeliani

Le decisioni prese lunedì dal capo di stato maggiore dell’IDF [Israeli Defence Force, le forze armate israeliane, ndt] Aviv Kochavi erano assolutamente necessarie. Sono arrivate in seguito alla morte, dopo essere stato arrestato dai soldati del battaglione Netzah Yehuda, di Omar Abdalmajeed As’ad, un anziano palestinese. I risultati delle successive indagini – da parte dei media e dell’esercito israeliano – su quanto accaduto tra As’ad e i membri del battaglione ultraortodosso richiedevano una risposta adeguata.

Kochavi ha descritto il comportamento dei soldati come “insensibile” e ha ordinato che i comandanti del battaglione fossero rimproverati. Ha anche rimosso dai loro incarichi altri due giovani ufficiali che si trovavano sul posto. Un’indagine parallela della polizia militare è ancora in corso.

Tuttavia, si può ritenere che, data la gravità dell’incidente, il capo di stato maggiore avrebbe potuto permettersi di fare qualche passo in più. Innanzitutto la rimozione dei comandanti del plotone e della compagnia contiene una strana clausola: saranno esclusi dai ruoli di comando per due anni. E poi? Se, nel frattempo, non saranno coinvolti nella morte di altri anziani, agli occhi dell’IDF saranno nuovamente idonei al comando?

E in secondo luogo, l’esercito si è astenuto dall’utilizzare la discussione sul caso per mettere in discussione l’esistenza stessa del battaglione Netzah Yehuda, anche se le sue prestazioni nel corso degli anni sono state mediocri e costellate di gravi violazioni dell’etica militare.

I risultati dell’indagine del Comando Centrale confermano quanto già riportato da Haaretz: una delle compagnie del battaglione ha allestito un posto di blocco a sorpresa nel cuore della notte fuori dal villaggio di Jiljilya, a nord di Ramallah, e ha fermato i conducenti palestinesi per perquisire i loro veicoli. As’ad, che era già agitato, quando è stato fermato si è messo a discutere con i soldati. I soldati poi lo hanno sopraffatto con la forza, lo hanno ammanettato e, per un po’ di tempo lo hanno trattenuto e gli hanno coperto la bocca.

È stato messo a terra, al freddo gelido, accanto ad altri fermati. Poco tempo dopo, quando gli altri conducenti palestinesi sono stati rilasciati, As’ad non ha risposto ed è rimasto prono a terra. I soldati, che in seguito hanno sostenuto di pensare che stesse dormendo, anche se hanno consentito agli altri di andarsene, lo hanno lasciato lì. Dopo la partenza dei soldati, gli abitanti del posto hanno chiamato un medico palestinese, che ha scoperto che As’ad era morto per un infarto.

Questa è un’orribile catena di eventi che dimostra, come alti ufficiali hanno dichiarato in seguito all’evento, che questi soldati non vedevano As’ad come un essere umano. Hanno ignorato il fatto che un uomo, che avrebbe potuto essere il loro nonno, non rappresentava una minaccia, lo hanno trattato con eccessiva rudezza e poi lo hanno lasciato morire, nonostante fosse evidente che c’era un problema.

Martedì mattina, il Magg. Gen. Yehuda Fuchs, a capo del comando centrale, ha descritto la condotta dei comandanti e dei soldati sulla scena come “ottusa” e ha affermato che hanno mostrato “scarsa capacità di giudizio”. È dubbio che queste affermazioni siano adeguate alla situazione.

La versione dei fatti dei soldati – di non aver picchiato As’ad e di non aver notato il deterioramento delle sue condizioni – non sembra convincente. L’ottusità non finisce a livello di compagnia o di plotone.

Noia e “burnout”

Poiché si tratta di mantenere l’occupazione, il battaglione Nahal Haredi, come si suole definire Netzah Yehuda, si trova in fondo alla piramide. Il battaglione trascorre nove o dieci mesi all’anno in Cisgiordania e riceve un addestramento minimo; altri battaglioni di fanteria trascorrono circa la metà del loro tempo in addestramento. L’esercito evita persino di spostarlo da un’area operativa della Cisgiordania all’altra. Il risultato per le truppe è la noia e il burnout che gli ufficiali cercano di mitigare con missioni di loro iniziativa. Così è nato un posto di blocco a sorpresa nel bel mezzo di un villaggio.

Un’operazione come questa può avere senso quando l’esercito è alla ricerca di una cellula terroristica dopo un attacco a fuoco. È molto meno necessario quando tutte le persone fermate in tale operazione hanno, secondo testimoni palestinesi, più di 50 anni.

Il tentativo di variare un po’ le missioni delle truppe ha creato un altro problema: ai soldati è stato detto di agire “clandestinamente”. Per farlo, hanno dovuto far tacere As’ad. Lo hanno fatto mettendogli una striscia di tessuto sulla bocca (l’IDF dice che è stata rimossa o è caduta dopo poco tempo).

Come già riportato da Haaretz, questo non è un incidente particolarmente insolito per il battaglione. Il suo mix di giovani che hanno abbandonato le istituzioni educative Haredi [degli Haredim, ebrei ultra ortodossi, ndt] e giovani coloni della cima delle colline [gruppo di coloni particolarmente violenti, ndtr.] ha creato un clima ideologico estremista tra i soldati, che né i vertici dell’esercito né gli ufficiali del battaglione hanno fatto molto per affrontare. Ciò si è trasformato in incidenti frequenti come picchiare i palestinesi, che in alcuni casi hanno portato a incriminazioni.

Il flusso costante di incidenti ha dato origine a raccomandazioni, sia all’interno che all’esterno dell’IDF, di sciogliere il battaglione o almeno spostarlo fuori dalla Cisgiordania in un’altra area operativa. Negli ultimi anni l’IDF ha sciolto o ridotto le sue unità su base etnica, come i battaglioni beduini e drusi. Ma sembra che il ministero della Difesa e il capo di stato maggiore temano entrambi che qualsiasi cambiamento riguardante Netzah Yehuda avrebbe un prezzo politico.

Lo scioglimento del battaglione, soprattutto dopo che una commissione interna dell’IDF ha scoperto che l’esercito per anni ha visto aumentare il numero di reclute ultra-ortodosse, potrebbe far notizia alla Knesset e nel governo. D’altra parte, i gruppi di destra potrebbero vederlo come una vessazione nei confronti dei soldati per motivi ideologici.

Ma c’è un’altra considerazione sullo sfondo che l’esercito è restio ad ammettere: Netzah Yehuda è una unità molto numerosa e i suoi soldati sono altamente motivati ​​a prestare servizio in Cisgiordania. La sua presenza lì libera battaglioni di qualità superiore per l’addestramento bellico. Questa è una risorsa a cui l’IDF è restio a rinunciare, nonostante tutti i segnali di pericolo.

Sulla vicenda le indagini della polizia militare non sono ancora terminate. Se il procuratore militare decidesse di processare alcune delle persone coinvolte, possiamo aspettarci che ne deriverebbe una tempesta politica. Questo è l’effetto a lungo termine del processo contro Elor Azaria [il soldato che a Hebron nel 2016 sparò in testa a un palestinese ferito a terra uccidendolo, ndt.]: ogni atto d’accusa che coinvolge la condotta dei soldati nei confronti dei palestinesi rischia di provocare uno tsunami da parte della destra indipendentemente dalla gravità delle accuse.

Ma un giorno, se Canale 12 News [televisione privata israeliana, ndt.] invitasse in studio la madre di uno dei soldati accusati per l’affare As’ad, ricordiamoci le circostanze del caso. Secondo gli stessi risultati dell’indagine dell’esercito, quei soldati hanno lasciato un uomo di 80 anni a morire al freddo con la risibile scusa che pensavano stesse dormendo.

Risposte sproporzionate

Questa non è l’unica indagine rilevante arrivata questa settimana sulla scrivania del capo di stato maggiore. Kochavi è nel mezzo di una settimana impegnativa durante la quale ha tenuto una serie di incontri sull’incidente avvenuto alla base di Nabi Musa, dove due ufficiali dell’unità Egoz sono stati uccisi accidentalmente da un collega. Un comitato di esperti guidato dal Magg. Gen. (della riserva) Noam Tibon sta indagando sull’incidente, così come la stessa Egoz, che è un reparto speciale assegnato al Comando Centrale.

Come è stato riportato dopo l’incidente, il caso di fuoco amico ha messo in luce una serie di gravi carenze. Ad esempio, l’unità ha lasciato la base senza coordinarsi e senza ricetrasmittenti. Non ha operato seguendo la procedura prescritta e l’intera esercitazione di addestramento è stata particolarmente disordinata. Si scopre inoltre, come verificato da articoli di Haaretz, che nelle settimane precedenti l’incidente c’erano stati diversi furiosi inseguimenti di persone sospettate di aver rubato attrezzature in quei campi di addestramento.

Alcuni degli informatori degli articoli non sono d’accordo sulle quali questioni siano più rilevanti: gli errori commessi all’interno dell’unità Egoz o i fallimenti più ampi riscontrati in altre unità di fanteria che indicano una cultura organizzativa problematica. C’era anche la questione di quanto i cambiamenti nei regolamenti dell’esercito su quando aprire fuoco – e la confusione riguardo alle misure da adottare – abbiano contribuito all’incidente mortale. Due maggiori – Ofek Aharon e Itamar Elharar – sono rimasti uccisi nell’incidente.

È probabile che seguiranno altre polemiche su quali modifiche dovrebbero essere apportate a livello di comando in risposta a tali eventi. Al momento sembra che il comandante di Egoz, il tenente colonnello A., rischi di essere rimosso dal suo incarico. A., che è stato descritto come un eccellente ufficiale, ha avuto una menzione per il coraggio mostrato sotto il fuoco a Gaza. La prossima estate avrebbe dovuto essere promosso colonnello e nominato comandante di un battaglione della riserva. A causa degli errori rivelati dai risultati delle indagini molto probabilmente sarà punito.

Ma, come nel caso dell’indagine su Netzah Yehuda, sembra che ci siano implicazioni più profonde nell’affare Egoz che vanno oltre l’unità stessa. Si può anche trovare un comune denominatore tra i due episodi: N., il comandante della squadra di Egoz che ha sparato i colpi, si è messo alla ricerca di ladri d’armi nel deserto della Giudea con la pallottola in canna, come se stesse preparandosi a tendere imboscate a terroristi nel Libano meridionale. I soldati di Netzah Yehuda hanno trattato l’anziano As’ad come se fosse un pericoloso terrorista. È probabile che il “segreto” che era stato loro ordinato di mantenere nell’ambito dell’operazione abbia contribuito alla sua morte.

In entrambi gli incidenti, i soldati e i loro comandanti diretti hanno agito in modo sproporzionato, adottando misure eccessive rispetto alle missioni di scarsa rilevanza loro assegnate. Ciò ha portato, direttamente o indirettamente, alla perdita assolutamente inutile di vite umane.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




“Siamo qui per mettere sotto pressione il villaggio”: le truppe israeliane ammettono la politica delle punizioni collettive

Yuval Abraham 

 24 gennaio 2022,  +972 Magazine

Da dicembre l’esercito israeliano ha imposto al villaggio di Dir Nizam una chiusura quasi totale e violente incursioni. E i soldati sono sinceri sul perché lo stanno facendo.

Per quasi due mesi i soldati israeliani hanno sottoposto i 1.000 residenti del villaggio palestinese di Dir Nizam a punizioni collettive, sostenendo che si trattava di una reazione ai bambini che lanciano pietre contro i veicoli di passaggio. Il 1° dicembre 2021 l’esercito ha chiuso tutti e tre gli ingressi al villaggio, che si trova a nord di Ramallah nella Cisgiordania occupata, e ha allestito un posto di blocco con bande chiodate all’unico ingresso lasciato aperto al traffico.

Da allora, i soldati israeliani hanno piantonato l’ingresso 24 ore su 24, controllando a lungo ogni macchina al passaggio, interrogando i passeggeri, aprendo i bagagli e fotografando le carte d’identità. A volte bloccando completamente tutti i movimenti dentro e fuori il villaggio per ore.

I soldati non si limitano a restare fuori dal villaggio; sono entrati a Dir Nizam in almeno 14 occasioni dall’inizio della chiusura per effettuare arresti, condurre indagini o compiere “azioni di deterrenza” contro gli abitanti del villaggio. In tre diverse occasioni sono persino entrati nella scuola del villaggio.

La punizione collettiva è stata imposta a Dir Nizam apparentemente per impedire ai bambini di lanciare pietre, ma gli episodi di lanci di pietre sono in realtà aumentati da quando l’esercito ha chiuso il villaggio e non sembra esserci in progetto che se ne vadano presto. Ho visitato l’area la scorsa settimana e ho chiesto ai soldati cosa stessero facendo esattamente lì:

Posso chiederti qual è lo scopo di questo posto di blocco?

“Certo. Siamo qui perché sulla statale 465, vicino al villaggio di Dir Nizam, gruppi di bambini dagli 8 ai 16 anni circa lanciano mattoni e piccoli sassi ai veicoli di passaggio… [Il posto di blocco] che abbiamo allestito qui è per fare pressione sul villaggio stesso. Stiamo facendo arrivare gli adulti in ritardo al lavoro al mattino, stiamo davvero rendendo difficile la loro vita quotidiana. Gli adulti sono consapevoli di ciò che stanno facendo i bambini e sono contrari. Non vogliono che lancino pietre”.

Quindi questa è in realtà una forma di punizione collettiva imposta al villaggio?

“Esatto. È una punizione collettiva per l’intero villaggio. La pressione sugli adulti, gli ‘anziani della tribù’, come qui vengono chiamati, farà pressione sui bambini che quindi smetteranno di lanciare pietre”.

Ok. E che senso ha questo per te? Punire mille persone, a causa di pochi bambini?

“O è così, o altre soluzioni che non sono sempre piacevoli. Per non dire altro.”

Cosa intendi per altre soluzioni?

“Oggi disponiamo di mezzi molto avanzati per identificare i bambini, i volti dei lanciatori di pietre. Se attiviamo questi mezzi, possiamo arrestarli. E questi bambini saranno messi dove devono essere messi”.

La nuova “normalità”

A duecento metri dal posto di blocco, accanto alla scuola, si sono radunati intorno a me otto bambini: il più grande è all’undicesima, il più giovane alla seconda, la maggior parte alle elementari [il sistema scolastico palestinese prevede sei anni di elementari, tre di medie e decimo e undicesimo anno di istruzione superiore ed è obbligatorio sino alla decima classe, ndtr.]. Quando ho chiesto in che modo la presenza militare li avesse colpiti, hanno iniziato a ridere. Ogni volta che uno parlava, gli altri lo interrompevano.

“Mi hanno arrestato”, ha detto un bambino di quinta elementare con uno zaino strappato. “Mi hanno picchiato”, ha gridato un altro ragazzo. «Sto lanciando sassi», urla un altro di quarta elementare, che poi corre goffamente lungo la strada.

L’atmosfera è cambiata grazie a Ahmad Nimer, un ragazzo che non rideva. Lo sguardo dei suoi occhi marroni appariva più vecchio dei suoi 13 anni e, vedendo i miei tentativi di avere una conversazione seria, ha detto: “Posso dirti io come mi colpisce l’esercito “. Tutti tacquero.

“E’ sempre mio padre che guida l’auto, mia madre siede accanto a lui e io mi siedo dietro”, dice mentre il gruppo gli si raduna intorno. “Da quando hanno allestito il posto di blocco, i soldati li fermano di continuo. Dicono ai miei genitori, in ebraico, ‘Dove state andando?’ e fotografano i loro documenti. A volte ci fanno scendere dall’auto, a volte dicono a loro o a me: ‘Perché i bambini lanciano sassi?’”

E tu cosa dici?

“Niente. Sono sul sedile posteriore e guardo mio padre”.

E cosa pensi?

“Niente. Non penso niente. Per me è normale”.

Il resto dei bambini annuisce. “È normale”, dice Tamer, un dodicenne con i capelli corti. “Il giorno in cui sono entrati nella nostra scuola sono svenuto per i gas lacrimogeni e mi sono svegliato pochi minuti dopo a casa”.

Tamer fa riferimento a quanto accaduto il 9 dicembre: secondo testimonianze e video, quel giorno i soldati israeliani sono entrati nella scuola del villaggio nelle ore pomeridiane, dopo che le lezioni erano finite, hanno interrogato gli studenti in cortile e cercato i bambini che tiravano pietre. “Hanno esaminato le aule, dicendo che stavano cercando quelli che tirano le pietre”, dice Adham, che ha 16 anni. “Hanno lanciato molti gas lacrimogeni e granate stordenti in cortile”.

Da quando sono iniziate le punizioni collettive al villaggio, i soldati sono entrati a scuola tre volte; l’incursione più recente è stata la scorsa settimana, il 18 gennaio, alle 8:45 mentre iniziavano le lezioni.

Il brutale ingresso dei soldati è stato ben documentato nei video ripresi da studenti e insegnanti che hanno assistito in prima persona alle aggressioni. In uno di essi si vedono soldati picchiare e tirare fuori dalla classe uno studente dell’undicesima classe mentre la sua insegnante cerca di proteggerlo con il suo corpo e grida: “Questa è una scuola, andate via!”

In un altro video, i soldati bendano lo stesso ragazzo vicino al cortile, mentre sullo sfondo si vedono bambini delle elementari che entrano dai cancelli e corrono verso le aule. Un altro video mostra un gruppo di soldati che attraversa il campo da basket della scuola, spintonando due membri dello staff. Due studenti sono stati arrestati: il primo, Ahmad al-Ghani, è stato rilasciato il giorno successivo; il secondo, Ramez Muhammad, è tuttora in custodia.

“Di solito prendono i bambini per qualche ora, li portano in giro in jeep, danno loro qualche schiaffo in faccia, chiedono loro perché hanno lanciato pietre e poi li riportano al villaggio”, ha detto Adham. La mattina del 5 gennaio, ad esempio, l’esercito è entrato a Dir Nizam e ha arrestato nove bambini, ma poche ore dopo li ha riportati tutti al villaggio. Non sono stati portati alla stazione di polizia per essere interrogati e non sono stati processati.

Si stanno facendo odiare ancora di più dai bambini”

Arin, una 43enne residente a Dir Nizam, ha affermato che tra tutte le conseguenze della politica delle punizioni collettive, ciò che colpisce di più i suoi figli sono le incursioni notturne dell’esercito. “I soldati vengono proprio a casa a interrogare i ragazzi e più volte hanno lanciato granate stordenti e gas lacrimogeni per le strade, per svegliare tutti”, ci ha detto.

Ad esempio, il 2 dicembre alle 22:30, una telecamera di sicurezza su una delle case del villaggio ha documentato i soldati che lanciavano nove granate stordenti sulla strada principale della zona residenziale. Dall’angolazione della telecamera è impossibile comprendere completamente il contesto, ma il linguaggio del corpo dei soldati è rilassato e non si vedono lanci di pietre prima del lancio delle granate stordenti.

Tutti a casa si sono immediatamente svegliati”, ricorda una donna anziana di nome Fatima, la cui casa si trova su quella strada. “Recentemente non ho più potuto dormire la notte, né io né i bambini”, dice un’altra donna di 30 anni, che ha chiesto di non essere nominata.

“Ogni notte, da un mese ormai, mio nipote mi chiede: ‘Nonna, hai chiuso a chiave la porta?’ Tre volte a notte lo chiede”, dice Arin. “Chi non ha mai lanciato pietre si dice: ‘Ora comincerò a tirare pietre, che importa? A prescindere dal fatto che io lanci o no pietre, tutti vengono puniti.’ Stanno facendo in modo che i bambini li odino ancora di più”.

Il nuovo posto di blocco si trova vicino al paese su una strada interna che si collega con la statale 465; vi sono stati recentemente posati anche blocchi di cemento. “L’unico giorno in cui possiamo rilassarci senza punizioni collettive è la loro vacanza, Shabbat. Il sabato non c’è posto di blocco al mattino, ma torna la sera”, ha detto Fatima.

Elham, 32enne che culla il figlio piccolo tra le braccia, mi ha raccontato una discussione avvenuta entrando in macchina nel villaggio. “Mio figlio era con me sul sedile posteriore. Il soldato gli ha detto: ‘Perché lanci sassi?’ e mio figlio ha risposto ‘Io non lancio sassi’ e il soldato: ‘Bugiardo, ti ho visto’. Mio figlio oggi era con me al lavoro, dalle sette del mattino”, ha continuato Elham. “Così ho cercato di dire al soldato che non ha lanciato pietre perché l’ho avuto sott’occhio tutto il giorno, dalla mattina. Ma il soldato mi ha semplicemente detto: ‘Parla ebraico, non capisco l’arabo.'”

“Controllate l’aria che respiriamo”

Come in moltissimi villaggi della Cisgiordania, la maggior parte delle terre di Dir Nizam si trova nell’Area C [sotto completo controllo israeliano, ndtr.] (e il 4,7% nell’Area B) [sotto parziale controllo israeliano, ndtr.], in cui Israele proibisce ai palestinesi quasi sempre di costruire anche su propria terra privata. “Vivo vicino all’insediamento di Halamish e tutto il giorno un drone aleggia sopra le nostre teste, scattando foto per assicurarsi che non abbiamo costruito nulla sulla nostra terra. Se qualcosa viene costruito, l’esercito viene a distruggerlo”, dice Fatima.

Halamish, noto anche come Neve Tzuf, è un insediamento israeliano di circa 1.500 residenti. È stato fondato nel novembre 1977 su un sito che fungeva da base militare giordana prima della guerra dei Sei Giorni e un ordine militare israeliano ha reso possibile l’espropriazione di circa 600 dunam di terra di proprietà privata dei residenti di Dir Nizam e Nabi Saleh. “Splendide viste panoramiche, a 25 minuti da Modi’in”, si legge sul sito web dell’insediamento in espansione che pubblicizza nuovi appartamenti.

I residenti palestinesi affermano che di recente i militari hanno impedito loro di coltivare la propria terra con mezzi pesanti quali i trattori nelle aree vicine all’insediamento. Jaber Musab, un contadino la cui casa si affaccia su Halamish, dice di aver lavorato tutta la vita per gli ebrei israeliani nella vicina Herzliya e anche ad Halamish. A differenza dei suoi vicini israeliani, non può lasciare la Cisgiordania senza un permesso dell’esercito. Gli ho chiesto perché i bambini del villaggio lancino pietre e lui ha risposto in ebraico: “Perché controllate l’aria che respiriamo”. Poi è rimasto in silenzio.

A dicembre Nasser Mazhar, un anziano contadino molto amico di Musab, è stato eletto capo del consiglio del villaggio di Dir Nizam, l’unica elezione che si è tenuta come previsto dopo che lo scorso maggio il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas ha annullato le elezioni presidenziali e parlamentari. Il precedente capo del consiglio, Bilal Tamimi, ha lasciato il villaggio: “Non potevo più viverci, a causa dei problemi con l’esercito”, mi ha spiegato al telefono da Ramallah. Musab ha precisato che anche suo fratello ha di recente lasciato il villaggio, una tendenza che secondo lui è aumentata a causa della punizione collettiva.

“Esci dal villaggio per un quarto d’ora e sei perquisito due volte, uscendo e rientrando”, mi ha detto Mazhar nel suo soggiorno, e il suo timido nipote di 12 anni ascoltava sul divano di fronte. “Ogni volta che passo mi dicono: ‘Dacci i nomi dei bambini che lanciano pietre’, anche se hanno comunque le macchine fotografiche. I soldati ci controllano perché siamo nelle Aree B e C. Loro sono responsabili della nostra sicurezza, non siamo noi responsabili della loro sicurezza”.

Fermati medici e infermieri

Da quando è iniziata la punizione collettiva, i soldati israeliani hanno chiuso completamente il villaggio quattro volte per periodi che vanno da una a sette ore. Tre settimane fa, durante una di queste chiusure, i soldati hanno negato l’ingresso a un gruppo di medici e infermieri di Ramallah che si stavano recando alla clinica locale per visitare i residenti.

Nel mese scorso agli insegnanti delle scuole superiori che provengono da altre città palestinesi è stato impedito per due volte di uscire o entrare nel villaggio, annullando così la giornata scolastica. “Tutti i bambini erano contenti di essere a casa”, ha riso Shadi, il nipote timido. Mi ha mostrato al cellulare un video del 7 dicembre, che mostrava la lunga fila degli insegnanti fermati al posto di blocco. «Quella è la macchina del signor Jumah, l’insegnante», dice. I soldati hanno lasciato entrare gli insegnanti dopo circa tre ore.

Shadi e il suo amico, entrambi in prima media, mi hanno portato a fare un giro nel villaggio mentre il sole cominciava a tramontare. Ho chiesto loro se passano del tempo a Ramallah. “A Tel Aviv!” disse Shadi, forse scherzando. “È vicina, guarda”, indica oltre l’orizzonte, dove si possono vedere le case della città e il mare.

Tel Aviv dista 30 chilometri in linea d’aria dal villaggio assediato. Nel cielo, grandi aerei si librano bassi. L’aeroporto Ben Gurion è a soli 20 chilometri da qui; a Shadi, come agli altri palestinesi residenti in Cisgiordania, non è permesso volare. Sono controllati da noi e lavorano per noi, ma non hanno un aeroporto.

All’uscita, vicino al posto di blocco, ho incontrato un palestinese della mia età che tornava dal lavoro a Herzliya. Ci va tutti i giorni per ristrutturare case, previo permesso di ingresso dell’esercito. “Parto alle 3 del mattino”, dice. “I soldati sono al posto di blocco anche allora.” Abbiamo parlato a lungo e mi ha chiesto di non pubblicare il suo nome, per paura che gli venisse negato il permesso di ingresso.

“Per tutto il viaggio di ritorno dal lavoro sono preoccupato di cosa accadrà al posto di blocco”, mi dice. “Proprio ora passavo con mia madre. Era andata a fare la spesa. I soldati mi hanno chiesto di scendere dall’auto e di deporre davanti a loro il contenuto delle borse. Ho detto loro che la carne si sarebbe sporcata e alla fine mi hanno permesso di sollevarla invece di metterla giù. Uno di loro mi ha chiesto: ‘Perché i ragazzi tirano pietre?’ Gli ho detto: ‘Sono bambini’. E lui ha detto: ‘Finché continueranno, continueremo a punirvi”.

Da un’analisi e da un incrocio di dati tra il gruppo Telegram di Hashomer Judea e Samaria – un’organizzazione di coloni che documenta esaurientemente i lanci di pietre palestinesi in Cisgiordania – e la pagina Facebook di Dir Nizam, che riporta le azioni dell’esercito nel villaggio, sembra che i soldati di solito impongano una chiusura totale dopo che il gruppo dei coloni riferisce di sassi lanciati sulla statale 465.

All’inizio dello scorso anno Rivka Teitel, un’israeliana di 30 anni, è stata gravemente ferita da un sasso lanciato contro la sua auto vicino a Dir Nizam, che l’ha colpita alla testa. Circa due settimane fa, anche un cittadino palestinese di Israele è stato leggermente ferito da un sasso lanciato in zona. Questi sono stati gli unici incidenti da lancio di pietre che hanno causato feriti nell’ultimo anno a Dir Nizam.

Da quando il 1° dicembre l’esercito ha imposto la chiusura, c’è stato un forte aumento nella zona degli incidenti causati da lanci di pietre. In media, sono stati documentati 10 volte più episodi di lanci di pietre rispetto al periodo precedente l’introduzione delle punizioni collettive e ci sono stati sei volte più ingressi militari nel villaggio per effettuare arresti, indagini o attività di deterrenza.

Abbiamo chiesto al portavoce dell’esercito israeliano se ai soldati fosse stato ordinato di punire i residenti del villaggio e se la punizione collettiva fosse una politica dichiarata dell’esercito nei territori occupati. La risposta affermava: “Recentemente, c’è stato un aumento significativo degli incidenti terroristici locali, inclusi il lancio di pietre e bombe molotov contro i veicoli che viaggiano sulla statale 465. Tra le azioni per affrontare questo fenomeno le forze dell’esercito israeliano stanno operando nell’area in conformità con le valutazioni operative, attraverso attività sia palesi che segrete”.

Yuval Abraham è un giornalista freelance israeliano che lavora in strutture educative bilingue israelo-palestinesi. Ha studiato l’arabo e insegna la lingua ad altre persone di lingua ebraica che credono nella lotta comune per la giustizia e in una società condivisa tra israeliani e palestinesi.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)