Israele non può essere accusato di niente

Israele non può essere accusato di niente, grazie alla narrazione della cultura dell’hasbara della vittimizzazione ebraica.

L’etnocentrismo ha devastato la cultura politica ebraica.

Yakov Hirsch

20 settembre 2021 – Mondoweiss

 

Il mio lavoro si concentra sulla cultura dell’hasbara: la costruzione sociale di una realtà alternativa che si centra sulla vittimizzazione del popolo ebraico che ha poco a che vedere con il mondo reale. Ma, nonostante le idee della cultura dell’hasbara siano a-storiche, i suoi concetti e discorsi sull’odio contro gli ebrei sono ora un’opinione diffusa nella cultura politica ebraica e americana. E ciò ha avuto parecchie conseguenze disastrose per il mondo in cui viviamo.

Hasbara è la parola israeliana per propaganda, e la cultura dell’hasbara sostiene che l’antisemitismo è un odio unico che va collocato in una categoria differente dalle altre forme di odio. E i guardiani della narrazione della vittimizzazione fanno tutto il necessario per continuare a mantenere questa prospettiva. In un editoriale del 2009 sul NYT riguardo ai “timori di Israele” Jeffrey Goldberg ha espresso perfettamente la prospettiva della cultura dell’hasbara riguardo all’antisemitismo “eterno”:

“L’antisemitismo è un odio sui generis che è mutevole, impermeabile alla logica ed eterno.”

È impossibile comprendere il mondo attuale senza prima capire la grande lotta della cultura dell’hasbara contro questo “odio sui generis”. I proseliti della cultura dell’hasbara sottolineano eventi della storia ebraica per trasmettere la convinzione che tutto il mondo sia ossessionato, e sempre lo sia stato, dall’eliminazione degli ebrei, arrivando fino ad oggi con l’esistenza dello Stato ebraico.

La prospettiva vittimistica di Yair Rosenberg non riflette il mondo reale. Come ho dimostrato nel mio ultimo articolo, la nuova serie di video di Rosenberg “per spiegare l’antisemitismo” ascrive agli eventi uno scorretto “significato” più ampio. Gli esseri umani, i loro pensieri e motivi individuali non sono come i sostenitori della cultura dell’hasbara di solito interpretano il mondo. I sostenitori della cultura dell’hasbara sono alla continua ricerca di quel “significato più ampio”.

Nel suo video “Al di là di sinistra e destra” Yair Rosenberg sostiene che l’antisemitismo continua a prosperare oggi perché persone di destra come di sinistra tendono a vigilare contro il fanatismo antiebraico solo quando proviene dai loro nemici politici. La voce narrante afferma che si capisce perché ciò avvenga.

“È molto più difficile parlarne quando l’intolleranza viene dai tuoi amici e alleati.” Con chi riesci a provocare dei cambiamenti, chiede: con i tuoi amici o con i tuoi nemici? Nella tua comunità o in quella di qualcun altro? Quindi, mentre la destra denuncia l’antisemitismo nella sinistra e la sinistra denuncia quello di destra, esse non condannano gli intolleranti della propria parte politica.

Nell’immaginario della cultura dell’hasbara quello che gli storici chiamano “essere antisemita” è un’incessante persecuzione degli ebrei. E di conseguenza gli ebrei devono essere protetti. Questo è il ruolo e il dovere che si sono assunti i giornalisti della cultura dell’hasbara. E, dato che secondo la cultura dell’hasbara il popolo ebraico e ora Israele sono eternamente vittime, diventano anche eternamente innocenti.

Il risultato di questa innocenza “fuori dalla storia” è che ora diventa “comprensibile” qualunque odio e razzismo che provenga dalla comunità ebraica.

Prendete in considerazione l’opinione di Yair Rosenberg sull’ ‘imbarazzante’ politica israeliana Miri Regev, ex-ministra della Cultura di Benjamin Netanyahu. Secondo Rosenberg l’estremismo di destra di Regev è comprensibile a causa dei tweet antisemiti che egli ha trovato su Twitter.

“Miri Regev è una dei ministri di Israele più di destra, demagogica e imbarazzante, ma menzogne inquietanti come queste sul potere malvagio di Israele aiutano la gente come lei ad essere eletta.”

E non si tratta solo di Rosenberg. Tutta una generazione di giornalisti della cultura dell’hasbara ha imposto a forza al mondo reale la sua prospettiva vittimistica: l’antisemitismo eterno rende comprensibile qualunque cosa Israele e i suoi sostenitori dicano. Prendete in considerazione la reazione di Jeffrey Goldberg [giornalista USA, ndtr.] all’accoglienza estasiata che l’AIPAC [principale organizzazione della lobby filoisraeliana negli USA, ndtr.] ha riservato a Donald Trump nel 2016:

“Quanti di voi sono sorpresi che un pubblico filo-israeliano abbia apprezzato un discorso filo-israeliano di Donald Trump dovrebbero smettere di essere sorpresi.”

Quello a cui dovrebbe rispondere Jeffrey Goldberg se gli venisse chiesto è: “Perché la gente dovrebbe smettere di manifestare sorpresa riguardo all’entusiasmo delirante del pubblico dell’AIPAC per Donald Trump? Quello che Goldberg dovrebbe dire è la differenza tra il pubblico dell’AIPAC e la solita folla seguace di Trump che Goldberg ha passato anni a condannare incessantemente. Perché Goldberg sta concedendo un’approvazione a un’organizzazione ebrea filo-israeliana che non attribuirebbe a un’altra aggregazione favorevole a Trump? Dov’è finito il suo usuale moralismo?” La sua risposta a questa domanda spiegherebbe parecchio.

Tutto ciò che deve avvenire per dare un senso al mondo è che Jeffrey Goldberg risponda a questa domanda.

Si noti che Peter Beinart [noto intellettuale e commentatore ebreo americano, ndtr.] non ha nessun problema a condannare quello stesso evento. Come ho già sostenuto, l’importanza culturale di Peter Beinart è che egli è il giornalista ebreo più influente senza che abbia una prospettiva vittimistica.

Il discorso della politica estera è pieno di esempi di come la prospettiva vittimistica modelli il mondo. Come Bret Stephens ha spiegato ai lettori del New York Times perché sembrava che Israele stesse per annettere i territori? Ha detto che la mano di Netanyahu era stata forzata dalle critiche globali contro Israele.

Naturalmente, secondo la prospettiva vittimistica di Stephens, annettere i territori è “comprensibile”.

Questa prospettiva vittimistica rende legittima qualunque cosa abbia fatto Netanyahu. Ho già denunciato ad alta voce quanti collaborano con Netanyahu per fuggire dal luogo del loro delitto culturale.

Si veda questo tweet di David Frum. Frum è stato dalla parte di Netanyahu contro il giornale [israeliano] progressista Haaretz. Dopo che Chemi Shalev di Haaretz ha twittato un editoriale del New York Times in cui si sosteneva che “Benjamin Netanyahu sta schiacciando la stampa libera di Israele,” Frum ha risposto:

“Il malefico piano di Netanyahu per schiacciare la stampa? Consentire l’esistenza di un giornale che non piace alla sinistra israeliana. Proprio così.”

Il lungo regno di Netanyahu non può essere compreso senza prendere in considerazione la protezione culturale garantita da questi giornalisti ebrei. Non era Jeffrey Goldberg l’esperto numero 1 al mondo su Israele e Netanyahu quando Obama e Kerry erano apparentemente così anti-israeliani? Dov’è andato? Chi meglio di Goldberg per spiegare come sia possibile che il corrotto uomo forte sacro della cultura dell’hasbara sia arrivato in un attimo a diventare dittatore degli ebrei? Ma, come previsto, una volta diventato capo-redattore dell’Atlantic [rivista USA progressista di cultura e politica estera, ndtr.]  sotto Trump, Goldberg ha perso ogni interesse in Israele e nelle questioni ebraiche che gli hanno fatto fare carriera.

Vediamo qualche altra azione “comprensibile” degli israeliani. Secondo la cultura dell’hasbara è comprensibile che gli ebrei israeliani lincino arabi. Leggete solo l’articolo di Jeffrey Goldberg del 2012 “Un quasi linciaggio a Gerusalemme”, in cui ha richiamato all’ordine la giornalista del NYT Isabel Kershner per aver definito “linciaggio” un’imboscata di ebrei contro un arabo. Ancora una volta, in base alla cultura dell’hasbara l’attacco contro arabi innocenti è comprensibile.

“Questo tipo di cose non sono realmente una novità. Avendo scritto un articolo sul corteo funebre di Meir Kahane, il rabbino razzista assassinato a New York più di 20 anni fa, posso testimoniare il fatto che teppisti ebrei, molti dei quali provenienti dai quartieri più poveri di Gerusalemme (e molti che sono discendenti di ebrei fuggiti o espulsi da Paesi arabi), si sono periodicamente scagliati contro arabi innocenti. Lo hanno fatto durante il funerale e in incidenti successivi.”

Notate il sottotesto: dopotutto questi ebrei provenivano da quartieri poveri e molti di loro erano discendenti di ebrei che fuggirono, o furono espulsi, da Paesi arabi. Quindi la loro vendetta è naturale.

Sono questo offuscamento e oscurantismo che DEVONO portare ai pogrom contro gli arabi che da allora sono diventati eventi quasi settimanali.

Il punto di vista della cultura dell’hasbara sull’innocenza di Israele di fronte all’eterno antisemitismo è la ragione per cui l’onesto Rosenberg e altri combattenti contro l’odio sono rimasti in silenzio mentre l’epoca dell’odio da anni ’30 si ripeteva di fronte a tutto il mondo. Il loro discorso vittimistico porta alla totale impunità e immunità di Benjamin Netanyahu. Si legga questo tweet di Eli Lake:

“Fantastico articolo di @LahavHarkov [giornalista israeliana del Jerusalem Post, ndtr.] su Tablet riguardo alla disponibilità di Israele nei confronti dei regimi autoritari e alla complicata posizione in cui mette lo Stato ebraico. Lo consiglio caldamente.”

C’è da meravigliarsi che Netanyahu sia andato in giro per il mondo a distribuire programmi di spionaggio informatico a regimi reazionari? I giornalisti della cultura dell’hasbara gli coprono le spalle. Secondo la prospettiva vittimistica Netanyahu è in una “posizione difficile” e cerca di proteggere Israele. Qualunque cosa Netanyahu abbia fatto è diventata “comprensibile” e nessuno lo sa più di Netanyahu. Come ho sostenuto, questo è stato il segreto del suo successo.

E dalla prospettiva della vittimizzazione ebraica Israele non può essere accusato di niente. Perché? Perché essere troppo duri con Israele “rafforzerà” gli antisemiti e provocherà il rischio della distruzione di Israele. Si veda questo tweet di Rosenberg per capire come la cultura dell’hasbara risponda alle accuse di apartheid contro Israele. Secondo la dottrina della cultura dell’hasbara, “la progressione dei tweet affatto sorprendente” è il passaggio da “Israele è colpevole di apartheid” all’idea che “l’Olocausto non ci sia mai stato”.

È proprio così? Quelli di noi che vivono nel mondo reale sanno che sono stati i soldi e la cultura dell’hasbara di Sheldon Adelson [miliardario ebreo statunitense, ndtr.] che hanno dettato la politica di Trump riguardo a Israele, per non parlare della costante pressione di suo [di Trump] genero a favore di Israele. Questo è un altro esempio del fatto che Israele e il popolo ebraico sono stati tolti dalla storia, come ho scritto nel mio ultimo articolo.

Quindi perché la cultura dell’hasbara pensa che così tanti ce l’abbiano e sempre ce l’avranno con il popolo ebraico? O, come dice Bari Weiss [giornalista del Wall Street Journal, del NYT e di Die Welt, ndtr.], perché “tutti odiano gli ebrei”?

La risposta della cultura dell’hasbara è che il popolo ebraico è migliore di qualunque altro popolo. Yair Rosenberg descrive quanto sia eccezionale il popolo ebraico.

“Nessuno che conosca gli ebrei rimarrà sorpreso che Israele abbia definito la protesta come un diritto fondamentale che è consentito persino durante un lockdown d’emergenza.”

È così che due anni fa Bari Weiss ha detto a Jake Tapper [noto giornalista televisivo USA, ndtr.] nel [centro culturale ebraico, ndtr.] 92d Street Y:

“La nostra unicità è ciò che continua a far impazzire la gente.”

L’etnocentrismo che si nota in questo articolo ha devastato la cultura politica ebraica. E non c’è una lotta ebraica più importante che smentire questa sacra prospettiva vittimista della cultura dell’hasbara.

 

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)

 




L’avvocato: “Un prigioniero palestinese riarrestato è stato torturato”

 Zena Al Tahhan

15 settembre 2021 – Al Jazeera

L’avvocato di Mohammad al-Ardah afferma che è stato privato di cibo, sonno, cure mediche ed ha subito “una durissima sessione di torture”.

Cisgiordania occupata – Durante il primo incontro con il suo avvocato da quando è stato fermato la scorsa settimana, almeno uno dei quattro prigionieri politici palestinesi riarrestati ha detto di essere stato sottoposto a violenze e torture fisiche e psicologiche dagli investigatori israeliani.

Dopo che l’intelligence israeliana ha tolto il divieto di colloquio degli avvocati con i prigionieri a cinque giorni da quando sono stati riarrestati, mercoledì l’avvocato Khaled Mahajneh, del collegio di difesa della Commissione per la Questione dei Detenuti dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) ha incontrato il suo cliente Mohammed al-Ardah.

Dopo essere uscito dal centro di detenzione e aver visto il suo cliente, che a quanto ha detto è stato privato di cibo, sonno e cure mediche mentre subiva una serie di interrogatori intensivi, Khaled Mahajneh ha rilasciato una commovente intervista a Palestine TV [televisione ufficiale dell’ANP, ndtr.]

“Mohammed è stato sottoposto, e lo è ancora, a una pesante serie di torture,” ha detto Khaled. “Dopo il suo arresto Mohammed è stato portato nel centro di interrogatori di Nazareth, dove è stato interrogato in modo molto violento.

In una stanza piccolissima c’erano circa 20 investigatori dell’intelligence che gli hanno strappato tutti i vestiti, comprese le mutande, e lo hanno obbligato a rimanere nudo per molte ore. Poi gli hanno dato uno scialle per coprirsi i genitali e in seguito lo hanno trasferito nel centro per gli interrogatori di Jalama.”

Tagli ed escoriazioni”

L’avvocato ha detto che durante l’arresto le forze israeliane hanno picchiato Mohammed: “La sua testa è stata sbattuta per terra ed ora è ferito sopra l’occhio destro. Finora non ha ricevuto le cure mediche di cui ha bisogno. A seguito del tentativo di fuga e della caccia all’uomo da parte delle forze israeliane contro di lui e Zakaria Zubaidi, presenta tagli ed escoriazioni su tutto il corpo.”

Venerdì notte le autorità israeliane hanno annunciato il riarresto di Mahmoud Abdullah al-Ardah e Yaqoub Mahmoud Qadri, rispettivamente di 46 e 49 anni, nella periferia meridionale di Nazareth. Zakaria Zubeidi, 46 anni, e Mohammed al-Ardah, 39, sono stati arrestati sabato mattina nel villaggio palestinese di Shibli-Umm al-Ghanam. I quattro sono stati portati a Jalama per essere interrogati.

Erano tra i sei uomini, insieme a Ayham Nayef Kamanji, 35, e Munadel Infaat, 26, dei quali non si sa ancora dove si trovino, che sono scappati dalla prigione israeliana di Gilboa all’alba del 6 settembre.

Interrogatori giorno e notte”

Khaled Mahajneh ha detto che durante il loro incontro sei investigatori sono rimasti dietro Mohammed al-Ardah, incatenato mani e piedi. L’avvocato ha affermato di aver ripetutamente chiesto che venissero tolte le catene almeno dalle braccia di Mohammed, ma gli agenti hanno rifiutato di farlo.

Secondo Khaled, da quando è stato riarrestato a Mohammed per quattro giorni non è stato dato cibo e non ha dormito più di 10 ore a causa delle continue sessioni di interrogatorio.

“Da sabato è stato sottoposto a interrogatori giorno e notte… È stato interrogato a tarda notte e alle prime ore del mattino,” ha affermato Khaled. “Non vede il sole, o la luce, o il vento. Quando l’ho incontrato mi ha chiesto se fosse pomeriggio, non sapeva che era mezzanotte.”

L’avvocato ha detto che Mohammed è tenuto in una cella “non più grande di 2 metri per 1,” vive “sotto sorveglianza 24 ore su 24,” e “ogni giorno è stato interrogato da dieci poliziotti”.

In un’altra intervista postata su Facebook l’avvocato Ruslan Mahajneh, che la stessa notte ha incontrato Mahmoud al-Ardah, ha detto che il detenuto gli ha raccontato di essere stato interrogato varie volte dopo l’arresto.

“Sono stati arrestati venerdì notte. Gli interrogatori sono durati dal venerdì – sono arrivati a Jalama tra mezzanotte e l’una, e l’interrogatorio è continuato fino alle 8 del mattino,” ha detto.

“Dopodiché sono andati a dormire. L’interrogatorio varia, viene interrogato ogni giorno tra le 7 e le 8 ore. Ma di notte dorme. Dice che non sono stati torturati,” ha affermato Mahajneh.

Secondo un comunicato della commissione dell’ANP, l’avvocato Avigdor Feldman ha incontrato Zakaria Zubaidi a mezzanotte di mercoledì.

“È risultato che, durante il suo arresto con il prigioniero Mohammed al-Ardah, il detenuto Zubaidi è stato picchiato e maltrattato, provocando la rottura della mandibola e di due costole,” ha affermato la commissione.

Zubaidi, continua il comunicato, “è stato trasferito in un ospedale israeliano e dopo il suo arresto gli sono stati somministrati antidolorifici” e “in seguito alle percosse e ai maltrattamenti tutto il suo corpo è coperto di lividi ed escoriazioni.”

Benché nel 1999 la Corte Suprema israeliana abbia vietato l’uso della tortura, gli investigatori, in particolare dei servizi di intelligence, hanno continuato ad usare violenza contro i detenuti palestinesi, che i tribunali hanno retroattivamente approvato. I quattro prigionieri sono sottoposti, da parte dei servizi di intelligence in collaborazione con l’unità 443 Lahav della polizia, a interrogatori che secondo gli avvocati possono durare fino a 45 giorni.

Sabato i prigionieri sono comparsi separatamente davanti al tribunale di Nazareth, che ha deciso di estendere la loro detenzione fino al 19 settembre per “completare l’indagine”.

Processi giudiziari

Secondo la commissione dell’ANP, durante l’udienza di sabato contro i quattro sono state presentate molte accuse indiziarie: “Evasione, favoreggiamento in una evasione, complotto per commettere un’aggressione, partecipazione a un’organizzazione ostile e fornitura di servizi ad essa.”

Dopo l’udienza Khaled Mahajneh ha detto ad Al Jazeera che le autorità si sono rifiutate di fornire informazioni riguardo al “complotto per commettere un’aggressione”, sostenendo che la documentazione è segreta.

Nella sua intervista con Palestine TV Khaled ha affermato che Mohammed al-Ardah “respinge totalmente le accuse che la sicurezza sta cercando di imputargli.” Mohammed avrebbe detto a Khaled che “avrebbe potuto fare qualunque cosa nei cinque giorni” di libertà, ma “voleva essere libero e camminare per le strade della Palestina occupata nel 1948.”

In base alle leggi internazionali un prigioniero di guerra che scappa dalla prigione “è passibile solo di una punizione disciplinare,” cioè non possono essere comminati altri anni di carcere in aggiunta alla sentenza iniziale, anche se si tratta di una fuga recidiva.

Secondo gli avvocati in precedenti episodi in cui carcerati palestinesi sono scappati da prigioni israeliane e sono stati riarrestati molti hanno dovuto affrontare misure punitive, come lunghi periodi in isolamento, ma non hanno subito un allungamento della pena.

La maggioranza dei palestinesi vede i detenuti nelle carceri israeliane, che sono 4.650 palestinesi, compresi 200 minorenni e 520 sottoposti a detenzione amministrativa, cioè senza processo o accuse specifiche, come prigionieri politici che sono incarcerati a causa dell’occupazione militare israeliana o per la loro resistenza ad essa.

Prima di evadere dalla prigione quattro dei sei detenuti sono stati condannati all’ergastolo, mentre due erano detenuti in attesa di un processo militare.

I condannati sono stati arrestati tra il 1996 e il 2006 e sono stati incarcerati per aver compiuto attacchi contro militari o civili israeliani. Cinque di loro sono affiliati all’organizzazione palestinese Jihad Islamica, mentre uno è un importante membro dell’ala militare di Fatah, il gruppo palestinese che controlla l’ANP.

Dopo che i detenuti sono scappati attraverso un tunnel che sbucava a pochi metri dal muro della prigione, le forze israeliane hanno lanciato un’enorme caccia all’uomo per cercarli ed hanno arrestato membri delle rispettive famiglie.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Timori per i palestinesi in sciopero della fame che protestano contro la detenzione

Redazione Al Jazeera

14 settembre 2012 Al Jazeera

I detenuti palestinesi progettano scioperi della fame in massa a sostegno dei fuggitivi riarrestati e contro le loro pessime condizioni di detenzione.*

*Nota Redazionale . Lo sciopero della fame progettato per sabato 18 settembre è stato annullato in seguito alla sospensione dei provvedimenti punitivi dell’autorità carceraria israeliana.

Dura, Cisgiordania occupata – La tensione cresce da mesi, ma la situazione potrebbe presto esplodere in quando la rabbia per il trattamento dei prigionieri palestinesi da parte di Israele è sul punto di esplodere.

Ciò che sta anche accrescendo la rabbia palestinese è il deterioramento della salute di sei palestinesi in sciopero della fame, che protestano contro la loro detenzione amministrativa ovverosia detenzione senza processo.

I palestinesi sono esacerbati dalle misure punitive inflitte dall’Israel Prison Services (IPS) [servizio penitenziario israeliano] in seguito alla fuga e alla recente cattura di prigionieri palestinesi di alto profilo dalla prigione di Gilboa, nel nord di Israele.

Kayed Fasfous, Miqdad Qawasmeh e Hisham Abu Hawash di Hebron; Raik Bisharat di Tubas; Alla al-Araj di Tulkarem; e Shadi Abu Aker di Betlemme stanno facendo uno sciopero della fame prolungato, rifiutandosi di mangiare fino a quando le autorità israeliane non li informeranno di cosa sono stati accusati e di quando saranno rilasciati.

Fasfous, 32 anni – in sciopero della fame da oltre 60 giorni – rifiuta anche sale e vitamine e beve solo acqua. Ex bodybuilder, ha perso 30 kg e il suo peso è ora sceso a 40 kg.

È stato trasferito dalla prigione di Ofer vicino a Ramallah, dove era stato imprigionato dal suo arresto nel settembre 2020, al Ramle Hospital in Israele.

Non è in grado di camminare, è su una sedia a rotelle poiché le condizioni del suo cuore e di altri organi vitali continuano a deteriorarsi”, ha detto ad Al Jazeera suo fratello Khalid Fasfous.

Nessuno della sua famiglia ha potuto fargli visita e la Croce Rossa non ha potuto vederlo poiché il giorno della loro visita è stato spostato dal carcere di Ofer.

“Sto aspettando cattive notizie su di lui da un momento all’altro”, ha detto sua madre Fawzia Fasfous. “Non riesco a dormire la notte chiedendomi dove sia e cosa gli sia successo.”

I prigionieri della Jihad islamica si sono scontrati ripetutamente con le autorità dell’IPS in diverse carceri, dando fuoco alle celle delle prigioni.

Tuttavia, nonostante la brutale repressione dei disordini da parte della famigerata unità Masada dell’IPS – e l’invio di alcuni prigionieri in isolamento e il trasferimento forzato di molti altri – centinaia di altri prigionieri di tutto lo spettro politico palestinese si stanno preparando a iniziare uno sciopero della fame di massa dalla fine della settimana a sostegno dei fuggitivi riarrestati e di altri compagni di prigionia.

L’avvocato di Fasfous non è stato in grado di vedere il suo cliente poiché è in detenzione amministrativa.

Tutti i fratelli Fasfous sono stati posti in detenzione amministrativa nel corso degli anni.

In due occasioni, quando un altro fratello, Mahmoud Fasfous è stato arrestato nella casa di famiglia, sua moglie è stata aggredita dai soldati israeliani, provocandole l’aborto in entrambi i casi.

“Prove segrete”

La detenzione amministrativa è una procedura che consente alle forze di occupazione israeliane di trattenere i prigionieri a tempo indeterminato sulla base di informazioni segrete senza formulare accuse e garantire loro un processo, ha affermato l’organizzazione dei prigionieri palestinesi Addameer [organizzazione non governativa palestinese che monitora il trattamento dei prigionieri palestinesi arrestati in Cisgiordania dalla potenza occupante e fornisce assistenza legale, ndt].

“Le informazioni segrete o le prove non sono accessibili al detenuto né al suo avvocato e la detenzione amministrativa può, secondo gli ordini militari israeliani, essere rinnovata ogni sei mesi per un tempo illimitato”, ha affermato l’organizzazione per i diritti dei prigionieri.

L’organizzazione per i diritti dei prigionieri ha affermato che questa pratica è stata varata in seguito alla situazione politica nella Palestina occupata e al movimento palestinese di protesta contro l’ininterrotta occupazione israeliana dei territori palestinesi occupati nel 1967.

“Sebbene l’uso della detenzione amministrativa in modo diffuso e sistematico sia vietato dal diritto internazionale, l’occupazione israeliana utilizza la detenzione amministrativa come strumento per punire collettivamente i palestinesi”, ha affermato Addameer.

Attualmente ci sono 520 palestinesi in detenzione amministrativa.

Saba Abu Hawash, due anni, non riconoscerebbe suo padre Hisham se lo vedesse.

“Non vede suo padre da quando aveva qualche mese”, ha detto ad Al Jazeera Aisha Abu Hawash, la moglie di Hisham Abu Hawash in sciopero della fame.

Abu Hawash, un operaio edile, è in detenzione amministrativa dal suo arresto nell’ottobre 2020.

Suo figlio Izzadeen, sei anni, ha un grave problema ai reni e deve andare regolarmente in ospedale per cure.

Tutti e cinque i bambini hanno bisogno del padre non solo per il supporto emotivo, ma anche per provvedere a loro. Non capiscono cosa sta succedendo e chiedono ripetutamente dove sia il loro padre”, ha detto Aisha.

Il fratello di Hisham, Emad, dice che la famiglia è priva di notizie da quando ha cominciato lo sciopero della fame 27 giorni fa, dato che non sanno dove sia e in quali condizioni perché la Croce Rossa non ha ancora potuto fargli visita e le autorità israeliane si rifiutano di rilasciare qualsiasi informazione.

“Sappiamo che è stato messo in detenzione amministrativa nella prigione di Ofer, ma da quando ha iniziato il suo sciopero della fame non sappiamo se è ancora in isolamento o se è stato trasferito in ospedale e siamo estremamente preoccupati per lui”, Emad ha detto ad Al Jazeera

“Ho scritto alla Croce Rossa e all’ufficio per i diritti umani delle Nazioni Unite spiegando la nostra disperazione, ma non ho avuto notizie nemmeno da loro “, ha detto Emad

Pertanto, consideriamo questo un caso di sparizione forzata. Facciamo appello per avere qualsiasi informazione sulla sua situazione”

La violenza si intensifica

La rabbia dei palestinesi è cresciuta in modo esponenziale ad ogni sviluppo relativo alla questione dei prigionieri, poiché ogni famiglia ha avuto almeno un suo membro arrestato e imprigionato.

Dalla fuga dei sei prigionieri dalla prigione di Gilboa una settimana fa, scontri sono scoppiati ogni giorno in tutta la Cisgiordania occupata; l’intelligence israeliana ha riferito di dozzine di incidenti con lancio di pietre, sparatorie, accoltellamenti, lancio di ordigni incendiari, bombe fatte in casa piazzate per le strade, razzi lanciati dalla Striscia di Gaza e altri attacchi contro le forze di sicurezza e i coloni israeliani

Cinque dei fuggitivi erano membri della Jihad islamica. L’IPS ha dichiarato pubblicamente di non essere in grado di controllare i prigionieri della Jihad islamica e di aver faticato per creare profili di intelligence su di loro.

L’altro fuggitivo era Zacharia Zubeidi. Dopo il suo nuovo arresto ha dovuto essere ricoverato in ospedale; la sua famiglia ha detto che gli è stata rotta una gamba e che ha subito altre ferite durante il suo interrogatorio.

Due dei fuggitivi sono ancora in fuga.

Inoltre, sembra che l’IPS non avrà solo a che fare con i riottosi prigionieri della Jihad islamica, poiché centinaia di detenuti di Fatah hanno rilasciato una dichiarazione in cui affermavano che intendevano unirsi a uno sciopero della fame in corso a partire da venerdì a sostegno di tutti i prigionieri.

Hanno avvertito che avrebbero intensificato le loro azioni di protesta in modo progressivo fino a quando le autorità israeliane non avessero cessato le loro misure punitive. Se uno degli scioperanti della fame dovesse morire nel frattempo, ciò potrebbe incendiare la polveriera della Cisgiordania.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Facebook mi ha bloccata per aver chiamato eroe l’evaso da Gilboa Zakaria Zubeidi

Orly Noy

14 Settembre 2021 – Middle East Eye

Il mio appoggio pubblico ad uno dei prigionieri evasi ha provocato clamore tra gli israeliani. Il mio crimine? L’ho chiamato eroe e ho detto che capisco perché i palestinesi facciano ricorso alla lotta violenta

Entro un’ora dal mio post su Facebook relativo a Zakaria Zubeidi, uno dei sei prigionieri palestinesi che recentemente sono evasi dal carcere di Gilboa e uno dei quattro in seguito catturati, Facebook mi ha bloccata per tre giorni per aver violato le sue “linee guida della comunità”.

Non sono stata particolarmente sorpresa. Sapevo che molti israeliani avrebbero immediatamente segnalato il post e sarebbero riusciti a farlo cancellare. Il motivo è che io insisto nel considerare Zubeidi ed i suoi compagni dei combattenti per la libertà e non dei terroristi. Ed insisto nel delineare il contesto del tragico ed eroico percorso della vita di Zubeidi.

Tale contesto è descritto limpidamente in ‘I ragazzi di Arna’, il film del 2003 di Juliano Mer-Khamis sul lavoro di sua madre, Arna Mer-Khamis, e sul suo progetto del Freedom Theatre (Teatro della Libertà) degli anni ’90 per i ragazzi del campo profughi di Jenin.

I giovani partecipanti al progetto ci vengono presentati come ragazzi sorridenti che si trasformano gradualmente in combattenti determinati, molti dei quali sono stati alla fine uccisi. Uno dei ragazzi di Arna è Zakaria Zubeidi, che ha in seguito raggiunto lo status di super ricercato dalle forze di sicurezza israeliane ed è considerato dall’opinione pubblica israeliana come il perfetto terrorista.

Nel post rimosso da Facebook ho definito Zubeidi un eroe. Non solo perché ha lottato per la libertà del suo popolo, ma anche perché ogni palestinese che sopravvive all’occupazione e insiste nel continuare a vivere è un eroe – anche se non ha mai lanciato neanche una pietra.

La famiglia di Zubeidi ha donato parte della propria casa per le prove del Freedom Theatre. Sua madre e suo fratello sono stati in seguito uccisi dall’esercito israeliano e lui infine ha preso le armi per combattere per la libertà. Noi, il pubblico israeliano, siamo quelli (così ho scritto) che dovrebbero rendere conto della trasformazione compiuta da Zubeidi, uno di quei ragazzini sorridenti del film.

Stupore e indignazione

Ovviamente ciò è estremamente improbabile. Il pubblico israeliano rifiuta drasticamente di riconoscere il contesto della lotta palestinese e si stupisce quando qualcuno osa anche solo parlarne. Questo stupore ha improntato la risposta israeliana quando è uscita la notizia dell’evasione dei sei prigionieri da Gilboa: in qualche modo ci hanno ingannati, ma come? Noi siamo così bravi e così forti – noi siamo invincibili!

Lo stupore e l’indignazione sono tipici della reazione israeliana ogni volta che i palestinesi riescono ad ottenere una vittoria contro il regime israeliano ed il suo sofisticato, potente, articolato sistema di oppressione. La straordinaria e riuscita azione palestinese provoca una meravigliata protesta da parte degli israeliani del genere: ‘non fanno un gioco corretto’.

Dal punto di vista israeliano le regole di questo gioco stabiliscono che la nostra parte è quella che conquista, schiaccia, umilia, espelle, esilia, arresta, incarcera, preme il grilletto ed uccide. Il loro ruolo (dei palestinesi, ndtr.) è di essere sconfitti, schiacciati, espulsi, incarcerati e di morire. Che cosa gli dà il diritto di violare questa equivalenza tra ebraismo e democrazia?

E’come se Golia dovesse vedere il mondo come lo vedeva Davide ed insistesse nel considerarsi una vittima, anche quando infierisce sul debole e ignora il diritto internazionale. Per esempio, imprigionare un abitante dei territori occupati al di fuori di quei territori è una violazione del diritto internazionale. L’incarcerazione di Zubeidi e dei suoi amici a Gilboa è stata essa stessa illegittima e un crimine di guerra.

Quando sei un Golia che si percepisce come un Davide, sei cieco rispetto all’eroismo di coloro che stai calpestando, quelli che impugnano una fionda contro il tuo immenso potere. Né puoi comprendere il terribile prezzo che pagano per essersi comportati così – come i ragazzi del Freedom Theatre di Jenin, la maggior parte dei quali hanno pagato con la vita.

Yusuf per esempio era un ragazzo del Freedom Theatre. Durante la seconda Intifada, dopo che una granata ha colpito un’aula della scuola, Yusuf si è trovato a portare in braccio una ragazzina che è morta dopo pochi minuti. I suoi amici dicono che quell’esperienza lo ha completamente cambiato. Ha smesso di sorridere, di ridere, è diventato apatico. Poi, pur essendo del tutto ateo, si è unito alla Jihad islamica, ha imbracciato le armi, è andato con un amico a Hadera nel centro di Israele ed ha aperto il fuoco, uccidendo quattro persone e ferendone 30. In risposta la polizia ha ucciso sia Yusuf che il suo compagno.

Non mi arrenderò mai’

Poi c’è Ashraf, nel film un dolce ragazzo e nel gruppo teatrale un attore importante. In una scena, dopo che l’esercito israeliano ha distrutto la casa della famiglia del suo vicino Alaa, Ashraf fruga tra le macerie per recuperare qualcuna delle cose del suo amico. Scatto in avanti e si sente Alaa che descrive come Ashraf in seguito sia morto combattendo contro le forze israeliane nella battaglia di Jenin nel 2002. Residenti armati hanno preso posizione nell’edificio che un tempo ospitava il teatro ed è là che è morto Ashraf.

O prendiamo Alaa, che da bambino ha visto distruggere la casa della sua famiglia. Vediamo un Alaa cresciuto, che spiega che lui non sarebbe mai stato catturato perché sarebbe “diventato libero o sepolto nella sua tomba”. Nella scena seguente vediamo il suo cadavere bruciato all’ospedale, circondato da amici e parenti in lutto, dopo che è stato colpito dalle forze armate israeliane nel novembre 2002, due settimane dopo la nascita del suo primo figlio.

E poi c’è lo stesso Zubeidi. “Non mi arrenderò mai”, dice nel film ai suoi amici. “Mai!” Ed effettivamente non lo ha mai fatto. E’stato catturato da un poliziotto armato fino ai denti alle dipendenze di un vile e codardo regime le cui incessanti e sadiche violenze sono attribuite a “necessità di sicurezza” e in cui la persecuzione di questi combattenti per la libertà è chiamata “eroismo”.

Perciò sì, per quanto incredibile possa essere per gli israeliani, un giorno la gente rinchiusa in un ghetto dove una morte lenta ha migliaia di facce tenterà di insorgere e rischierà la vita per farlo. Uno delle migliaia di prigionieri del ghetto potrebbe addirittura uccidere uno dei suoi carcerieri. E sì, il popolo i cui conquistatori lo incarcerano per anni in una prigione più materiale del ghetto potrebbe tentare di scappare ed una su decine di migliaia di persone potrebbe farcela. Sì, compresi quelli che hanno scelto la violenza.

Ricerca interiore

Perché qui c’è un’altra sorpresa: viviamo in una realtà molto violenta che, benché abbia due lati, non è affatto simmetrica. La violenza di una delle parti ha il fine di opprimere, di schiacciare, di sradicare, di stabilire la superiorità, mentre la violenza dell’altra parte è una ricerca di liberazione. Ecco come persino azioni che non dovrebbero mai avvenire diventano parte della lotta per la libertà.

Alla fine di questa settimana milioni di ebrei osserveranno il giorno più sacro dell’anno ebraico, lo Yom Kippur: un giorno di esame di coscienza e di ricerca interiore. Nella tradizione ebraica le nostre preghiere durante lo Yom Kippur ci permettono di ottenere il perdono per i peccati contro Dio, ma non per quelli che abbiamo commesso contro altri esseri umani. Solo le vittime stesse possono perdonarci per quelli.

In questo Yom Kippur dovremmo inginocchiarci di fronte ai milioni di palestinesi che abbiamo oppresso per decenni e domandare loro perdono dal profondo dei nostri cuori, mentre ci pentiamo sinceramente dei peccati che abbiamo commesso contro di loro. Come negli anni passati, tuttavia, non succederà nemmeno in questo Yom Kippur. L’esibizione di forza degli ebrei ha sostituito la loro moralità 73 anni fa.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Orly Noy è una giornalista e un’attivista politica che vive a Gerusalemme.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Nonostante un ricorso, ad ebrei di colore è stato ordinato di lasciare Israele entro due settimane

Almog Ben Zikri

11 settembre 2021 – Haaretz

Si prevede che la comunità presenterà appello contro la decisione, anche se, afferma l’Autorità per la Popolazione di Israele, tutte le richieste sono state riviste singolarmente e poi respinte.

L’Autorità per la Popolazione e l’Immigrazione di Israele ha respinto un appello presentato da 51 membri della comunità di ebrei israeliti [setta di afro-americani convinti di essere la dodicesima tribù di Israele, ndtr.] contro un ordine di espulsione ricevuto lo scorso aprile che intima loro di lasciare Israele entro 14 giorni. Il sindaco di Dimona, dove risiedono molti di loro, ha promesso di opporsi alla loro espulsione.

Le lettere inviate dall’Autorità sono datate 9 agosto, ma sono arrivate a destinazione solo lo scorso lunedì, alla vigilia di Rosh Hashanah [capodanno religioso ebraico, ndtr.]. Ora si prevede che la comunità presenterà appello a un tribunale amministrativo di Be’er Sheva contro la decisione.

Gli ordini di espulsione sono stati ricevuti in seguito all’istanza presentata nel 2015 dalla comunità all’Autorità, con cui chiedeva che le persone venissero regolarizzate dopo che si erano stabilite in Israele senza permesso. Alla comunità è stato chiesto di fornire all’Autorità una lista di persone senza status legale in Israele, ed essa lo ha fatto. In seguito l’Autorità ha chiesto a quei membri della comunità di lasciare il Paese.

Quindi i membri della comunità coinvolti hanno presentato appello. Sebbene l’Autorità per la Popolazione sostenga che ogni caso è stato esaminato singolarmente, tutti i ricorsi sono stati respinti. I membri della comunità ora hanno iniziato un procedimento giudiziario contro la loro deportazione. Omri Barbash, che insieme ad Avigdor Feldman rappresenta i membri della comunità, ha affermato che presenteranno ricorso in tribunale contro la decisione.

Una delle lettere di respingimento [del ricorso] che è stata mostrata ad Haaretz elenca le ragioni del rifiuto di una domanda presentata da A., un ventiduenne membro della comunità di ebrei israeliti che vive in Israele da dieci anni. Secondo il ministero degli Interni A. è arrivato in Israele con un visto turistico nel 2011, quando aveva solo 12 anni. La lettera non specifica se A. è arrivato solo o con la sua famiglia: “Da quando è scaduto il suo permesso A. è rimasto illegalmente in Israele, ha violato la legge,” afferma la lettera. Continua dicendo che, benché il centro della sua vita sia in Israele, ciò non giustifica il fatto di concedergli lo status legale nel Paese.

A differenza di A., alcune delle persone a cui è stato ordinato di lasciare Israele sono nate qui. In aprile Haaretz ha raccontato la storia di Hercules, 22 anni, nato in Israele da genitori arrivati nel 1998, ma mai regolarizzato. Dawn, la madre di Yahhlitahl, ha ricevuto un ordine di espulsione in aprile, che riguarda anche i suoi otto figli che vivono in Israele. “Quando ho ricevuto questa lettera mi sono disperato,” ha detto Hercules in aprile. “Sono nato e cresciuto qui, sono andato a scuola qui, non conosco nessun altro posto. La mia casa è qui, quindi perché me ne devo andare?”

In aprile l’Autorità per la Popolazione e l’Immigrazione ha affermato che l’espulsione è stata ordinata con il consenso dell’allora ministro dell’Interno Arye Dery. Il sindaco di Dimona Benny Biton si è appellato a Dery, chiedendogli di non espellere la comunità, che ha descritto come parte inseparabile delle città. “È inconcepibile che dopo così tanti anni debbano lasciare le loro case, per alcuni di loro il luogo di nascita,” ha scritto. “Avendo accompagnato questa comunità per anni, non permetterò che ciò avvenga.”

Il deputato del Meretz [partito della sinistra sionista, ndtr.] Mossi Raz ha definito ignobile la decisione dell’Autorità, affermando che i membri della comunità ebreo israelita sono parte integrante della società israeliana. “La loro comunità è qui e loro appartengono a questa terra. Questa espulsione può e deve essere bloccata,” ha detto.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Israele cattura quattro dei sei palestinesi scappati dal carcere di Gilboa.

Redazione di MEE

10 settembre 2021 – Middle East Eye

Forze israeliane hanno messo in atto una massiccia caccia all’uomo in seguito all’audace fuga dei prigionieri palestinesi dalla prigione di massima sicurezza lunedì scorso.

Media palestinesi e israeliani hanno informato che le forze israeliane hanno catturato quattro dei sei carcerati palestinesi che hanno fatto una rocambolesca evasione dal carcere di massima sicurezza di Gilboa all’inizio della settimana.

Dopo l’evasione di lunedì l’esercito israeliano ha inviato molti soldati nella Cisgiordania occupata e condotto una massiccia caccia all’uomo seguita dalla repressione contro i prigionieri palestinesi nelle sue prigioni, in quella che è stata vista dalle fazioni palestinesi e dalle associazioni per i diritti umani come una “punizione collettiva”.

La polizia israeliana afferma che Zakaria Zubeidi, ex- comandante di spicco delle Brigate dei Martiri di Al-Aqsa di Fatah, e Mohamed Qassem Ardah sono stati arrestati nei pressi della cittadina palestinese di Shibli–Umm al-Ghanam ore dopo che nel quartiere Jabal al-Qafzeh della città di Nazareth erano stati arrestati Mahmoud Abdullah Ardah e Yaqoub Mahmoud Qadri. 

Zubeidi e Mohamed Ardah sono stati trovati nascosti in un parcheggio per camion nei pressi di Nazareth.

Sabato gli avvocati dei quattro prigionieri hanno affermato che non gli è stato concesso di vedere i propri clienti e che l’intelligence israeliana continua a negare loro informazioni su di essi.

“Il nostro gruppo di avvocati sta facendo grandi e ininterrotti tentativi per verificare il destino dei quattro prigionieri che sono stati riarrestati dalle forze di occupazione, sapere quali siano le loro condizioni e dove siano detenuti,” ha affermato in un comunicato la Commissione Palestinese per le Questioni dei Detenuti. 

Uno degli avvocati, Khaled Mahajna, ha detto in un’intervista che il team legale intende sottoporre una richiesta urgente alla corte distrettuale di Lod per chiedere un incontro con i propri clienti.

“Finora non siamo riusciti a ottenere informazioni sulle loro condizioni di salute, fisiche e psicologiche,” ha affermato Mahajna.

In seguito alla fuga di lunedì dal carcere di massima sicurezza di Gilboa, le autorità israeliane hanno arrestato membri delle famiglie dei prigionieri, con quello che l’Associazione dei Prigionieri Palestinesi ha definito un tentativo di fare pressione sui fuggiaschi perché si costituissero.

Le autorità israeliane hanno lanciato una caccia all’uomo e intensificato la propria presenza militare in Cisgiordania, installando posti di controllo all’ingresso di città palestinesi, comprese Nablus, Jenin, Tulkarem e Qalqilya, dove personale della sicurezza pensa che i prigionieri potrebbero essere scappati.

La prigione di Gilboa si trova a 4 km a nord della Cisgiordania e a 14 km a ovest del confine israeliano con la Giordania. Giovedì funzionari giordani hanno smentito informazioni dei media secondo cui gli evasi sono entrati nel loro territorio.

Appello per uno sciopero generale

Sabato Fatah ha condannato la cattura dei quattro prigionieri, affermando che ciò non minerà la determinazione dei palestinesi e dei prigionieri palestinesi nella lotta contro l’occupazione israeliana.

“La brutale aggressione e il nuovo arresto di Zubeidi e dei suoi compagni da parte dell’esercito di occupazione e delle forze della sicurezza è una violazione delle leggi internazionali, che impongono che i detenuti debbano essere protetti e non maltrattati,” afferma in un comunicato. “Il governo israeliano è totalmente responsabile di ogni offesa inflitta alle vite dei nostri eroici detenuti.”

Nel contempo l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) ha affermato che in base alle leggi internazionali i detenuti palestinesi sono considerati prigionieri di guerra ed ha chiesto alla comunità internazionale di garantirne la sicurezza e di porre fine alle condizioni inumane nelle prigioni israeliane.

Secondo l’agenzia di notizie ufficiale palestinese Wafa, sabato mattina le forze israeliane hanno lanciato gas lacrimogeni e granate stordenti per disperdere un gruppo di studenti palestinesi che sfilavano in corteo verso l’ingresso settentrionale di Betlemme per protestare contro la cattura dei quattro prigionieri.

Attivisti e fazioni palestinesi hanno chiesto uno sciopero generale in Cisgiordania, Gaza, Gerusalemme e Israele in solidarietà con i prigionieri catturati. Attivisti hanno anche chiesto che sabato pomeriggio ci siano cortei di massa in tutti i Territori Palestinesi.

Repressione israeliana

Dopo l’evasione il Servizio Carcerario Israeliano (IPS) ha scatenato un giro di vite contro i prigionieri palestinesi, riducendo il tempo all’aperto a un’ora al giorno, chiudendo la mensa delle prigioni e riducendo il numero di carcerati che possono accedere ai cortili delle prigioni. Israele ha anche vietato le visite dei familiari per i detenuti palestinesi.

Le restrizioni hanno portato a un’accentuazione delle tensioni nelle carceri di Gilboa, Megiddo, Rimon e Ketziot, in Israele. L’IPS ha anche iniziato a spostare centinaia di detenuti legati alla Jihad Islamica.

Nella prigione di Ketziot, che si trova nella regione del Negev, nel sud di Israele, prigionieri palestinesi hanno dato fuoco a sette celle per protestare contro un’irruzione da parte di unità speciali e di soldati israeliani della vicina base militare.

Nel frattempo venerdì palestinesi hanno protestato in varie città della Cisgiordania occupata, a Gerusalemme est e nella Striscia di Gaza assediata in solidarietà con i prigionieri nelle carceri israeliane. Dopo la fine delle preghiere del venerdì, le forze israeliane hanno fatto irruzione nel complesso della moschea di al-Aqsa e hanno disperso un sit-in di protesta in solidarietà con i prigionieri, arrestando un giovane.

Alle porte del complesso, dopo essere stato gravemente ferito dal fuoco israeliano, è stato ucciso Hazem al-Jolani, medico del quartiere di Shuafat, a Gerusalemme est.

Secondo immagini diffuse sulle reti sociali, in seguito all’incidente le forze israeliane hanno chiuso la Porta dei Leoni di al-Aqsa e hanno fatto irruzione nella casa di Jolani a Shuafat.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Quelli di noi che sono sopravvissuti a Gaza sono sopraffatti dal timore della perdita

Fidaa Shurrab

6 settembre 2021 – +972 magazine

A mesi di distanza dai danni subiti dalle loro attività economiche di una vita a causa dell’ultima guerra, tre imprenditori palestinesi parlano delle loro difficoltà nel raccogliere le forze per ripartire.

In tutta la Striscia di Gaza la gente ti dirà che viverci richiede fede, forza e pazienza. Negli ultimi 12 anni Israele ha scatenato contro la popolazione assediata quattro guerre totali, senza contare le frequenti incursioni. Queste ripetute aggressioni, accentuate dalle restrizioni al movimento delle persone e dei beni attraverso i valichi con Israele e l’Egitto, gli unici punti di ingresso ed uscita da Gaza, hanno eroso le speranze delle persone e minato ripetutamente i tentativi di ricostruire le nostre vite tra le macerie.

Per questa ragione le storie dalla Striscia spesso riguardano la sofferenza, la perdita e il superamento delle difficoltà. La guerra di 11 giorni a maggio, che ha ucciso oltre 250 palestinesi e ne ha feriti migliaia a Gaza, ha solo aggravato le sfide che i palestinesi hanno affrontato in quel posto a causa di anni di blocco e, più di recente, di una devastante pandemia. Ciò ha comportato massacri e distruzioni, ha rubato ricordi e seminato disperazione nei nostri cuori. Benché i bombardamenti siano finiti, essi hanno lasciato un grande dolore. Quelli di noi che sono sopravvissuti sono sopraffatti dal timore della perdita.

Al di là della tragedia umana, la guerra “ha gravemente indebolito un’economia già ridotta a una frazione delle sue possibilità,” ha concluso un rapporto di luglio della Banca Mondiale, dell’Unione Europea e delle Nazioni Unite. Esso stima che il danno totale e le perdite subite a Gaza in seguito all’ultimo attacco siano tra i 290 e i 380 milioni di dollari.

Dietro a queste valutazioni ci sono le persone reali, imprenditori che hanno perso le aziende della loro vita o che devono ancora una volta modificare i propri progetti, lavoratori finiti nella disoccupazione e nella povertà, già molto alte a Gaza. Ecco tre delle loro storie.

Baraa Rantisi

L’espositore da banco di Flavor Cake [Torta Saporita] in genere è pieno di dolci glassati. Il suo sito vanta torte personalizzate con strutture in zucchero intrecciate sino a formare una scena di vita oceanica, o un camice da dottore, o una Minnie. Durante l’ultimo attacco contro Gaza nel negozio gli ingredienti sono andati a male. Dopo la guerra la pasticceria ha dovuto rimanere chiusa per altri 21 giorni, finché sono state rimosse le macerie nella zona, una delle principali vie di Gaza City.

Quando la pasticceria ha riaperto le vendite sono scese del 70%, afferma Baraa Rantisi, il proprietario. Il negozio, che in precedenza dava lavoro a 12 persone, ha dovuto licenziare metà del personale e ora i lavoratori rimasti sono pagati in base alle entrate giornaliere invece che con salari mensili, aggiunge. Nonostante le sfide, Rantisi spera che i palestinesi di Gaza possano rimettersi in piedi presto e che siano in grado di vedere la luce persino in mezzo alle tenebre.

Ahmed Abu Eskander

Ahmed Abu Eskander è proprietario di una fabbrica di prodotti plastici, che in precedenza dava lavoro a 27 persone, nella zona industriale di Gaza. Anche prima dell’ultima guerra il blocco gli rendeva difficile gestire la fabbrica, in quanto ci volevano mesi prima che Israele approvasse l’ingresso del materiale necessario.

L’assedio ha imposto difficoltà ad ogni aspetto dell’economia di Gaza,” spiega Abu Eskander. “A causa delle chiusure [dei valichi] ho dovuto aspettare almeno tre mesi per avere le materie prime di cui avevo bisogno. Prima della guerra ho ordinato nuovi macchinari, e sono ancora bloccati sul lato israeliano”, aggiunge.

In maggio i bombardamenti aerei israeliani hanno distrutto la fabbrica di Abu Eskander e un successivo incendio ha mandato in cenere quello che era rimasto. Tutti i dipendenti, alcuni dei quali lavoravano nella fabbrica da vent’anni, hanno perso il lavoro.

Abu Eskander stima la perdita economica in 1 milione di dollari. Per rispettare i suoi impegni con i clienti di Gaza anche in queste circostanze devastanti ha dovuto importare borse di plastica dall’Egitto, un altro costo imprevisto. Né lui né i suoi dipendenti sono riusciti a ricevere un indennizzo per le loro perdite.

Ci vorranno 10 anni per riavere la nostra vita, ma tutto ciò dipende dalla stabilità politica, che a Gaza non c’è”, dice Abu Eskander. La ricostruzione continuerà ad essere difficile finché la vita delle persone viene interrotta da chiusure, posti di blocco e distruzioni.

Yehiya Abu Jabal

I vivaci colori che una volta adornavano Zaghrouta, un negozio di vestiti da sposi e da sera, ora sono completamente svaniti. Il negozio, situato su via Remal, una delle più trafficate di Gaza, è stato danneggiato quando a maggio Israele ha bombardato l’edificio di 14 piani della torre Al-Shorouq, uno dei 4 edifici di notevole altezza distrutti dagli attacchi aerei israeliani.

Negli ultimi 5 anni ho investito tanti sforzi per estendere e far crescere i miei affari. Era uno dei negozi di vestiti da nozze più famosi,” afferma il proprietario Yehiya Abu Jabal.

A causa dell’epidemia di coronavirus e della chiusura dei saloni da matrimonio a Gaza le vendite sono state basse per mesi, spiega Abu Jabal. Tuttavia, quando il governo di Hamas ha iniziato a ridurre le restrizioni dovute al COVID-19, egli ha acquistato altri vestiti, vedendo l’opportunità di ridurre le perdite durante la stagione dei matrimoni di quest’estate. Ma gli acquisti sono stati inutili, afferma, l’ultima guerra ha distrutto il suo negozio e le sue speranze.

Ho perso circa 150.000 dollari. Davo lavoro a quattro dipendenti. Ora sono disoccupati. Anch’io sono senza lavoro,” dice.

La ricostruzione di Gaza è urgente, sottolinea Abu Jabal, in quanto tutti nella Striscia stiamo soffrendo. Non solo c’è bisogno di ricostruire, aggiunge, ma i valichi devono essere aperti e l’assedio deve finire.

Mi sento impotente e senza speranza,” si lamenta. “Ci vogliono delle vere soluzioni. Basta scene di distruzione. Meritiamo una vita normale.”

Fidaa Shurrab è una funzionaria per i progetti e i finanziamenti della Atfaluna Society for Deaf Children [ong che si occupa di bambini sordi e dei loro problemi di apprendimento, ndtr.] di Gaza. Ha lavorato con molte ong nella Striscia ed è anche traduttrice e giornalista freelance.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Amici, studenti-prigionieri

Israa Musaffer

6 settembre 2021 – We Are Not Numbers

Sto parlando della libertà che non ha prezzo, la libertà che è essa stessa il prezzo”.

La citazione di Ghassan Kanafani è la prima cosa che mi è venuta in mente quando ho saputo che miei colleghi ed amici erano stati imprigionati.

Alla fine del 2019 ho iniziato il mio ultimo semestre all’ università di Birzeit, nella Cisgiordania palestinese, seguendo con ansia le mie lezioni in attesa del giorno della laurea. Tuttavia le circostanze hanno impedito che questa gioia si realizzasse ed una di tali circostanze è stato l’arresto dei miei amici.

Vedevo questi colleghi ogni giorno al campus dell’università, sentivo le loro voci, le loro risa e il loro chiamarsi per nome a vicenda. Ma le forze militari israeliane ci hanno di fatto impedito di vedere i loro sorrisi nel campus universitario ed hanno impedito alla luce del sole di raggiungere i nostri occhi.

I miei amici erano impegnati nelle elezioni studentesche, ma gli israeliani non hanno fornito chiare motivazioni per il loro arresto, salvo desumere nel corso degli interrogatori che erano membri di un gruppo terroristico.

L’amore per la nostra patria è forse un crimine per cui uno studente universitario possa essere imprigionato e impossibilitato a terminare il suo percorso di studi?

La nostra nazionalità palestinese è un peccato per il quale meritiamo di essere puniti ogni giorno?

Noi resistiamo, amiamo la vita e risplendiamo nonostante le sofferenze. Ecco come è la vita di uno studente palestinese quando viene deliberatamente privato dell’attività accademica.

Io non ho vissuto direttamente la dura esperienza del carcere, ma ho compreso la sua amarezza quando ho parlato con i miei amici ed ho ascoltato da loro la sofferenza fisica e psicologica che hanno patito nelle buie celle.

Lo spirito della resistenza

Vedevo spesso il mio amico Amir Hazboun ridere nel campus universitario, solido come l’acciaio, un amico fedele per i suoi compagni. Hazboun era al suo quarto anno di università, si stava specializzando in ingegneria meccanica.

Nei primi momenti dell’arresto provi una forte paura, soprattutto se è la tua prima esperienza”, mi ha poi detto Amir. “Non sei abituato ad avere un fucile puntato contro di te e ad essere gettato violentemente a terra. In questi momenti inizia l’ignoto. Cominci a porti domande del tipo: Sto sognando? Dove andrò? Mi picchieranno? Come mi comporterò durante l’interrogatorio? Ti attraversa la mente una sequenza di immagini e ricordi.

Dopo un certo tempo in cui subisci pestaggi e violenze, incominci a cercare di non spezzarti, anche se ti senti sopraffatto. Quanto alle manette e agli occhi bendati, dopo un po’ incominci a cercare di adattarti. Non puoi camminare se non c’è uno dei soldati che ti tiene e cammina con te, e allora hai una sensazione di impotenza e debolezza. Ti buttano fuori al freddo per ore: allora ogni prigioniero sente di perdere le forze poco a poco, ma cerca anche di mantenere la calma e in tutto il periodo di detenzione loro tentano di isolarti e di indebolirti, con tutta la sofferenza che ne deriva. Il prigioniero cerca di mantenersi saldo ricordando alcuni episodi e situazioni che dimostrano la sua forza, e l’amore della gente per lui, e questo aiuta nella fase di scontro.”

Uno studente di soli vent’anni merita questi tormenti? Qualunque altra persona li merita?

Ricordo le elezioni universitarie in quel semestre e le attività studentesche di quel periodo, l’atmosfera democratica in tutta l’università e gli studenti che esprimevano il desiderio di scegliere i propri rappresentanti di fronte all’amministrazione dell’università. La partecipazione degli studenti nel processo decisionale è uno dei loro diritti all’interno dell’università, perciò perché l’occupante israeliano persegue gli studenti per la loro legittima partecipazione politica?

Ho molti amici e colleghi ancora in carcere, soggetti a violenze quotidiane, soprattutto nel corso degli interrogatori in cui possono essere soggetti a forme brutali di tortura fisica e psicologica.

Sottoposti a interrogatori brutali

Q.M. era uno studente al terzo anno, specializzando in scienze informatiche, quando è stato arrestato il 2 settembre 2019. Ha trascorso un anno e mezzo in un carcere in Israele. Anche lui ha subito una dura esperienza fin dal momento dell’arresto.

Mi ha chiesto di non usare il suo nome per esteso per via delle minacce che gli studenti universitari palestinesi subiscono ogni giorno a causa dell’occupazione.

Durante la nostra conversazione Q.M. mi ha spiegato come si è svolto il suo brutale arresto, improvviso e scioccante, quando la porta di casa sua è stata sfondata. Ha descritto la violenza e le grida, oltre alla pressione psicologica e le percosse fisiche di fronte alla sua famiglia.

Una delle cose che mi hanno detto che mi è rimasta in mente”, dice”, è questa: ‘Voi palestinesi non siete niente e non diventerete mai esseri umani in tutta la vostra vita. Voi siete animali e a noi piace darvi la caccia’”.

Q.M. ha descritto la paura e l’angoscia che ha provato durante gli interrogatori, quando venivano fatti i nomi dei suoi amici e familiari per fargli pressione perché confessasse qualcosa che non aveva fatto. “Durante il mio arresto, mentre mi caricavano sulla jeep militare, i soldati hanno appositamente nominato alcune persone che conosco che non erano agli arresti. Parlavano di un’operazione a cui ritenevano che io avessi partecipato. Hanno registrato un video di loro che mi accusano in ebraico di far parte del gruppo che ha compiuto questa operazione” – stavano cercando di spingerlo a confessare – “ma io sono riuscito a capire di che cosa stavano parlando perché conosco l’ebraico. Aspettavo il momento in cui avrei potuto difendermi. Ho detto che non avevo fatto nulla del genere perché non vi avevo assolutamente partecipato.”

Gli aspetti peggiori del trattamento israeliano durante l’arresto e la detenzione sono i problemi di salute e psicologici che patiscono i detenuti. “Durante l’interrogatorio mi hanno rotto parecchi denti e il dolore era molto forte, per cui non potevo mangiare il cibo che mi portavamo”, racconta Q.M. “Per tutto il periodo dell’interrogatorio ho sofferto per un dente rotto senza ricevere le cure necessarie. Mi davano solo un analgesico al giorno e quando ho finito l’interrogatorio mi hanno portato in una misera clinica dove mancavano gli standard sanitari di base e dove mi hanno estratto i denti senza alcuna anestesia.”

Amir e Q.M. sono solo due tra i tanti. Alla fine di marzo 2021 il numero di prigionieri e detenuti nelle carceri israeliane è arrivato a circa 4.450, comprese 37 prigioniere donne. Tre di loro sono giovani colleghe dell’università, mentre ci sono circa 140 minori detenuti.

L’occupazione israeliana crea ostacoli alla nostra vita di studenti universitari e siamo in ogni momento passibili di essere arrestati senza accuse.

Tutto ciò richiede l’intervento delle organizzazioni per i diritti umani. Le voci degli studenti palestinesi devono essere ascoltate. Io sono una studentessa palestinese. Ho il diritto di portare a termine la mia educazione in modo pacifico ed ho il diritto di sentirmi sicura all’interno delle mura universitarie. È mio diritto alzare la voce e dire: “Merito una vita decente, non sono un numero che viene citato nelle notizie dei quotidiani.”

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Demonizzare Durban, Oscurare il Razzismo

Richard Falk

EDITORIALE

16 agosto 2021 TRANSCEND Media Service

[Nota introduttiva: il post seguente descrive la campagna portata avanti negli ultimi 20 anni dalla propaganda filo-israeliana, sia del governo che delle ONG, per diffamare gli sforzi antirazzisti delle Nazioni Unite come una nuova specie di antisemitismo. È uno sforzo perverso che protegge le politiche e le pratiche razziste di Israele nei confronti del popolo palestinese dietro una perversa tesi secondo cui le critiche a queste politiche dovrebbero essere viste come antisemitismo. Il pezzo è stato originariamente pubblicato su Transcend Media Service e appare qui nella sua forma originale. Per il link all’originale

Contesto

16 agosto 2021 – È stata avviata un’insidiosa campagna per demonizzare la sponsorizzazione delle Nazioni Unite di un’iniziativa antirazzista per tenere una conferenza di un giorno alle Nazioni Unite il 22 settembre 2021, continuazione di quello che è diventato noto come il “Processo di Durban”. Esso identifica lo sforzo in corso negli ultimi vent’anni di attuare la Dichiarazione di Durban e il relativo Programma d’Azione adottato alla Conferenza Mondiale sul Razzismo, Discriminazione Razziale, Xenofobia and Intolleranza correlata tenutasi a Durban, in Sudafrica 20 anni fa.

La Conferenza di Durban fu controversa ancor prima che i delegati si riunissero, anticipata come un forum in cui Israele, il colonialismo, l’eredità della schiavitù e la vittimizzazione di etnie vulnerabili sarebbero stati illustrati e condannati. Era formalmente sotto gli auspici del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, il cui Alto Commissario, Mary Robinson, fu sottoposta a pressione dall’Occidente per annullare l’evento. Essa rifiutò, e invece di essere elogiata per la sua indipendenza, questa ex presidentessa di alti princìpi dell’Irlanda fu privata del sostegno di Washington per la riconferma a un secondo mandato come Alto Commissario. Israele e gli Stati Uniti si ritirarono dalla conferenza e boicottarono gli eventi di follow-up minori nel 2009 e nel 2011, il che spiega perché il prossimo raduno è indicato come Durban IV.

Alla conferenza del 2001, messa in ombra dagli attacchi dell’11 settembre agli Stati Uniti, avvenuti pochi giorni dopo la chiusura di Durban, molti discorsi furono pronunciati da rappresentanti di vari governi, inclusi molti che criticarono Israele per le politiche e le pratiche razziste perpetrate contro il popolo palestinese, inclusa l’accusa che il sionismo fosse una forma di razzismo, che era stata precedentemente affermata nella Delibera della Assemblea Generale (vedi GA Res. 3379 approvata con 72-35 voti e 32 astenuti, A/RES/3379, 10 novembre 1975; revocata nel 1991 senza spiegazione nella GA Res. 46/96). Oltre alla Conferenza intergovernativa di Durban si teneva un Forum parallelo delle ONG dedicato alla stessa agenda in cui furono pronunciati accesi discorsi e dichiarazioni. Eppure il tema di maggiore stimolo fu fornito dalla vittoriosa lotta contro l’apartheid in Sud Africa che veniva a legittimare sia l’evento sia l’attuale necessità di affrontare la lunga incompiuta agenda antirazzista.

Il risultato a Durban

I principali risultati formali della Conferenza di Durban furono due significativi e comprensivi testi conosciuti come la Dichiarazione di Durban e il Programma d’Azione di Durban. Il processo di Durban successivo al 2001 ha riguardato più o meno esclusivamente l’attuazione di questi due documenti formali delle Nazioni Unite, che sono la rappresentazione ad ampio spettro di tutta una serie di rimostranze derivanti dal maltrattamento di varie categorie di persone vulnerabili dovuto alla guerra all’applicazione della legge sui diritti umani e attraverso una varietà di mezzi, tra cui l’istruzione e l’attivismo della società civile, delle ONG e persino del settore privato. Non c’è assolutamente alcuna base per lamentarsi del fatto che Israele sia stato criticato o che le disposizioni dei documenti della conferenza possano essere correttamente interpretate come antisemite o addirittura anti-israeliane, eppure, come sarà mostrato di seguito, una tale campagna è stata incessantemente condotta per screditare tutto ciò che Durban significa, quasi esclusivamente a causa del suo presunto pregiudizio estremo nei confronti di Israele.

Una lettura corretta di entrambi i documenti porterebbe a concludere che a Israele sono state effettivamente risparmiate critiche giustificabili, molto probabilmente a causa delle pressioni esercitate sia sull’ONU che sui media prima e durante la conferenza. Se osserviamo i testi, abbiamo l’impressione che le sensibilità israeliane siano state comprese e rispettate. L’apartheid e il genocidio sono stati condannati in termini generali, ma senza alcun riferimento negativo a Israele, e di fatto un’inclusione che ha individuato Israele in un modo che avrebbe essere accolto favorevolmente. Nel par. 58 della Dichiarazione troviamo la seguente affermazione: “..ricordiamo che l’Olocausto non deve mai essere dimenticato”. E par. 61 prende atto con “profonda preoccupazione dell’aumento dell’antisemitismo e dell’islamofobia in varie parti del mondo, nonché l’emergere di movimenti razziali e violenti basati sul razzismo e su idee discriminatorie nei confronti delle comunità ebraiche, musulmane e arabe”. Sembra assolutamente perverso screditare la Dichiarazione di Durban come un’invettiva contro gli ebrei.

Nel corso dei 122 paragrafi della Dichiarazione la situazione Israele/Palestina è menzionata solo nel paragrafo 63, e poi in maniera neutrale che sembra trascurare la deliberata vittimizzazione del popolo palestinese. Si legge come segue: “Siamo preoccupati per la difficile situazione del popolo palestinese sotto occupazione straniera. Riconosciamo il diritto inalienabile del popolo palestinese all’autodeterminazione e alla creazione di uno Stato indipendente e riconosciamo il diritto alla sicurezza per tutti gli Stati della regione, compreso Israele, e invitiamo tutti gli Stati a sostenere il processo di pace e a portarlo a una rapida conclusione.” Cosa può essere offensivo anche per il più ardente sostenitore israeliano di una tale disposizione, che è sepolta in profondità in una dichiarazione di trenta pagine in un linguaggio che non punta il dito contro Israele.

La campagna anti-Durban di Israele

Eppure la realtà di Durban, la violenza della lingua usata per denunciare questi documenti e il Processo di Durban sembra estremo, e provenire da fonti note per seguire da vicino la linea ufficiale diffusa da Tel Aviv. Il colonnello britannico Richard Kemp, che scrive sul sito web notoriamente di destra del Gladstone Institute, è raramente da meno nel suo sostegno all’uso della forza da parte di Israele contro l’indifesa Gaza. Kemp definisce il Processo di Durban “come la famigerata vendetta ventennale delle Nazioni Unite contro Israele” e pronuncia il suo giudizio che “Durban IV darà nuova energia a questo vergognoso processo”. [“Fighting the Blight of Durban”, 29 luglio 2021] Kemp è a suo agio nell’invocare il linguaggio iperbolico di UN Watch che etichetta assurdamente Durban come “..la peggiore manifestazione internazionale di antisemitismo nel dopoguerra”.

UN Watch aveva espresso separatamente il suo velenoso punto di vista del processo di Durban un mese prima in un comunicato stampa dal titolo grossolanamente fuorviante, “Durban IV: fatti chiave”, 24 maggio 2021, riassunto dalla frase una “perversione dei principi dell’antirazzismo”. Questa caratterizzazione di Durban è resa più concreta affermando che fa “… affermazioni infondate contro il popolo ebraico”, è usato “per promuovere il razzismo, l’intolleranza, l’antisemitismo e la negazione dell’Olocausto… e per erodere il diritto di Israele a esistere”. Questo linguaggio diffamatorio di UN Watch dovrebbe essere confrontato con i testi della Dichiarazione di Durban e del Programma d’azione, la cui attuazione è l’obiettivo principale del Processo di Durban, per avere una visione delle oscure motivazioni di questi critici di orientamento israeliano.

2021 – Israele e Apartheid

È vero che nel 2021 non ci sarebbe modo di evitare di supporre che “la difficile situazione del popolo palestinese” sia un risultato diretto dell’apartheid israeliano, che non solo è condannato dal processo di Durban, ma è fermamente stabilito come crimine contro l’umanità in entrambi la Convenzione internazionale del 1974 sulla repressione e la repressione del crimine di apartheid e l’articolo 7 dello Statuto di Roma che disciplina le operazioni della Corte penale internazionale. Non è più ragionevole respingere le accuse di apartheid israeliana come estremiste, tanto meno come manifestazioni di antisemitismo. Tuttavia, poiché Israele, con il sostegno degli Stati Uniti, controlla ancora il discorso principale in Occidente, i media fissano tali risultati in un silenzio di pietra nonostante la prolungata sofferenza del popolo palestinese, un promemoria convincente che dove la geopolitica e la moralità/legalità si scontrano, la geopolitica prevale.

Riscattare il processo di Durban

Ci sono due serie di osservazioni che rendono vergognosi e spudorati questi attacchi al lodevole sforzo delle Nazioni Unite attraverso Durban di evidenziare le molte sfaccettature del razzismo e della discriminazione razziale. Il Processo di Durban è diventato il fulcro di una campagna mondiale sui diritti umani per aumentare la consapevolezza pubblica e sollevare preoccupazioni all’interno delle Nazioni Unite per quanto riguarda le molte varietà di criminalità razzista, nonché per sottolineare la responsabilità dei governi e i potenziali contributi dell’attivismo della società civile.

E’ degno di nota che Israele e il suo comportamento nella Dichiarazione di Durban e nel Programma d’Azione non ricevono neanche lontanamente l’attenzione di altre questioni come l’abuso delle popolazioni indigene, dei Rom, dei migranti e dei rifugiati. In effetti, alla luce degli sviluppi più recenti che hanno confermato le precedenti preoccupazioni sulla vittimizzazione palestinese, il Processo di Durban, semmai, può essere accusato di aver messo in secondo piano il razzismo di Israele e di essere caduto nella trappola dell’hasbara di imporre una responsabilità simmetrica all’oppressore e alla vittima, incolpando entrambe le parti, proprio per sventare la crescente tendenza del sostegno organizzato di Israele a giocare la carta antisemita come una tattica crescente per distogliere l’attenzione pubblica dal crescente consenso sul fatto che Israele operi come uno Stato di apartheid.

Forse, nell’atmosfera del 2001, era politicamente provocatorio accusare Israele di razzismo e apartheid, sebbene, come ho cercato di dimostrare, queste accuse rivolte a Israele nel dibattito aperto a Durban non hanno mai avuto seguito nell’esito formale della Conferenza di Durban. E come è stato chiarito dai suoi sostenitori, il Processo di Durban si occupa principalmente dell’attuazione della Dichiarazione di Durban e del Programma d’azione (https://www.un.org/en/durbanreview2009/ddpa.shtml ). Nel 2021, ciò che era provocatorio vent’anni fa è stato ripetutamente confermato da valutazioni dettagliate affidabili e attendibili e indirettamente approvato dalla Legge fondamentale israeliana emanata dalla Knesset nel 2018. I punti salienti di questa dinamica si sono verificati nel corso degli ultimi cinque anni:

la pubblicazione nel marzo 2017 di uno studio accademico indipendente sponsorizzato dalla Commissione economica e sociale delle Nazioni Unite per l’Asia occidentale (ESCWA) che ha concluso che le politiche e le pratiche israeliane costituivano una schiacciante conferma delle accuse di apartheid [“Le pratiche di Israele verso il popolo palestinese e la questione dell’apartheid”]

-il rapporto dell’ONG israeliana per i diritti umani, B’Tselem, “Un regime di supremazia ebraica da che Dal fiume Giordano al Mar Mediterraneo: questo è Apartheid”, 12 gennaio 2021,

-il rapporto di Human Rights Watch, “Una soglia oltrepassata: le autorità israeliane e i crimini di apartheid e persecuzione”, 27 aprile 2021.

Non è più plausibile sostenere che associare il trattamento israeliano del popolo palestinese all’apartheid sia antisemita. In quanto ebreo, considero le giustificazioni israeliane per il suo comportamento nei confronti della Palestina come l’incarnazione del comportamento antisemita, che porta discredito al popolo ebraico.

Traduzione di Angelo Stefanini




Attivisti lanciano una campagna di boicottaggio contro Duty Free Americas per il suo sostegno ad associazioni di coloni israeliani in Cisgiordania

Michael Arria

3 settembre 2021 – Mondoweiss

Una coalizione di organizzazioni in Florida chiede di boicottare Duty Free Americas per il suo sostegno finanziario a gruppi di coloni razzisti e ultranazionalisti in Cisgiordania.

La South Florida Coalition for Palestine [Coalizione nella Florida meridionale per la Palestina] chiede di boicottare la compagnia di Miami “Duty Free Americas” [catena di negozi duty free che opera in aeroporti USA e in altre parti del mondo, ndtr.] per i suoi legami con le colonie illegali israeliane e l’espulsione forzata dei palestinesi.

La catena Duty Free Americas, che appartiene alla famiglia Falic, gestisce oltre 180 negozi in aeroporti e valichi di frontiera negli USA e in America latina. Secondo un’inchiesta del 2019 di Associated Press, nell’arco di dieci anni la famiglia Falic ha donato a gruppi di coloni 5,6 milioni di dollari, oltre a fornire sostegno finanziario a gruppi ebraici razzisti e ultranazionalisti di Hebron.

Simon Falic, uno dei tre fratelli che gestisce Duty Free, ha dichiarato ad Associated Press che gli ebrei dovrebbero poter vivere in tutta la Terra Santa a loro piacimento. “Siamo orgogliosi di sostenere delle associazioni che aiutano a promuovere la presenza ebraica su tutta la terra di Israele,” ha detto. “Secondo noi l’idea che la semplice presenza ebraica in qualche area geografica possa costituire un ostacolo alla pace non ha alcun senso.”

La coalizione che promuove il boicottaggio comprende Dream Defenders, Jewish Voice for Peace South Florida, Al-Awda South Florida, Students for Justice in Palestine South Florida, CAIR Florida, e South Florida Muslim Federation.

Siamo soprattutto noi che viviamo in Florida che dovremmo aderire all’appello di boicottare Duty Free Americas, in quanto i proprietari della compagnia vivono qui, molti dei loro negozi si trovano in questo Stato e dobbiamo richiamarli alle loro responsabilità e chiedere loro conto dei milioni di dollari che hanno donato per sostenere la perpetuazione della Nakba [”catastrofe”, termine con cui si indica l’esodo forzato di circa 700.000 palestinesi dopo la proclamazione dello Stato di Israele, ndtr.],” ha detto a Mondoweiss la coordinatrice regionale per la Florida centrale di CAIR-Florida [Consiglio sulle Relazioni USA-Musulmani, ndtr.]. “La South Florida Coalition for Palestine risponderà a questo appello da parte del popolo palestinese ospitando una protesta virtuale il 12 settembre per lanciare la campagna in Florida – non rimarremo in silenzio di fronte all’occupazione, l’apartheid e la pulizia etnica.”

All’evento di promozione del boicottaggio si unirà alla coalizione anche Campaign to Defund Racism, movimento a guida palestinese che prende di mira le organizzazioni “benefiche” collegate alle colonie israeliane.

Oltre duecento organizzazioni, villaggi e attivisti palestinesi si sono appellati alla comunità internazionale affinché si taglino i fondi alle associazioni di coloni israeliani. Ciò che vediamo arrivare dagli organizzatori nella Florida del Sud, quali al Awda, Jewish Voice for Peace e Dream Defenders, non è che una delle varie strategie che si dovranno utilizzare per mettere i bastoni fra le ruote al movimento di occupazione israeliano,” dice Cody O’Rourke del collettivo Good Shepherd [“Buon Pastore”, che ha sede nelle colline di Hebron, ndtr.], organizzazione che fa parte della campagna Defund Racism. “Prendere di mira i donatori, partecipare a campagne di pubblica utilità, ricorrere ai tribunali e fare pressione sui procuratori generali e sul Dipartimento del Tesoro affinché facciano rispettare le norme già in vigore sulle associazioni benefiche sono tutte tattiche che si dovranno assumere ed usare.”

All’inizio dell’anno gli attivisti hanno protestato davanti alla sede centrale di Duty Free Americas nella città di Hollywood, in Florida. “Come si è visto recentemente nei quartieri di Sheikh Jarrah e Silwan a Gerusalemme Est, i coloni ebrei israeliani stanno espellendo con la forza i palestinesi dalle loro case,” ha affermato nel corso dell’evento l’organizzatore Thomas Kennedy. “Siamo qui per protestare contro i finanziamenti provenienti dai proprietari di Duty Free Americas, che sostengono la costruzione di colonie illegali ebraiche in Cisgiordania e Gerusalemme Est.”

 

traduzione dall’inglese di Stefania Fusero