L’Autorità Nazionale Palestinese sta perdendo il controllo sulla Cisgiordania

Lubna Masarwa, Dania Akkad

30 agosto 2021 – Middle East Eye

Mesi di crescente repressione e di arresti portano a interrogarsi sul suo imminente collasso persino i sostenitori dell’Autorità Nazionale Palestinese.

Il 23 agosto, vedendo che le forze di sicurezza arrestavano circa una trentina di manifestanti che esigevano risposte riguardo alla morte di Nizar Banat, un oppositore di Mahmoud Abbas deceduto dopo un’irruzione di agenti della sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) in casa sua, un membro dell’ANP si è ricordato di quello che era avvenuto in Egitto quarant’anni fa.

“Ciò mi ricorda gli ultimi giorni di (Anwar) Sadat,” ha confidato a Middle East Eye, a condizione di rimanere anonimo per una questione di sicurezza personale. Nelle settimane che nel 1981 precedettero l’assassinio del presidente egiziano, Sadat aveva fatto arrestare 1.600 egiziani di ogni orientamento politico. “Avevano cominciato ad arrestare tutti quanti, come giornalisti e scrittori, e chiunque si ribellasse a Sadat.”

I suoi membri e alcuni osservatori affermano che la fragilità dell’ANP è al centro dell’attenzione da mesi. Ciò è iniziato in aprile, quando il presidente Mahmoud Abbas ha rinviato le elezioni politiche. In maggio l’ANP è rimasta ai margini quando Israele ha bombardato Gaza.

Durante l’estate l’ANP ha reagito con l’arresto di decine di attivisti alle manifestazioni che criticavano le sue iniziative, e persino quelle in solidarietà con i palestinesi di Gaza, rimanendo nel contempo in silenzio mentre le forze di sicurezza israeliane uccidevano una quarantina di palestinesi nella Cisgiordania occupata.

Per gli attivisti e il membro dell’ANP gli arresti dello scorso fine settimana sono l’ultimo segnale in ordine di tempo dell’indebolimento dell’ANP, il che li porta a chiedersi se non stia per perdere il controllo della Cisgiordania.

Sul piano politico sono finiti”

Qualche ora dopo le dimostrazioni, cui hanno partecipato studenti universitari, registi e poeti, durante una veglia di protesta contro gli arresti le forze dell’ordine dell’ANP hanno arrestato un altro manifestante, Khader Adnan, celebre per i suoi scioperi della fame senza uguali durante le sue varie incarcerazioni in detenzione amministrativa nelle prigioni israeliane.

Fadi Quran, difensore dei diritti umani ed esperto di diritto internazionale che era tra gli arrestati, ha detto di essere stato interrogato sulla ragione per la quale ha distribuito bandiere palestinesi e, durante un’udienza, ha chiesto al giudice di condannarlo per essere il primo palestinese sanzionato per il possesso della bandiera nazionale.

L’assurdità della situazione e l’inasprimento dell’ANP di fronte alle critiche portano molti a chiedersi se si tratti di un ultimo attacco disperato: “Ci sono tutti gli elementi per un collasso dell’Autorità Nazionale Palestinese,” afferma Jamal Juma’a, direttore della campagna Stop the Wall [Stop al muro, ndtr.], con sede a Ramallah.

“Sul piano politico sono finiti. Come progetto nazionale, sono finiti. Aggiungi a questo la corruzione generalizzata e ci sono tutte le condizioni per un crollo dell’ANP.” Da parte sua il membro dell’ANP afferma: “Non posso dire se l’Autorità Nazionale Palestinese collasserà a breve, ma sicuramente attraversa una crisi profonda e non sono sicuro di sapere dove questo porterà.”

Jenin è un buon punto di partenza per vedere a cosa potrebbe assomigliare un’ANP che perde il controllo della Cisgiordania.

Negli ultimi due mesi ci sono state parecchie sparatorie nel campo profughi di Jenin tra giovani abitanti armati e le forze di sicurezza israeliane che fanno regolarmente irruzione nel campo.

Dopo due incidenti a luglio e agosto, durante i quali le forze di sicurezza israeliane hanno ferito due palestinesi a Jenin, la scorsa settimana hanno ucciso quattro palestinesi quando un’irruzione nel campo si è trasformata in uno scontro a fuoco.

In risposta il primo ministro palestinese Mohammed Shtayyeh ha criticato le forze israeliane e chiesto all’ONU e alle organizzazioni internazionali di fornire una protezione al popolo palestinese.

Ma Shatha Hamaysha, giornalista freelance di Jenin che collabora con MEE, racconta che la sparatoria della scorsa settimana era stata scatenata dai maldestri tentativi dell’ANP di cercare di controllare la situazione a Jenin.

Secondo lei l’ANP ha proposto di fare da intermediaria tra gli israeliani e i giovani combattenti armati e poco prima dello scontro a fuoco ha arrestato parecchi abitanti che avevano rifiutato di adeguarsi a questo piano.

Quelli che hanno combattuto respingono l’ingerenza dell’ANP, soprattutto alcuni giovani che recentemente si sono uniti ai combattenti a causa della frustrazione provocata dall’ANP.

Precisa che l’ANP ha cercato di risolvere la situazione a Jenin “a modo suo”, diffondendo l’immagine secondo cui controlla la situazione, ma la realtà in città è molto diversa. “A Jenin l’Autorità ha perso la sua presenza sociale e tenta in vari modi di controllare la sicurezza, di imporre l’ordine e di ripristinare la calma,” afferma Hamaysha.

Un’opinione pubblica che non ha più paura

Precisa comunque che si continua a gettare benzina sul fuoco. La settimana scorsa le forze israeliane hanno messo in atto esercitazioni militari nei posti di controllo che circondano Jenin “per inviare un velato messaggio a Jenin e ai suoi giovani.”

A livello locale queste esercitazioni sono considerate come vane dimostrazioni di forza. Per il membro dell’ANP l’incapacità delle forze di sicurezza a proteggere gli abitanti dagli israeliani o di controllare i gruppi armati nel campo profughi è un chiaro segnale. “L’ANP è sempre molto debole. Non può entrare in un luogo come Jenin,” sostiene. Quello che succede a Jenin si estenderà? È la domanda che molti si pongono in Cisgiordania.

MEE ha chiesto all’ANP se ha fatto da intermediaria tra i giovani armati e gli israeliani; se ha arrestato persone ricercate dagli israeliani; se ha svolto attività prima della sparatoria della settimana scorsa e se ha perso il controllo di Jenin. Al momento della pubblicazione [di questo articolo] l’ANP non aveva ancora risposto.

Altro segnale che indica che all’ANP sfugge il controllo sono le persone che sono state arrestate. Non si tratta di sostenitori di Hamas, bersaglio abituale dell’ANP, ma di attivisti laici, persino di alcuni che fino a poco tempo fa sostenevano l’ANP.

Mazin Qumsiyya, docente di biologia alle università di Betlemme e Bir Zeit e attivista politico, era tra i manifestanti di Ramallah. Durante le proteste sono stati arrestati 17 suoi amici, racconta.

Secondo lui questi arresti riflettono un’ANP che non sa cosa deve fare, perché le sue solite strategie sono inefficaci con un’opinione pubblica che non ha più paura.

“Pensavano che quella di Nizar Banat sarebbe diventata una storia vecchia, ma non è stato così. Si sta allargando,” sostiene. “La gente non sta zitta e reagisce sempre di più.”

“Penso che ci si avvii verso il collasso dell’ANP, in particolare riguardo alla sicurezza. Le persone non hanno più paura dell’ANP. Nemmeno quelli che vengono arrestati hanno paura. Quando si supera l’ostacolo della paura tutto è possibile.”

Hani al-Masri, direttore generale di Masarat (Centro Palestinese di Ricerche Politiche e di Studi Strategici) a Ramallah, afferma che il recente comportamento dell’ANP è il riflesso di un’istituzione che reprime perché non sa che altro fare dopo aver perso il sostegno popolare.

“L’Autorità Nazionale Palestinese si è trovata impreparata dopo aver perso le fonti di legittimità interne: legittimità rivoluzionaria, legittimità della resistenza e del consenso nazionale, legittimità delle urne e legittimità dei risultati raggiunti,” elenca.

“Non le restano che le fonti di legittimità esterne: legittimità del potere e della sicurezza. Dopo il fallimento del suo progetto politico, non ne ha adottato uno nuovo.”

Continua: “Ha abbandonato la direzione del suo popolo in tutte le manifestazioni dell’Intifada di Gerusalemme ed ha l’impressione che gli avvenimenti l’abbiano sopraffatta. Ha voluto prendere l’iniziativa arrestando più di 120 persone dal maggio scorso, per inviare un messaggio forte: nessuno, qualunque sia la sua età, può sfuggire agli arresti.”

Un peso per il popolo palestinese

Un sondaggio dei primi di giugno del Palestinian Center for Policy and Survey Research [Centro Palestinese per la Politica e la Ricerca] e della fondazione Konrad-Adenauer appena dopo il rinvio delle elezioni da parte di Abbas mostra che più del 56% dei palestinesi ritiene che l’ANP sia un peso per il popolo palestinese.

Secondo il membro dell’ANP non è nell’interesse degli Stati Uniti o degli israeliani lasciare che l’ANP collassi. Ma dice di prevedere un periodo molto confuso per l’organizzazione, divorata da lotte intestine.

“La sostituzione di Abu Mazen (Mahmoud Abbas) è fonte di conflitti, ma ci sono anche diatribe riguardanti gli incarichi ministeriali,” afferma questa fonte. “Oggi Fatah [principale organizzazione dell’ANP, ndtr.] è disunito. Ci sono divisioni e molti non sono d’accordo con quello che succede sul terreno, in particolare con gli arresti.”

Nel frattempo, avverte, in Cisgiordania circolano dappertutto armi sulle quali l’ANP non ha alcun controllo.

Come Qumsiyya, Juma’a è convinto che i palestinesi abbiano bisogno di un’alternativa politica forte per sostituire l’ANP, di alternative prima di metterla seriamente in discussione.

“Succede di tutto e l’ANP arresta dei palestinesi. Ma dove sono le fazioni politiche? Cosa fanno per porvi termine?” si interroga Juma’a.

“L’Olp deve agire e intervenire. Le fazioni politiche nell’ANP devono dare le dimissioni [dagli incarichi governativi, ndtr.] invece di servire da copertura.”

Secondo Qumsiyya il problema è che i palestinesi pensano di non avere che due possibilità davanti a sé: Hamas o Abbas.

“Ma non è vero. Abbiamo numerose scelte. Molti gruppi si presentavano alle elezioni e in uno di essi c’era lo stesso Nizar Banat. Non faceva parte né di Fatah né di Hamas,” continua.

“La gente vuole un cambiamento profondo, non solo superficiale. Vuole che Abu Mazen e tutto il suo sistema spariscano.”

Tra i manifestanti arrestati il 23 agosto si preparano già piani per nuove dimostrazioni.

Dopo essere stato liberato, sulla sua pagina Facebook il regista Mohammed Alatar ha ringraziato le persone che hanno inviato messaggi di solidarietà al momento del suo arresto.

“Di fatto mi vergogno, perché in Palestina eravamo soliti festeggiare quando eravamo (liberati) dalle prigioni dell’occupazione. Ormai festeggiamo l’uscita dalle nostre stesse prigioni,” scrive.

“Spero che presto tutto questo caos finisca e che ci concentriamo di nuovo sulla nostra fondamentale missione, che consiste nel sbarazzarci dall’occupazione ed essere liberi.”

Poi invita le persone a tornare in piazza Manara a Ramallah, teatro degli arresti di sabato, per una nuova manifestazione.

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)




Gaza: disabili o morte, molte giovani vittime degli attacchi israeliani non ritorneranno a scuola

Maha Hussaini

28 agosto 2021 – Middle East Eye

Fra le centinaia di minori palestinesi feriti durante la campagna israeliana contro Gaza a maggio, molti hanno ora davanti a sé una vita senza istruzione e poche prospettive.

Mohammed Shaaban, otto anni, siede in classe nel primo banco e ascolta attentamente l’insegnante cercando di seguire la lezione il meglio che può.

Con i suoi compagni frequenta la seconda in una scuola a Beit Lahia, nel nord della Striscia di Gaza, ma solo temporaneamente. Ha perso la vista durante l’intensa campagna di bombardamenti israeliani sulla Striscia e ora l’amministrazione scolastica rifiuta di permettergli di continuare gli studi se [la scuola] non può adeguarsi ad alunni con la sua disabilità.

In quella fatale giornata di maggio, Mohammed aveva appena finito di fare la spesa con la mamma e la cugina per la festa di Eid al-Fitr [che celebra la fine del Ramadan, N.d.T.] quando un razzo è caduto sul mercato, lanciando schegge ovunque, alcune delle quali l’hanno colpito in volto.

Tre settimane dopo è stato trasferito in un ospedale in Egitto per ricevere un trattamento per la ferita. I dottori hanno detto al padre che il caso di Mohammed era “senza speranza”.

Uno degli occhi è stato distrutto dalla scheggia, quindi non c’è assolutamente alcuna speranza di salvarlo,” ha detto suo padre, Hani Shaaban, a Middle East Eye (MEE).

L’altro è stato gravemente danneggiato e i medici ci hanno detto che non riuscirà mai più a vedere.”

La tragedia di Mohammed è tutt’altro che unica. Secondo l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, (OHCHR), ci sono stati 66 minori e 40 donne fra i 256 palestinesi uccisi durante gli attacchi durati 11 giorni del territorio soggetto a blocco. Fra i minori uccisi, 51 erano in età scolare. Circa 470 altri minori sono stati feriti negli attacchi.

Oltre 50 strutture scolastiche sono state danneggiate nei bombardamenti, incluse scuole, asili e l’Università islamica di Gaza.

Inoltre il team dell’Explosive Ordnance Disposal (EOD) [preposto alla rilevazione, messa in sicurezza, rimozione ed eliminazione di ordigni esplosivi, N.d.T.] del ministero dell’Interno a Gaza ha detto di aver localizzato quattro bombe israeliane inesplose ancora sepolte nel perimetro delle scuole gestite dall’UNRWA, l’Agenzia ONU per i rifugiati palestinesi.

Vivere in un ‘incubo orrendo ‘

Altrove a Beit Lahia, Mohammed al-Attar, con quattro figli, racconta il giorno in cui ha iscritto la figlioletta Amira alla prima elementare.

Il preside della scuola le ha chiesto di contare fino a 10 e dire l’alfabeto in arabo. Lei l’ha fatto ed erano tutti molto colpiti dalla sua intelligenza. L’hanno ammessa ed era super contenta,” afferma il padre a MEE.

Amira non vedeva l’ora di raccontarlo alla mamma appena tornata a casa, e il fratello maggiore Islam, di 8 anni, aveva già cominciato a programmare il loro primo giorno di scuola insieme.

Islam ha detto ad Amira che l’avrebbe accompagnata a scuola al mattino prima di andare alla sua scuola e poi nel pomeriggio l’avrebbe portata a casa con lui.”

La figlia era entusiasta di andare a fare shopping di materiale scolastico ed era inflessibile sul colore della cartella: doveva essere rosa, dice Attar, che loda Islam perché è un bravo fratello e studente.

Era arrivato primo della classe e noi eravamo così felici. L’abbiamo sempre incoraggiato e volevamo comprargli un regalo per il suo successo.”

Ma non hanno mai potuto andare a scuola insieme. “Il bombardamento è arrivato molto prima,” dice il padre.

Il 14 maggio cinque attacchi israeliani hanno colpito senza preavviso il quartiere di Attar, distruggendo completamente l’edificio che ospitava sei appartamenti.

Al momento dell’attacco la moglie di Attar e i bambini erano a casa seduti tutti insieme, mentre lui era con il fratello in un’altra stanza. La moglie e tre figli sono stati uccisi, mentre lui ha subito solo lievi ferite.

Appena due settimane dopo essersi iscritta a scuola, Amira ha perso la vita, come la mamma, Lamia, 27 anni, e i due fratellini, Islam e Zein, che aveva 5 mesi.

Avevamo progetti per il mese in cui i bambini avrebbero cominciato la scuola. Ma eccomi qui, seduto da solo con l’unico figlio che mi è rimasto a casa di mia madre,” ha detto Attar a MEE. “Tutto è successo così rapidamente che mi sembrava di sognare, adesso non ho nessuno eccetto un bimbo che ha solo cinque anni.

Onestamente non so ancora cosa fare e tutto sembra un incubo orrendo. Non riesco a credere di averli persi tutti e quattro in un solo giorno.”

Bambini traumatizzati

In un’inchiesta su 530 minori in tutta la Striscia di Gaza, un istituto di ricerca per i diritti umani con sede a Ginevra ha rilevato che 9 bambini su10 oggetto dello studio hanno sofferto di una qualche forma di sindrome da stress post-traumatico dovuta a un conflitto (PTSD).

Dopo l’attacco, Mohammed, il ragazzo che ha perso la vista, è cambiato e ora evita interazioni sociali e preferisce stare da solo, afferma il padre a MEE.

Il suo umore cambia ogni 15 minuti, talvolta comincia a piangere e urlare, qualche volta trova qualcosa che lo rallegra, ma è quasi sempre introverso e non parla con nessuno eccetto i familiari,” dice Shaaban.

Ogni mattina quando i fratelli e sorelle si preparano per andare a scuola comincia a piangere e chiede di andare con loro, ma non può più andare alla sua vecchia scuola.”

Shaaban ci ha detto che ha parlato con la scuola per far continuare a studiare il figlio, cieco da poco.

(L’amministrazione) ci ha detto che non può più frequentare scuole normali e che dobbiamo spostarlo in una speciale per ciechi,” dice.

Per accontentare il ragazzino disperato, la scuola permette a Mohammed di stare con i suoi compagni e lo incoraggia a partecipare alle lezioni. “Sta meglio, ma ora vuole andare ogni giorno [alla sua vecchia scuola],” afferma Shaaban. 

Shaaban non ha ancora trovato il coraggio di dire al figlio appassionato di matematica che non potrà mai più leggere o studiare.

Mi chiede sempre quando potrà vedere di nuovo e se potrà andare per strada e a scuola da solo … Non è più uno studente normale.”

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)

 




Opinione: il primo ministro israeliano non cerca un cambiamento. Vuole solo maggiore copertura per l’apartheid e la colonizzazione.

Noura Erakat

26 agosto 2021 – Washington Post

Questa settimana il primo ministro israeliano Naftali Bennett ha fatto una serie di incontri a Washington, incontrandosi con funzionari dell’amministrazione Biden (un colloquio alla Casa Bianca è stato rinviato a causa degli attacchi all’aeroporto di Kabul). Entrambe le parti sperano di ristabilire i rapporti tra gli USA e Israele dopo quattro anni in cui l’ex-presidente Trump ha sfacciatamente promosso gli interessi espansionistici di Israele senza la parvenza progressista delle passate amministrazioni USA. La sinergia tra Trump e il primo ministro Benjamin Netanyahu ha evidenziato la natura farsesca del processo di pace e rafforzato una crescente divisione di parte tra i democratici e i repubblicani riguardo a Israele.

Tuttavia, nonostante il loro massimo impegno per nascondere la realtà – la colonizzazione israeliana di insediamento sulla terra palestinese e il regime di apartheid imposto per consolidare queste appropriazioni di territorio e rafforzare la supremazia ebraica – nessuna operazione di pubbliche relazioni o manipolazione della realtà può cambiare quanto avviene sul terreno o le tendenze che stanno allontanando gli americani da Israele a favore del sostegno alla libertà dei palestinesi.

In politica niente è cambiato. Nei suoi primi otto mesi in carica Biden ha approvato la maggior parte delle iniziative più discutibili di Trump, compresi lo spostamento dell’ambasciata USA a Gerusalemme, l’opposizione all’inchiesta della Corte Penale Internazionale sulle azioni di Israele e l’adozione dell’estremamente problematica definizione di antisemitismo che confonde le critiche contro Israele con il fanatismo antiebraico.

Biden si è categoricamente opposto a qualunque condizionamento dell’aiuto militare a Israele in base alle violazioni dei diritti umani e ha ordinato ai suoi funzionari di lottare contro il movimento di base per il Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS) a favore dei diritti dei palestinesi, che si ispira ai movimenti per i Diritti Civili [negli USA, ndtr.] e contro l’apartheid in Sudafrica. In maggio, durante il bombardamento israeliano di Gaza che ha ucciso più di 250 palestinesi, tra cui 12 famiglie cancellate dall’anagrafe, Biden ha resistito a ripetute richieste all’interno del suo stesso partito per sollecitare pubblicamente Israele a interrompere le violenze.

Da parte sua Bennett è ansioso di presentarsi al principale sponsor di Israele e al mondo. Vuole distinguersi da Netanyahu, sotto il quale e al cui fianco ha lavorato per molti anni, nel tentativo di compiacere i sionisti progressisti USA, che sono alla disperata ricerca di una foglia di fico per sostenere la loro negazione riguardo all’esistenza dell’apartheid israeliano.

Tuttavia Bennett è, se possibile, persino più estremista di Netanyahu. Bennett è stato a capo del Consiglio Yesha, la principale organizzazione che rappresenta i coloni, e si è opposto senza riserve a uno Stato palestinese. In base all’accordo che tiene insieme la sua coalizione, il nuovo governo “incentiverà in modo significativo la costruzione a Gerusalemme,” comprese le colonie a Gerusalemme est, e, secondo informazioni, ha promesso ai capi dei coloni che non ci sarà un blocco delle colonie neppure nel resto della Cisgiordania.

Cosa forse ancor più allarmante, Bennett ha iniziato a cambiare lo status quo nel venerato complesso della moschea del nobile santuario, noto agli ebrei come Monte del Tempio, per consentire agli ebrei di pregarvi. Dall’occupazione di Gerusalemme est nel 1967 Israele ha vietato agli ebrei di pregare sul Nobile Santuario perché molte autorità religiose ebraiche vi si sono opposte per ragioni teologiche e per evitare di provocare tensioni con i musulmani. Ora con Bennett ciò sta cambiando, con conseguenze potenzialmente disastrose non solo per la regione.

Come parte di questo piano per presentare una nuova immagine, Bennett sta cercando di “ridimensionare il conflitto” rendendo più tollerabili le condizioni dei palestinesi con la prosecuzione della dominazione israeliana, proprio come la visione di Trump per una “pace economica”. Questo approccio riguarderà anche l’esaltazione come modelli per la pace degli Accordi di Abramo, il riconoscimento reciproco tra Israele e regimi autoritari sostenuti dagli USA. Bennett probabilmente appoggerà un incremento degli aiuti USA all’Autorità Nazionale Palestinese, che è parte dell’apparato di sicurezza israeliano: proprio di recente essa ha arrestato decine di difensori dei diritti umani palestinesi nel tentativo di reprimere il dissenso.

Biden è altrettanto ansioso di accogliere Bennett e una versione modificata delle politiche di contenimento di Trump. Egli rappresenta la vecchia guardia del Partito Democratico, che ha perso i contatti con gli elettori democratici e con l’opinione pubblica degli USA in generale. I sondaggi mostrano sistematicamente che gli americani di tutto lo spettro politico vogliono che gli USA siano più corretti e imparziali quando si tratta di Israele e dei palestinesi.

Questo spostamento dell’opinione pubblica statunitense è stato chiaramente evidente lo scorso maggio, quando gli americani hanno occupato le reti sociali e sono scesi in piazza in numero senza precedenti per chiedere la fine dell’attacco israeliano contro Gaza e un cambiamento della politica USA nella regione. Con un altro segno dei tempi, la popolare marca di gelati Ben & Jerry ha annunciato che smetterà di vendere gelati nelle colonie israeliane, una decisione che ha sostenuto benché le più alte cariche del governo israeliano abbiano vilmente accusato l’azienda di antisemitismo.

In ogni caso, quando Biden e Bennett si incontreranno alla Casa Bianca, i palestinesi figureranno al massimo come ombre. Ciò è particolarmente insultante alla luce del continuo movimento di protesta dell’Intifada Unita e una testimonianza del fatto che un cambiamento necessario non avverrà dall’alto verso il basso. Nel prossimo futuro probabilmente Israele sarà il suo stesso peggior nemico, in quanto insiste a sostenere che il suo regime di suprematismo razziale è una forma corretta di liberazione nazionale, e probabilmente gli Stati Uniti saranno l’ultima tessera a cadere come fu nel caso della lotta contro l’apartheid in Sud Africa.

Noura Erekat è avvocatessa per i diritti umani e docente associata dell’università Rutgers [prestigiosa università statunitense, ndtr.]. È autrice di “Justice for Some: Law and the Question of Palestine” [Giustizia per qualcuno: la legge e la questione della Palestina].

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Israele sabota l’agricoltura palestinese con prodotti a basso costo

Amany Mahmoud

23 agosto 2021 – Al Monitor

Israele inonda i mercati palestinesi con grandi quantità di prodotti agricoli a basso costo per rovinare l’agricoltura palestinese.

I palestinesi denunciano che Israele distrugge e brucia i raccolti ed erode con prodotti a buon mercato il settore agricolo da cui gli agricoltori dipendono.

Alcuni dei principali raccolti durante i quali Israele infligge deliberatamente perdite agli agricoltori sono quelli delle olive e dell’uva: inonda i mercati palestinesi in Cisgiordania con grandi quantità di questi prodotti a prezzi inferiori, ostacolando la produzione dei palestinesi e incoraggiando la loro dipendenza economica da Israele.

In particolare la stagione della vendemmia, che inizia in agosto, è minacciata dalla concorrenza israeliana. Israele coltiva terreni agricoli nelle colonie che si trovano nei pressi delle città palestinesi e invia migliaia di tonnellate di uva nei mercati palestinesi. Israele utilizza fertilizzanti e altri prodotti chimici nella coltivazione dell’uva per fare in modo che il prodotto maturi in fretta.

In Cisgiordania i palestinesi coltivano circa 64 milioni di m2 di vigne, in cui sono impegnati circa 10.000 agricoltori palestinesi. Secondo il Consiglio Palestinese di Frutta e Uva, i palestinesi producono annualmente circa 50 milioni di kg di uva, di cui circa 27 milioni nel governatorato di Hebron, 6 milioni in quello di Betlemme e altri 6 milioni in quello di Jenin. In Cisgiordania l’uva rappresenta circa il 12% della produzione agricola totale della Palestina.

I palestinesi esportano in Israele grandi quantità di vari prodotti agricoli, per un valore annuo di 300 milioni di dollari. I palestinesi della Cisgiordania esportano quotidianamente verso Israele circa 280.000 kg di prodotti agricoli. Nel contempo, le importazioni agricole annuali palestinesi da Israele raggiungono circa il miliardo di dollari.

Per proteggere i prodotti palestinesi l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) vieta l’importazione di uva coltivata nelle colonie e considera ogni transazione commerciale con Israele un delitto. A dispetto di questo divieto, il mercato palestinese è inondato da prodotti israeliani proibiti e con marchio israeliano, importati illegalmente dai principali commercianti palestinesi nel cuore della notte per evitare i posti di blocco palestinesi.

Mahmoud Abou Merhi, agricoltore palestinese e attivista contro le colonie ebraiche, proprietario di un vigneto di circa 2 ettari, dice ad Al-Monitor che la vendemmia è uno dei raccolti agricoli più importanti in Palestina, e le famiglie palestinesi la festeggiano con canti tradizionali nelle vigne perché porta abbondanza e prosperità ai coltivatori.

“Tuttavia ora abbiamo timore della stagione della vendemmia: ogni anno i coloni ebrei distruggono deliberatamente le nostre vigne e sabotano il raccolto, cospargendo pesticidi tossici sui campi che lo distruggono o cacciando gli agricoltori e le loro famiglie dai terreni agricoli,” afferma.

Abou Merhi teme che la vendemmia di quest’anno vada persa, dato che il mercato locale è invaso da una grande quantità di uva israeliana a buon mercato. “Grandi quantità di uva palestinese rischiano di andare a male a causa delle temperature elevate e delle eccedenze di prodotti israeliani sul mercato palestinese.”

L’agricoltore palestinese Atef Abou Walid dice ad Al Monitor che Israele sta cercando di espellere i coltivatori palestinesi dalle loro terre e li spinge ad abbandonare questa professione, ereditata di generazione in generazione, in modo da insediare avamposti coloniali ed espanderli sulle terre dei cittadini che si trovano presso le colonie.

“Quando i palestinesi vanno al mercato vedono grandi quantità di frutta e verdura israeliane a prezzi che fanno concorrenza ai prodotti locali. A volte i prodotti israeliani costano meno di quelli palestinesi. Persino se la qualità è inferiore, spesso i cittadini finiscono con il comprare i prodotti israeliani a buon mercato,” nota.

Abu Wadi aggiunge: “Nonostante le gravi perdite che subiamo, i nostri agricoltori continueranno a coltivare le nostre terre per impedire che Israele raggiunga il suo obiettivo di confiscarle.” Egli accusa Israele di imporre restrizioni supplementari ai coltivatori palestinesi, in quanto di recente ha iniziato a chiudere le strade agricole che portano ai vigneti di Hebron, nel sud della Cisgiordania, isolando circa 2.000 ettari di terreni, molti dei quali sono vigneti.

Le attrezzature israeliane avanzate, i prodotti chimici, i fertilizzanti e i moderni sistemi di irrigazione aiutano gli agricoltori israeliani a offrire i loro prodotti agricoli, e in particolare l’uva, circa un mese prima che la produzione palestinese arrivi sul mercato. Israele vieta di fornire ai coltivatori palestinesi queste tecnologie e materiali, in particolare pesticidi e fertilizzanti chimici, che permettono l’allungamento della durata della vita della loro uva e ne migliorano sapore e qualità.

Fathi Abou Ayashn, direttore del Consiglio di Frutta e Uva, dichiara ad Al Monitor che i mercati palestinesi sono stati invasi da circa 27.000 tonnellate di uva sempre matura, il che attira l’attenzione dei consumatori.

“I mercati palestinesi non sono protetti, quindi i prodotti israeliani li possono inondare,” prosegue. Ciò è dovuto all’assenza di controlli efficaci dei prodotti israeliani sul mercato palestinese. I mercati palestinesi e israeliani sono strettamente interconnessi, il che permette a molti commercianti di importare in modo massiccio i prodotti e i beni israeliani.”

Abou Ayyash spiega che le autorità competenti che controllano il mercato non hanno risorse finanziarie, cosa che indebolisce la capacità dei palestinesi di controllare molti beni e merci. “Non abbiamo neppure standard tecnici vincolanti per tutti i beni commercializzati in Palestina e pochissimi procedimenti giudiziari sono stati avviati contro i trasgressori.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Il valico di Rafah e l’angosciosa procedura per i palestinesi di Gaza

Il viaggio dal Cairo a Rafah può durare fino a tre giorni a causa dei periodici controlli e delle ripetute perquisizioni dei bagagli. “I funzionari egiziani non dimostrano nessun rispetto, neppure per i malati o gli anziani.”

Motasem A. Dalloul

24 agosto 2021 – Monitor de Oriente

 

Il giovane Ayman Adly si è laureato in farmacia all’università Al Azhar di Gaza nel 2009. Dato l’alto tasso di disoccupazione provocato dall’assedio e dalle ripetute offensive militari lanciate contro l’enclave costiera da parte di Israele, non ha potuto trovare lavoro.

“Mi sono connesso a internet ed ho seguito decine di account di reti social e pagine specializzate nel mettere in contatto chi cerca un impiego con datori di lavoro all’estero,” mi dice. “Non c’è voluto molto perché fossi preselezionato per un colloquio. L’azienda mi ha chiesto se potevo lavorare negli Emirati Arabi Uniti (EAU) e ho detto di sì. Lì sono iniziate le difficoltà.”

L’ostacolo successivo è stato il valico di Rafah, dal 2007 [data d’inizio dell’assedio israeliano, ndtr.] l’unica uscita verso il resto del mondo per la maggioranza dei palestinesi della Striscia di Gaza. Per utilizzarlo aveva bisogno di un passaporto, per cui ha raccolto come dovuto tutta la documentazione richiesta ed ha presentato domanda. L’Autorità Nazionale Palestinese di Ramallah  ci ha messo due mesi a rilasciargli il passaporto.

“Mi è stato rilasciato nel 2009 ed è scaduto nel 2014,” dice. “Il secondo è stato rilasciato in due settimane nel 2015 ed è scaduto nel 2020.” Ne ha subito chiesto un terzo e l’ha ottenuto in una settimana. Quindi Adly ha avuto tre passaporti, e non ne ha utilizzato nessuno per viaggiare.

“Con in mano il primo passaporto sono andato al valico di Rafah e, dopo aver passato sul lato egiziano circa 20 ore in una sala per immigrati strapiena di gente, un impiegato mi ha chiamato per nome, mi ha restituito il passaporto e mi ha detto che il mio nome era sulla lista nera e che avevo il divieto di ingresso o di passaggio in Egitto.”

Con quella breve frase l’impiegato egiziano ha spezzato le speranze di Adly di arrivare al suo nuovo lavoro negli EAU. Continuerà a provarci, dice, ma ci vorrà molta pazienza.

Secondo il ministero degli Interni palestinese a Gaza c’è un elenco di più di 27.000 persone che devono viaggiare passando per il valico di Rafah. Le autorità egiziane consentono il passaggio solo a 350 persone attraverso la stanza normale e a circa 100 da quella VIP al giorno quando il valico è aperto (ci sono frequenti chiusure). Quelli che devono viaggiare ci mettono mesi per passare da Rafah.

“Il numero di persone che vogliono viaggiare aumenta costantemente,” spiega Iyad Al-Bozom, portavoce del ministero dell’Interno [di Gaza, ndtr.]. “Abbiamo chiesto agli egiziani di aumentare la quota giornaliera di persone che possono passare.” La richiesta è ovviamente caduta nel nulla.

Cinque anni fa l’esercito egiziano ha creato l’impresa Ya Hala per il turismo e i viaggi. Organizza viaggi VIP per i palestinesi di Gaza che possono pagare. All’inizio lavorava dietro le quinte. Dopo le proteste della Grande Marcia del Ritorno del 2018 e gli accordi raggiunti tra Israele, Egitto e i gruppi della resistenza palestinese a Gaza, il valico è rimasto aperto regolarmente e questa impresa ha iniziato a lavorare alla luce del sole.

Si è accordata con agenzie di viaggio di Gaza che hanno cominciato a promuovere i suoi servizi. Le autorità egiziane hanno costruito una sala immigrazione speciale per i suoi clienti.

Hatem, che non ha voluto fornire il suo cognome, è un agente di un’agenzia di viaggi e turismo con sede a Gaza. “Registriamo da 100 a 150 passeggeri VIP al giorno,” dice. “Facciamo controlli di sicurezza a ognuno di loro per 100 dollari. Se la persona non è sulla lista nera pagherà tra i 400 e i 500 dollari per passare sul lato egiziano del valico e per un taxi fino al Cairo.”

Questi VIP non subiscono ulteriori controlli di sicurezza e i taxi li portano dal confine direttamente al Cairo. Non si fermano a nessuno dei controlli militari e i loro bagagli non vengono controllati. Il viaggio al Cairo dura solo 6 ore, al massimo 7 o 8. “Tutti i soldi che facciamo pagare vanno a finire a imprese egiziane, sicuramente controllate dall’esercito,” sottolinea Hatem. “Noi riceviamo solo qualche provvigione.”

Tuttavia la gente come Ayman Adly non ha denaro sufficiente per pagare così tanto e passare da Rafah come VIP. Lui e quelli come lui possono aspettare anni prima di viaggiare.

Quelli che arrivano alla sala immigrazione egiziana possono aspettare molto tempo: le 20 ore di Adly non sono rare. I servizi della sicurezza nazionale egiziana interrogano molti sulla loro appartenenza politica e sulle attività politiche e religiose.

Sameer Abu Jazar è appena tornato a Gaza dal Qatar. Descrive il suo viaggio dal Cairo a Gaza come “la via verso l’inferno”. Tutti i viaggiatori che non sono VIP devono sopportare il sole ardente per 12 ore nel posto di controllo di Al-Faradan, nei pressi del Canale di Suez.

“Le forze di sicurezza egiziane controllano i bagagli dei palestinesi e confiscano quasi tutti gli apparecchi elettronici, compresi i computer portatili e i telefonini,” spiega Abu Jazar. “Lasciano solo un telefono a viaggiatore e a volte nessun computer portatile. Confiscano profumi e molte altre cose. A volte anche cibo.”

Ha aspettato con altre centinaia di persone dalle 6 del mattino fino alle 10 di notte all’aperto. Non c’è un posto in cui proteggersi e i servizi sono scarsi. “Non ci sono gabinetti. Se hai bisogno ti devi allontanare, trovare un posto un po’ appartate e farla lì.”

Il viaggio dal Cairo a Rafah può durare fino a tre giorni, a causa dei controlli regolari e delle continue perquisizioni del bagaglio. “I funzionari egiziani non dimostrano alcun rispetto, neppure per malati o anziani,” afferma Abu Jazar.

Ciò è quanto aspetta i palestinesi che vogliono viaggiare da Gaza attraverso il valico di Rafah. È un percorso doloroso, che però devono sopportare se sperano di ottenere un volo che li porti al luogo di studio, di cura o a un nuovo lavoro.

“Se avessi un’alternativa per tornare a Gaza l’avrei presa,” conclude Abu Jazar. “Qualunque cosa dev’essere meglio del modo infernale in cui ci trattano gli egiziani. Qualunque cosa.”

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Monitor de Oriente.

 

(traduzione dallo spagnolo di Amedeo Rossi)

 

 




Israele consente in sordina agli ebrei di pregare nel complesso di Al Aqsa: rapporto.

24 agosto 2021 – Al Jazeera

Il NYT informa che il governo israeliano sta consentendo agli ebrei di pregare nel complesso della moschea di Al- Aqsa, alimentando il timore di modifiche allo status quo del luogo sacro.

Il New York Times informa che il governo israeliano sta consentendo agli ebrei di pregare nel complesso della moschea di Al-Aqsa, noto agli ebrei come il Monte del Tempio, nella Gerusalemme occupata, con un’iniziativa che rischia di modificare lo status quo del luogo.

In un articolo pubblicato martedì il Times afferma che il rabbino Yehudah Glick ha fatto “ben poco per nascondere le sue preghiere” e le ha persino diffuse in diretta video.

L’area è all’interno delle mura della Città Vecchia di Gerusalemme e fa parte del territorio che Israele ha conquistato nella guerra del 1967 in Medio Oriente. Israele ha occupato [in realtà ha annesso, ndtr.] Gerusalemme est nel 1980, con un’iniziativa che non è mai stata riconosciuta dalla comunità internazionale.

Dal 1967 la Giordania e Israele hanno concordato che il Waqf, fondazione islamica, avrebbe avuto il controllo su questioni relative al complesso, mentre Israele si sarebbe occupato della sicurezza esterna. Ai non musulmani sarebbe stato consentito di entrare nel luogo durante gli orari di visita, ma non di pregarvi.

Secondo il Times, Glick, nato negli USA ed ex- deputato di destra, da decenni guida i tentativi di modificare lo status quo e afferma di definire i suoi tentativi come una questione di “libertà religiosa”.

Anche altri movimenti in ascesa, come quello del Devoto del Monte del Tempio e l’Istituto del Tempio, hanno sfidato il divieto del governo israeliano agli ebrei di entrare nel complesso della moschea di Al-Aqsa.

L’accordo formale in vigore, accettato da Giordania e Israele, intende evitare conflitti nel luogo particolarmente delicato.

Ma le forze israeliane consentono regolarmente a gruppi, a volte centinaia,  di coloni ebrei che vivono nei territori palestinesi occupati di affollare il complesso di Al-Aqsa con la protezione della polizia e dell’esercito, diffondendo tra i palestinesi il timore che Israele si impossessi del sito.

Nel 2000 il politico israeliano Ariel Sharon entrò nel luogo sacro accompagnato da circa 1.000 poliziotti israeliani. Il suo ingresso nel compound scatenò la Seconda Intifada, nella quale vennero uccisi più di 3.000 palestinese e circa 1.000 israeliani.

Nel 2017 il governo israeliano installò metal detector agli ingressi del luogo, cosa che portò a gravi scontri tra i palestinesi e le forze israeliane.

A maggio le truppe israeliane hanno fatto irruzione varie volte nella moschea di Al-Aqsa, e l’escalation che ne è seguita ha portato all’attacco israeliano di 11 giorni contro la Striscia di Gaza assediata.

“Non bloccateli più”

Secondo Glick la politica ha iniziato a cambiare sotto il governo dell’ex-primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, che ha guidato partiti di estrema destra ed è stato uno strenuo alleato del presidente USA Donald Trump.

“Glick dice che cinque anni fa la polizia ha iniziato a consentire a lui e ai suoi sostenitori di pregare sul monte in modo più palese,” afferma l’articolo del Times.

Benché questa politica non sia mai stata ampiamente pubblicizzata per evitare reazioni, il numero è stato “incrementato in sordina.”

Nonostante gli accordi in vigore, in realtà “ogni giorno decine di ebrei ora pregano apertamente in un luogo appartato del lato orientale del sito, e i poliziotti israeliani che li scortano non cercano più di impedirglielo,” racconta il Times.

Israele limita già l’ingresso dei palestinesi nel complesso in vario modo, tra cui il muro di separazione, costruito negli anni 2000, che riduce l’afflusso di palestinesi dalla Cisgiordania occupata all’interno di Israele.

Dei circa 3 milioni di palestinesi della Cisgiordania viene consentito l’accesso a Gerusalemme di venerdì [giorno di preghiera per i musulmani, ndtr.] solo a quelli al di sopra di una certa età, mentre altri devono presentare richiesta alle autorità israeliane per avere un permesso molto difficile da ottenere.

Le restrizioni provocano già gravi ingorghi e tensioni ai checkpoint tra la Cisgiordania e Gerusalemme, dove in centinaia di migliaia devono passare attraverso controlli di sicurezza per entrare nella moschea e pregare.

 

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




La nostra arte si occupa di ingiustizie reali, alcune in Palestina: non sorprende abbia incontrato ostilità

Forensic Architecture

20 agosto 2021 – The Guardian

La nostra lotta per ripristinare un’affermazione nella mostra a Manchester in realtà riguarda cosa si può o non può dire negli spazi culturali

A Manchester mercoledì 18 manifestanti si sono ripresi una delle principali istituzioni culturali della città. Nonostante la pioggia, attivisti filo-palestinesi si sono radunati davanti al portone chiuso della galleria d’arte Whitworth, parte dell’università di Manchester. È stato grazie alla loro azione insistente e a 13.000 lettere inviate alla galleria, che è stata ripristinata una parte della nostra mostra, la dichiarazione scritta intitolata: “Forensic Architecture [Architettura forense] sta dalla parte della Palestina”. La mostra che dietro nostre insistenze era stata chiusa dopo la rimozione unilaterale dell’enunciato, è ora riaperta.

Sabato 15 agosto un post sul blog del sito web dell’organizzazione UK Lawyers for Israel [Giuristi Britannici per Israele] (UKLFI) aveva annunciato che, in seguito al loro intervento, la frase era stata rimossa dalla nostra mostra, “Cloud Studies” [Studi di Nubi]. Quando l’abbiamo appreso non ci siamo poi molto sorpresi. Lo stesso gruppo aveva già criticato una dichiarazione di solidarietà con i palestinesi pubblicata a giugno sul sito della Whitworth ed era riuscito a convincere l’università a toglierla. E questo non era per niente il primo attacco da parte di UKLFI contro di noi come organizzazione. Nel 2018, quando siamo stati nominati per il Turner Prize [prestigioso premio britannico di arte contemporanea, ndtr.], l’UKLFI aveva sollecitato la Tate [noto complesso museale britannico, ndtr.] a non consegnarci il premio adducendo il motivo ridicolo che i documenti che avevamo pubblicato sulla Palestina equivalevano a “una moderna ‘accusa del sangue’ [accusa antisemita diffusa dall’XI secolo secondo cui alcuni ebrei berrebbero sangue infantile per compiere riti di magia nera, ndtr.] che avrebbe potuto promuovere antisemitismo e attacchi contro gli ebrei”.

Forensic Architecture non è esattamente un collettivo di artisti come qualcuno ci descrive. Siamo piuttosto un gruppo universitario di ricerca che opera in tutto il mondo con comunità in prima linea nei conflitti. Noi sviluppiamo tecniche e strumenti architettonici per raccogliere prove delle violazioni dei diritti umani da usare nelle aule di tribunali nazionali e internazionali, in inchieste parlamentari, tribunali per i diritti dei cittadini, forum di comunità, istituzioni accademiche e media. Noi esponiamo i risultati delle nostre ricerche anche in gallerie e musei quando altri siti affidabili sono inaccessibili.

Perciò, seppure sorpresi dalla nomina del Turner Prize, abbiamo scelto di usare la piattaforma per rivelare le affermazioni ufficiali israeliane sull’uccisione del beduino palestinese Yaakub Abu al-Qi’an per mano di poliziotti israeliani il 18 gennaio 2017. Abbiamo collaborato con gli abitanti del villaggio palestinese Umm al-Hirane e con attivisti per redigere un’inchiesta che collettivamente smentisce l’affermazione dei poliziotti israeliani secondo cui al-Qi’an era un “terrorista” e al contrario svela l’uccisione efferata e il rozzo tentativo di occultarla. Era difficile contestare le conclusioni dell’inchiesta e persino l’allora primo ministro di estrema destra, Benjamin Netanyahu, è stato alla fine costretto a scusarsi per l’omicidio.

Il nostro lavoro rivela l’avvento di un nuovo tipo di arte politica, meno interessata a commentare che a intervenire in contesti politici. È con questo spirito che abbiamo esposto Cloud Studies alla Whitworth. Il titolo si riferisce alla comparsa della meteorologia nel diciannovesimo secolo con il lavoro combinato di scienziati e artisti, ma, invece di occuparsi del tempo, la mostra mappa le odierne nubi tossiche: dai gas lacrimogeni negli USA, in Palestina e in Cile, agli attacchi chimici in Siria, a quelli prodotti dalle industrie estrattive in Argentina, alle nuvole di CO2 create dagli incendi nelle foreste in Indonesia.

Un elemento chiave della mostra è il nostro studio sul razzismo ambientale in Louisiana, nello specifico sul “corridoio petrolchimico” intensamente industrializzato lungo il fiume Mississippi, fra Baton Rouge e New Orleans. Gli abitanti delle comunità, a maggioranza nera, che vivono nei pressi di questi impianti respirano una delle arie più tossiche del Paese e registrano i numeri più elevati di casi di tumore.

A maggio, mentre stavamo lavorando alla mostra, è cominciata la serie più recente di attacchi israeliani contro Gaza. Abbiamo seguito da vicino collaboratori, amici ed ex dipendenti a Gaza e altrove in Palestine che ci mandavano in tempo reale immagini orribili delle distruzioni che le forze armate israeliane stavano arrecando alle loro case e aziende. Mentre assistevamo al sorgere di nubi tossiche sopra gli stabilimenti chimici bombardati di Beit Lahia ci sembrava di vedere una rappresentazione dal vivo dei nostri ‘Studi di nubi’.

Gli attacchi si sono estesi anche a istituzioni artistiche: l’artista Emily Jacir, nostra cara amica palestinese, ci ha mandato video del raid dell’esercito israeliano contro Dar Jacir, uno spazio indipendente e vitale gestito da artisti a Betlemme.

La nostra dichiarazione, la cui inclusione nella mostra era stata approvata in fase di progettazione dai curatori della Whitworth, è stata scritta mentre si svolgevano questi attacchi. Abbiamo usato termini come “pulizia etnica” e “apartheid” per descrivere le politiche del governo israeliano in Palestina perché descrivono la realtà della vita palestinese, sono in linea con il linguaggio delle principali organizzazioni israeliane e internazionali per i diritti umani e sono naturalmente state usate in Palestina per decenni. Analogamente il termine “colonialismo di insediamento” è stato usato estensivamente dagli studiosi per descrivere le politiche israeliane in Palestina. Se tali termini sono offensivi, essi sono ancora più offensivi per quelli che sperimentano quotidianamente l’impatto di tali politiche. Le università devono essere luoghi dove tali categorie possono essere presentate, sviluppate e discusse e la nostra battaglia per ripristinare la dichiarazione riguardava in realtà quello che si può dire in un contesto accademico e culturale.

Compiacere gruppi come UKLFI, un’organizzazione che ha ospitato un evento pubblico a cui era presente Regavim, l’organizzazione israeliana di coloni di estrema destra che sostiene la demolizione delle case dei palestinesi, non è solo una violazione del principio della libertà di espressione, ma mostra anche un’assenza di integrità morale. Il nostro è solo un caso, e non uno degli esempi più significativi, della campagna di diffamazione e di attacchi giuridici contro artisti e intellettuali palestinesi, molti dei quali subiscono la repressione per mano delle autorità di occupazione israeliane, e censura e restrizioni della loro libertà di espressione a livello internazionale. Secondo noi la campagna di UKLFI per screditare Forensic Architecture fa parte di questi tentativi di far tacere e intimidire. Il fatto che uno sforzo concertato sia riuscito a ribaltare la posizione dell’Università di Manchester dimostra che a tali azioni si può opporre una resistenza a livello collettivo.

Questa lotta alla Whitworth ha anche qualcosa da dire ai responsabili delle politiche culturali: mentre le gallerie si orientano sempre di più ad ospitare arte politica, allo stesso modo istituzioni e l’opinione pubblica non dovrebbero essere sorpresi quando l’arte politica è, appunto, politica.

Forensic Architecture è un’organizzazione di ricerca che indaga violazioni di diritti umani, inclusa la violenza commessa da Stati, forze di polizia, militari e corporazioni.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Sono cresciuto guardando i coloni attaccare il mio villaggio palestinese. Adesso stanno diventando sempre più sfrontati. Ho paura.

Basil Al-Adraa

17 agosto 2021- Haaretz

Gli attacchi dei coloni contro le comunità palestinesi stanno diventando più gravi e coordinati e ora si usano anche le armi. Ecco come riescono a farla franca

Nel 2005, il giorno del mio decimo compleanno, ho visto per la prima volta i coloni attaccare la mia famiglia. Ricordo che papà stava arando la terra di famiglia nelle colline a sud di Hebron mentre poco lontano io e la mamma lo guardavamo. Ricordo di averle preso la mano quando un gruppo di uomini mascherati provenienti dal vicino avamposto di coloni israeliani correva verso di noi lanciando pietre contro mio padre. Lui cominciò a filmare gli aggressori mentre io cercavo di raggiungerlo, ma la mamma mi fermò.

“Non muoverti,” mi disse e notai che era terrorizzata. 

Adesso ho 25 anni. Sono cresciuto con questi attacchi la cui frequenza è aumentata e che sono diventati una parte centrale della mia vita, specialmente da quando la situazione è peggiorata in questi ultimi mesi. Vivo a Twani, un piccolo villaggio palestinese sulle colline meridionali della Cisgiordania e, come i miei genitori, sono un attivista che crede nella resistenza non violenta all’occupazione. Una macchina fotografica e un taccuino sono tutto quello che ho a mia disposizione.

Negli ultimi due mesi, dopo la più recente guerra contro Gaza, gli attacchi dei coloni sono diventati più gravi e coordinati ed essi hanno cominciato a usare le armi.

Recentemente ho collaborato a un’inchiesta giornalistica che ha rivelato che a maggio, in un solo giorno, mentre i caccia israeliani sganciavano bombe su Gaza, in quattro zone diverse della Cisgiordania sono stati ammazzati almeno quattro palestinesi dopo che coloni armati avevano assaltato contemporaneamente i loro villaggi, con i soldati israeliani che assistevano o partecipavano agli attacchi.

L’uso massiccio di armi durante attacchi premeditati dei coloni è un fenomeno nuovo e pericoloso. Il mio villaggio, Twani, è stato preso di mira. Ogni sabato durante gli ultimi due mesi, coloni dall’avamposto di Havat Ma’on hanno attaccato violentemente le nostre case. Sono riuscito a filmarne quattro.

In uno dei miei video si vede un gruppo di coloni mascherati invadere i terreni del nostro villaggio, impugnando bastoni di legno e fionde. Cominciano a bruciare i nostri campi e a lanciare pietre contro di noi mentre i soldati israeliani accanto a loro non fanno nulla.

Sono accorso con altri abitanti e abbiamo cercato di bloccarli, ma l’esercito israeliano ci ha respinti con granate stordenti. A questo punto uno dei coloni ha sparato parecchie volte con la pistola verso di noi. Il video in cui ho ripreso la sparatoria è mosso perché mi tremavano le mani dalla paura. Quando mi sono girato, ho scoperto che per fortuna nessuno dei miei amici era stato colpito. I soldati hanno assistito a tutto ciò senza far nulla.

Gli attacchi dei coloni israeliani non sono casuali né riflettono una qualche tendenza a esplosioni di violenza. Fanno quello che fanno per creare degli incidenti. Loro vogliono la nostra terra.

Durante gli ultimi due mesi i coloni hanno fondato tre nuove fattorie vicino a casa mia. Hanno ricevuto dall’esercito israeliano oltre 4.000 dunam (circa 400 ettari), una vasta area di terra che era stata espropriata ai palestinesi nel 1980 e dichiarata “terra statale”. Intere comunità palestinesi usano ogni giorno queste terre per scopi agricoli e per allevare pecore e la violenza inflitta contro di loro è uno strumento centrale per dissuaderli dal continuare a farlo. La terra era stata rubata ai palestinesi legalmente, dallo Stato: questa è violenza “legale”. La violenza illegale dei coloni non fa che completare questo processo.

Capire l’intreccio fra gli attacchi dei coloni, e le leggi razziste che le completano, è importante. Quattro meccanismi e pratiche legali del regime militare meritano un’attenzione speciale.

Secondo Peace Now [Ong israeliana contraria all’occupazione, ndtr.], per prima cosa lo Stato espropria terre palestinesi dichiarandole ‘terre statali’ usando una legge molto discriminatoria e poi assegnando il 99,76% di questi terreni solo ai coloni.

Secondo, le IDF [Forze di Difesa Israeliane, l’esercito israeliano, ndtr.] fingono di non vedere gli avamposti che vengono costruiti illegalmente su queste cosiddette “terre statali ” e permettono loro di collegarsi alla rete elettrica e idraulica.

Terzo, le IDF impediscono di collegarsi ad acqua ed elettricità alla maggior parte delle comunità palestinesi nella mia zona sotto diretto controllo militare in una zona definita dagli Accordi di Oslo “Area C” e respingono il 98% delle nostre richieste di permessi edilizi.

Quarto, in questo contesto di spossessamento, quando ci sono violenze da parte dei coloni la polizia non indaga attivamente e solo raramente arresta i colpevoli israeliani. Le ricerche di Yesh Din, un’associazione contraria all’occupazione, indicano che, fra il 2005 e il 2014, in Cisgiordania, il 91% delle denunce presentate dai palestinesi alla polizia israeliana sui reati politici commessi da israeliani si sono conclusi senza un rinvio a giudizio.

Nel 2019 mi sono personalmente trovato a fronteggiare le conseguenze di omissioni sistematiche della polizia. Era una giornata di sole e ho ricevuto una telefonata da un vicino che con voce tremante mi ha detto che un gruppo di coloni stava tirando pietre contro di lui e la sua famiglia.

Con la macchina fotografica in mano sono corso verso il campo da dove mi avevano telefonato e ho visto sei coloni e un cane. Quando ho cominciato a filmarli, uno di loro mi ha aizzato contro il cane che mi ha morso la mano. Ho sentito un dolore intenso e ho notato che stavo sanguinando.

Quando i soldati sono arrivati si sono rifiutati di chiamare un’ambulanza. Sono rimasto a terra sanguinante per circa 40 minuti. Finalmente è arrivata un’ambulanza palestinese e mi ha portato all’ospedale.

Due giorni dopo essere stato dimesso, sono andato direttamente a una stazione di polizia israeliana in una colonia nelle vicinanze. Non mi è facile entrare in una colonia, ma l’ingiustizia che avevo subito era così dolorosa che dovevo andarci. Come palestinese che vive sotto l’occupazione militare straniera questo è l’unico modo per chiedere giustizia.

Fortunatamente avevo ripreso tutta la scena. Nel mio video la faccia del colono si poteva vedere con chiarezza. Eppure il poliziotto che stava raccogliendo la mia deposizione ha rivoltato tutto contro di me. Mi ha chiesto: “Cosa stava facendo là? Perché non è scappato? Perché stava filmando? Perché porta altri attivisti a filmare e a causare problemi?”

Alla fine, dopo una giornata lunga e snervante, sono riuscito a presentare la mia denuncia. Non sorprende che nessuno sia mai stato arrestato. Recentemente lo stesso colono ha aizzato il cane contro altre due persone del mio villaggio.

L’impunità dei coloni che ho osservato personalmente e la ricerca di Yesh Din sono il contesto che ha permesso ai colpevoli di cominciare a usare le armi negli ultimi due mesi. Ho molta paura per la mia comunità che è completamente indifesa e deve lottare da sola contro forze e individui armati. I coloni possono fare quello che vogliono perché non c’è nessuno a fermarli e nessuno a ritenerli responsabili. Il risultato diretto è che i membri della mia comunità stanno soffrendo e perdono i propri mezzi di sussistenza. Alcuni sono stati uccisi e molte altre vite sono in pericolo fino a quando questa situazione non sarà presa sul serio. Quando si sveglierà il mondo?

Basil Al-Adraa è un attivista dei diritti umani e un giornalista.

(tradotto dall’inglese da Mirella Alessio)




In Israele le uccisioni a sangue freddo dei palestinesi cadono nel silenzio

Gideon Levy

17 agosto 2021 – Middle East Eye

Dal termine dell’assalto israeliano di maggio sono stati assassinati decine di palestinesi disarmati tra cui minorenni. Eppure ciò ora è talmente normale che i media e l’esercito israeliani ne accennano appena

In apparenza in questi giorni nei territori occupati da Israele le cose sono relativamente tranquille. Non ci sono vittime israeliane, quasi nessun attacco in Cisgiordania e certamente non all’interno di Israele. Dalla fine dell’ultima offensiva israeliana, l’operazione Guardian of the Walls [Guardiano delle mura], Gaza è rimasta tranquilla.

Durante questo cosiddetto periodo di quiete in Cisgiordania continua la routine disperante della vita quotidiana – il che richiama ad un contenuto decisamente sarcastico se prestiamo attenzione a questa terrificante statistica: da maggio in Cisgiordania sono stati uccisi più di 40 palestinesi.

In una sola settimana, alla fine di luglio, l’esercito israeliano ha ucciso quattro palestinesi, uno dei quali un ragazzo di 12 anni. Due dei 40 provenivano da un villaggio, Beita, che ultimamente ha perso sei dei suoi abitanti: cinque erano manifestanti disarmati e uno era un idraulico chiamato, a quanto pare, a riparare un rubinetto da qualche parte. Nessuna delle quattro persone uccise a fine luglio rappresentava una minaccia per la vita di un soldato o colono israeliano.

L’uso di munizioni vere contro ciascuna di queste persone era proibito, per non parlare dell’obiettivo di uccidere, come hanno fatto i soldati israeliani che hanno sparato su di loro. Quattro esseri umani o, se preferite, 40 esseri umani, con famiglie il cui mondo è andato in frantumi, persone con progetti, sogni e amori, tutti improvvisamente messi a tacere in modo così freddo e brutale da un giovane soldato israeliano.

Se questo non bastasse, va notato che gli organi di informazione israeliani non si sono quasi mai occupati di queste uccisioni. Nessuno dei due principali quotidiani israeliani ha menzionato l’uccisione del ragazzo di 12 anni a Beit Omar, tra Betlemme ed Hebron, e neppure una delle due più importanti emittenti televisive commerciali si è preoccupata di riferirla.

Per dirla in altri termini, l’uccisione di un ragazzo di 12 anni, Mohammed al-Alami, intento a fare shopping con suo padre e sua sorella quando i soldati israeliani hanno sparato una raffica di proiettili contro l’auto della famiglia uccidendo il ragazzo, che come il padre non aveva fatto nulla di male, è stata evidentemente ritenuta da qualcuno dei media israeliani una storia di nessuna importanza e nessun interesse.

Indifferenza verso l’omicidio

Non c’è altro modo per spiegare questa diffusa noncuranza nei confronti di un comportamento omicida. Se si considera inoltre che tutti quegli altri omicidi da maggio in poi sono stati appena riportati, figuriamoci indagati, si ottiene un’immagine, in tutto il suo squallore, della repressione israeliana e della negazione dell’occupazione attraverso la versione mediatica di una “cupola di ferro” messa gentilmente a disposizione dalla stampa libera.

Protetti da una stampa ridotta al silenzio, agli israeliani è stata risparmiata questa brutta immagine del loro esercito e del suo brutale modus operandi. Protetti da quel silenzio, da quella negazione e repressione, nemmeno i politici e i generali israeliani sono stati obbligati a spiegare o addirittura occuparsi del fatto che anche durante questo periodo relativamente tranquillo raramente nei territori occupati passa una settimana senza vittime palestinesi.

Così fino a pochi giorni fa nessun comandante dell’esercito aveva mosso critiche al comportamento di questi soldati, né tantomeno fatto menzione di denunce o di aperture di inchieste affidabili. Solo dopo una serie di articoli ed editoriali su Haaretz il comandante in capo tenente generale Aviv Kochavi, considerato una figura con principi morali, ha diffuso una richiesta di abbassare i toni”. Non un ordine: una richiesta. Nessuna accusa e nessuna inchiesta, solo una vaga dichiarazione di buone intenzioni per il futuro.

Dietro tutto questo c’è il disprezzo per la vita dei palestinesi. Niente ha meno valore in Israele della vita di un palestinese. Esiste una linea retta che va dagli operai edili che cadono come mosche nei cantieri israeliani a causa delle morti sul lavoro senza che nessuno se ne preoccupi, fino ai manifestanti disarmati colpiti a morte dai soldati nei territori occupati mentre nessuno batte ciglio.

Un fattore comune li unisce tutti: la convinzione in Israele che la vita dei palestinesi valga poco. Se i soldati sparassero agli animali randagi con la stessa disinvoltura con cui sparano ai palestinesi ci sarebbero proteste pubbliche di indignazione e i soldati sarebbero processati e severamente puniti. Ma stanno uccidendo solo palestinesi, quindi qual è il problema?

Quando un soldato israeliano fa fuoco e colpisce alla testa un bambino, un adolescente un manifestante o un idraulico palestinesi, la società israeliana è muta e indifferente. Si accontenta delle spiegazioni inconsistenti e talvolta delle menzogne ​ fornite dal portavoce dell’esercito, omettendo ogni espressione di scrupolo morale sulla necessità di uccidere.

Tanti di questi incidenti mortali che ho approfondito e documentato e di cui ho scritto sul giornale non hanno suscitato particolare interesse.

Morte di un idraulico

Shadi Omar Lotfi Salim, 41 anni, un idraulico ben avviato che viveva a Beita, nella Cisgiordania centrale, è uscito da casa la sera del 24 luglio, dirigendosi verso la strada principale dove si trova l’impianto della fornitura idrica del villaggio, dopo che qualcuno vi aveva evidentemente riscontrato un problema.

Dopo aver parcheggiato la jeep lungo la strada si è diretto verso la valvola di chiusura con in mano una chiave inglese rossa. Erano le 22:30. Mentre si avvicinava alla valvola dei soldati nelle vicinanze hanno improvvisamente aperto il fuoco colpendolo a morte. In seguito hanno affermato che era corso verso di loro con in mano una barra di metallo. L’unica barra di metallo era la chiave inglese rossa lasciata per terra accanto al pacchetto di sigarette e a una macchia di sangue, già secca quando siamo arrivati ​​lì pochi giorni dopo la sua morte.

Una settimana dopo, nello stesso villaggio, i soldati hanno ucciso Imad Ali Dweikat, 37 anni, operaio edile, padre di quattro figlie e di un bambino di due mesi. Questo è successo durante la protesta settimanale del venerdì del villaggio. Nel corso degli ultimi due mesi circa gli abitanti di Beita avevano manifestato settimanalmente contro la creazione di un avamposto coloniale illegale sul territorio del villaggio. L’insediamento, Givat Eviatar, è stato eretto senza autorizzazione e poi fatto evacuare dei suoi abitanti da Israele, ma le 40 strutture rapidamente costruite non sono state demolite. La terra non è stata restituita ai suoi proprietari, ai quali non è permesso avvicinarsi.

Da quando più di 10 settimane fa Givat Eviatar è stato eretto cinque manifestanti palestinesi vi sono già stati uccisi dai soldati. Nessuno dei cinque si trovava tanto vicino da mettere in alcun modo in pericolo i soldati, anche se i manifestanti lanciavano pietre e bruciavano pneumatici per protestare contro l’occupazione della loro terra.

Gli abitanti sono determinati a continuare a resistere fino a quando le loro terre non saranno restituite, e nel frattempo il sangue scorre, settimana dopo settimana.

Ucciso a caso

Dweikat stava bevendo un bicchiere d’acqua quando un cecchino israeliano lo ha preso di mira, apparentemente a caso, e gli ha sparato al cuore da una distanza di diverse centinaia di metri. Il proiettile è esploso all’interno del suo corpo, danneggiando i suoi organi interni e Dweikat è morto sul colpo, con il sangue che gli usciva dalla bocca. Il suo bambino, Ali, è rimasto orfano subito dopo la sua nascita.

Poche settimane prima, i soldati hanno sparato all’adolescente Muhammad Munir al-Tamimi, di un altro villaggio che protesta, Nabi Saleh, e lo hanno ucciso. Tamimi aveva 17 anni ed è diventata la quinta vittima del suo piccolo villaggio nel corso degli ultimi anni. Tutti nella comunità appartengono alla famiglia Tamimi e da anni resistono al furto delle loro terre da parte degli insediamenti coloniali circostanti.

Tutte queste morti sono state delle esecuzioni. Non c’è altro modo per descriverle. Sparare a manifestanti disarmati, adolescenti, bambini, un idraulico, un operaio edile, persone che manifestano pubblicamente nel tentativo di riconquistare la loro proprietà e la loro libertà è un crimine. Ci sono pochissimi regimi a questo mondo in cui si spari a manifestanti disarmati – a parte Israele, “l’unica democrazia in Medio Oriente”, dove la serenità interiore della gente è scossa difficilmente da un sussulto.

Anche lamentele sentite qua e là durante le uccisioni sistematiche hanno a che fare con il fatto che quelle potrebbero portare a un deterioramento della situazione complessiva. Nessuno dice una parola riguardo la questione della legalità e soprattutto della moralità dell’omicidio di innocenti.

Israele è considerato una democrazia, un beniamino del mondo occidentale con valori occidentali simili. Quaranta civili disarmati uccisi negli ultimi due mesi e mezzo, e quattro uccisi solo nell’ultima settimana di luglio, sono una testimonianza dolorosa anche se silenziosa del fatto che, sebbene sia ancora considerato una democrazia, Israele è giudicato con un metro di paragone completamente diverso rispetto a quello applicato a qualsiasi altro Paese.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Gideon Levy è un editorialista di Haaretz e membro del comitato di redazione del giornale. Levy è entrato in Haaretz nel 1982 e ha trascorso quattro anni come vicedirettore del giornale. Ha vinto il Premio Giornalista Euro-Med per il 2008; il Premio per la Libertà di Lipsia nel 2001; il Premio dell’Unione dei giornalisti israeliani nel 1997; il premio dell’Association of Human Rights in Israel [Associazione per i diritti umani in Israele] per il 1996. Il suo nuovo libro, The Punishment of Gaza [La punizione di Gaza], è stato appena pubblicato da Verso.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Difettose, imprecise, letali: Israele sceglie le bombe del Vietnam per Gaza

Frank AndrewsShir Hever

17 agosto 2021 – Middle East Eye

Dopo la guerra di Gaza del 2014 l’ONU ha diffidato dall’uso delle MK-84. Perché dunque l’esercito israeliano ne ha lanciate così tante a maggio?

Fra le bombe in generale poche sono più distruttive delle Mark-84, un’arma di circa 907 kg utilizzata per la prima volta dagli Stati Uniti durante la guerra del Vietnam.

Queste bombe contengono più di 400 kg di esplosivo e hanno un rivestimento in acciaio di quattro metri e mezzo con un “raggio letale” di oltre 30 metri, e quando esplodono creano un’onda di pressione supersonica.

Secondo le Nazioni Unite possono distruggere gli edifici vicini e “spaccare i polmoni, far esplodere le cavità nasali e strappare gli arti” a chiunque si trovi entro 350-360 metri dall’esplosione.

Le Mark-84, o MK-84 – “distruggi bunker” progettate per penetrare strati di acciaio o cemento – sono quindi considerate particolarmente pericolose se lanciate su aree civili.

Sono state utilizzate dalle forze statunitensi in Iraq e in Afghanistan e si ritiene siano il tipo di bomba usata negli attacchi aerei della coalizione guidata dall’Arabia Saudita che hanno ucciso almeno 97 civili in un mercato in Yemen nel 2016.

La bomba è talmente letale se sganciata in aree densamente popolate che la commissione indipendente delle Nazioni Unite che ha indagato sulla guerra del 2014 a Gaza [l’operazione Margine Protettivo, ndtr.] ha specificamente diffidato dal suo uso, avvertendo che verosimilmente “costituirebbe una violazione al divieto di attacchi indiscriminati”.

Eppure sei anni dopo gli esperti nello smaltimento di bombe a Gaza raccontano a Middle East Eye (MEE) che nei 2.750 attacchi aerei sulla Striscia di Gaza durante l’offensiva del maggio scorso, che ha ucciso 248 palestinesi tra cui 66 bambini, durante gli 11 giorni dell’attacco Israele ha lanciato in gran parte MK-84.

La squadra per l’Eliminazione degli Ordigni Esplosivi (EOD) del Ministero degli Interni di Gaza setaccia l’enclave assediata dopo ogni bombardamento israeliano, eliminando gli ordigni inesplosi che ricoprono la Striscia. Afferma che i resti che hanno trovato più di frequente da maggio appartengono alle MK-84.

Secondo l’OED sono state ad esempio le MK-84 ad aver ucciso almeno 42 persone – tra cui cinque membri della stessa famiglia – durante il bombardamento in via al-Wehda ad al-Rimal, a nord di Gaza, la notte del 15 maggio.

L’uso di MK-84 a maggio è particolarmente sconcertante, dato che l’aeronautica israeliana ha un’altra bomba più moderna nel suo arsenale, progettata per svolgere la stessa funzione con molti meno rischi per i civili.

Secondo Human Rights Watch Israele potrebbe essere incolpato di crimini di guerra per gli attacchi che hanno ucciso i civili a Gaza. (Anche Hamas, che ha lanciato razzi non mirati su Israele uccidendo 13 persone, potrebbe aver commesso crimini di guerra.)

MEE ha chiesto all’Esercito israeliano perché ha usato questa bomba e se abbia sganciato alcune delle armi più precise del suo arsenale. Al momento della pubblicazione l’esercito non aveva ancora risposto alle domande di MEE.

Un’arma incontrollabile

Oltre ad essere mortalmente pericolose per i civili, le MK-84 sono anche spesso imprecise e difettose.

Secondo l’ONU le bombe possono atterrare fino a sette metri di distanza dal loro obiettivo.

E in un’intervista del 2016 Dani Peretz, vicepresidente dell’Ingegneristica per le Industrie Militari Israeliane – ora confluite nella impresa israeliana di produzione di armi Elbit Systems – ha affermato che le MK-84 utilizzate nella guerra in Libano del 2006 sono rimaste inesplose al 40%. Secondo Action On Armed Violence (AOAV), un ente di beneficenza con sede a Londra che conduce ricerche sulla violenza armata, questa cifra è di solito intorno al 5%.

A differenza di quando furono prodotte per la prima volta nel 1955, le MK-84 sono ora spesso dotate di una Joint Direct Attack Munition (JDAM) [Munizione d’attacco diretto combinato], un kit sviluppato dagli Stati Uniti che guida le “bombe stupide” con il GPS. Queste versioni “più intelligenti” dell’arma sono conosciute come GBU-31.

Ma il JDAM, ha scoperto Peretz, “cambia il comportamento della bomba”.

Ciò significa che in alcuni casi “le [MK-84] raggiungevano il bersaglio ma… colpivano la stanza sbagliata”, e in altri casi “la miccia si è staccata dalla bomba che non è esplosa”.

Le bombe inesplose possono esplodere inaspettatamente quando vengono spostate, uccidendo o mutilando le persone. Molti abitanti di Gaza sono sfollati o non frequentano la scuola perché le MK-84 si sono infilate nella terra sotto le case senza esplodere.

Secondo l’EOD attualmente quattro di queste bombe sepolte in profondità si trovano sotto le scuole gestite dall’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e il Lavoro per i Rifugiati Palestinesi nel Vicino Oriente (UNRWA), il che significa che rimangono inaccessibili. Un portavoce dell’UNRWA non ha risposto alla richiesta di commenti.

Altre bombe meno comuni che l’EOD ha trovato durante e dopo l’offensiva sono state le GBU-39 di fabbricazione statunitense, bombe a piccolo diametro molto più piccole delle GBU-31 e potenzialmente meno dannose per i civili, e le BLU-109, distruggi-bunker fabbricate negli Stati Uniti che contengono meno esplosivo delle GBU-31 ma “che esplodendo infliggono probabilmente un livello molto simile di danni,” secondo AOAV.

L’area letale

L’aeronautica israeliana ha nel suo arsenale un’altra bomba che svolge lo stesso lavoro dell’MK-84 ma presenta un rischio molto minore per i civili.

La brochure della bomba chiamata MPR-500, prodotta da Elbit Systems, vanta “la stessa efficacia delle potenti MK-84” senza “l’elevato danno collaterale”, affermando che l’MPR-500 ha un’ “area letale” inferiore.

L’MPR-500, come l’MK-84, è progettata per penetrare in edifici, stanze o tunnel prima di esplodere. Il suo produttore afferma che essa ha una probabilità del 90-95% di raggiungere il suo obiettivo ed esplodere correttamente, rispetto al 60 % dell’MK-84. In effetti, i produttori hanno affermato di aver iniziato a sviluppare l’MPR-500 proprio a causa dell’imprevedibilità – e dei costi – di Mark-84.

Elbit Systems potrebbe benissimo esagerare il divario tra il pericolo e l’efficacia di ogni bomba. I loro opuscoli utilizzano diversi confronti “fra mele e pere”, ha detto a MEE Mark Hiznay, direttore associato della divisione armi di Human Rights Watch.

E le affermazioni riguardo alla riduzione dei danni collaterali possono anche essere discutibili, dato che, secondo il rapporto della Commissione Indipendente d’Inchiesta delle Nazioni Unite sul conflitto di Gaza del 2014, le MPR-500 hanno ucciso 28 civili inclusi 15 bambini.

Ma Elbit ha convinto l’aeronautica americana che valeva la pena di investire in quelle armi.

Anche gli israeliani. Un portavoce delle forze armate israeliane ha confermato a MEE che le bombe MPR-500 sono ” operativamente in uso all’esercito”.

Tuttavia, il team dell’EOD di Gaza ha detto a MEE che, pur avendo visto tracce di MPR-500 sul terreno nel 2012 e nel 2014, non avevano trovato alcuna prova di un uso di quelle bombe a maggio.

L’esercito israeliano non ha rilasciato dichiarazioni quando gli è stato chiesto se avesse lanciato le MPR-500 su Gaza in maggio e gli esperti affermano che il numero esatto di MPR-500 nell’arsenale israeliano è probabilmente molto riservato.

Un portavoce di Elbit, che ha stabilimenti in vari Paesi incluso il Regno Unito, non ha risposto alle domande su quanti MPR-500 l’azienda abbia venduto a Israele. Elbit ha ripetuto che tutti i suoi sistemi d’arma sono utilizzati dall’esercito israeliano, senza fornire dettagli.

Perché, allora, gli israeliani userebbero le MK-84 invece delle MPR-500 se sono note per essere altamente distruttive, incontrollabili e più dannose per i civili?

Perché usare le MK-84?

  1. Sbarazzarsi di vecchie giacenze

È noto che in generale le forze aeree utilizzano vecchie scorte, afferma Brian Castner, consigliere di crisi di Amnesty International specializzato in armi e operazioni militari.

Le bombe sono costose da immagazzinare e mantenere e devono essere tenute sotto stretta sorveglianza. Hanno un tempo definito di conservazione e ad un certo punto può diventare pericoloso maneggiarle e imbarcarle, quindi ha senso eliminare prima le più vecchie.

Inoltre, se Elbit Systems – che ha assunto diversi ex ufficiali di alto rango dell’esercito israeliano e ha influenza su di esso – vuole che Israele faccia scorta di MPR-500, allora è nel suo interesse commerciale fare pressione sull’ esercito perché si sbarazzi delle sue MK-84 il più velocemente possibile.

Né l’ esercito né Elbit hanno risposto alle domande di MEE su questo punto.

2) Pressioni americane

In base a un accordo di assistenza 2019-2028 per la sicurezza, gli Stati Uniti hanno concordato, previa approvazione del Congresso, di concedere a Israele 3,8 miliardi di dollari l’anno in finanziamenti militari dall’estero, da spendere quasi tutti in armi di fabbricazione statunitense.

Ciò che Israele compra è per lo più deciso dal Pentagono, e anche il Pentagono vuole sbarazzarsi delle vecchie bombe. Quindi gli Stati Uniti potrebbero aver cercato di liberarsi delle loro MK-84 vendendole in passato a Israele.

Un portavoce del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti non ha risposto a una richiesta di commento.

3) Preoccupazioni economiche

Ogni anno il ministero della Difesa israeliano richiede uno speciale budget extra per far fronte a minacce impreviste. E più bombe sgancia l’ esercito, più ha bisogno di rifornire il suo arsenale – e di più soldi per farlo.

Nel 2014, Netanyahu ha promesso di tagliare il budget della Difesa, ma si è tirato indietro quando l’ esercito ha chiesto 10 miliardi di shekel israeliani (più di 3 miliardi di dollari) dopo l’invasione di Gaza.

“Dobbiamo prenderci cura del tenore di vita, ma prima dobbiamo preoccuparci della vita stessa”, ha detto Netanyahu a proposito della decisione, facendo seguito ai timori manifestati dal ministero della Difesa secondo cui l’ esercito aveva bisogno di maggiori investimenti per essere pronto a futuri scontri.

4) Necessità operative

Il 14 maggio l’ esercito israeliano ha fornito ai media stranieri la falsa informazione riguardo a un ingresso di truppe di terra a Gaza, cosa che alcuni hanno ritenuto uno stratagemma per battere Hamas spingendo i suoi combattenti nei tunnel per poi colpirli con più di 400 bombe.

Poiché la cosiddetta “Metro” è una vasta rete di tunnel, non è sufficiente sfondarla in un determinato luogo. Si potrebbe pensare che le distruggi-bunker ad alta frammentazione potessero uccidere e mutilare più combattenti nei tunnel sotteranei.

A prescindere dalle giustificazioni militari o di altro tipo, l’uso di MK-84 in aree civili edificate quando l’ esercito israeliano ha nel suo arsenale bombe meno dannose che svolgono lo stesso lavoro solleva ulteriori domande sulla legislazione di guerra in merito alla proporzionalità – alla perdita potenziale di vite di civili – della recente campagna di bombardamenti israeliani.

Chi è responsabile?

La colpa di ciò è principalmente di Israele, ma anche i Paesi che gli vendono bombe che uccidono civili sono responsabili. Gli Stati Uniti sono di gran lunga il maggior fornitore di armi a Israele, seguiti da Germania e Italia.

Delle bombe che l’EOD ha detto essere state sganciate su Gaza, gli Stati Uniti hanno venduto sia le GBU-39 (SDB) che le BLU-109, nonché i JDAM che controllano le MK-84, e la società israeliana Elbit Systems le MPR-500 .

Ha venduto agli israeliani anche le MK-84, ma potrebbero averlo fatto anche altri Paesi.

“Stranamente è difficile dire esattamente quali Paesi producano e vendano bombe della serie Mark-80 [di cui la MK-84 è la più grande]”, ha detto Castner di Amnesty. La General Dynamics, con sede negli Stati Uniti, produce bombe della serie Mark-80 per l’esercito americano e, secondo diverse comunicazioni del Dipartimento della Difesa al Congresso, ne ha vendute migliaia a Israele.

Nel 2007 gli Stati Uniti hanno approvato la vendita a Israele di 3.500 MK-84 prodotte da General Dynamics, per un valore di circa 65 milioni di dollari. La società è stata coinvolta in un affare anche più grosso nel 2012, del valore di 647 milioni di dollari, che includeva altre 3.450 MK-84.

Nel 2015, gli Stati Uniti hanno approvato la vendita di 10.000 kit JDAM per le MK-84. Ancora una volta, la General Dynamics è stata indicata come fornitrice.

Ma anche altri Paesi della NATO – tra cui Spagna, Italia, Polonia, Norvegia, Francia e Turchia – sono autorizzati a venderle, come anche aziende in Russia e Cina.

“Sempre più spesso anche i Paesi del Golfo sono autorizzati a produrre componenti”, ha aggiunto Castner, “ed è anche chiaro che alcuni Paesi si limitano a copiarle e provano a realizzarle da soli”.

Per gli abitanti di Gaza coinvolti nei bombardamenti, tuttavia, il risultato finale è stato lo stesso, chiunque abbia fabbricato e venduto le bombe.

Secondo l’AOAV, il 98% delle 1.474 vittime totali di maggio erano civili e tre su quattro di queste vittime sono state causate da attacchi aerei.

“La tecnologia di mira negli attacchi aerei è migliorata negli ultimi decenni, ma la precisione e l’accuratezza sono alquanto irrilevanti quando si sganciano bombe con un raggio di esplosione di 360 metri su una delle aree più densamente popolate del mondo”, ha affermato Murray Jones, un ricercatore dell’AOAV.

“Sganciare bombe Mk-84 su Gaza significa che il danno civile su larga scala è inevitabile”.

Maha Hussaini ha collaborato a questo articolo

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)