Video: “Dovrebbe esserci musica nelle nostre vite”

The Electronic Intifada 2 Settembre 2021

Rawan al-Jorf non avrebbe mai immaginato di stabilire un forte legame con l’oud (liuto arabo solitamente a 11 corde di cui 5 in coppia con la stessa accordatura più una di bordone, ndtr.).

Quando la ventiduenne entrò per la prima volta al Conservatorio Nazionale di Musica Edward Said a Gaza, voleva imparare a suonare il piano. Ma l’audizione non andò bene.

Allora optò per l’oud, uno strumento tradizionale mediorientale a corde simile al liuto.

Ho avuto dei problemi perché sono mancina e lo strumento si suona con la mano destra. Era obbligatorio”, ha detto al-Jorf a The Electronic Intifada.

Il Conservatorio Nazionale di Musica Edward Said è stato fondato nella città di Ramallah nella Cisgiordania occupata nel 1993, ed in seguito ha aperto delle sedi a Nablus, Betlemme e Hebron, ed anche a Gaza.

La sede di Gaza conta 125 studenti dai 7 ai 22 anni, ha detto ad Electronic Intifada Khamis Abu Shaban, assistente amministrativo del Conservatorio.

Il draconiano assedio di Israele all’enclave costiera, ormai al suo 14mo anno, incide sia sugli studenti che sugli insegnanti

L’assedio rende difficile agli studenti partecipare a concerti all’estero ed agli insegnanti recarsi nelle altre sedi. Anche far arrivare strumenti musicali nella Striscia è ostacolato dal blocco.

E l’impatto dell’assedio israeliano sull’economia incide sulla possibilità degli studenti di imparare la musica.

Con uno dei più alti tassi di disoccupazione al mondo e più della metà della popolazione al di sotto della soglia di povertà, è difficile per le famiglie di Gaza sostenere i costi delle lezioni di musica per i loro figli.

Mahnoud Abu Hamad, uno studente sedicenne del Conservatorio, sta imparando a suonare il tamburo a clessidra.

Il tamburo a clessidra può essere un bello strumento – più lo suonavo, più lo amavo”, ha detto a Electronic Intifada. “Mi sono fatto nuovi amici e suoniamo insieme.”

Nota: Il filmato di questo video è stato ripreso prima della campagna israeliana di bombardamento sulla Striscia di Gaza durata 11 giorni a maggio.

Il Conservatorio Nazionale di Musica Edward Said non è stato danneggiato e nessuna delle persone intervistate è stata ferita.

Video di Ruwaida Amer e Sanad Ltefa.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




‘La natura ha parlato’: un incendio boschivo riaccende il sogno palestinese del ritorno

Johnny Mansour

28 agosto 2021 – Middle East Eye

Un enorme incendio vicino a Gerusalemme ha distrutto i pini provenienti dall’Europa piantati dai sionisti, rivelando i terrazzamenti e le antiche fattorie palestinesi che li avevano ricoperti

Durante la seconda settimana di agosto circa 20.000 dunam [2.000 ettari] di terra sulle montagne di Gerusalemme sono stati avvolti dalle fiamme. 

È stata una gravissima calamità naturale. Ma nessuno si aspettava quello che si sarebbe visto dopo che sono stati spenti. O piuttosto, nessuno aveva immaginato quello che avrebbero rivelato. 

Domate le fiamme, il paesaggio ha presentato una visione tremenda, specialmente agli occhi dei palestinesi. Gli incendi hanno infatti svelato i resti di antichi villaggi palestinesi e dei terrazzamenti agricoli realizzati dai loro antenati che avevano permesso loro di coltivare e piantare olivi e vigneti lungo i declivi montani. 

Su queste montagne, che costituiscono il paesaggio naturale sul lato occidentale di Gerusalemme, correva la strada che collegava la Città Santa a Giaffa, il suo porto storico. Questo passaggio attraverso le montagne era usato dai pellegrini che provenivano dall’Europa e dal Nord-Africa per visitare i siti sacri al cristianesimo. Essi non avevano altra scelta se non attraversare valli, dirupi e le cime dei monti. Con il passare dei secoli centinaia di migliaia di pellegrini, invasori e turisti hanno calcato questi sentieri.

I terrazzamenti costruiti dai contadini palestinesi hanno un pregio: la loro solidità. Secondo gli archeologi risalgono a oltre 600 anni fa, ma io credo che siano persino più antichi.

Lavorare con la natura

Il duro lavoro dei contadini palestinesi è visibile sulla superficie della terra. Molti studi hanno provato che essi hanno sempre investito nella terra, indipendentemente dal suo aspetto, anche nei territori montani che sono molto difficili da coltivare. 

Alcune fotografie prese prima della Nakba (Catastrofe) del 1948, quando i palestinesi furono cacciati dalle milizie ebraiche, o che risalgono persino alla seconda metà del diciannovesimo, mostrano che olivi e viti erano le due colture più comuni in queste zone. 

Queste piante mantengono l’umidità del suolo e offrono una risorsa economica alla gente del posto. Gli olivi, in particolare, aiutano a prevenire l’erosione e insieme alle viti possono anche creare una barriera naturale contro gli incendi perché le loro foglie trattengono l’umidità e necessitano di poca acqua. Nel sud della Francia alcune strade nei boschi sono fiancheggiate da vigneti che fungono da protezione contro gli incendi. I contadini palestinesi che li hanno piantati sapevano come lavorare in collaborazione con la natura, come trattarla con attenzione e rispetto. È una relazione che si è stabilita nel corso dei secoli.

Ma che cosa ha fatto l’occupazione sionista? Dopo la Nakba e la forzata espulsione di buona parte della popolazione, inclusa la pulizia etnica di ogni villaggio, paese e città lungo la strada Giaffa-Gerusalemme, per coprire e cancellare quello che le mani dei contadini palestinesi avevano creato, i sionisti cominciarono a piantare in vaste zone di queste montagne i pini europei, una specie non nativa e molto infiammabile.

Specialmente nella regione montuosa di Gerusalemme è stato cancellato tutto quello che è palestinese, con i suoi 10.000 anni di storia, in nome di qualsiasi cosa che evocasse il sionismo e l’ebraicità del luogo. Il risultato della mentalità colonialista europea è stato il trasferimento di “luoghi” europei in Palestina, in modo che ai coloni fosse ricordato quello che si erano lasciati alle spalle.

Il processo di occultamento mirava a negare l’esistenza dei villaggi palestinesi. E il processo di cancellazione dei loro tratti distintivi mirava a cancellarne l’esistenza dalla storia.

Va notato che gli abitanti dei villaggi che hanno modellato la vita sulle montagne di Gerusalemme e che sono stati espulsi dall’esercito israeliano vivono vicino a Gerusalemme stessa, in comunità e in campi profughi, come Qalandiya, Shu’fat e altri.

Pinete simili si trovano in altre località a celare cittadine e fattorie palestinesi demolite da Israele nel 1948. Anche organizzazioni internazionali israeliane e sioniste hanno piantato pini europei sui terreni dei villaggi di Maaloul, vicino a Nazareth, Sohmata, nei pressi del confine Palestina-Libano, e quelli di Faridiya, Kafr Anan, al-Samoui, sulla strada Akka-Safad, e altri. Ora sono nascosti e non si possono vedere a occhio nudo. 

Enorme significato

Ai villaggi è stato persino cambiato il nome. Per esempio, Suba è diventato “Tsuba”, Beit Mahsir è diventato “Beit Meir”, Kasla è ora “Ksalon”, “Shoresh” invece di Saris, ecc. 

Anche se i palestinesi non sono ancora riusciti a risolvere il loro conflitto con gli occupanti, la natura ha ora parlato nel modo che ha ritenuto più appropriato. Gli incendi hanno rivelato un aspetto lampante degli elementi ben pianificati e realizzati del progetto sionista.

Per i palestinesi la scoperta dei terrazzamenti sulle montagne afferma che la loro narrazione secondo cui c’era vita su questa terra, che i palestinesi stessi erano i più attivi in questa vita e che gli israeliani li hanno espulsi in modo da prenderne il posto.

E anche solo per questo i terrazzamenti hanno un enorme significato. Essi affermano che la questione non è chiusa, la terra aspetta il ritorno dei suoi figli che saprebbero trattarla nel modo giusto. 

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Johnny Mansour è uno storico e ricercatore, vive ad Haifa. È inoltre docente di storia e scienze politiche e autore di vari testi, tra cui: “The Military Institution in Israel”, [Le istituzioni militari in Israele] “Israeli colonisation” [La colonizzazione israeliana], “The Hijaz Railway” [La ferrovia di Hijaz] e “The Other Israel: A Look from the Inside” [L’altro Israele: uno sguardo dall’interno].

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




‘Sola e ammanettata’: una madre palestinese ha paura di partorire all’interno della prigione israeliana

Shatha Hammad

Kufr Nimah, Cisgiordania occupata

27 agosto 2021 – Middle East Eye

Incinta e affetta da complicanze, Anhar al-Deek afferma che sarebbe più sicuro se suo figlio potesse rimanere nel suo grembo

***Il 3 settembre Anhar al-Deek è stata liberata su cauzione di 40.000 shekel pari a 10.500 euro e posta agli arresti domiciliari. Leggi la notizia dopo questo articolo.

Anhar al-Deek, 25 anni, si sta avvicinando alla data del parto, ma a differenza della maggior parte delle madri, Anhar teme la nascita di suo figlio. Sente che è più sicuro che lui rimanga nel suo grembo che dietro le sbarre della prigione israeliana in cui è detenuta, dove non prova altro che paura e ansia.

L’esercito israeliano ha arrestato Anhar l’8 marzo nel villaggio di Kufr Nima, a ovest della città di Ramallah, mentre si trovava nei terreni agricoli della sua famiglia.

Gli agenti l’hanno accusata di un tentato accoltellamento. I tribunali israeliani non hanno emesso una sentenza in risposta all’appello della sua famiglia per il rilascio, ignorando il fatto che è incinta e soffre di complicanze.

Anhar è riuscita a far uscire una lettera rivolta alla sua famiglia attraverso un’altra detenuta recentemente rilasciata. Esprimendo la sua paura di affrontare le fasi del parto lontano dalla sua famiglia, ha scritto: “Cosa devo fare se sono nata lontano da voi e sono stata ammanettata mentre stavo per partorire?

“Sapete quanto è [difficile] un parto cesareo… Immaginatelo in prigione, sola e in manette”.

La madre di Anhar, Aisha di 57 anni, trascorre intanto il suo tempo a prendersi cura di sua nipote di un anno e mezzo, Julia.

“Si sveglia di notte chiamando sua madre e non la trova vicino a lei”, ha detto Aisha.

“Ciò che mi addolora di più è che a volte mi chiama ‘mamma’, o chiama ‘mamma’ qualsiasi donna della famiglia”.

Picchiata durante la gravidanza

In occasione dell’arresto di Anhar Aisha ha riferito a MEE che sua figlia era uscita per una passeggiata nel terreno di famiglia sulla collina Raysan e che soffriva di depressione a causa della gravidanza.

Un gruppo di soldati israeliani l’ha aggredita e l’ha accusata di aver tentato di accoltellarli.

“Anhar ci ha detto che durante l’arresto l’hanno picchiata duramente, nonostante gridasse che era incinta, ma a loro non importava”, continua Aisha.

Immediatamente dopo il suo arresto Anhar è stata portata nella prigione di HaSharon, dove per un mese è stata sottoposta ad interrogatori e messa in isolamento.

Anhar ha detto ai suoi avvocati di essere stata tenuta in condizioni durissime e sottoposta a lunghe ore di interrogatorio, senza alcuna considerazione per il suo stato fisico e psicologico.

“Anhar è stata sottoposta per un mese a pesanti torture, dopodiché è stata trasferita nella prigione di Damon, dove le prigioniere vivono in condizioni difficili”, sostiene Aisha, aggiungendo che Anhar non può dormire a causa della mancanza di un materasso decente.

Dice che sua figlia soffre di forti dolori al bacino e ai piedi, oltre che di stanchezza generale.

Isolamento

Durante la sua prima gravidanza – con Julia – Aisha non aveva mai lasciato sola la figlia Anhar, soprattutto nel corso dell’ultimo mese. Le era rimasta accanto durante il parto e si è occupata di lei costantemente.

Questa volta, tuttavia, Aisha vive nella paura e nell’ansia per il fatto di non poter fare nulla per sua figlia.

Nella sua lettera Anhar ci ha comunicato che non sapeva come si sarebbe svegliata dopo il parto senza al proprio fianco sua madre e suo marito”, continua Aisha.

“Pensa anche molto a come sarà incatenata al letto”.

L’amministrazione carceraria israeliana ha informato Anhar che dopo il parto lei e il suo bambino saranno posti in isolamento come precauzione contro la trasmissione del coronavirus ad altri dopo il ritorno dall’ospedale.

Mi preoccupa molto che le altre prigioniere non potranno occuparsi di Anhar. Lei e suo figlio staranno soli in cella,” afferma Aisha.

Un modello”

Nel 1972, la prigioniera palestinese Zakiya Shammout ha dato per prima alla luce un figlio in una prigione israeliana.

Anhar chiamerà suo figlio “Alaa”. Sarà il nono bambino palestinese a subire la stessa sorte.

In un breve servizio l’agenzia di stampa ufficiale palestinese Wafa ha documentato le esperienze di sette detenute che hanno partorito in carcere, scoprendo che tutte avevano sofferto, in particolare perché durante il travaglio e il parto le braccia e le gambe erano incatenate al letto.

La sorella di Anhar, Amna, ha detto a MEE che il massimo che ha potuto fare per sua sorella è stato organizzare campagne sui social media e contattare le organizzazioni per i diritti umani e gli organi di informazione per attirare l’attenzione sul caso di sua sorella.

“Oggi ci poniamo molte domande sul ruolo delle organizzazioni di donne e dei difensori dei diritti umani nel sostenere le donne palestinesi di fronte agli attacchi israeliani, alle persecuzioni e alle grandi ingiustizie a cui sono soggette”, dice Amna.

“Anhar è oggi un modello non della sofferenza delle prigioniere, ma della sofferenza delle donne palestinesi”.

Amna afferma che la sua più grande paura per Anhar deriva dagli attacchi di depressione di cui soffre e dalla probabilità che subisca ulteriori traumi dopo il parto, una situazione che verrebbe esasperata dalle condizioni carcerarie.

Messaggi vocali

Dal momento del suo arresto ad Anhar è stata concessa solo una visita dei familiari, del marito, mentre sua madre e sua sorella non hanno potuto vederla per quasi sei mesi, da quando è stata arrestata.

Le viene anche impedito di parlare con la sua famiglia al telefono. La madre di Anhar afferma che l’esercito israeliano ha anche ritirato al marito di Anhar il permesso di lavoro per l’accesso alle aree occupate dal 1948 [cioè in Israele, ndtr.], come ulteriore punizione per la famiglia.

“Fino ad ora non ho potuto vederla e ho sentito la sua voce solo una volta, ma le inviamo dei messaggi vocali sulla sua bambina Julia attraverso una delle stazioni radio locali che lei può ascoltare”, aggiunge Aisha.

Anhar ci ha detto di smettere di lasciare che Julia si rivolga a lei alla radio; non riesce a capire che sua figlia sta crescendo, lontana da lei”.

Secondo il Palestine Prisoners Club [ONG che monitora e sostiene i prigionieri politici palestinesi, ndtr.] Anhar è una delle 11 madri palestinesi imprigionate nelle carceri israeliane, su un totale di 40 detenute. La maggioranza si trova nella prigione di Damon in condizioni durissime e vergognose.

In un comunicato l‘organizzazione ha dichiarato che quando l’amministrazione carceraria israeliana consente ai bambini di andarle a trovare viene loro impedito di abbracciare le loro madri, una situazione che è peggiorata con la diffusione del Covid-19 e la mancanza di visite regolari da parte dei familiari.

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Prigioniera incinta trasferita agli arresti domiciliari con un’ammenda di 40.000 shekel

3 settembre 2021 – IMEMC News

Secondo quanto riportato da Quds News Network [Rete di notizie Quds; la QNN è una delle principali agenzie d’informazione nei territori palestinesi occupati, ndtr.] giovedì il tribunale militare israeliano di Ofer ha deciso di rilasciare Anhar ad-Deek, 25 anni, la donna palestinese al nono mese di gestazione, dopo una permanenza di sei mesi in una prigione israeliana.

Giovedì la Commissione palestinese per gli affari dei detenuti ed ex detenuti [organo operativo del ministero per gli affari dei detenuti dell’Autorità Nazionale Palestinese, ndtr.] ha annunciato che le autorità di occupazione hanno rilasciato ad-Deek assegnandole gli arresti domiciliari e una ammenda di 40.000 shekel (10.500 euro).

Ad-Deek, sposata e madre di un bambino, della città di Kafr Ni’ma, all’interno del governatorato di Ramallah nella Cisgiordania centrale occupata, è stata arrestata dalle forze israeliane l’8 marzo, Giornata internazionale della donna, a seguito di quello che le autorità hanno affermato essere un presunto tentativo di accoltellamento.

Organizzazioni a difesa dei diritti umani hanno organizzato campagne per chiedere alle autorità di occupazione di rilasciare immediatamente la detenuta incinta.

Sulla base di notizie correlate le autorità carcerarie hanno rilasciato anche un’altra donna palestinese, Ayat Mahfouth, dopo averla tenuta in prigione per cinque anni.

Secondo Addameer [ONG palestinese che monitorizza il trattamento dei prigionieri palestinesi e fornisce assistenza legale, ndtr.] Le donne palestinesi incinte non sono sfuggite agli arresti di massa di civili palestinesi sotto il regime di occupazione israeliano illegale. Tra il 2003 e il 2008 Addameer ha documentato quattro casi di detenute palestinesi costrette a partorire mentre si trovavano nelle carceri israeliane; tutte loro hanno ricevuto cure prenatali e postnatali molto scarse o inesistenti.

Poiché l’incarcerazione di donne incinte comporta un rischio elevato non solo per la donna stessa ma anche per gli esiti del parto e per la successiva crescita e sviluppo del neonato, i loro casi sono estremamente preoccupanti. Le donne incinte nelle carceri e nei centri di detenzione israeliani non godono di alcun trattamento preferenziale in termini di dieta, spazio vitale o trasferimenti negli ospedali”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Beita è un modello di resistenza palestinese contro Israele

Shatha Hammad

31 agosto 2021- Middle East Eye

Questa cittadina, situata in posizione strategica in Cisgiordania, da molto tempo fa gola ai coloni israeliani, ma i suoi abitanti si rifiutano fermamente di rinunciare alle proprie terre, nonostante le ripetute tragedie patite.

Alaa Dweikat è cresciuta giocando a nascondino con il papà, Imad, e quattro tra fratelli e sorelle. La piccola palestinese di nove anni non si sarebbe mai aspettata che il gioco diventasse realtà.

Imad, 38 anni, adesso è scomparso per sempre dalle loro vite, ucciso dall’ esercito israeliano a Beita, nella Cisgiordania occupata. Il 6 agosto, mentre la famiglia aspettava che arrivasse a casa per pranzo, è invece squillato il telefono. Imad era stato ucciso dai soldati israeliani in uno scontro con gli abitanti di Beita che protestavano a Jabal Sbeih, a sud di Nablus.

Lui è uno dei sette palestinesi, fra cui due adolescenti, uccisi da maggio, quando è stata lanciata una campagna di proteste contro una colonia israeliana illegale alla periferia della cittadina. Tre erano padri di famiglia e lasciano circa quindici figli.

I palestinesi di Beita protestano in modo pacifico contro l’espansione israeliana. Sono stati accolti da pallottole vere e gas lacrimogeni che hanno causato decine di feriti, molti colpiti alle gambe.

Arresti di massa hanno portato oltre 30 palestinesi della cittadina ad essere rinchiusi in carceri israeliane.

Quello che una volta era un tranquillo villaggio cisgiordano è diventato l’epicentro della resistenza palestinese.

Accolto da pallottole

Alaa, la figlia maggiore di Imad, dice che sogna di lavorare su un’ambulanza, così potrà evitare la morte delle persone, come è capitato a suo papà.

Ogni giorno penso di chiedere alla mamma quando nostro padre tornerà a casa dal lavoro, ma poi mi ricordo che è morto e che non tornerà mai più,” dice Alaa a Middle East Eye. “È molto dura. Mi manca ogni giorno.” 

Imad, come molti dei giovani di Beita, andava a Jabal Sbeih ogni venerdì per partecipare alle popolari attività pacifiche per difendere la loro terra dall’occupazione dei coloni. 

È stato colpito da “una pallottola in pieno petto ed è morto sul colpo”, dice a MEE suo fratello Bilal. “Imad stava partecipando come gli altri ad attività pacifiche e non a una guerra. Non c’è nessun motivo per cui i cecchini israeliani sparino pallottole vere.”

Dalla sua uccisione, Fathiya, la mamma di Imad, 77 anni, non riesce più a dormire. Qualche volta riesce ad assopirsi per qualche ora, ma poi si sveglia di botto e si siede sulla soglia in attesa dell’impossibile ritorno di Imad. 

Lo vedo dappertutto. Non riesco a smettere di attendere il suo ritorno, anche se gli ho detto addio e so che è morto. Viviamo con un dolore che durerà per sempre,” dice a MEE, cullando il figlio di Imad di tre mesi. 

Famiglie che vivono lo stesso dolore  

Said Dweikat siede davanti a casa sua affacciata su Beita e beve un caffè. Stormi di uccelli volteggiano in cielo.

La città sembra calma, ma i suoi abitanti hanno subito violenze quotidiane. Ogni casa è legata con qualcuno che è stato ucciso durante le manifestazioni. Inoltre molti abitanti sono ancora curati per le ferite riportate e molte case hanno subito raid frequenti e arresti.

Qui ogni giorno c’è una famiglia che si aspetta che uno dei suoi figli sia ucciso, ferito o arrestato dall’esercito israeliano. Ciascuno di noi dice: ‘Adesso tocca a me’,” racconta Said a MEE. 

Di solito Said prendeva il caffè con il fratello, Shadi. Ma Shadi è stato ammazzato il 27 luglio, non mentre protestava, ma mentre lavorava come volontario per il comune di Beita e apriva le pompe dell’acqua all’ingresso della città. Gli israeliani sostengono che fosse armato con una barra di metallo, in realtà erano i suoi attrezzi da idraulico.

Lascia cinque figli.

“I suoi bambini ci chiedono dov’è il loro papà; noi diciamo che è in paradiso. E loro rispondono: ‘Non vogliamo il paradiso, vogliamo un padre’. Non riesco più a rispondere alle loro domande, è molto doloroso,” dice Said, con le lacrime che gli scorrono sulle guance. 

L’intera cittadina è sconvolta dall’uccisione di Shadi, dice Said. Dato che era un idraulico era andato praticamente in tutte le case di Beita.

E come se la sua morte non fosse già abbastanza tragica, l’esercito israeliano, dopo averlo ammazzato, ha trattenuto il suo corpo per due settimane, aggiungendo altro dolore e rabbia al dolore che già provavano.

“Ogni ora penso a come farò a passare l’ora successiva senza Shadi, come vivrò la mia vita senza di lui,” dice Said. 

Rubare Jabal Sbeih 

Per Beita la storia recente, fatta di violenza e resistenza, è cominciata il 2 maggio, quando gli abitanti hanno notato delle lucine in cima a Jabal Sbeih.

Dei coloni, accompagnati dall’esercito, stavano costruendo un avamposto illegale senza che ci fosse stata prima alcuna comunicazione di confisca della terra.

Non è la prima volta che Israele cerca di prendere il controllo della collina. Nel 1978, con l’apertura dell’autostrada 60 per le colonie, l’esercito israeliano ci aveva costruito un avamposto militare, costringendo i proprietari palestinesi a rivolgersi ai tribunali israeliani per recuperare le proprie terre, cosa che erano riusciti a fare nel 1994.

L’avamposto militare è stato smantellato, poi ricostruito durante la Seconda Intifada del 2000-2005 e poi di nuovo smantellato. 

Huthayfa Budair, che possiede delle terre sulla collina, dice che quattro anni fa gli abitanti hanno cominciato a notare l’avanzata dei coloni nella zona, attirati dalla sua posizione strategica.

C’è stata un’insurrezione popolare con la partecipazione di tutti gli abitanti e siamo riusciti a cacciare i coloni dalla zona,” dice Huthayfa. 

Nonostante ciò quest’anno i coloni sono ritornati a Beita. In soli sei giorni hanno installato 40 roulotte e asfaltato una strada che porta alla collina, battezzando l’avamposto “Givat Eviatar”.

Il 9 giugno l’esercito israeliano ha cominciato a smantellare l’avamposto, sostenendo che era stato costruito durante una situazione tesa a livello di sicurezza e senza previa regolarizzazione. Comunque, poco dopo l’esercito si è appropriato dell’avamposto e ha dichiarato Jabal Sbeih zona militare, impedendo ai palestinesi di ritornare alle proprie terre.

È emerso che i coloni hanno stretto un accordo con il governo in base al quale lascerebbero le loro roulotte sulla collina in modo che l’esercito se ne prenda cura fino a quando la terra non sarà dichiarata proprietà dello Stato di Israele e a quel punto potranno ritornare.

Huthayfa ha i documenti che certificano la sua proprietà di cinque dunam [0,5 ettari, N.d.T.] a Jabal Sbeih. Altre cinque famiglie di Beita sono riuscite a fornire i documenti di proprietà, come anche alcune famiglie dei vicini villaggi di Qabalan e Yatma.

Nonostante ciò, il 15 agosto la Corte Suprema israeliana si è rifiutata di accettare un ricorso contro l’avamposto presentato dai proprietari, una decisione condannata come prematura dal Jerusalem Center for Legal Aid and Human Rights [Centro per l’Assistenza Legale e i Diritti Umani di Gerusalemme] (JLAC), che l’aveva presentato a nome dei palestinesi.

La Corte Suprema ha rinviato la sentenza sulla legalità dell’avamposto e sull’accordo dei coloni con il governo fino a quando la zona non sarà ispezionata e si prenderà una decisione finale che la dichiari “terra statale”. Essa sostiene che i proprietari hanno il diritto di presentare immediatamente appello se la zona sarà dichiarata “terra statale”, ma secondo lo JLAC la petizione non verrà esaminata fino a quando non si prenderà una decisione sullo status giuridico del territorio.

Anzi, lo JLAC sostiene che la Corte Suprema ha già deciso sugli appelli con “totale negligenza”, e ignorato “abusi lampanti commessi dai coloni sulle terre su cui non hanno alcun diritto, il che indica che i tribunali non hanno alcun problema legale ad aggirare le leggi”.

Resistenza creativa

Negli ultimi mesi i giovani di Beita hanno sviluppato modi creativi per resistere ai coloni e alle pallottole dell’esercito israeliano, tramite una campagna che chiamano “stato di confusione”.

È una combinazione di metodi tradizionali di resistenza, come lanciare pietre e bruciare pneumatici, e tattiche nuove come l’uso di laser, altoparlanti e rumori che sembrano esplosioni.

I manifestanti e quanti partecipano alla protezione delle terre dall’espansione dei coloni si sono organizzati in gruppi che a turno agiscono giorno e notte, ognuno con una missione specifica. La zona è costantemente monitorata e gli abitanti di Beita vi si recano regolarmente. 

Ogni venerdì noi giovani ci portiamo le fionde mentre gli anziani hanno le bandiere palestinesi. Usiamo anche pneumatici incendiati, fuochi d’artificio e palloni,” ha detto a MEE un venticinquenne parlando in condizioni di anonimato.

Noi monitoriamo i giornali israeliani sulle reti sociali e osserviamo le reazioni dei coloni. Abbiamo scoperto che siamo riusciti a metterli sotto pressione e a costringerli a lasciare la colonia – neppure loro si sentono al sicuro, circondati da un costante rifiuto popolare alla loro presenza.” 

Noi vogliamo conservare Beita e le sue terre. Siamo riusciti a cacciarli dalla montagna parecchie volte. Questa sarà l’ultima, non ritorneranno più,” aggiunge. 

Una volta che le famiglie recupereranno le loro terre, dice, l’intera cittadina festeggerà. “Sarà come un matrimonio nazionale.” 

Un altro attivista, anche lui parlando a condizione di anonimato per paura di rappresaglie israeliane, dice a MEE: “Siamo qui tutto il tempo per salvaguardare l’approccio dei nostri antenati alla conservazione delle nostre terre e per prevenire attacchi o confische ad ogni costo, anche della nostra vita e libertà.”

Beita è nota per la sua resistenza e, nel corso degli anni, è stata costretta ad affrontare parecchie volte l’esercito israeliano a causa della sua posizione geografica affacciata sulla strada fra Nablus e Gerico. 

Beita ha sempre combattuto a sostegno di Gaza e dei prigionieri (palestinesi) ed è contraria a ogni azione intrapresa da Israele in Cisgiordania. Noi sacrifichiamo martiri, feriti e prigionieri e ciò non ci spaventa né ci impedisce di continuare,” dice l’attivista.

Beita non conosce la calma. È sempre in fiamme e se l’esercito israeliano evita di compiere dei raid è perché sa che li pagherebbe a caro prezzo.”

Anche se i coloni se ne sono andati da Jabal Sbeih, il confronto continua, seppure in tono minore.

Gli abitanti hanno giurato di non ritirarsi fino a quando non saranno rientrati in possesso dell’intera collina.

“Anche se l’avamposto sarà smantellato e noi saremo ritornati a Jabal Sbeih, Beita non smetterà la sua lotta finché non si sarà riottenuta tutta la Palestina,” dice l’attivista. “Noi speriamo che l’esperienza di Beita si diffonda in tutti i villaggi palestinesi che quotidianamente fronteggiano la costruzione di colonie.”

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Tareq Zubeidi, rapito e torturato da una banda di coloni

Gideon Levy

30 agosto 2021 – Chronique de Palestine

La settimana scorsa nella colonia di Homesh, destinata ad essere evacuata, un adolescente palestinese è stato portato via da coloni e sottoposto a violenze fisiche per più di due ore. Si tratta di una prassi consueta in questo luogo, di cui da tempo il tribunale ha ordinato l’apertura ai palestinesi.

Tareq Zubeidi è disteso sul suo letto di ferro in un angolo della stanza debolmente illuminata, coperto fino al collo e con gli occhi fissi al soffitto. Questo ragazzo pallido di 15 anni, senza barba, ha un sorriso dolce e parla con un sussurro.

Se inavvertitamente gli si toccano le gambe, soprattutto le ginocchia, si solleva di scatto come morso da un serpente e il suo viso si sbianca dal dolore.

Sulla pianta dei piedi ha due grosse cicatrici rotonde, il che spiega perché non gli sia possibile stare in piedi. Quando i coloni gli hanno inflitto queste ferite aveva il viso coperto, ma è convinto che una di esse sia stata provocata da una bruciatura, probabilmente con un accendino tenuto sotto un piede fino a che la carne si è strinata, mentre sull’altro piede lo colpivano con una sbarra di ferro.

Tareq è costretto a letto da quel mattino di orrore ed è ancora traumatizzato da quell’evento.

Il villaggio di Silat al-Daher si trova sulla strada tra Nablus e Jenin, nel nord della Cisgiordania. E’sovrastato dall’alto di una collina dai resti della colonia di Homesh, destinata ad essere evacuata, che Israele ha smantellato in teoria nel quadro del processo detto di disimpegno del 2005.

Nel contempo l’Alta Corte di Giustizia ha ordinato allo Stato di annullare le ordinanze militari di sequestro e di chiusura che avevano vietato ai palestinesi di accedere al sito, ma tutto ciò non ha niente a che fare con la realtà.

Un gruppo chiamato “Homesh First” [Prima Homesh] ha creato una yeshiva (scuola religiosa ebraica) sul sito poco dopo le evacuazioni; i suoi studenti sono tra i coloni più violenti. Chiunque abbia provato ad avvicinarsi a Homesh sa di che cosa – e soprattutto di chi – si tratta.

La decisione dell’Alta Corte qui è stata da molto tempo calpestata e nessuno se ne preoccupa. Da marzo 2020 l’organizzazione israeliana di difesa dei diritti umani B’Tselem ha registrato non meno di sette aggressioni violente contro palestinesi da parte dei coloni della yeshiva di Homesh.

In un’occasione hanno aggredito un gruppo di donne e un neonato, in un’altra hanno picchiato un contadino con bastoni e pietre, in una terza hanno rotto una gamba ad un pastore con delle pietre, e per due volte hanno attaccato case e veicoli nella periferia del villaggio.

Malgrado ciò, la scorsa settimana, il 17 agosto, un gruppo di giovani di Silat al-Daher ha deciso di organizzare un picnic e una grigliata vicino a Homesh, nel boschetto che costituisce il polmone verde del villaggio.

Secondo quanto ci ha raccontato Tareq – aveva già raccontato i fatti a Abdulkarim Sadi, ricercatore sul campo di B’Tselem, che lo ha incontrato il giorno dopo l’incidente ed è rimasto sconvolto dal trauma subito dal ragazzo – quel giorno il tutto è cominciato verso le 9, quando i giovani si sono incontrati davanti al liceo locale, dove il nuovo anno scolastico era iniziato un giorno prima.

Dei sei adolescenti, alcuni avevano lasciato la scuola ed altri avevano deciso di saltare un giorno di lezione a inizio anno. Tareq ha lasciato la scuola al settimo anno, quando aveva 13 anni, ed è andato a lavorare in una panetteria del villaggio di proprietà di suo zio.

Dopo aver comprato della carne di tacchino, sono saliti sulla collina a piedi. La strada per le auto è bloccata a causa dei coloni di Homesh che non lasciano avvicinarsi nessun palestinese.

Poco dopo essere arrivati al sito, dove si sono seduti sotto un albero a chiacchierare, il gruppo ha sentito d’improvviso delle voci in ebraico. Tareq si ricorda che lui e i suoi amici hanno subito avuto paura. A qualche decina di metri da loro è comparsa una macchina grigia argentata, con dentro quattro coloni, seguiti da due altri a piedi.

Solo qualche centinaio di metri separava il luogo del picnic da ciò che era Homesh, con la sua grande cisterna – suo segno di riconoscimento – che non era stata demolita al momento dell’evacuazione nel 2005.

I ragazzi si sono immediatamente alzati e si sono messi a correre per salvarsi la vita. Ogni idea di picnic era svanita. Ma durante la salita Tarek si era ferito ad una gamba e non poteva muoversi rapidamente.

La macchina lo ha seguito a tutta velocità, poi lo ha urtato e fatto cadere. I quattro coloni sono usciti dalla vettura e hanno cominciato a picchiarlo su tutto il corpo insultandolo. Avevano in testa grandi kippa [zucchetto rituale ebraico tipico dei coloni, ndtr.] e lunghi riccioli, racconta.

Uno di loro è tornato alla macchina per prendere una corda con la quale poi gli hanno legato le mani dietro la schiena ed anche le gambe. Tarek gridava di paura e di dolore. I coloni gli hanno dato dei calci, dice, mentre era steso a terra immobile.

Poi lo hanno sollevato e messo sul cofano della macchina, legandolo al veicolo con una catena di ferro perché non cadesse. La macchina ha viaggiato per qualche minuto finché ha raggiunto lo stagno di Homesh.

Il guidatore ha frenato bruscamente e Tarek è caduto, perché lungo il percorso i coloni avevano sganciato la catena. Due autobus di coloni sono arrivati al sito, ricorda Tarek, ma non è sicuro che abbiano preso parte alle violenze.

Qualcuno gli ha spruzzato sul viso dello spray urticante, un altro gli ha dato ancora dei calci. Steso al suolo, era sicuro che stesse per essere ucciso. Altri coloni si sono messi a prenderlo a calci, poi gli hanno bendato gli occhi con un fazzoletto. Tarek ha sentito che gli sputavano addosso e una raffica di insulti e di oscenità.

È stata un’esperienza orribile e terrificante”, dice, aggiungendo che pensa di essere rimasto steso così per circa un’ora e mezza.

Poi i coloni lo hanno trascinato fino a un albero e l’hanno appeso per le mani, in modo che le gambe rimanessero sospese. Con un’altra corda hanno legato il suo corpo al tronco dell’albero. Pensa di essere rimasto in quella posizione per circa cinque minuti. “Proprio in quel momento ho sentito che un colono mi picchiava la pianta di un piede con una sbarra di ferro ed un altro teneva qualcosa che bruciava sotto l’altro piede.”

Le cicatrici nei piedi di Tareq dovute alla tortura subita. Foto Alex Novac

Tareq ci mostra le ferite alle piante dei piedi. Dice di aver pianto e gridato per tutto il tempo e che i coloni non hanno mai smesso di insultarlo. Quando lo hanno staccato dall’albero, uno degli aggressori lo ha colpito alla testa con una mazza. Uno di loro gli gridava: “Sono pazzo, sono pazzo.” Tarek ha perso conoscenza.

Quando è rinvenuto si è ritrovato su una jeep dell’esercito israeliano. Un soldato gli ha dato il suo telefono cellulare perché potesse parlare con qualcuno in arabo, forse un agente dei servizi di sicurezza dello Shin Bet [servizi interni israeliani, ndtr.], che lo ha minacciato di fare arrestare i ragazzi se ci fossero stati lanci di pietre nel villaggio.

I soldati hanno chiesto la carta di identità di Tarek – lui ha risposto che era ancora troppo giovane per averne una.

Questa settimana l’unità del portavoce delle forze israeliane ha pubblicato su Haaretz il seguente comunicato riguardo all’incidente: “Martedì 17 agosto abbiamo ricevuto un rapporto relativo a palestinesi che hanno lanciato pietre contro dei coloni vicino alla colonia evacuata di Homesh, che si trova nel settore della brigata territoriale di Shomron (Samaria). Dopo aver ricevuto il rapporto, dei soldati dell’IDF (esercito israeliano, ndtr.) hanno raggiunto il sito ed hanno trovato dei coloni che tormentavano un giovane palestinese. Il comandante della forza si è occupato dell’accaduto ed ha riportato il giovane palestinese alla sua famiglia.”

Immediatamente dopo l’inizio dell’incidente, i cinque amici di Tarek hanno raggiunto Silat al-Daher ed hanno detto alla sua famiglia che lui era rimasto indietro. Suo fratello maggiore Hisham e suo zio Murwah si sono precipitati all’incrocio che si trova all’entrata di Homesh, ma hanno avuto paura di avventurarsi in macchina sulla strada che porta alla colonia.

Dopo un po’ di tempo hanno visto un ufficiale dell’IDF, lo hanno chiamato e gli hanno raccontato che cosa era successo. Poco dopo, una jeep dell’IDF gli ha riportato Tarek ferito. Un’ambulanza palestinese che passava sull’autostrada con un paziente uscito dall’ospedale di Nablus si è fermata e il paziente, che stava bene, ha proposto che l’ambulanza caricasse Tarek al suo posto. Tarek, con suo fratello e suo zio, è stato portato all’ospedale pubblico Khalil Suleiman di Jenin.

Secondo la cartella clinica dell’ospedale vi è arrivato alle 13,03, è stato sottoposto ad una serie di esami ed è stato riportato a casa il giorno successivo. Le ferite fisiche erano meno gravi di quanto sembrasse inizialmente, ma la ferita psicologica era chiaramente più grave.

Tarek racconta che dopo quel giorno non ha potuto dormire e che si sente molto angosciato, soprattutto al buio. Suo fratello e suo zio dormono nella stanza con lui.

Se resto solo al buio comincio a pensare a quell’incubo con i coloni. Ho l’impressione di sudare in tutto il corpo. Ho la sensazione che il mio cuore batta all’impazzata.”

Da allora Tarek non può camminare senza aiuto – lo accompagnano al bagno i suoi familiari. La pianta dei piedi è ferita e le sue ginocchia sono ancora gonfie.

Gideon Levy, nato nel 1955 a Tel Aviv, è un giornalista israeliano e membro della direzione del quotidiano Haaretz. Vive nei territori palestinesi sotto occupazione. Ha ricevuto il premio Euro-Med Journalist nel 2008, il premio Leipzig Freedom nel 2001, il premio Israeli Journalists’Union nel 1997 ed il premio dell’Associazione dei Diritti Umani in Israele nel 1996. Ha scritto il libro The Punishment of Gaza [‘La punizione di Gaza’], che è stato tradotto in francese con il titolo Gaza, articoli per Haaretz, 2006-2009 [Gaza, articoli per Haaretz, 2006-2009], La Fabrique, 2009.

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




L’Autorità Nazionale Palestinese sta perdendo il controllo sulla Cisgiordania

Lubna Masarwa, Dania Akkad

30 agosto 2021 – Middle East Eye

Mesi di crescente repressione e di arresti portano a interrogarsi sul suo imminente collasso persino i sostenitori dell’Autorità Nazionale Palestinese.

Il 23 agosto, vedendo che le forze di sicurezza arrestavano circa una trentina di manifestanti che esigevano risposte riguardo alla morte di Nizar Banat, un oppositore di Mahmoud Abbas deceduto dopo un’irruzione di agenti della sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) in casa sua, un membro dell’ANP si è ricordato di quello che era avvenuto in Egitto quarant’anni fa.

“Ciò mi ricorda gli ultimi giorni di (Anwar) Sadat,” ha confidato a Middle East Eye, a condizione di rimanere anonimo per una questione di sicurezza personale. Nelle settimane che nel 1981 precedettero l’assassinio del presidente egiziano, Sadat aveva fatto arrestare 1.600 egiziani di ogni orientamento politico. “Avevano cominciato ad arrestare tutti quanti, come giornalisti e scrittori, e chiunque si ribellasse a Sadat.”

I suoi membri e alcuni osservatori affermano che la fragilità dell’ANP è al centro dell’attenzione da mesi. Ciò è iniziato in aprile, quando il presidente Mahmoud Abbas ha rinviato le elezioni politiche. In maggio l’ANP è rimasta ai margini quando Israele ha bombardato Gaza.

Durante l’estate l’ANP ha reagito con l’arresto di decine di attivisti alle manifestazioni che criticavano le sue iniziative, e persino quelle in solidarietà con i palestinesi di Gaza, rimanendo nel contempo in silenzio mentre le forze di sicurezza israeliane uccidevano una quarantina di palestinesi nella Cisgiordania occupata.

Per gli attivisti e il membro dell’ANP gli arresti dello scorso fine settimana sono l’ultimo segnale in ordine di tempo dell’indebolimento dell’ANP, il che li porta a chiedersi se non stia per perdere il controllo della Cisgiordania.

Sul piano politico sono finiti”

Qualche ora dopo le dimostrazioni, cui hanno partecipato studenti universitari, registi e poeti, durante una veglia di protesta contro gli arresti le forze dell’ordine dell’ANP hanno arrestato un altro manifestante, Khader Adnan, celebre per i suoi scioperi della fame senza uguali durante le sue varie incarcerazioni in detenzione amministrativa nelle prigioni israeliane.

Fadi Quran, difensore dei diritti umani ed esperto di diritto internazionale che era tra gli arrestati, ha detto di essere stato interrogato sulla ragione per la quale ha distribuito bandiere palestinesi e, durante un’udienza, ha chiesto al giudice di condannarlo per essere il primo palestinese sanzionato per il possesso della bandiera nazionale.

L’assurdità della situazione e l’inasprimento dell’ANP di fronte alle critiche portano molti a chiedersi se si tratti di un ultimo attacco disperato: “Ci sono tutti gli elementi per un collasso dell’Autorità Nazionale Palestinese,” afferma Jamal Juma’a, direttore della campagna Stop the Wall [Stop al muro, ndtr.], con sede a Ramallah.

“Sul piano politico sono finiti. Come progetto nazionale, sono finiti. Aggiungi a questo la corruzione generalizzata e ci sono tutte le condizioni per un crollo dell’ANP.” Da parte sua il membro dell’ANP afferma: “Non posso dire se l’Autorità Nazionale Palestinese collasserà a breve, ma sicuramente attraversa una crisi profonda e non sono sicuro di sapere dove questo porterà.”

Jenin è un buon punto di partenza per vedere a cosa potrebbe assomigliare un’ANP che perde il controllo della Cisgiordania.

Negli ultimi due mesi ci sono state parecchie sparatorie nel campo profughi di Jenin tra giovani abitanti armati e le forze di sicurezza israeliane che fanno regolarmente irruzione nel campo.

Dopo due incidenti a luglio e agosto, durante i quali le forze di sicurezza israeliane hanno ferito due palestinesi a Jenin, la scorsa settimana hanno ucciso quattro palestinesi quando un’irruzione nel campo si è trasformata in uno scontro a fuoco.

In risposta il primo ministro palestinese Mohammed Shtayyeh ha criticato le forze israeliane e chiesto all’ONU e alle organizzazioni internazionali di fornire una protezione al popolo palestinese.

Ma Shatha Hamaysha, giornalista freelance di Jenin che collabora con MEE, racconta che la sparatoria della scorsa settimana era stata scatenata dai maldestri tentativi dell’ANP di cercare di controllare la situazione a Jenin.

Secondo lei l’ANP ha proposto di fare da intermediaria tra gli israeliani e i giovani combattenti armati e poco prima dello scontro a fuoco ha arrestato parecchi abitanti che avevano rifiutato di adeguarsi a questo piano.

Quelli che hanno combattuto respingono l’ingerenza dell’ANP, soprattutto alcuni giovani che recentemente si sono uniti ai combattenti a causa della frustrazione provocata dall’ANP.

Precisa che l’ANP ha cercato di risolvere la situazione a Jenin “a modo suo”, diffondendo l’immagine secondo cui controlla la situazione, ma la realtà in città è molto diversa. “A Jenin l’Autorità ha perso la sua presenza sociale e tenta in vari modi di controllare la sicurezza, di imporre l’ordine e di ripristinare la calma,” afferma Hamaysha.

Un’opinione pubblica che non ha più paura

Precisa comunque che si continua a gettare benzina sul fuoco. La settimana scorsa le forze israeliane hanno messo in atto esercitazioni militari nei posti di controllo che circondano Jenin “per inviare un velato messaggio a Jenin e ai suoi giovani.”

A livello locale queste esercitazioni sono considerate come vane dimostrazioni di forza. Per il membro dell’ANP l’incapacità delle forze di sicurezza a proteggere gli abitanti dagli israeliani o di controllare i gruppi armati nel campo profughi è un chiaro segnale. “L’ANP è sempre molto debole. Non può entrare in un luogo come Jenin,” sostiene. Quello che succede a Jenin si estenderà? È la domanda che molti si pongono in Cisgiordania.

MEE ha chiesto all’ANP se ha fatto da intermediaria tra i giovani armati e gli israeliani; se ha arrestato persone ricercate dagli israeliani; se ha svolto attività prima della sparatoria della settimana scorsa e se ha perso il controllo di Jenin. Al momento della pubblicazione [di questo articolo] l’ANP non aveva ancora risposto.

Altro segnale che indica che all’ANP sfugge il controllo sono le persone che sono state arrestate. Non si tratta di sostenitori di Hamas, bersaglio abituale dell’ANP, ma di attivisti laici, persino di alcuni che fino a poco tempo fa sostenevano l’ANP.

Mazin Qumsiyya, docente di biologia alle università di Betlemme e Bir Zeit e attivista politico, era tra i manifestanti di Ramallah. Durante le proteste sono stati arrestati 17 suoi amici, racconta.

Secondo lui questi arresti riflettono un’ANP che non sa cosa deve fare, perché le sue solite strategie sono inefficaci con un’opinione pubblica che non ha più paura.

“Pensavano che quella di Nizar Banat sarebbe diventata una storia vecchia, ma non è stato così. Si sta allargando,” sostiene. “La gente non sta zitta e reagisce sempre di più.”

“Penso che ci si avvii verso il collasso dell’ANP, in particolare riguardo alla sicurezza. Le persone non hanno più paura dell’ANP. Nemmeno quelli che vengono arrestati hanno paura. Quando si supera l’ostacolo della paura tutto è possibile.”

Hani al-Masri, direttore generale di Masarat (Centro Palestinese di Ricerche Politiche e di Studi Strategici) a Ramallah, afferma che il recente comportamento dell’ANP è il riflesso di un’istituzione che reprime perché non sa che altro fare dopo aver perso il sostegno popolare.

“L’Autorità Nazionale Palestinese si è trovata impreparata dopo aver perso le fonti di legittimità interne: legittimità rivoluzionaria, legittimità della resistenza e del consenso nazionale, legittimità delle urne e legittimità dei risultati raggiunti,” elenca.

“Non le restano che le fonti di legittimità esterne: legittimità del potere e della sicurezza. Dopo il fallimento del suo progetto politico, non ne ha adottato uno nuovo.”

Continua: “Ha abbandonato la direzione del suo popolo in tutte le manifestazioni dell’Intifada di Gerusalemme ed ha l’impressione che gli avvenimenti l’abbiano sopraffatta. Ha voluto prendere l’iniziativa arrestando più di 120 persone dal maggio scorso, per inviare un messaggio forte: nessuno, qualunque sia la sua età, può sfuggire agli arresti.”

Un peso per il popolo palestinese

Un sondaggio dei primi di giugno del Palestinian Center for Policy and Survey Research [Centro Palestinese per la Politica e la Ricerca] e della fondazione Konrad-Adenauer appena dopo il rinvio delle elezioni da parte di Abbas mostra che più del 56% dei palestinesi ritiene che l’ANP sia un peso per il popolo palestinese.

Secondo il membro dell’ANP non è nell’interesse degli Stati Uniti o degli israeliani lasciare che l’ANP collassi. Ma dice di prevedere un periodo molto confuso per l’organizzazione, divorata da lotte intestine.

“La sostituzione di Abu Mazen (Mahmoud Abbas) è fonte di conflitti, ma ci sono anche diatribe riguardanti gli incarichi ministeriali,” afferma questa fonte. “Oggi Fatah [principale organizzazione dell’ANP, ndtr.] è disunito. Ci sono divisioni e molti non sono d’accordo con quello che succede sul terreno, in particolare con gli arresti.”

Nel frattempo, avverte, in Cisgiordania circolano dappertutto armi sulle quali l’ANP non ha alcun controllo.

Come Qumsiyya, Juma’a è convinto che i palestinesi abbiano bisogno di un’alternativa politica forte per sostituire l’ANP, di alternative prima di metterla seriamente in discussione.

“Succede di tutto e l’ANP arresta dei palestinesi. Ma dove sono le fazioni politiche? Cosa fanno per porvi termine?” si interroga Juma’a.

“L’Olp deve agire e intervenire. Le fazioni politiche nell’ANP devono dare le dimissioni [dagli incarichi governativi, ndtr.] invece di servire da copertura.”

Secondo Qumsiyya il problema è che i palestinesi pensano di non avere che due possibilità davanti a sé: Hamas o Abbas.

“Ma non è vero. Abbiamo numerose scelte. Molti gruppi si presentavano alle elezioni e in uno di essi c’era lo stesso Nizar Banat. Non faceva parte né di Fatah né di Hamas,” continua.

“La gente vuole un cambiamento profondo, non solo superficiale. Vuole che Abu Mazen e tutto il suo sistema spariscano.”

Tra i manifestanti arrestati il 23 agosto si preparano già piani per nuove dimostrazioni.

Dopo essere stato liberato, sulla sua pagina Facebook il regista Mohammed Alatar ha ringraziato le persone che hanno inviato messaggi di solidarietà al momento del suo arresto.

“Di fatto mi vergogno, perché in Palestina eravamo soliti festeggiare quando eravamo (liberati) dalle prigioni dell’occupazione. Ormai festeggiamo l’uscita dalle nostre stesse prigioni,” scrive.

“Spero che presto tutto questo caos finisca e che ci concentriamo di nuovo sulla nostra fondamentale missione, che consiste nel sbarazzarci dall’occupazione ed essere liberi.”

Poi invita le persone a tornare in piazza Manara a Ramallah, teatro degli arresti di sabato, per una nuova manifestazione.

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)




Gaza: disabili o morte, molte giovani vittime degli attacchi israeliani non ritorneranno a scuola

Maha Hussaini

28 agosto 2021 – Middle East Eye

Fra le centinaia di minori palestinesi feriti durante la campagna israeliana contro Gaza a maggio, molti hanno ora davanti a sé una vita senza istruzione e poche prospettive.

Mohammed Shaaban, otto anni, siede in classe nel primo banco e ascolta attentamente l’insegnante cercando di seguire la lezione il meglio che può.

Con i suoi compagni frequenta la seconda in una scuola a Beit Lahia, nel nord della Striscia di Gaza, ma solo temporaneamente. Ha perso la vista durante l’intensa campagna di bombardamenti israeliani sulla Striscia e ora l’amministrazione scolastica rifiuta di permettergli di continuare gli studi se [la scuola] non può adeguarsi ad alunni con la sua disabilità.

In quella fatale giornata di maggio, Mohammed aveva appena finito di fare la spesa con la mamma e la cugina per la festa di Eid al-Fitr [che celebra la fine del Ramadan, N.d.T.] quando un razzo è caduto sul mercato, lanciando schegge ovunque, alcune delle quali l’hanno colpito in volto.

Tre settimane dopo è stato trasferito in un ospedale in Egitto per ricevere un trattamento per la ferita. I dottori hanno detto al padre che il caso di Mohammed era “senza speranza”.

Uno degli occhi è stato distrutto dalla scheggia, quindi non c’è assolutamente alcuna speranza di salvarlo,” ha detto suo padre, Hani Shaaban, a Middle East Eye (MEE).

L’altro è stato gravemente danneggiato e i medici ci hanno detto che non riuscirà mai più a vedere.”

La tragedia di Mohammed è tutt’altro che unica. Secondo l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, (OHCHR), ci sono stati 66 minori e 40 donne fra i 256 palestinesi uccisi durante gli attacchi durati 11 giorni del territorio soggetto a blocco. Fra i minori uccisi, 51 erano in età scolare. Circa 470 altri minori sono stati feriti negli attacchi.

Oltre 50 strutture scolastiche sono state danneggiate nei bombardamenti, incluse scuole, asili e l’Università islamica di Gaza.

Inoltre il team dell’Explosive Ordnance Disposal (EOD) [preposto alla rilevazione, messa in sicurezza, rimozione ed eliminazione di ordigni esplosivi, N.d.T.] del ministero dell’Interno a Gaza ha detto di aver localizzato quattro bombe israeliane inesplose ancora sepolte nel perimetro delle scuole gestite dall’UNRWA, l’Agenzia ONU per i rifugiati palestinesi.

Vivere in un ‘incubo orrendo ‘

Altrove a Beit Lahia, Mohammed al-Attar, con quattro figli, racconta il giorno in cui ha iscritto la figlioletta Amira alla prima elementare.

Il preside della scuola le ha chiesto di contare fino a 10 e dire l’alfabeto in arabo. Lei l’ha fatto ed erano tutti molto colpiti dalla sua intelligenza. L’hanno ammessa ed era super contenta,” afferma il padre a MEE.

Amira non vedeva l’ora di raccontarlo alla mamma appena tornata a casa, e il fratello maggiore Islam, di 8 anni, aveva già cominciato a programmare il loro primo giorno di scuola insieme.

Islam ha detto ad Amira che l’avrebbe accompagnata a scuola al mattino prima di andare alla sua scuola e poi nel pomeriggio l’avrebbe portata a casa con lui.”

La figlia era entusiasta di andare a fare shopping di materiale scolastico ed era inflessibile sul colore della cartella: doveva essere rosa, dice Attar, che loda Islam perché è un bravo fratello e studente.

Era arrivato primo della classe e noi eravamo così felici. L’abbiamo sempre incoraggiato e volevamo comprargli un regalo per il suo successo.”

Ma non hanno mai potuto andare a scuola insieme. “Il bombardamento è arrivato molto prima,” dice il padre.

Il 14 maggio cinque attacchi israeliani hanno colpito senza preavviso il quartiere di Attar, distruggendo completamente l’edificio che ospitava sei appartamenti.

Al momento dell’attacco la moglie di Attar e i bambini erano a casa seduti tutti insieme, mentre lui era con il fratello in un’altra stanza. La moglie e tre figli sono stati uccisi, mentre lui ha subito solo lievi ferite.

Appena due settimane dopo essersi iscritta a scuola, Amira ha perso la vita, come la mamma, Lamia, 27 anni, e i due fratellini, Islam e Zein, che aveva 5 mesi.

Avevamo progetti per il mese in cui i bambini avrebbero cominciato la scuola. Ma eccomi qui, seduto da solo con l’unico figlio che mi è rimasto a casa di mia madre,” ha detto Attar a MEE. “Tutto è successo così rapidamente che mi sembrava di sognare, adesso non ho nessuno eccetto un bimbo che ha solo cinque anni.

Onestamente non so ancora cosa fare e tutto sembra un incubo orrendo. Non riesco a credere di averli persi tutti e quattro in un solo giorno.”

Bambini traumatizzati

In un’inchiesta su 530 minori in tutta la Striscia di Gaza, un istituto di ricerca per i diritti umani con sede a Ginevra ha rilevato che 9 bambini su10 oggetto dello studio hanno sofferto di una qualche forma di sindrome da stress post-traumatico dovuta a un conflitto (PTSD).

Dopo l’attacco, Mohammed, il ragazzo che ha perso la vista, è cambiato e ora evita interazioni sociali e preferisce stare da solo, afferma il padre a MEE.

Il suo umore cambia ogni 15 minuti, talvolta comincia a piangere e urlare, qualche volta trova qualcosa che lo rallegra, ma è quasi sempre introverso e non parla con nessuno eccetto i familiari,” dice Shaaban.

Ogni mattina quando i fratelli e sorelle si preparano per andare a scuola comincia a piangere e chiede di andare con loro, ma non può più andare alla sua vecchia scuola.”

Shaaban ci ha detto che ha parlato con la scuola per far continuare a studiare il figlio, cieco da poco.

(L’amministrazione) ci ha detto che non può più frequentare scuole normali e che dobbiamo spostarlo in una speciale per ciechi,” dice.

Per accontentare il ragazzino disperato, la scuola permette a Mohammed di stare con i suoi compagni e lo incoraggia a partecipare alle lezioni. “Sta meglio, ma ora vuole andare ogni giorno [alla sua vecchia scuola],” afferma Shaaban. 

Shaaban non ha ancora trovato il coraggio di dire al figlio appassionato di matematica che non potrà mai più leggere o studiare.

Mi chiede sempre quando potrà vedere di nuovo e se potrà andare per strada e a scuola da solo … Non è più uno studente normale.”

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)

 




Opinione: il primo ministro israeliano non cerca un cambiamento. Vuole solo maggiore copertura per l’apartheid e la colonizzazione.

Noura Erakat

26 agosto 2021 – Washington Post

Questa settimana il primo ministro israeliano Naftali Bennett ha fatto una serie di incontri a Washington, incontrandosi con funzionari dell’amministrazione Biden (un colloquio alla Casa Bianca è stato rinviato a causa degli attacchi all’aeroporto di Kabul). Entrambe le parti sperano di ristabilire i rapporti tra gli USA e Israele dopo quattro anni in cui l’ex-presidente Trump ha sfacciatamente promosso gli interessi espansionistici di Israele senza la parvenza progressista delle passate amministrazioni USA. La sinergia tra Trump e il primo ministro Benjamin Netanyahu ha evidenziato la natura farsesca del processo di pace e rafforzato una crescente divisione di parte tra i democratici e i repubblicani riguardo a Israele.

Tuttavia, nonostante il loro massimo impegno per nascondere la realtà – la colonizzazione israeliana di insediamento sulla terra palestinese e il regime di apartheid imposto per consolidare queste appropriazioni di territorio e rafforzare la supremazia ebraica – nessuna operazione di pubbliche relazioni o manipolazione della realtà può cambiare quanto avviene sul terreno o le tendenze che stanno allontanando gli americani da Israele a favore del sostegno alla libertà dei palestinesi.

In politica niente è cambiato. Nei suoi primi otto mesi in carica Biden ha approvato la maggior parte delle iniziative più discutibili di Trump, compresi lo spostamento dell’ambasciata USA a Gerusalemme, l’opposizione all’inchiesta della Corte Penale Internazionale sulle azioni di Israele e l’adozione dell’estremamente problematica definizione di antisemitismo che confonde le critiche contro Israele con il fanatismo antiebraico.

Biden si è categoricamente opposto a qualunque condizionamento dell’aiuto militare a Israele in base alle violazioni dei diritti umani e ha ordinato ai suoi funzionari di lottare contro il movimento di base per il Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS) a favore dei diritti dei palestinesi, che si ispira ai movimenti per i Diritti Civili [negli USA, ndtr.] e contro l’apartheid in Sudafrica. In maggio, durante il bombardamento israeliano di Gaza che ha ucciso più di 250 palestinesi, tra cui 12 famiglie cancellate dall’anagrafe, Biden ha resistito a ripetute richieste all’interno del suo stesso partito per sollecitare pubblicamente Israele a interrompere le violenze.

Da parte sua Bennett è ansioso di presentarsi al principale sponsor di Israele e al mondo. Vuole distinguersi da Netanyahu, sotto il quale e al cui fianco ha lavorato per molti anni, nel tentativo di compiacere i sionisti progressisti USA, che sono alla disperata ricerca di una foglia di fico per sostenere la loro negazione riguardo all’esistenza dell’apartheid israeliano.

Tuttavia Bennett è, se possibile, persino più estremista di Netanyahu. Bennett è stato a capo del Consiglio Yesha, la principale organizzazione che rappresenta i coloni, e si è opposto senza riserve a uno Stato palestinese. In base all’accordo che tiene insieme la sua coalizione, il nuovo governo “incentiverà in modo significativo la costruzione a Gerusalemme,” comprese le colonie a Gerusalemme est, e, secondo informazioni, ha promesso ai capi dei coloni che non ci sarà un blocco delle colonie neppure nel resto della Cisgiordania.

Cosa forse ancor più allarmante, Bennett ha iniziato a cambiare lo status quo nel venerato complesso della moschea del nobile santuario, noto agli ebrei come Monte del Tempio, per consentire agli ebrei di pregarvi. Dall’occupazione di Gerusalemme est nel 1967 Israele ha vietato agli ebrei di pregare sul Nobile Santuario perché molte autorità religiose ebraiche vi si sono opposte per ragioni teologiche e per evitare di provocare tensioni con i musulmani. Ora con Bennett ciò sta cambiando, con conseguenze potenzialmente disastrose non solo per la regione.

Come parte di questo piano per presentare una nuova immagine, Bennett sta cercando di “ridimensionare il conflitto” rendendo più tollerabili le condizioni dei palestinesi con la prosecuzione della dominazione israeliana, proprio come la visione di Trump per una “pace economica”. Questo approccio riguarderà anche l’esaltazione come modelli per la pace degli Accordi di Abramo, il riconoscimento reciproco tra Israele e regimi autoritari sostenuti dagli USA. Bennett probabilmente appoggerà un incremento degli aiuti USA all’Autorità Nazionale Palestinese, che è parte dell’apparato di sicurezza israeliano: proprio di recente essa ha arrestato decine di difensori dei diritti umani palestinesi nel tentativo di reprimere il dissenso.

Biden è altrettanto ansioso di accogliere Bennett e una versione modificata delle politiche di contenimento di Trump. Egli rappresenta la vecchia guardia del Partito Democratico, che ha perso i contatti con gli elettori democratici e con l’opinione pubblica degli USA in generale. I sondaggi mostrano sistematicamente che gli americani di tutto lo spettro politico vogliono che gli USA siano più corretti e imparziali quando si tratta di Israele e dei palestinesi.

Questo spostamento dell’opinione pubblica statunitense è stato chiaramente evidente lo scorso maggio, quando gli americani hanno occupato le reti sociali e sono scesi in piazza in numero senza precedenti per chiedere la fine dell’attacco israeliano contro Gaza e un cambiamento della politica USA nella regione. Con un altro segno dei tempi, la popolare marca di gelati Ben & Jerry ha annunciato che smetterà di vendere gelati nelle colonie israeliane, una decisione che ha sostenuto benché le più alte cariche del governo israeliano abbiano vilmente accusato l’azienda di antisemitismo.

In ogni caso, quando Biden e Bennett si incontreranno alla Casa Bianca, i palestinesi figureranno al massimo come ombre. Ciò è particolarmente insultante alla luce del continuo movimento di protesta dell’Intifada Unita e una testimonianza del fatto che un cambiamento necessario non avverrà dall’alto verso il basso. Nel prossimo futuro probabilmente Israele sarà il suo stesso peggior nemico, in quanto insiste a sostenere che il suo regime di suprematismo razziale è una forma corretta di liberazione nazionale, e probabilmente gli Stati Uniti saranno l’ultima tessera a cadere come fu nel caso della lotta contro l’apartheid in Sud Africa.

Noura Erekat è avvocatessa per i diritti umani e docente associata dell’università Rutgers [prestigiosa università statunitense, ndtr.]. È autrice di “Justice for Some: Law and the Question of Palestine” [Giustizia per qualcuno: la legge e la questione della Palestina].

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Israele sabota l’agricoltura palestinese con prodotti a basso costo

Amany Mahmoud

23 agosto 2021 – Al Monitor

Israele inonda i mercati palestinesi con grandi quantità di prodotti agricoli a basso costo per rovinare l’agricoltura palestinese.

I palestinesi denunciano che Israele distrugge e brucia i raccolti ed erode con prodotti a buon mercato il settore agricolo da cui gli agricoltori dipendono.

Alcuni dei principali raccolti durante i quali Israele infligge deliberatamente perdite agli agricoltori sono quelli delle olive e dell’uva: inonda i mercati palestinesi in Cisgiordania con grandi quantità di questi prodotti a prezzi inferiori, ostacolando la produzione dei palestinesi e incoraggiando la loro dipendenza economica da Israele.

In particolare la stagione della vendemmia, che inizia in agosto, è minacciata dalla concorrenza israeliana. Israele coltiva terreni agricoli nelle colonie che si trovano nei pressi delle città palestinesi e invia migliaia di tonnellate di uva nei mercati palestinesi. Israele utilizza fertilizzanti e altri prodotti chimici nella coltivazione dell’uva per fare in modo che il prodotto maturi in fretta.

In Cisgiordania i palestinesi coltivano circa 64 milioni di m2 di vigne, in cui sono impegnati circa 10.000 agricoltori palestinesi. Secondo il Consiglio Palestinese di Frutta e Uva, i palestinesi producono annualmente circa 50 milioni di kg di uva, di cui circa 27 milioni nel governatorato di Hebron, 6 milioni in quello di Betlemme e altri 6 milioni in quello di Jenin. In Cisgiordania l’uva rappresenta circa il 12% della produzione agricola totale della Palestina.

I palestinesi esportano in Israele grandi quantità di vari prodotti agricoli, per un valore annuo di 300 milioni di dollari. I palestinesi della Cisgiordania esportano quotidianamente verso Israele circa 280.000 kg di prodotti agricoli. Nel contempo, le importazioni agricole annuali palestinesi da Israele raggiungono circa il miliardo di dollari.

Per proteggere i prodotti palestinesi l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) vieta l’importazione di uva coltivata nelle colonie e considera ogni transazione commerciale con Israele un delitto. A dispetto di questo divieto, il mercato palestinese è inondato da prodotti israeliani proibiti e con marchio israeliano, importati illegalmente dai principali commercianti palestinesi nel cuore della notte per evitare i posti di blocco palestinesi.

Mahmoud Abou Merhi, agricoltore palestinese e attivista contro le colonie ebraiche, proprietario di un vigneto di circa 2 ettari, dice ad Al-Monitor che la vendemmia è uno dei raccolti agricoli più importanti in Palestina, e le famiglie palestinesi la festeggiano con canti tradizionali nelle vigne perché porta abbondanza e prosperità ai coltivatori.

“Tuttavia ora abbiamo timore della stagione della vendemmia: ogni anno i coloni ebrei distruggono deliberatamente le nostre vigne e sabotano il raccolto, cospargendo pesticidi tossici sui campi che lo distruggono o cacciando gli agricoltori e le loro famiglie dai terreni agricoli,” afferma.

Abou Merhi teme che la vendemmia di quest’anno vada persa, dato che il mercato locale è invaso da una grande quantità di uva israeliana a buon mercato. “Grandi quantità di uva palestinese rischiano di andare a male a causa delle temperature elevate e delle eccedenze di prodotti israeliani sul mercato palestinese.”

L’agricoltore palestinese Atef Abou Walid dice ad Al Monitor che Israele sta cercando di espellere i coltivatori palestinesi dalle loro terre e li spinge ad abbandonare questa professione, ereditata di generazione in generazione, in modo da insediare avamposti coloniali ed espanderli sulle terre dei cittadini che si trovano presso le colonie.

“Quando i palestinesi vanno al mercato vedono grandi quantità di frutta e verdura israeliane a prezzi che fanno concorrenza ai prodotti locali. A volte i prodotti israeliani costano meno di quelli palestinesi. Persino se la qualità è inferiore, spesso i cittadini finiscono con il comprare i prodotti israeliani a buon mercato,” nota.

Abu Wadi aggiunge: “Nonostante le gravi perdite che subiamo, i nostri agricoltori continueranno a coltivare le nostre terre per impedire che Israele raggiunga il suo obiettivo di confiscarle.” Egli accusa Israele di imporre restrizioni supplementari ai coltivatori palestinesi, in quanto di recente ha iniziato a chiudere le strade agricole che portano ai vigneti di Hebron, nel sud della Cisgiordania, isolando circa 2.000 ettari di terreni, molti dei quali sono vigneti.

Le attrezzature israeliane avanzate, i prodotti chimici, i fertilizzanti e i moderni sistemi di irrigazione aiutano gli agricoltori israeliani a offrire i loro prodotti agricoli, e in particolare l’uva, circa un mese prima che la produzione palestinese arrivi sul mercato. Israele vieta di fornire ai coltivatori palestinesi queste tecnologie e materiali, in particolare pesticidi e fertilizzanti chimici, che permettono l’allungamento della durata della vita della loro uva e ne migliorano sapore e qualità.

Fathi Abou Ayashn, direttore del Consiglio di Frutta e Uva, dichiara ad Al Monitor che i mercati palestinesi sono stati invasi da circa 27.000 tonnellate di uva sempre matura, il che attira l’attenzione dei consumatori.

“I mercati palestinesi non sono protetti, quindi i prodotti israeliani li possono inondare,” prosegue. Ciò è dovuto all’assenza di controlli efficaci dei prodotti israeliani sul mercato palestinese. I mercati palestinesi e israeliani sono strettamente interconnessi, il che permette a molti commercianti di importare in modo massiccio i prodotti e i beni israeliani.”

Abou Ayyash spiega che le autorità competenti che controllano il mercato non hanno risorse finanziarie, cosa che indebolisce la capacità dei palestinesi di controllare molti beni e merci. “Non abbiamo neppure standard tecnici vincolanti per tutti i beni commercializzati in Palestina e pochissimi procedimenti giudiziari sono stati avviati contro i trasgressori.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Il valico di Rafah e l’angosciosa procedura per i palestinesi di Gaza

Il viaggio dal Cairo a Rafah può durare fino a tre giorni a causa dei periodici controlli e delle ripetute perquisizioni dei bagagli. “I funzionari egiziani non dimostrano nessun rispetto, neppure per i malati o gli anziani.”

Motasem A. Dalloul

24 agosto 2021 – Monitor de Oriente

 

Il giovane Ayman Adly si è laureato in farmacia all’università Al Azhar di Gaza nel 2009. Dato l’alto tasso di disoccupazione provocato dall’assedio e dalle ripetute offensive militari lanciate contro l’enclave costiera da parte di Israele, non ha potuto trovare lavoro.

“Mi sono connesso a internet ed ho seguito decine di account di reti social e pagine specializzate nel mettere in contatto chi cerca un impiego con datori di lavoro all’estero,” mi dice. “Non c’è voluto molto perché fossi preselezionato per un colloquio. L’azienda mi ha chiesto se potevo lavorare negli Emirati Arabi Uniti (EAU) e ho detto di sì. Lì sono iniziate le difficoltà.”

L’ostacolo successivo è stato il valico di Rafah, dal 2007 [data d’inizio dell’assedio israeliano, ndtr.] l’unica uscita verso il resto del mondo per la maggioranza dei palestinesi della Striscia di Gaza. Per utilizzarlo aveva bisogno di un passaporto, per cui ha raccolto come dovuto tutta la documentazione richiesta ed ha presentato domanda. L’Autorità Nazionale Palestinese di Ramallah  ci ha messo due mesi a rilasciargli il passaporto.

“Mi è stato rilasciato nel 2009 ed è scaduto nel 2014,” dice. “Il secondo è stato rilasciato in due settimane nel 2015 ed è scaduto nel 2020.” Ne ha subito chiesto un terzo e l’ha ottenuto in una settimana. Quindi Adly ha avuto tre passaporti, e non ne ha utilizzato nessuno per viaggiare.

“Con in mano il primo passaporto sono andato al valico di Rafah e, dopo aver passato sul lato egiziano circa 20 ore in una sala per immigrati strapiena di gente, un impiegato mi ha chiamato per nome, mi ha restituito il passaporto e mi ha detto che il mio nome era sulla lista nera e che avevo il divieto di ingresso o di passaggio in Egitto.”

Con quella breve frase l’impiegato egiziano ha spezzato le speranze di Adly di arrivare al suo nuovo lavoro negli EAU. Continuerà a provarci, dice, ma ci vorrà molta pazienza.

Secondo il ministero degli Interni palestinese a Gaza c’è un elenco di più di 27.000 persone che devono viaggiare passando per il valico di Rafah. Le autorità egiziane consentono il passaggio solo a 350 persone attraverso la stanza normale e a circa 100 da quella VIP al giorno quando il valico è aperto (ci sono frequenti chiusure). Quelli che devono viaggiare ci mettono mesi per passare da Rafah.

“Il numero di persone che vogliono viaggiare aumenta costantemente,” spiega Iyad Al-Bozom, portavoce del ministero dell’Interno [di Gaza, ndtr.]. “Abbiamo chiesto agli egiziani di aumentare la quota giornaliera di persone che possono passare.” La richiesta è ovviamente caduta nel nulla.

Cinque anni fa l’esercito egiziano ha creato l’impresa Ya Hala per il turismo e i viaggi. Organizza viaggi VIP per i palestinesi di Gaza che possono pagare. All’inizio lavorava dietro le quinte. Dopo le proteste della Grande Marcia del Ritorno del 2018 e gli accordi raggiunti tra Israele, Egitto e i gruppi della resistenza palestinese a Gaza, il valico è rimasto aperto regolarmente e questa impresa ha iniziato a lavorare alla luce del sole.

Si è accordata con agenzie di viaggio di Gaza che hanno cominciato a promuovere i suoi servizi. Le autorità egiziane hanno costruito una sala immigrazione speciale per i suoi clienti.

Hatem, che non ha voluto fornire il suo cognome, è un agente di un’agenzia di viaggi e turismo con sede a Gaza. “Registriamo da 100 a 150 passeggeri VIP al giorno,” dice. “Facciamo controlli di sicurezza a ognuno di loro per 100 dollari. Se la persona non è sulla lista nera pagherà tra i 400 e i 500 dollari per passare sul lato egiziano del valico e per un taxi fino al Cairo.”

Questi VIP non subiscono ulteriori controlli di sicurezza e i taxi li portano dal confine direttamente al Cairo. Non si fermano a nessuno dei controlli militari e i loro bagagli non vengono controllati. Il viaggio al Cairo dura solo 6 ore, al massimo 7 o 8. “Tutti i soldi che facciamo pagare vanno a finire a imprese egiziane, sicuramente controllate dall’esercito,” sottolinea Hatem. “Noi riceviamo solo qualche provvigione.”

Tuttavia la gente come Ayman Adly non ha denaro sufficiente per pagare così tanto e passare da Rafah come VIP. Lui e quelli come lui possono aspettare anni prima di viaggiare.

Quelli che arrivano alla sala immigrazione egiziana possono aspettare molto tempo: le 20 ore di Adly non sono rare. I servizi della sicurezza nazionale egiziana interrogano molti sulla loro appartenenza politica e sulle attività politiche e religiose.

Sameer Abu Jazar è appena tornato a Gaza dal Qatar. Descrive il suo viaggio dal Cairo a Gaza come “la via verso l’inferno”. Tutti i viaggiatori che non sono VIP devono sopportare il sole ardente per 12 ore nel posto di controllo di Al-Faradan, nei pressi del Canale di Suez.

“Le forze di sicurezza egiziane controllano i bagagli dei palestinesi e confiscano quasi tutti gli apparecchi elettronici, compresi i computer portatili e i telefonini,” spiega Abu Jazar. “Lasciano solo un telefono a viaggiatore e a volte nessun computer portatile. Confiscano profumi e molte altre cose. A volte anche cibo.”

Ha aspettato con altre centinaia di persone dalle 6 del mattino fino alle 10 di notte all’aperto. Non c’è un posto in cui proteggersi e i servizi sono scarsi. “Non ci sono gabinetti. Se hai bisogno ti devi allontanare, trovare un posto un po’ appartate e farla lì.”

Il viaggio dal Cairo a Rafah può durare fino a tre giorni, a causa dei controlli regolari e delle continue perquisizioni del bagaglio. “I funzionari egiziani non dimostrano alcun rispetto, neppure per malati o anziani,” afferma Abu Jazar.

Ciò è quanto aspetta i palestinesi che vogliono viaggiare da Gaza attraverso il valico di Rafah. È un percorso doloroso, che però devono sopportare se sperano di ottenere un volo che li porti al luogo di studio, di cura o a un nuovo lavoro.

“Se avessi un’alternativa per tornare a Gaza l’avrei presa,” conclude Abu Jazar. “Qualunque cosa dev’essere meglio del modo infernale in cui ci trattano gli egiziani. Qualunque cosa.”

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Monitor de Oriente.

 

(traduzione dallo spagnolo di Amedeo Rossi)