Le chiese di Gerusalemme accusano Israele di discriminazione e denunciano il declino dei cristiani

Mustafa Abu Sneineh

21 dicembre 2021 – Middle East Eye

Patriarchi e capi delle chiese denunciano che i cristiani palestinesi sono diventati un bersaglio di attacchi ripetuti da parte di gruppi di estrema destra israeliani.

I cristiani palestinesi hanno criticato Israele per aver ostacolato la stagione turistica natalizia e averli discriminati, affermando di ritenere la loro presenza minacciata nella Gerusalemme est e nella Cisgiordania occupate e in Israele.

I patriarchi e i capi delle chiese di Gerusalemme hanno rilasciato una dichiarazione la scorsa settimana in cui affermano che “i cristiani sono diventati il ​​bersaglio di attacchi frequenti e prolungati da parte di frange radicali”, riferendosi agli attivisti di estrema destra israeliani.

Hanno dichiarato che dal 2012 sono stati registrati “innumerevoli incidenti” con attacchi verbali e fisici contro sacerdoti e che alcune chiese sono state “vandalizzate e profanate”, aumentando così timori che i cristiani palestinesi nutrono per la loro sicurezza.

“Queste tattiche vengono utilizzate dai suddetti gruppi radicali nel tentativo sistematico di cacciare la comunità cristiana da Gerusalemme e da altre parti della Terra Santa”, afferma la dichiarazione, riferendosi alla Palestina e ad Israele.

Chiese bruciate

Dal 2015 attivisti israeliani di estrema destra hanno attaccato diverse chiese in Israele e Palestina.

Alcune figure israeliane vicine al crescente movimento politico del sionismo religioso, che ha quattro parlamentari, hanno chiaramente affermato di voler mettere al bando il Natale e hanno affermato che le chiese sono luoghi di venerazione di idoli, chiedendone la distruzione.

La Chiesa della Moltiplicazione sul Mar di Galilea ha subito un incendio doloso nel 2015 per mano di un gruppo di estrema destra israeliano.

Lo scorso dicembre un israeliano ha tentato di dare fuoco allo storico santuario del Getsemani a Gerusalemme est, nota anche come Chiesa di Tutte le Nazioni, prima di essere arrestato.

Gli attacchi incendiari sono una tattica comune usata dai coloni israeliani contro i palestinesi nella Cisgiordania occupata e a Gerusalemme est. Altri attacchi dei coloni includono graffiti razzisti con le bombolette di vernice, la rottura di finestre e il taglio di pneumatici.

I patriarchi e i capi delle chiese hanno affermato che “i gruppi radicali israeliani continuano ad acquisire proprietà strategiche nel quartiere cristiano [nella Città Vecchia di Gerusalemme] allo scopo di diminuire la presenza cristiana”.

Il loro non è il primo allarme del genere negli ultimi giorni.

In un editoriale congiunto sul quotidiano britannico Sunday Times, Justin Welby, arcivescovo di Canterbury, e Hosam Naoum, arcivescovo anglicano di Gerusalemme, hanno denunciato il declino della presenza cristiana in Palestina causato dai tentativi di gruppi israeliani di estrema destra di espellerli.

Hanno rilevato come un secolo fa in quella che allora era la Palestina del Mandato britannico ci fossero circa 73.000 cristiani palestinesi, che rappresentavano il 10% della popolazione. Hanno fatto notare che invece nel 2019 solo il 2% della popolazione israeliana e palestinese è cristiana e solo 2.000 cristiani palestinesi vivono nella Città Vecchia di Gerusalemme.

“È per questo motivo che quando parli con i cristiani palestinesi a Gerusalemme oggi senti spesso questo grido: ‘Tra 15 anni non resterà nessuno di noi!'”, hanno scritto.

I gruppi di coloni israeliani, spesso incoraggiati dalle autorità, continuano a cacciare i palestinesi – musulmani o cristiani – dalle loro case nei quartieri di Gerusalemme come Sheikh Jarrah, Silwan, Batn al-Hawa e Wadi Hilweh, così come nella Città Vecchia.

Il quinto lokdown

La scorsa settimana Israele ha vietato agli stranieri di entrare nel Paese fino al 29 dicembre a seguito della diffusione della nuova variante del Covid-19, Omicron.

Il divieto include anche i pellegrini cristiani che avrebbero visitato i luoghi santi di Gerusalemme est, Betlemme e Nazareth.

Tuttavia, la decisione è stata criticata da personalità cristiane palestinesi, che hanno affermato che il governo israeliano li ha discriminati consentendo ai giovani ebrei di visitare Israele come parte del progetto “Birthright” [diritto di nascita], che offre tour gratuiti ai giovani ebrei della diaspora.

Wadie Abunassar, portavoce e consigliere delle chiese in Terra Santa, ha scritto su Facebook che la decisione di Israele di vietare l’ingresso a migliaia di pellegrini cristiani vaccinati con la terza dose durante il Natale, consentendo invece a gruppi ebraici di visitare il Paese durante il quinto lockdown, è stata accolta con “disappunto”.

“Ho chiesto a consulenti legali e mi hanno detto che si tratta di una discriminazione morale illegale. Non possiamo assolutamente accettare questa discriminazione razzista. Esorto le autorità israeliane a trattare allo stesso modo tutti coloro che vogliono visitare il Paese senza alcuna discriminazione su base religiosa”, ha scritto Abunassar.

Si stima che circa 10.000 pellegrini cristiani avrebbero visitato la Palestina e Israele durante il periodo natalizio. Ma i viaggi sono stati annullati

La città di Betlemme, in Cisgiordania, dove si crede sia nato Gesù, è stata duramente colpita dalla pandemia e il suo settore alberghiero sta vivendo un secondo Natale senza turisti.

Betlemme è stata la prima città palestinese a imporre il blocco nel marzo 2020 quando sono stati rilevati casi di Covid-19 tra i turisti. È circondato dal muro di separazione di Israele e da posti di blocco militari, che la isolano dalle città di Gerusalemme ed Hebron.

Nel tentativo di mitigare il crollo del settore turistico a Betlemme, l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) ha offerto ai lavoratori alberghieri in città un sussidio una tantum di 700 shekel (196 €).

Gli hotel di Betlemme sono vuoti di turisti e pellegrini stranieri a causa delle restrizioni alle frontiere israeliane per contrastare la diffusione del Covid-19.

Welby e Naoum hanno scritto che i cristiani palestinesi stanno vivendo “una tragedia storica che si svolge in tempo reale”.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




‘Siamo una famiglia’: gli israeliani che condividono la vita e la speranza con i palestinesi

Bethan McKernan e Quique Kierszenbaum nelle colline a sud di Hebron

Domenica 19 dicembre 2021 – The Guardian

I partecipanti a un progetto linguistico immersivo in Cisgiordania parlano dei forti legami che vengono forgiati per contrastare l’aumento della violenza dei coloni

Nella capanna di compensato in cui la palestinese Iman al-Hathalin e la sua famiglia vivono dal 2014, da quando la loro casa è stata demolita dalle autorità israeliane, il calore di un traballante samovar è gradito. Fuori dall’unica finestra il cielo invernale è di un bianco accecante: inonda la stanza di una luce gelida e crea una danza di ombre sulle sottili pareti.

Sembra che ultimamente siano stati tutti malati, compresa la figlia di due anni di Hathalin, che dorme a intermittenza sulle sue ginocchia, e Maya Mark, la sua ospite israeliana di lingua araba. “Non è esagerato dire che Maya è per me come una sorella”, ha detto la 28enne. Ero così preoccupata quando era malata. Siamo una famiglia.”

Le amiche si ritrovano insieme in un villaggio nel profondo delle colline a sud di Hebron, uno dei posti più difficili da raggiungere all’interno dei confini della Cisgiordania.

Questo luogo roccioso e arduo è uno dei fronti più feroci dell’occupazione: case palestinesi, strade asfaltate e cisterne d’acqua vengono ripetutamente demolite grazie a un divieto quasi totale di costruzione, mentre prosperano le colonie illegali israeliane.

Anziché crollare sotto queste pressioni, tuttavia, la comunità locale è diventata una profonda sorgente di attivismo palestinese nonviolento, che ha spesso lavorato a stretto contatto con il movimento israeliano contro l’occupazione. In assenza di un significativo processo di pace dall’alto verso il basso, Hathalin e Mark fanno parte di una nuova generazione di attivisti che stanno compiendo silenziosamente un nuovo, straordinario passo.

Insieme a Nnur Zahor, un’altra israeliana che parla arabo, Mark ha creato un corso immersivo di apprendimento linguistico per giovani attivisti israeliani che la pensano allo stesso modo, tenuto da otto donne palestinesi del luogo, tra cui Hathalin. Nel corso di diversi mesi, il progetto ha contribuito a creare in diversi villaggi relazioni profonde tra gli studenti e le persone del luogo, e la presenza di israeliani sta contrastando la crescente ondata di violenza da parte dei coloni.

Il progetto che non ha una denominazione ufficiale – è possibile grazie a decenni di lavoro di attivisti più anziani che hanno costruito la fiducia tra le comunità: è improbabile che possa espandersi o essere replicato altrove. Ma niente di simile a questa idea nata dal basso e a lungo termine è mai successo prima e tutti i soggetti coinvolti concordano sul fatto che sia un’impresa ricca di soddisfazioni.

La gente qui non ha affatto bisogno di noi, afferma Mark, di 26 anni. Essere qui mi ha insegnato a essere più modesta riguardo all’attivismo e al mio ruolo. Arrivare a comprendere la profondità della resistenza in questo luogo è un’esperienza stimolante e inestimabile”.

Secondo il gruppo israeliano per i diritti umani B’Tselem, nelle colline di Hebron esiste almeno dal 1830 una civiltà peculiare di abitazioni rupestri, rifugi naturali utilizzati come abitazioni e per la custodia di pecore e capre. Nei decenni trascorsi dalla creazione di Israele anche le famiglie beduine espulse dal deserto del Negev si sono inoltrate verso queste aride colline pedemontane, a nord delle loro terre ancestrali.

Il territorio è stato invaso da Israele nel corso della guerra del 1967 e ora fa parte dell’Area C, il 60% della Cisgiordania sotto il pieno controllo israeliano.

Ma i pastori e gli agricoltori palestinesi non sono più le uniche persone che vivono qui. Dagli anni ’80 sono state create decine di colonie israeliane, molte delle quali illegali non solo ai sensi del diritto internazionale ma anche del diritto israeliano.

Incoraggiati dal forte sostegno di Donald Trump alla destra di Israele, negli ultimi anni i coloni sono diventati più audaci, impadronendosi di sempre più terre che Israele classifica come “terreni dello Stato” o “poligoni di tiro”, e le loro tattiche sono diventate sempre più violente.

Le Nazioni Unite hanno registrato nel corso dei primi 10 mesi del 2021 410 aggressioni da parte di coloni contro civili e proprietà palestinesi in Cisgiordania, compresi quattro uccisioni, rispetto alle 358 nel 2020 e alle 335 nel 2019. Invece di intervenire, affermano le Nazioni Unite e le organizzazioni per i diritti civili, il più delle volte le forze di sicurezza israeliane stanno a guardare o addirittura partecipano.

Capita che anche i palestinesi ricorrano alla violenza. All’inizio di questa settimana uomini armati hanno teso un’imboscata a un’auto con targa israeliana mentre lasciava Homesh, nel nord della Cisgiordania, uccidendo un venticinquenne e ferendo altre due persone.

Sono comuni lanci di pietre, spari con proiettili veri, abbattimenti o incendi dolosi di raccolti e ulivi, uccisioni di pecore e atti vandalici su proprietà. A settembre, in uno degli episodi recenti più gravi, decine di uomini armati provenienti da due avamposti coloniali vicini hanno fatto irruzione nel villaggio di Mufakara, sulle colline di Hebron, rompendo finestre e pannelli solari, squarciando pneumatici, ribaltando un’auto e ferendo sei persone.

Prima della pandemia gli abitanti di Hebron erano spesso supportati da volontari internazionali che aiutavano a scortare i bambini a scuola su strade pericolose tra gli avamposti coloniali e fronteggiavano i coloni che violavano terre private palestinesi.Ma quando i confini internazionali si sono chiusi rendendo impossibile viaggiare, gli attivisti locali hanno deciso di rivolgersi agli amici israeliani.

Alcuni di noi hanno preso l’iniziativa di chiedere il loro intervento. Non tutti in zona sono d’accordo, non capiscono cosa vorremmo cercare di ottenere. Ma prima di dover segnalare degli incidenti da parte dei coloni, ora i nostri alleati israeliani possono avere un’esperienza immediata e documentare tutto”, afferma Nasser Nawaja, un noto attivista locale. Gli israeliani stanno imparando cosa significa vivere qui. E i nostri figli stanno imparando che gli ebrei non sono solo coloni o soldati”.

Dalla primavera piccoli gruppi di israeliani si recano a turno in un territorio costituito da una manciata di villaggi sulle colline di Hebron, anche se per motivi di sicurezza i volontari hanno chiesto di tenere nascosta la loro posizione esatta. In apparenza i circa 10 volontari sembrano avere poco in comune: provengono da varie parti di Israele, da diversi contesti familiari, e per quanto tutti si descriverebbero come politicamente di sinistra, ne mettono in discussione il significato.

Gli studenti prendono lezioni di arabo due mattine a settimana, con un programma che Mark e Zahor hanno realizzato appositamente per madrelingua ebraici. Prendono parte alla vita di tutti i giorni e non c’è nessun divieto di discutere di argomenti politici, a differenza di quanto previsto in Israele nella maggior parte dei programmi di arabo.

“Quando sono arrivata, ricordo di aver pensato: ‘Cosa farò qui? Come interagirò, come sosterrò questa comunità?’ In estate non capivo nulla di quanto si diceva, ma ora comprendo circa il 50% della conversazione. È molto eccitante”, ha affermato giovedì scorso Maya Eshel, 26 anni, nel corso di un incontro di gruppo con l’Observer in un centro comunitario durante una giornata fredda e cupa.

Il gruppo passa il resto del tempo a prestare aiuto in ciò che serve. Sono molto utili come sorveglianti: se qualcuno chiama per dire che i coloni si stanno avvicinando a un villaggio, o che impediscono ai pastori di raggiungere la loro terra, i volontari entrano in azione afferrando binocoli e macchine fotografiche dotate di teleobiettivi donati da B’Tselem e affrettandosi verso le loro auto.

A volte può bastare la loro presenza, o un dialogo in ebraico, per allentare la tensione. Male che vada possono riprendere ciò che accade e fornire testimonianze alla polizia, anche se finora su decine di segnalazioni è stato sottoposto ad indagine solo un caso.

Durante la nostra visita il clima rilassato del fine settimana in un villaggio è cambiato drasticamente dopo che una bambina è corsa verso le case prefabbricate gridando di aver visto due coloni della grande colonia dall’altra parte della valle avvicinarsi ad un uliveto palestinese. Gli adulti e gli attivisti israeliani si sono precipitati verso il punto di osservazione più vicino; i cani del villaggio abbaiavano. Attraverso il binocolo, hanno notato che le due figure avevano le apparenze di ragazzini. Sembrava che uno di loro avesse con sé una sega. Notando gli adulti sul crinale i ragazzini si sono fermati, tornando quindi indietro verso linsediamento.

“A volte mi trovo a vagare colla jeep, magari è notte fonda, in un luogo in cui non sono mai stato, e mi fermo e penso tra me e me: ‘Che cazzo ci faccio qui?'”, dice Matan Brenner-Kadish , di 25 anni. Questo progetto non è proprio adatto a tutti e, nel lungo periodo, stiamo solo tappando i buchi in una barca. Se la motivazione fosse rabbia e vergogna, allora questo impegno sarebbe estenuante. Ma se si parte dall’idea di accettare che ciò porta dei benefici sia a noi che a loro, la prospettiva cambia”.

Il progetto non è esente da rischi. All’inizio di questo mese, tre componenti del gruppo sono stati detenuti in una stazione di polizia durante la notte con l’accusa di non essere intervenuti per aiutare un colono che era stato spinto a terra dagli abitanti quando ha cercato di entrare in un villaggio palestinese. Sono stati sequestrati fotocamere, computer portatili, telefoni e un’auto, il tutto senza un mandato. I tre membri detenuti potrebbero tecnicamente subire condanne a tre anni di carcere.

“Uno degli argomenti usati dai coloni è che la nostra presenza porti ad una maggiore violenza: uno di loro ci ha esplicitamente incolpato dicendo che loro [i palestinesi, ndtr.] stanno conducendo delle aggressioni a causa nostra”, riferisce Itai Feitelson, 26 anni.

Che ci fossimo o meno, loro [i coloni, ndtr.] sarebbero comunque violenti. Ciò dimostra che quello che stiamo facendo sta funzionando”, afferma Brenner-Kadish. “E, in fin dei conti, se i palestinesi lo possono fare per tutta la vita, possiamo farlo anche noi”.

Questo articolo è stato modificato il 22 dicembre 2021 per quanto riguarda i dati sulle vittime civili palestinesi; le Nazioni Unite hanno registrato quattro uccisioni, non “omicidi” come affermava una versione precedente.

(traduzione dallinglese di Aldo Lotta)




I coloni hanno un nuovo obiettivo da attaccare: le scuole palestinesi

Gideon Levy, Alex Levac

 16 dicembre 2021 Haaretz

I soldati israeliani impediscono con la forza ai bambini palestinesi di raggiungere la scuola e sparano lacrimogeni nelle aule. I coloni li maledicono, li picchiano e umiliano i loro insegnanti. Immaginate che specie di sentimenti vi ribollano.

Nessuno riceve lezioni migliori sulle teorie dell’occupazione e dell’apartheid dei bambini di Lubban al-Sharqiyah, un villaggio di 4.000 persone situato a 15 chilometri a sud di Nablus. Non è difficile indovinare che tipo di sentimenti vi si stiano sviluppando e quali generazioni usciranno in futuro dalle due scuole elementari, una maschile e una femminile, di Lubban e di altri due villaggi. Gli edifici si trovano entrambi vicino all’autostrada 60, la strada più trafficata della Cisgiordania, utilizzata sia dai coloni che dai palestinesi, dove si sono verificati molti incidenti con lancio di pietre da parte di bambini palestinesi.

I bambini di questo villaggio hanno visto di tutto. Hanno visto soldati israeliani impedirgli con la forza di raggiungere la scuola e coloni che li maledicevano e li picchiavano. Hanno patito il soffocamento a causa dei gas lacrimogeni e sono stati colpiti da proiettili di metallo ricoperti di gomma sulla strada per la scuola e ritorno. Hanno visto i loro insegnanti umiliati – secondo le testimonianze, i soldati hanno costretto più volte di fronte ai loro alunni gli insegnanti a inginocchiarsi– e hanno visto soldati lanciare lacrimogeni nelle aule e nei cortili delle scuole.

A Lubban al-Sharqiyah, i genitori mandano a scuola i figli la mattina senza sapere in quale stato torneranno. In verità il capo del Consiglio locale, Yakub Iwassi, racconta che arriva all’ingresso del villaggio ogni mattina alle 6:30 per accompagnare i bambini a scuola e garantire loro sicurezza. Sebbene si siano verificati incidenti con lancio di pietre sull’autostrada, secondo il capo del Consiglio, sono un ricordo del passato. Non ci sono stati incidenti da più di due settimane, aggiunge Iwassi, e lui e il suo staff stanno facendo tutto il possibile per prevenirli. Recentemente gruppi di genitori si sono offerti volontari per filmare e documentare ciò che accade vicino alle scuole.

L’insegnante di religione della scuola femminile, Iman Daragme, è madre di Ziyad, 14 anni, che frequenta la scuola maschile. L’alunno frequenta la terza media ed è stato ferito ad un occhio durante l’ultimo giorno di disordini vicino alla scuola, il 17 novembre. Quella mattina, racconta Ziyad, è uscito come al solito ma quando è arrivato all’incrocio appena fuori dal villaggio, ha visto dozzine di coloni lungo la strada che porta alle scuole – pensa che fossero in 200 – e soldati dell’Esercito Israeliano in piedi accanto a loro. I coloni stavano protestando contro il lancio di pietre sull’autostrada e i soldati hanno impedito ai bambini di avanzare. Ma Ziyad dice che quel giorno non c’era stato alcun lancio di pietre.

Sua madre si occupa molto di lui. Al momento ha un braccio fasciato, ma non a causa degli eventi di quel giorno: domenica se l’è rotto cadendo dalla bicicletta.

Erano le 7:30 di quel mercoledì mattina, qualche settimana fa. La situazione iniziava a surriscaldarsi. I bambini si sono affrettati verso la scuola, i coloni hanno continuato la loro manifestazione e i soldati hanno iniziato a sparare lacrimogeni e proiettili ricoperti di gomma per disperdere i bambini e costringerli a tornare al villaggio. Per quanto lo riguarda Ziyad è sicuro che i coloni stiano rendendo impossibile la vita agli scolari come parte di un piano: “I coloni vogliono chiudere la scuola in modo da impadronirsene”, ci dice. “Hanno già occupato il vecchio mercato vicino al villaggio”.

Gli scontri sono continuati sulla strada per la scuola sino al tardo pomeriggio. La maggior parte degli abitanti del villaggio è arrivata all’incrocio, il posto sembrava un campo di battaglia. Secondo un membro del Consiglio del villaggio, Falastin Noubani, quel giorno 60 bambini hanno patito in qualche modo il gas lacrimogeno e non sono mai arrivati a scuola; 40 sono stati feriti da proiettili ricoperti di gomma, quasi tutti in modo non grave. Ma un ragazzo, Ziyad Salame, 11 anni, è stato colpito alla testa da un proiettile di metallo rivestito di gomma. Inizialmente si è temuto per la sua vita, a causa di un ematoma cerebrale. Alla fine l’emorragia si è fermata e il pericolo è passato. E Ziyad Daragme, il figlio dell’insegnante, è stato colpito all’occhio da una scheggia o da qualcos’altro. È stato portato a Salfit all’ospedale governativo Yasser Arafat Martire, e da lì è stato inviato all’ospedale oftalmico Hugo Chavez a Turnus Aya, vicino a Ramallah, dove è stato curato.

L’Unità Portavoce dell’Esercito Israeliano in settimana ha emanato questa vaga risposta sulla situazione di Lubban al-Sharqiya: “Alla luce dei recenti eventi di scontri e disordini nelle vicinanze del villaggio, che ricade sotto la giurisdizione della Brigata territoriale Binyamin, alcune misure sono state prese dall’Esercito Israeliano in coordinamento con i rappresentanti del villaggio per arginare il problema. A seguito di queste misure, gli scontri nell’area sono notevolmente diminuiti”.

Le due scuole di Lubban sono vicine l’una all’altra ed entrambe si trovano proprio a ridosso della Strada Statale 60, a circa due chilometri dal centro del paese. Nel 2014 l’Amministrazione Civile, un ramo del governo militare in Cisgiordania, ha costruito una barriera lungo l’autostrada per proteggere gli scolari dalle auto in corsa, e per loro ha costruito anche un marciapiede. Ai palestinesi è proibito costruire qualsiasi cosa in quest’area: l’autostrada è nell’Area C, amministrata da Israele. Prima di queste migliorie, nel corso degli anni circa 20 bambini erano stati uccisi in incidenti stradali sulla strada per la scuola e ritorno.

Gli alunni iscritti alle due scuole sono 661: 421 nella scuola maschile e 240 nella femminile. La scuola maschile è stata costruita nel 1944, quella femminile nel 1971, molto prima di tutti gli insediamenti che stanno ora soffocando il paese da ogni lato; alcuni sono stati costruiti su terreni di proprietà del villaggio.

In una conversazione nel suo ufficio, Iwassi, capo del Consiglio, un uomo d’affari di 58 anni tornato nella sua casa in Cisgiordania dopo aver trascorso 15 anni a Tampa in Florida, ci racconta che negli ultimi mesi è stato minacciato dai soldati dell’Esercito Israeliano che brandivano fucili mentre accompagnava i bambini a scuola. Dice che è stato colpito due volte con proiettili rivestiti di gomma e aggiunge che due settimane fa i soldati hanno afferrato un ragazzo che stava andando a scuola e lo hanno arrestato. Quando Iwassi ha protestato, i soldati gli hanno detto che il ragazzo, Muayid Hussam, 11 anni, aveva lanciato pietre sull’autostrada tre giorni prima mentre andava a scuola. Hussam è stato preso in custodia e rilasciato quattro ore dopo. Iwassi ha indagato sulla vicenda e ha scoperto che il giovane sospettato quel giorno non era nemmeno andato a scuola.

Il capo del Consiglio ci dice che per salvaguardare i bambini ha messo un insegnante ogni 100 metri lungo il percorso che porta alle scuole. In alcuni casi, dice, i coloni si piazzano sul ciglio della strada e minacciano i ragazzi. Gli hanno riferito, per esempio, che un colono aveva gridato che le loro scuole sarebbero passate ai coloni, e addirittura diceva ai bambini che erano stati scelti nuovi nomi: “Brooklyn” per la scuola femminile, “Bnei Yisrael” per quella maschile.

Issawi conserva nel suo cellulare le informazioni che ha raccolto nell’ultimo anno. L’esercito ha fatto irruzione nelle scuole otto volte mentre si teneva lezione; le truppe hanno impedito agli alunni di raggiungere le scuole 76 volte. I droni sono stati avvistati nell’area cinque volte: non è chiaro se li abbiano lanciati l’esercito o i coloni, ma hanno disturbato e spaventato i bambini. Sono stati lanciati gas lacrimogeni nelle aule sette volte e ogni volta gli edifici hanno dovuto essere evacuati. Gli alunni sono stati picchiati 13 volte, ma non hanno riportato ferite. Tredici alunni sono stati fermati per qualche ora o per alcuni giorni. L’Esercito Israeliano ha chiuso i cancelli delle scuole 15 volte. I coloni hanno attaccato violentemente gli alunni sette volte. E ci sono stati circa 100 incidenti, dice Issawi, in cui soldati o coloni stavano minacciosamente vicino agli ingressi delle scuole.

“Con quale diritto i coloni armati vengono al cancello di una scuola?” chiede il capo del Consiglio. “Sai, se mi capitasse di camminare per strada armato, verrei arrestato immediatamente. In tutto il mondo i civili non possono andare in giro armati, solo la polizia e le forze di sicurezza. Allora perché i coloni possono farlo? A volte i coloni urinano davanti alle ragazze. Ho parlato con i soldati, ma non hanno fatto nulla. I coloni gridano ai bambini: ‘Questa è la nostra terra. Qui vivranno solo ebrei. Siete degli animali. Siete cani. Questa terra appartiene solo a noi. Morte agli arabi!’ “

“Questa non è vita”, continua. “I nostri figli non pensano ad imparare, ma solo a tornare a casa sani e salvi. Gli insegnanti hanno paura per gli alunni. Questa non è vita”. Noubani, membro del Consiglio, aggiunge: “I nostri figli hanno il diritto di camminare lungo il ciglio della strada per andare a scuola. Nessuno ci può dettare dove debbano camminare i nostri figli”.

Verso la scuola, da un’altra direzione, c’è anche un sentiero sterrato ma non raggiunge tutti gli abitanti del villaggio.

Iwassi: “Dobbiamo salvaguardare questo percorso, perché ci sono bambini che vengono dall’altra parte della strada. L’esercito può dirmi quali bambini stanno creando problemi e io mi occuperò di loro. Tutto ciò che vogliamo è che i nostri figli possano studiare in pace”.

Noubani racconta che negli ultimi anni gli attacchi da parte dei coloni sono stati continui, ma non erano mai arrivati alle scuole: “Che i coloni vadano lì è una novità. Vengono da tutta la zona, non solo dalle colonie vicine. Eravamo abituati al fatto che abbattessero i nostri alberi, ma gli attacchi ai nostri figli sono una novità”.

Iwassi è d’accordo, e osserva che anche se ci sono sempre stati attacchi da parte di soldati e coloni, non sono mai stati tanti quanti nell’anno passato. Perché pensa che la situazione sia peggiorata, gli chiediamo. “Perché questo governo è un governo di coloni. Questo è il problema. Quando il primo ministro è amico dei coloni, questo è il risultato. Questa è la direttiva. Il governo precedente era meno un governo dei coloni di questo”.

Nel corso degli anni, sono stati sottratti a Lubban circa 5.000 dunam (1.250 acri) di terra con la costruzione delle vicine colonie di Ma’aleh Levona, Eli, Shiloh e Givat Harel.

“Tagliano i nostri alberi e bruciano i campi”, dice Iwassi. “Ti alzi la mattina e tutti i tuoi ulivi sono stati abbattuti. Vogliono una scuola vuota e un villaggio vuoto e un paese senza palestinesi”.

L’ultimo giorno del Ramadan di quest’anno Ahmed Daragme, 34 anni, residente nel villaggio, è stato ucciso a colpi di arma da fuoco dai soldati all’incrocio di Tapuah mentre tornava a casa dopo aver acquistato dei dolci per la festa. I soldati pensavano che avesse in mano una pistola, ma non ce n’era traccia. Il suo amico Mohammed Noubani, 28 anni, che era con lui in macchina, è stato ferito gravemente e da allora è su una sedia a rotelle.

Abbiamo chiesto a Iman, insegnante di religione, qual è la cosa peggiore degli incidenti nelle scuole: “Le maledizioni che i nostri alunni si sentono lanciare dai coloni. E anche quando i soldati a volte stanno vicino alle finestre delle aule. Questo spaventa i bambini”.

Sul muro della scuola femminile c’è il disegno di un’insegnante con degli alunni. “Insegnaci l’aritmetica e non le botte”, dicono gli alunni all’insegnante con un gioco di parole in arabo.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




I giovani palestinesi alle prese con le conseguenze della fama sui social media

Mary Steffenhagen

14 dicembre 2021 – Teenvogue

Alcuni lamentano di essere stati etichettati come “vittime” o “attivisti.”

Sotto molti aspetti Adnan Barq è un tipico zoomer [i nati dal 1995 e il 2010, ndtr.]. È sempre su Instagram dove condivide pensieri e immagini di vita quotidiana: foto artistoidi della città, selfie buffi con la famiglia e gli amici, opinioni su film e show televisivi. (Se proprio volete saperlo il cast dei suoi sogni per ‘Cime tempestose’ vede Mena Massoud nei panni di Heathcliff e Lily Collins in quelli di Cathy.)

Ma condivide anche immagini di muri di cemento, recinzioni di filo spinato e dispositivi di sorveglianza. Ha filmato i soldati mentre fanno arresti violenti in strada, aprendosi un varco tra la folla cittadina carichi di armi pesanti. Quasi sempre aggiunge la sua didascalia sardonica o un hashtag nel tentativo di scaricare con l’umorismo parte della sua frustrazione.

Barq vive nella Città Vecchia di Gerusalemme, poco lontano da Sheikh Jarrah, il quartiere dove la Corte Suprema israeliana avrebbe dovuto pronunciarsi sulla rimozione di alcune famiglie palestinesi. Quindi persino prima del maggio 2021, quando è cominciato il trend online #SaveSheikhJarrah, era inevitabile che Barq postasse immagini del conflitto. Anche queste fanno parte della vita quotidiana.

I suoi post di solito ricevevano qualche migliaio di like. Ma a maggio la polizia israeliana ha compiuto un raid nella moschea di Al Aqsa a Gerusalemme inducendo Hamas a rispondere con lancio di razzi. Quando Israele ha sua volta lanciato attacchi aerei contro Gaza, Barq ha postato una storia su Instagram chiedendo ai suoi follower a Gaza di raccontargli i loro sentimenti. Ha ricevuto frasi come “Non dormiamo da due giorni…”

Abbiamo paura di andare a letto e non svegliarci mai più.”

L’inferno è a Gaza.” 

In pochi giorni aveva migliaia di follower sui social media da tutto il mondo. Il post ha ricevuto circa 60.000 like, a oggi il più popolare che abbia mai postato.

Mi hanno scritto le loro ultime parole e sono sicuro che adesso molti di loro sono morti,” dice Barq. Nel corso di undici giorni gli attacchi aerei israeliani hanno ucciso almeno 243 palestinesi. Durante il conflitto hanno perso la vita anche undici israeliani.

Molti giovani palestinesi si sono trovati al centro di un’attenzione internazionale nuova per i loro video girati nei quartieri durante gli attacchi delle Forze di Difesa Israeliane (IDF) [l’esercito israeliano, ndtr.] e dei coloni, e il loro sdegno è diventato virale sui social. Questa viralità ha dato vita a una campagna online unificata che ha avuto un impatto senza precedenti sull’atteggiamento internazionale verso la Palestina. Ma mesi dopo alcuni giovani palestinesi percepiscono la tensione fra l’accettare questo nuovo seguito e l’essere visti dal loro pubblico come simboli unidimensionali. Persino mentre usano queste nuove piattaforme per combattere per la causa palestinese per far riconoscere la propria dignità umana si trovano a disagio perché etichettati con identità che li appiattiscono: militanti, vittime o attivisti.

Agli inizi di maggio 2021 la Corte Suprema Israeliana doveva decidere se confermare l’espulsione di sei famiglie palestinesi da Sheikh Jarrah in seguito a un ordine di espulsione emesso da un tribunale di grado inferiore, una decisione a favore dei coloni israeliani. I palestinesi si sono mobilitati per protestare e prevenire le espulsioni che secondo le Nazioni Unite potrebbero essere considerate un crimine di guerra. Hanno condiviso sui social media video di soldati israeliani che maltrattavano i loro vicini o che sparavano pallottole di gomma e granate stordenti dentro la moschea di Al-Aqsa durante il Ramadan. Forse il video più memorabile è quello di una ragazza, Muna El-Kurd, che affronta un colono che secondo lei si trovava all’interno della proprietà della sua famiglia.

Stai rubando la mia casa!” urla El-Kurd.

Ma se non la rubo io, lo farà qualcun altro,” risponde lui.

Muna e suo fratello Mohammed, entrambi ventitreenni, sono ora diventati due dei palestinesi più visti sui media internazionali. Recentemente TIME Magazine li ha inseriti nella lista delle 100 persone più influenti del 2021. A maggio, dopo la sua apparizione sulla CNN, Mohammed ha raggiungo circa un milione di follower tra Twitter e Instagram. La sua intervista è diventata virale. Ha contestato l’uso fatto dalla presentatrice del termine “sfratto” per descrivere quello che sta succedendo alla sua famiglia, definendolo invece un trasferimento illegale. Quando lei gli ha chiesto se sosteneva le “violente proteste” a favore della sua famiglia, lui ha ribaltato la domanda: “Lei sostiene il violento esproprio mio e della mia famiglia?”

“Mi sono detto: ‘aspetta un momento, qui io sto perdendo la mia casa. E lei mi fa delle domande sulle, cito testualmente, ‘proteste’ violente’? No, io penso che in queste situazioni sia importante ricordare la propria posizione politica,” racconta a Teen Vogue.

El-Kurd crede che i media perpetuino da tempo l’archetipo dei palestinesi come bambini indifesi, donne in lacrime o uomini violenti, ma crede che sia una rappresentazione che lui e altri sono riusciti a ribaltare. El-Kurd dice che quest’estate lui, sua sorella e altri si sono rifiutati di impersonare questo stereotipo, non solo esprimendo una gamma di emozioni, ma usando termini come decolonizzazione, apartheid e occupazione che, secondo lui, i media tradizionali tendono a evitare o a mettere in dubbio.

Si sono impossessati del nostro linguaggio, della nostra realtà in quanto popolo palestinese ed è questo che quest’estate siamo riusciti a ribaltare,” dice.”

Ma persino a maggio quando #SaveSheikhJarrah e #FreePalestine erano un trend sulle piattaforme online, molti hanno detto che cominciavano a notare che il loro contenuto filopalestinese era in qualche modo censurato. 7amleh, un’organizzazione la cui missione dichiarata è l’avanzamento dei diritti digitali dei palestinesi, ha pubblicato un rapporto che elenca le proteste per account chiusi, certi hashtag oscurati e contenuti cancellati.

Secondo BuzzFeed News, (sito statunitense di notizie), Instagram ha etichettato i post che si riferivano alla moschea di Al-Aqsa (luogo delle proteste e sacro all’Islam), come associati a “violenze o a un’organizzazione terrorista.” Facebook, proprietaria di Instagram, ha detto di aver erroneamente associato l’hashtag #AlAqsa a “varie organizzazioni censurate,” come i gruppi designati dal Dipartimento di Stato (americano) quali organizzazioni terroriste straniere che usano “Al-Aqsa” nei loro nomi. I post che usano l’hashtag #AlAqsa sarebbero stati rimossi o bloccati. (Secondo BuzzFeed un dipendente di Facebook ha scritto in un gruppo interno: “Se ci fosse un movimento chiamato ‘I sobillatori di Washington’ e se i post che menzionano solo la parola Washington venissero rimossi, sarebbe totalmente inaccettabile”). Da allora l’Oversight Board [la commissione di sorveglianza esterna] di Facebook ha raccomandato una revisione indipendente dei post relativi a Israele e ai palestinesi “per stabilire se la moderazione dei contenuti di Facebook in arabo ed ebraico, compreso il suo uso di automatismi, sia applicata senza preconcetti.” Anche TikTok è stato accusato di aver cancellato gli account di giornalisti palestinesi e di organi di stampa.

I rapporti indicano che in Palestina la visibilità online può accrescere il rischio di arresto. A giugno Mohammad Kana’neh è stato arrestato dopo aver condiviso immagini di un discorso che aveva pronunciato a una protesta e registrato da un altro partecipante. Aveva gridato a un poliziotto nelle vicinanze “vattene dall’esercito.” La rivista progressista Jewish Currents [Correnti Ebraiche, trimestrale di politica e sito con orientamento di sinistra, ndtr.] ha riportato che secondo Adalah, il Centro Legale per i diritti della minoranza araba che lo sta rappresentando, Kana’neh è stato arrestato per incitazione alla violenza o terrorismo. Nel 2016 Israele ha ampliato la portata delle sue leggi antiterrorismo, includendo i discorsi che “supportano un atto terroristico.” I palestinesi sostengono che la legge prende di mira la loro libertà di parola quando denunciano e resistono all’occupazione.

Yara Hawari, analista senior di Al-Shabaka, The Palestinian Policy Network [Al Shabaka significa “La Rete”, è un sito palestinese indipendente di analisi politiche, ndtr.] un think tank la cui missione consiste nell’ “educare e promuovere il dibattito pubblico sui diritti umani dei palestinesi e l’autodeterminazione nel quadro del diritto internazionale,” crede che l’incremento di attenzione sui social media sia uno sviluppo largamente positivo per la causa. Lei pensa che quest’estate, collegando volti noti con storie avvincenti come quelle di Muna e Mohammed El-Kurd, sia stata presentata al pubblico internazionale una narrazione più coerente.

È anche facile riconoscerli e mettersi in contatto e un sacco di gente può identificarsi con loro,” dice Hawari, che osserva anche che questa facilità è diventata un po’ una spada a doppio taglio. Collegare volti e nomi a un movimento può aiutare a diffondere un messaggio attraverso circuiti mediatici, ma carica anche le persone reali di una nuova responsabilità e livelli di attenzione che possono diventare pericolosi.

Hawari conclude che, col tempo, potrebbe persino danneggiare il movimento stesso. “L’abbiamo visto nel corso della storia. C’è un movimento e poi ci sono queste vittorie simboliche concesse per zittirlo,” dice Mohammed El-Kurd.

Lui pensa che la sua inclusione nella lista dei 100 di TIME sia una di queste vittorie simboliche che ignora le migliaia di palestinesi che quest’estate erano sul posto e hanno fatto le riprese, lottato contro la polizia e messo a repentaglio le proprie vite. È arrivata sull’onda degli attacchi di quest’estate delle IDF contro la moschea di Al-Aqsa e le continue demolizioni di case nel quartiere di Silwan, a Gerusalemme Est. Gli abitanti di Sheikh Jarrah, inclusa la famiglia El-Kurd, hanno recentemente rifiutato una proposta della Corte Suprema Israeliana che li avrebbe trasformati in inquilini protetti, invece che proprietari, definendolo solo un altro rinvio per progettare di sfrattarli per sempre dalle loro case.

El-Kurd si chiede se proprio questa determinazione a resistere al diventare un simbolo e alla celebrità sia ciò che fa di persone come lui e sua sorella dei portavoce perfetti per il pubblico occidentale. “Noi raccontiamo la storia meglio di chiunque altro, perché è la nostra storia,” dice. Ma gli è ancora poco chiaro se l’aumentata attenzione dei media sia un segnale di accoglienza duratura o solo una cinica cooptazione di voci radicali. “E fa audience in TV,” aggiunge.

Quando quest’estate Adnan Barq ha risposto alla mia chiamata su Zoom si è scusato. Stava camminando per Gerusalemme Ovest e aveva perso la nozione del tempo. “Vengo raramente qui, ma devo trovare un lavoro,” ha detto Barq. Ventunenne, si è laureato quest’estate presso l’Università di Betlemme. “Ero in un hotel a chiedere se avessero bisogno di qualcuno per la reception. Il receptionist era stupefatto: ‘Hai studiato letteratura inglese e giornalismo e vuoi lavorare all’accoglienza?’” mi ha chiesto.

Mentre parlavamo stava attraversando un centro commerciale all’aperto. È passato per un cortile con gente che pranzava godendosi il sole, vicino a una giostra di cavallini colorati e si è infilato sotto una tenda in un mercato affollato. Barq era imperturbabile nonostante le occhiate degli astanti perché teneva in alto il cellulare per farmi vedere la scena. “A Gerusalemme ovest sembra davvero di essere in occidente,” ha osservato. “È un nome adatto.”

Dopo la nostra chiacchierata si è diretto verso Gerusalemme Est, verso la Città Vecchia, verso casa. Sembra una zona militare, mi dice, con tutta questa sorveglianza. La prossima settimana rifarà la breve camminata per andare a Sheikh Jarrah e cercare di vedere alcuni amici e stare con le famiglie che stanno protestando. Ma incontrerà una recinzione con dei soldati di guardia. Loro lo respingeranno, dice.

Prima che a maggio il suo account avesse tanto successo, poteva sfogare senza limiti su Instagram la sua frustrazione per l’occupazione. Ma da allora sente che lo spazio che era il suo sbocco creativo personale è diventato qualcosa di più, qualcosa con cui non è completamente a suo agio. Dice di aver notato che influencer con enorme seguito seguono lui e viene persino fermato per strada da gente che lo riconosce. Sua madre è preoccupata che possa diventare troppo visibile e che un giorno lo arrestino.

La piattaforma di Barq è cresciuta in un modo che non aveva assolutamente previsto ed è grato che gli permetta di raggiungere più persone che sostengono la causa palestinese. Ma ha dei problemi con il nuovo ruolo pubblico che la piattaforma gli ha conferito: “Ho paura che resterò congelato per sempre in quest’immagine di attivista palestinese. Voglio fare altre cose nella mia vita, non rimanere intrappolato nel mondo dell’occupazione,” dice. “Vivo un conflitto interiore.”

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Più armi e meno pastori protestanti: la nuova coalizione della Germania ha dei piani per Israele e Palestina

Shir Hever

14 dicembre 2021 – Middle East Eye

La coalizione SDP-Verdi-FDP [socialdemocratici, verdi, liberali, ndtr.] progetta di incrementare gli acquisti di armi e sistemi tecnologici di sorveglianza da imprese israeliane e ha definito la sicurezza di Israele una “questione di interesse nazionale”

Berlino – Dopo tutte le promesse fatte nelle campagne elettorali, i tedeschi spesso scoprono quando vengono pubblicati gli accordi di coalizione di avere un’idea più chiara di ciò che i loro governi intendono conseguire.

Per quanto riguarda la nascente coalizione SPD-Verdi-FDP, l’accordo tra i partiti è stato pubblicato il 24 novembre e comprende alcuni cambiamenti interessanti, come anche delle continuità, rispetto all’era di Angela Merkel nei confronti di Israele e Palestina.

Troviamo la questione di Israele e Palestina verso la fine del documento di 177 pagine dedicato alla politica sul Medio Oriente, che inizia con un impegno a considerare la sicurezza di Israele una “questione di interesse nazionale” della Germania. Questo termine è stato usato dal precedente governo ed ampiamente interpretato negli ambienti politici nel senso che il sostegno della Germania a Israele ha la prevalenza sull’opinione pubblica o sui processi decisionali democratici.

L’accordo si sviluppa spiegando che buone relazioni con Israele significano proteggerlo dalle critiche dell’ONU. Auspica che l’Autorità Nazionale Palestinese reprima le violenze contro Israele, senza avanzare un’analoga pretesa riguardo alla potenza occupante in Palestina.

La neo-eletta Ministra degli Esteri, Annalena Baerbock, è una giovane politica del partito dei Verdi, che finora ha speso poche parole riguardo a Israele/Palestina. Resta da vedere come metterà in pratica questa impostazione.

Baerbock è filo-israeliana esattamente come lo era il precedente governo con la Cancelliera Merkel e il Ministro degli Esteri (Heiko) Maas, se non ancor di più”, dice a Middle East Eye Annette Groth, un’ex parlamentare della Linke, partito di sinistra [il partito più a sinistra dello spettro politico tedesco, ndtr.].

Accordi che stupiscono

Effettivamente le relazioni con Israele vengono trattate in una parte precedente del testo, sebbene in modo poco chiaro.

L’accordo di coalizione parla di acquistare droni armati per l’esercito tedesco. Però ciò che non si dice è che l’impresa già contrattata per fornire droni da combattimento Heron-TP è la Israeli Aerospace Industry (IAI). Per anni la SPD ha resistito alle richieste di fornire all’esercito tedesco droni armati, ma la nuova coalizione di cui è alla guida ha già chiarito che tali armamenti faranno parte della sua futura strategia.

Analogamente il nuovo governo promette di investire di più in cyber sicurezza per ottenere tecnologia avanzata di cyber sorveglianza – mentre la Germania ha già acquistato tale tecnologia dalla israeliana Candiru.

Die Zeit [settimanale tedesco di centro-sinistra, ndtr.] ha anche rivelato in anticipo che la polizia tedesca ha comprato il controverso programma di spionaggio Pegasus dall’impresa israeliana NSO, nonostante essa sia implicata in parecchie violazioni [dei diritti umani] da parte di diversi governi autoritari. La polizia afferma che il programma non è mai stato usato.

Tenendo conto di tutto ciò, la definizione di “interesse nazionale” da parte della nuova coalizione tedesca appare più in linea con accordi su armamenti e cooperazione per la sicurezza con produttori di armi israeliani piuttosto che con la politica diplomatica in Medio Oriente.

Eldad Beck, giornalista del quotidiano israeliano di destra Israel Hayom, sostiene che il vero interesse del governo tedesco stia nell’incrementare il commercio con l’Iran e prevede che la coalizione appoggerà la ripresa dell’accordo sul nucleare JCPOA del 2015.

Certamente la Germania è il maggior partner commerciale dell’Iran e nel 2020 le esportazioni tedesche in Iran sono state di 1,8 miliardi di euro. Per la Germania tuttavia l’Iran è solo il 58esimo tra i principali partner. Intanto nel 2019 la Germania ha esportato beni e servizi in Israele del valore di 5,2 miliardi di euro. Israele è il 42esimo partner commerciale della Germania.

Perciò il sostegno della Germania al JCPOA non avviene a causa dei suoi interessi economici relativi a Iran e Israele, ma nonostante essi, e potrebbe avere maggiormente a che fare con l’interesse del governo ad impedire all’Iran di acquisire armamenti nucleari.

In Germania la sensazione ampiamente diffusa è che Russia e Cina siano i principali Paesi nemici e i politici sperano che il JCPOA possa mantenere l’Iran al di fuori dell’alleanza con quei Paesi.

Religiosità in flessione

Un altro importante aspetto della nuova coalizione, che probabilmente influirà sulle relazioni tra Germania e Medio Oriente, è che il governo entrante è il meno religioso nella storia della Germania dai tempi della riunificazione tra est e ovest.

Il nuovo cancelliere, Olaf Scholz, si definisce non appartenente ad alcuna chiesa e non ha pronunciato le parole “che dio mi aiuti” dopo che ha prestato il suo solenne giuramento. Inoltre sei ministri del suo gabinetto si definiscono non credenti e uno, il nuovo Ministro dell’Agricoltura Cem Ozdemir, si dichiara un “musulmano laico”.

Tradizionalmente un enorme numero di importanti politici tedeschi era cristiano protestante. Con l’Unione Cristiano Democratica all’opposizione per la prima volta dal 2005, si prevede che l’influenza della chiesa protestante sulla politica tedesca sarà più scarsa che mai.

Questo fatto è di estrema importanza per i rapporti tra Germania e Israele, a causa della visione profondamente teologica che i politici tedeschi hanno nei confronti del Paese. Ulrich Duchrow, un teologo in pensione dell’università di Heidelberg, dice a MEE che la chiesa protestante tedesca nel 2017 ha promesso di impegnarsi con Israele/Palestina riconoscendo e impegnandosi riguardo all’antisemitismo della tradizione cristiana in seguito al genocidio nazista degli ebrei.

La chiesa ha concluso un accordo: il perdono per la colpa della Germania è comprato in cambio dell’astensione da un’esplicita critica dei crimini dello Stato di Israele rispetto al diritto internazionale e ai diritti umani. Il ramo renano della chiesa considera addirittura lo Stato di Israele come un ‘segno della fede in dio’”, afferma.

Poiché la nuova coalizione è meno legata ai dettami della chiesa protestante di quanto lo fossero tutti i precedenti governi, ha una maggior libertà nel criticare le violazioni del diritto internazionale da parte di Israele.

Da notare che l’accordo della nuova coalizione afferma che la costruzione di colonie israeliane nella Cisgiordania occupata è illegale ai sensi delle leggi internazionali.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




HRW: a maggio poliziotti israeliani si sono accordati con ultranazionalisti ebrei per reprimere manifestanti palestinesi

Redazione di PC

14 dicembre 2021 – Palestine Chronicle

Un rapporto di Human Rights Watch (HRW) sulle politiche brutali e discriminatorie ha rilevato che durante la rivolta civile di maggio nella città di Lydda funzionari israeliani si sono accordati con ultra-nazionalisti ebrei di estrema destra.

Il rapporto, rilasciato martedì, evidenzia che a Lydda le forze dell’ordine israeliane hanno fatto uso di una forza eccessiva per disperdere proteste pacifiche da parte di palestinesi e invita la commissione d‘inchiesta dell’ONU a indagare sulle pratiche discriminatorie dello Stato occupante.

Queste prassi includono il modo opposto di trattare manifestanti ebrei e palestinesi; l’evidente appoggio e la collaborazione con gli ultranazionalisti ebrei di estrema destra; la diffusione di disinformazione da parte di funzionari governativi per fomentare la rivolta civile e un trattamento discriminatorio dei cittadini palestinesi di Israele nei tribunali dopo il loro arresto.

In maggio Lydda e altre città in Israele e nella Cisgiordania occupata hanno assistito a rivolte sullo sfondo dei tentativi discriminatori di cacciare palestinesi dalle proprie case nella Gerusalemme est occupata, dell’uso eccessivo della forza da parte delle forze di sicurezza israeliane contro i manifestanti e i fedeli nella moschea di Al-Aqsa e dello scatenamento di un’aggressione israeliana contro Gaza il 10 maggio.

Nel corso di circa due settimane di rivolta le forze di sicurezza hanno arrestato 2.142 persone in Israele e a Gerusalemme est in operazioni di “deterrenza” che le autorità hanno definito “Legge e Ordine”. Secondo Amnesty International circa il 90% degli arrestati sono cittadini palestinesi di Israele e abitanti di Gerusalemme est occupata.

In giugno un rapporto di Amnesty International sulle azioni repressive ha rilevato che suprematisti israeliani di estrema destra hanno condiviso selfie in cui si sono messi in posa con armi da fuoco e messaggi come “Stanotte non siamo ebrei, siamo nazisti.”

Tra i molti esempi di discriminazione citati da HRW nel rapporto c’è l’evidente collaborazione tra poliziotti israeliani e ultranazionalisti ebrei. Il 12 maggio parecchi ultranazionalisti ebrei che non vivono a Lydda, alcuni dei quali armati, sono entrati in città violando la dichiarazione dello stato di emergenza del governo, emanato ore prima, che vietava l’ingresso a non-residenti.

Nel rapporto viene citato un giornalista israeliano che, nel suo servizio da Lydda, ha affermato che le autorità municipali avevano ospitato durante la notte ultranazionalisti ebrei arrivati da fuori in un edificio di proprietà del Comune nei pressi di un cimitero palestinese. Benché la città abbia negato di essere stata informata di questa iniziativa o di averla approvata, questi gruppi sono andati a prendere di mira palestinesi. Durante la notte hanno lanciato pietre contro case e negozi palestinesi e contro la moschea di Al-Omari. Video di alcuni incidenti mostrano, schierati vicino a facinorosi ebrei, poliziotti che non intervengono mentre questi lanciano pietre.

Durante gli scontri sono stati attaccati proprietà e luoghi di culto palestinesi. Molti sono stati feriti, un cimitero musulmano è stato vandalizzato e decine di auto sono state date alle fiamme. HRW afferma che le forze dell’ordine schierate per garantire la sicurezza a Lydda sono rimaste a guardare o non hanno agito in tempo per proteggere abitanti palestinesi di Lydda dalle violenze da parte di ultra-nazionalisti ebrei che si trovavano vicino a loro o nel loro campo visivo.

Evidenziando la prassi discriminatoria dei tribunali israeliani, HRW mette in luce il netto contrasto del modo diverso in cui sono stati trattati l’assassinio di un palestinese e quello di un ebreo israeliano. Per l’assassinio di Musa Hassuna, un palestinese, le autorità israeliane hanno rilasciato su cauzione in meno di 48 ore dall’omicidio tutti gli ebrei sospettati, dopo che essi avevano invocato la legittima difesa, ed ha chiuso le indagini meno di sei mesi dopo.

Per l’assassinio di Yigal Yehoshua, un ebreo, otto palestinesi sospettati sono stati in carcere per mesi, in attesa di essere processati per vari reati, compreso l’“omicidio come atto di terrorismo”.

Sembra che a Lydda la polizia e le autorità israeliane abbiano trattato i cittadini in modo diverso a seconda che si trattasse di ebrei o di palestinesi,” afferma Omar Shakir, direttore per Israele e Palestina di Human Rights Watch.

La commissione d’inchiesta ONU dovrebbe cogliere l’opportunità senza precedenti di contrastare la discriminazione ed altre violazioni che i palestinesi affrontano in Israele esclusivamente a causa della loro identità.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Paradossalmente è la destra israeliana a riconoscere la Nakba palestinese

Yehouda Shenhav-Shahrabani

13 dicembre 2021 – Haaretz

Alla fine qui sta succedendo che gli arabi hanno dimenticato la Nakba. È tempo di ricordargliela”

Un interessante voltafaccia nel riconoscere la Nakba (“catastrofe”) è arrivato questa settimana da un giornalista di nome Itamar Fleischman, ex portavoce del primo ministro Naftali Bennett. Durante un programma televisivo su Canale 14 Fleischman ha detto quanto segue: “Alla fine quello che sta succedendo adesso è che gli arabi hanno dimenticato la Nakba. Ed è giunto il momento di iniziare a ricordargliela, la Nakba”.

Anche se i termini sono invertiti (“Gli arabi hanno dimenticato… e bisognerebbe ricordarglielo”), non capita tutti i giorni che un ebreo sionista salti su e riconosca con tanta franchezza la tragedia palestinese.

Anche se la Nakba è il buco nero nella costituzione dello Stato di Israele, e sebbene il riconoscimento della Nakba sia una condizione per la convivenza, lo Stato sovrano di Israele la nega ancora risolutamente. Con la macchina della memoria nazionale e con i suoi rappresentanti culturali, la discussione sulla Nakba resta sotto chiave: ogni tentativo di tornarci è bloccato da una barriera di tabù, e le “strategie di accesso” a una discussione critica sulla Nakba sono interdette.

I libri di testo del sistema scolastico non comprendono il riconoscimento della Nakba e offrono una prospettiva storica superficiale, che ha istruito generazioni di studenti israeliani ad una sistematica ignoranza. La storia della Nakba è anche confusa dalla percezione del governo e del pensiero politico rappresentato dal modello di “Stato ebraico e democratico” che comporta spiegazioni tortuose (“Hanno iniziato gli arabi”, “Non accettarono il Piano di Partizione [della Palestina, elaborato dall’UNSCOP (United Nations Special Committee on Palestine) e approvato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1947; assegnava il 56% della Palestina ad Israele, ndtr.]”, “Non hanno perso occasione”, “I loro capi gli ordinarono di fuggire”).

Il motivo di questa radicale negazione è che rappresenta lo scheletro nell’armadio di Israele, scheletro che minaccia di diventare pubblico e di sconvolgerne l’immagine virtuosa e corretta. La negazione della Nakba è il pilastro del governo israeliano, e gli scheletri che tiene nell’armadio sono la pulizia etnica del 1948, i massacri, la distruzione di villaggi e città e il furto di terre e proprietà palestinesi.

La stessa parola, Nakba, come descrizione della tragedia palestinese era quasi sconosciuta agli israeliani fino al 2011 quando, grazie a una legge insensata soprannominata Legge sulla Nakba, in quasi tutte le case israeliane è comparsa a descrivere la tragedia palestinese. Sino ad allora l’uso specifico della parola “Nakba” alimentava la negazione e assumeva un senso diverso, ad esempio in maniera volgare nell’orrendo (e antisemita) opuscolo titolato Nakba Harta (Cazzate Nakba) distribuito da Im Tirtzu [“Se lo vuoi”, organizzazione sionista non governativa con lo scopo di delegittimare le associazioni israeliane di sinistra e per i diritti umani, ndtr.].

Bisogna ammettere che negli ultimi due decenni il muro della negazione è stato scalfito, grazie soprattutto alle correnti di revisione della storiografia del 1948, a nuove scoperte d’archivio (anche in arabo) che descrivono la pulizia etnica della Palestina e al lavoro di organizzazioni commemorative, la più importante delle quali è Zochrot [organizzazione non profit israeliana fondata nel 2002 a Tel Aviv, con lo scopo di promuovere la conoscenza della Nakba palestinese, ndtr.]

Da queste rivelazioni abbiamo appreso che, anche se accettiamo la dubbia affermazione che in ogni guerra è probabile che ci siano delle espulsioni, in questo caso si tratta di qualcosa di più di un semplice sottoprodotto della guerra perché, anche alla conclusione della guerra, lo Stato sovrano di Israele ha impedito il ritorno dei profughi alle loro case, confiscato le loro terre e saccheggiato le loro proprietà. Ecco perché il concetto di “pulizia etnica” non si riferisce solo alla guerra del 1948, ma anche al divieto di ritorno dei profughi dopo l’instaurazione della sovranità ebraica e alla cancellazione della storia palestinese. Questa è anche una delle ragioni dell’affermazione che la Nakba non è mai finita, e nel discorso palestinese è definita “una Nakba continua”.

Le parole di Fleischman ci portano un passo avanti nel riconoscimento della Nakba, e non sorprende che la dichiarazione provenga dai ranghi dell’estrema destra. Una delle fantastiche anomalie nel discorso pubblico israeliano è che la destra ha sempre preceduto la sinistra sul problema del riconoscimento della Nakba, anche se a scopo di sfida e provocazione.

Circa 10 anni fa, quando Itamar Ben-Gvir [avvocato e leader del partito di estrema destra antiarabo Otzma Yehudit, Potere Israeliano, ndtr.] venne a manifestare davanti all’Università di Tel Aviv sostenendo che sorge sulle rovine del villaggio palestinese Sheikh Munis, studenti e docenti di sinistra uscirono per allontanare i manifestanti. Rimettere in discussione la questione del 1948 mina l’idea di due Stati per due popoli, che si basa su una soluzione del conflitto che non riconosce la Nakba, come se il conflitto fosse iniziato nel 1967.

Ma torniamo a Fleischman. Proseguendo nel discorso, non si è preoccupato di raccontarci la memoria della Nakba o la sua storia. Invece, ci ha presentato il suo progetto per il futuro.

“Se non tornano presto in sé e se continuano a cercare di uccidere i nostri bambini, la loro prossima tappa è trasferirsi in Giordania o nel campo di Al Yarmouk in Siria. Questo accadrà se le cose continueranno in questo modo. La grande tragedia degli arabi è… che semplicemente li caricheremo sui camion, li scaricheremo oltre il confine, ed è così che andrà a finire”.

Fleischman traccia una linea diretta tra passato e futuro con la minaccia di espulsione, legittimando la prossima espulsione. La minaccia di una seconda Nakba è il prezzo da pagare per il riconoscimento della prima Nakba. Questa minaccia di Nakba non ha data di scadenza. Continuerà ad accompagnare i palestinesi come una Spada di Damocle finché vivranno e respireranno. L’unica data di scadenza collegata alla minaccia è la catastrofe. Il riconoscimento della Nakba da parte di Israele è la sola opportunità di dare vita a una discussione che impedisca una seconda Nakba.

L’autore è professore di sociologia all’Università di Tel Aviv e caporedattore di Maktoob, collana di libri di prosa e poesia in arabo ed ebraico presso il Van Leer Institute di Gerusalemme

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Antico monastero a Gaza restaurato da giovani disoccupati palestinesi

Mervat Ouf

8 dicembre 2021 – Al Monitor

Un team palestinese, sotto la supervisione francese, lavora da tre anni al restauro del monastero di sant’Ilarione nel campo profughi di Nuseirat a Gaza.

Gaza City, Striscia di Gaza – Nel 2010, durante una gita scolastica, Naama al-Sawarka visitò il monastero di sant’Ilarione che risalirebbe al 329 d.C. ed è situato nel campo profughi di Nuseirat, nel centro della Striscia di Gaza.

Il sito era abbandonato e agli studenti il posto non era piaciuto, ma Sawarka dice che l’ha amato immensamente. “Ci ho lasciato un pezzo del mio cuore,” dice ad Al-Monitor.  

Appena terminate le superiori Sawarka ha cercato un corso di laurea che le avrebbe permesso di lavorare nell’archeologia. Ha optato per storia e archeologia presso l’Università Islamica di Gaza, una scelta che le è valsa le critiche da parte della sua comunità, che vede questo tipo di studi come più adatto agli uomini.

Sono una ragazza beduina e la mia società crede che sia inaccettabile lavorare con degli uomini e che maneggiare martelli e pietre dovrebbe essere solo riservato a loro,” dice.

Dopo la laurea Sawarka ha ottenuto un posto come guida turistica presso il monastero di sant’Ilarione, conosciuto anche come Tell Umm al-Amr. Ha anche fatto la restauratrice e collaborato al restauro dei pavimenti musivi del monastero e al consolidamento dei suoi muri, parte di un progetto condotto da Premiére Urgence Internationale, un’ong francese che soprintende il restauro del sito con il sostegno del British Council.

Sawarka dice di essersi divertita moltissimo durante gli scavi. “Lavoravamo con grande entusiasmo. A un certo punto ci siamo imbattuti in un muro, ma abbiamo continuato a scavare e abbiamo trovato un crocifisso risalente a 1800 anni fa. È stato un anno pazzesco,” aggiunge.

Un team palestinese sotto la supervisione francese lavora dal 2018 al restauro del monastero di sant’Ilarione. Il gruppo include laureati in architettura, archeologia, storia e altre materie a cui sono state date opportunità lavorative temporanee nell’ambito di un progetto denominato “Ripresa economica tramite un lavoro dignitoso nella Striscia di Gaza: soldi in cambio di lavoro”.

Jamal Abu Rida, direttore del Dipartimento Generale di Antichità e Patrimonio Culturale del Ministero Palestinese del Turismo e delle Antichità, dice ad Al-Monitor che gli scavi archeologici hanno rivelato che il monastero è uno dei più grandi in Palestina per superficie e struttura e che è citato in testi antichi.

Afferma che dal 2018 il monastero ha subito restauri, lavori di manutenzione e scavi nell’ambito di un progetto dell’International Relief Organization per conservare il patrimonio culturale e della civiltà del popolo palestinese, sia dei cristiani che dei musulmani.

I lavori sul sito vanno avanti da tre anni. Ci stiamo avvalendo di esperti e squadre locali e stiamo facendo tutto il possibile per riportare il monastero alle sue condizioni originarie,” dice.

Nel 2020 anche Iman al-Amsi, laureata presso il Dipartimento di storia e Archeologia dell’Università Islamica di Gaza, si è unita al lavoro di restauro del monastero.

Facevo parte di un team che lavorava alle scoperte nella cappella. Avevo così tante domande! Aspettavo con impazienza Ronnie Ultra, archeologo francese, per chiedergli tutte le informazioni per svelare i segreti di queste civiltà,” dice Amsi ad Al-Monitor.

Spiega di aver accumulato una grande esperienza nel distinguere fra i vari tipi di ceramica, su come consolidare e sostenere i muri del monastero e conservare il mosaico del pavimento.

Adesso ho abbastanza esperienza in scavi archeologici e so a quale profondità si deve scavare per scoprire l’antichità di una civiltà,” aggiunge.

Saja Abu Mashaikh era impaziente quanto Amsi di vedere la reazione dell’archeologo francese quando lei e i suoi colleghi hanno voluto mostrargli l’antico recinto che avevano scoperto scavando nel sito.

I suoi occhi brillavano quando gliel’abbiamo fatto vedere,” dice Abu Mashaikh ad Al-Monitor.

Lei si è laureata in architettura presso il Training Community College di Gaza ed era emozionata quando ha ottenuto un lavoro come archeologa al monastero, dove ha imparato ad applicare le teorie apprese, principalmente nel restauro di pezzi di ceramica, mattoni e ossa.

Ogni volta che riportavo alla luce delle monete antiche non vedevo l’ora di mostrarle agli esperti stranieri per ottenere ulteriori informazioni sulla scoperta,” dice Abu Mashaikh.

Mohammed Abdel Jawad, il supervisore del monastero, dice che molto è stato ottenuto dopo tre anni di collaborazione fra Premiére Urgence Internationale e il Ministero del Turismo e delle Antichità.

Afferma che è stata restaurata una parte consistente della chiesa, con la ricostruzione dell’80% dei pavimenti musivi più antichi e che i muri che stavano crollando sono stati consolidati.

Sono stati costruiti un muro esterno per proteggere tutto il sito e un edificio amministrativo per conservare i reperti scoperti, oltre a una passerella di legno per permettere ai visitatori di muoversi sul sito in sicurezza,” dice Abdel Jawad.

Il personale tecnico ha fatto molti progressi nel restauro di pietre e mosaici. Per partecipare ai restauri sono scelti i migliori laureati in varie materie,” dice.

Abdel Jawad aggiunge, “Recentemente abbiamo rinvenuto corpi che non siamo riusciti a datare. Li abbiamo lasciati nel terreno avvolti di un materiale isolante per conservarli fino a quando non avremo più informazioni.”

Spiega che durante il lavoro il team ha incontrato vari ostacoli, dato che Israele ha impedito per un anno l’ingresso nella Striscia di Gaza a parecchi esperti, cosa che ha danneggiato le attività. Inoltre molti materiali e attrezzature non sono disponibili nella Striscia di Gaza. “Siamo riusciti a reperire alcuni materiali attraverso i valichi e ne abbiamo prodotti altri alternativi qui fatti artigianalmente,” conclude.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Gli ordini di demolizione per i palestinesi nell’Area C della Cisgiordania raggiungono il livello più alto in cinque anni

Hagar Shezaf

7 dicembre 2021, Haaretz

Secondo l’Amministrazione Civile, lo scorso anno Israele ha emanato 797 ordini di demolizione, mentre delle licenze edilizie richieste dai palestinesi in Area C nemmeno l’1% è stato autorizzato fra il 2016 e il 2020

L’Amministrazione Civile ha emesso lo scorso anno 797 ordini di demolizione per strutture di proprietà palestinese nell’area C [sotto il pieno controllo israeliano, ndtr] della Cisgiordania, segnando un record in cinque anni, ha rivelato l’associazione per i diritti Bimkom – Planners for Planning Rights in base alla documentazione ottenuta ai termini della legge sulla Libertà di Informazione.

Le associazioni per i diritti umani attribuiscono l’aumento degli ordini di demolizione a una crescente pressione politica per aumentare l’applicazione delle procedure esecutive sulle costruzioni palestinesi in Cisgiordania.
Secondo i dati, tra il 2016 e il 2020, i palestinesi hanno presentato 2.550 richieste di permessi di costruzione, ma solo 24 di loro sono state concesse, un misero 0,9 per cento. Dal 2019-2020 il tasso di richieste approvate è stato ancora più basso, dello 0,65%.

Allo stesso tempo, tra il 2016 e il 2020, sono stati rilasciati permessi di costruzione per 8.356 unità abitative di coloni in Cisgiordania, 384 volte il numero di permessi concessi ai palestinesi nell’Area C, la parte della Cisgiordania sotto il pieno controllo israeliano.

Il mese scorso l’Amministrazione Civile ha approvato provvedimenti per la costruzione di 1.303 case in villaggi palestinesi dell’Area C.
Solo un progetto, per 170 case a Barta’a, è stato approvato in via definitiva, mentre per gli altri è probabile che ci vogliano anni prima che vengano autorizzati.

L’architetto Alon Cohen-Lifshitz di Bimkom ha detto ad Haaretz che alcuni dei piani attualmente in fase di elaborazione sono obsoleti o non soddisfano le esigenze attuali dei residenti palestinesi, perché ormai è passato quasi un decennio da quando sono stati originariamente sottoposti all’Amministrazione Civile. “Il quadro fosco che emerge dalle nostre informazioni è quello di gravi discriminazioni”, ha detto.

I dati mostrano anche che fra il 2018 e il 2020 c’è stato un aumento costante del numero di permessi richiesti dai palestinesi prima della costruzione. Mentre la stragrande maggioranza delle richieste viene presentata dai palestinesi solo dopo la costruzione, i dati dell’Amministrazione Civile indicano una chiara tendenza all’aumento delle richieste presentate in anticipo.

Nel 2018 – il primo anno su cui l’Amministrazione Civile ha cominciato a fornire questo tipo di dati – solo 57 richieste sono state presentate dai palestinesi prima dell’inizio della costruzione. Nel 2020 questa cifra si era raddoppiata, con 104 richieste.

Lo scorso ottobre il Ministero delle colonie ha trasferito 20 milioni di shekel a 14 autorità coloniali per acquistare droni e personale di pattuglia per aiutare quelle giunte a monitorare le costruzioni illegali palestinesi.

Le varie autorità hanno ricevuto fino a 4 milioni di dollari e hanno indetto gare d’appalto. Gli agenti non avranno l’autorità per far rispettare alcuna norma – questo è di competenza dell’Amministrazione Civile – ma la logica sottesa è che aiuteranno a localizzare le costruzioni illegali per poi lasciare le procedure esecutive (all’Amministrazione Civile).

Inoltre, nel corso del 2020, l’Amministrazione Civile ha istituito una linea diretta per i coloni per la segnalazione di costruzioni illegali nell’Area C. Nel corso degli anni, diverse organizzazioni e membri della Knesset (Parlamento israeliano), tra cui il presidente del Partito Sionista Religioso Bezalel Smotrich, hanno promosso una campagna chiamata “lotta per l’area C”, che vuole contrastare l’edilizia palestinese. La Knesset ha discusso di tali questioni e i vari provvedimenti sopra elencati sono stati presi per aumentare gli interventi esecutivi.

traduzione dall’inglese di Stefania Fusero




L’ultima esecuzione extragiudiziale conferma il ferreo sostegno israeliano all’assassinio di palestinesi

Jonathan Ofir

6 dicembre 2021 – Mondoweiss

Nel 2016, quando Elor Azarya sparò in testa ad un palestinese inerme, vi fu effettivamente una discussione su questa azione tra i politici israeliani. Non vi è stato un analogo dissenso questo weekend, dopo l’ultima esecuzione extragiudiziale di Israele.

Sabato scorso un uomo palestinese ha accoltellato un ebreo israeliano vicino alla Porta di Damasco a Gerusalemme, procurandogli ferite lievi. L’uomo, identificato come il 23enne Mohammed Shawkat Salameh della città di Salfit in Cisgiordania, è poi corso verso gli agenti di polizia di frontiera, che gli hanno sparato diverse volte – in particolare due volte mentre già giaceva a terra, immobilizzato, da una distanza di circa 5 metri. Haaretz ha riportato ampiamente sia l’azione che le reazioni.

Il video di quella sparatoria è stato filmato ed è circolato sui social media. 

Soltanto pochi politici in Israele lo hanno criticato. 

Ahmad Tibi, della Lista Unita che rappresenta i palestinesi [con cittadinanza israeliana, ndtr.]:Neutralizzazione” è un eufemismo. Questa è un’esecuzione a sangue freddo, la riprova dell’uccisione di una persona ferita che giace a terra e non minaccia nessuno. Per di più gli sono state negate le prime cure mediche finché è morto, nonostante vi fosse un’equipe medica sul luogo. E’ un atto criminale che richiede un’indagine.”

Ofer Cassif, anch’egli della Lista Unita, ha definito gli spari una “esecuzione sommaria” ed un altro membro della Lista Unita, Aida Touma-Sliman, ha affermato: “Uccidere un uomo che non costituisce più una minaccia è un crimine orrendo. Questa è la realtà creata dall’occupazione.” Anche Esawi Freige, del partito di sinistra [sionista, ndtr.] Meretz, ha detto che sparare dovrebbe servire solo “a salvare vite e non a togliere la vita ad aggressori che non costituiscono più un pericolo.” Lo ha definito “un atto che mostra indifferenza verso la vita umana.”

Fin qui tutto bene – sembra esserci qualche decenza umana nella politica israeliana, che chiama le cose col loro nome. Ma è solo una sottile frangia dello spettro politico. Spostandosi un po’ più a destra, verso il partito Laburista, si trova già sostegno all’assassinio. Il Ministro della Pubblica Sicurezza Omer Bar-Lev: Quando c’è un dubbio, non si indugia.”

Ha detto che gli agenti avevano “un secondo o due” dopo il primo sparo per “decidere se il terrorista che era stato colpito stesse per azionare una cintura esplosiva.”

Ma erano sicuri che ci fosse una cintura esplosiva? L’aggressore indossava una maglietta stretta e non c’era assolutamente traccia di ciò. Negli attacchi col coltello non sono mai state usate cinture esplosive, perché sarebbero state controproducenti rispetto all’obiettivo. Comunque sono passati più di 5 anni dall’ultimo attacco suicida (su un autobus di Gerusalemme) e nessuno di tali attacchi si svolge così. In base alla logica di Bar-Lev, se c’è un minimo dubbio che un palestinese abbia una cintura esplosiva sotto il vestito, è sicuramente meglio sparargli e accertarsi della morte, piuttosto che rischiare – e riguardo ai palestinesi il dubbio c’è sempre.

Più di cinque anni fa, nel caso di Elor Azarya, il paramedico militare che sparò in testa ad un palestinese inerme a bruciapelo, anche Azarya si appellò al fatto di temere una cintura esplosiva. Ma il tribunale respinse questa argomentazione, poiché nessuno lì vicino sembrava preoccupato e la motivazione conclamata di Azarya per lo sparo fu che “doveva morire”.

L’aggressore di sabato scorso non è stato colpito perché fosse sospettato di avere un esplosivo. È stato colpito e lasciato a morire dissanguato perché gli agenti della polizia di frontiera hanno ritenuto che dovesse morire.

E così i politici di tutto il principale arco politico hanno acclamato l’assassinio.

Anche il Ministro degli Esteri, il centrista Yair Lapid, ha detto di “appoggiare in pieno i nostri combattenti. Non lasceremo che i terroristi scorrazzino selvaggiamente a Gerusalemme o in qualunque altra parte del Paese.” Il Ministro della Difesa Benny Gantz ha affermato che gli agenti hanno fatto la cosa “ovvia”, sottolineando che hanno il suo sostegno. Il Primo Ministro Naftali Bennett ha detto di “sostenere pienamente” gli agenti che hanno sparato all’aggressore palestinese, affermando che “hanno agito come ci si aspetta da agenti israeliani.”

E’ interessante che nel caso di Azarya vi fu realmente un notevole dibattito riguardo al fatto, che era essenzialmente identico. Allora il Capo di Stato maggiore Gadi Eisenkot disse che Azarya aveva “sbagliato”. Persino il bellicoso Ministro della Difesa del Likud, Moshe Ya’alon, condannò l’azione: Noi non spariamo semplicemente alle persone, neppure se sono terroristi, neppure ad un altro soldato che ti ha appena sparato ma che poi si è arreso ed è stato neutralizzato, noi non spariamo e basta…Era chiaro ai comandanti che non è ciò che si fa.”[ vedi l’articolo di Gideon Levy sul processo Azarya su zeitun.info]

Ma adesso è qualcosa che si fa. Non c’è dubbio.

Come è accaduto questo slittamento dell’opinione politica egemone? Può essere parte dell’ “effetto Azarya”. Molti in Israele furono sbigottiti dal senso di limitazione che il caso Azarya rappresentava. Azarya rilevò che tali esecuzioni venivano fatte “un sacco di volte”, ma che ora lui veniva usato come capro espiatorio.

E noi abbiamo visto indicatori che certo, questo è stato fatto un sacco di volte dopo il caso di Azarya. L’esecuzione extragiudiziale da parte della polizia del cittadino beduino Yaqub abu al-Qia’an a Umm al Hiran nel 2017 (ci si rese conto in seguito che non era un terrorista e non stava affatto tentando di speronare un’auto) e l’esecuzione da parte della polizia di Ahmed Erekat nel 2020. Questi casi sono chiare esecuzioni, compreso lo stesso diniego di cure mediche, e le analisi di Architettura Forense relative ad entrambi i casi contraddicono esplicitamente l’asserzione che si trattasse di speronamenti deliberati. Nel caso di Al-Qia’an, l’insegnante israeliano, sembra che in seguito molti si siano convinti della sua innocenza. Nonostante ciò, nel caso del palestinese sotto occupazione Erekat, non viene accordato tale beneficio del dubbio e addirittura l’Alta Corte israeliana ha sentenziato che il corpo di Erekat – il suo corpo! – non fosse restituito alla famiglia.

Israele ha deciso di costruire un muro di ferro di negazioni relativamente alla sua politica criminale di esecuzioni extragiudiziali.

Una volta di più, è un motivo per cui è necessaria la CPI [Corte Penale Internazionale, ndtr.]. È un Paese senza legge, che persevera nei crimini di guerra.

Jonathan Ofir

Musicista israeliano, conduttore e blogger/scrittore, che vive in Danimarca.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)