“Ogni minuto ad Al-Aqsa veniva ferito un altro palestinese “

Amira Hass

31 maggio 2021 Haaretz

La polizia ha sparato due volte al fotografo Abdel-Afo Bassam in quel violento venerdì sul Monte del Tempio. Questa rubrica sceglie di raccontare ciò che è ordinario, che non fa sensazione, che si ripete.

Il dipartimento del ministero della Giustizia che indaga sulle accuse di cattiva condotta della polizia non indagherà sugli spari contro Abdel-Afo Bassam e sul suo ferimento: anche se è successo nel cuore del complesso della moschea di Al-Aqsa; anche se era chiaro che il giovane gerosolimitano stava fotografando; anche se la polizia gli ha sparato due volte; anche se era uno dei cinque fotografi palestinesi a cui la polizia ha sparato nel luogo sacro quel giorno, venerdì 7 maggio. Quel giorno un’altra decina di fotografi sono stati attaccati da agenti di polizia in altri luoghi di Gerusalemme.

Questa rubrica vuole raccontare ciò che è ordinario, che non fa sensazione, che si ripete, ciò che è stato dimenticato nella foga degli eventi più drammatici. E in Israele niente fa meno notizia che sparare a un palestinese che sta fotografando.

Bassam, 28 anni, fotografo freelance che vive nel quartiere palestinese di Beit Hanina a Gerusalemme Est, quel venerdì è arrivato nella piazza di Al-Aqsa verso le 18. “L’atmosfera era tranquilla e piacevole, le famiglie arrivavano da ogni parte. Dal nord, da Gerusalemme e dalla Cisgiordania», mi ha detto due giorni dopo. La guerra scoppiata il giorno successivo ha interrotto il mio progetto originale di scrivere sui fotografi presi di mira e feriti.

“Ho fatto delle foto all’ora di pranzo”, ha detto Bassam. “In seguito mi sono avvicinato a Bab al-Silsila [Porta delle catene, una delle porte di quello che gli ebrei chiamano il Monte del Tempio e i musulmani chiamano Al-Haram al-Sharif]. Ho visto che c’era molta tensione e la gente si era radunata per vedere cosa stava succedendo. Ma la gente continuava a offrirsi reciprocamente cibo. Verso le 20 ho sentito la prima granata stordente esplodere nella piazza. La polizia si è radunata a Bab al-Silsila, come se avesse intenzione di fare irruzione. Penso che i giovani abbiano lanciato loro bottiglie di plastica vuote, forse pomodori, per cercare di impedire l’irruzione. Non credo che si siano lanciate pietre”, ha raccontato Bassam.

Se la polizia individua poche persone che stanno commettendo crimini, non ti aspetti che attacchi l’intera piazza piena di decine di migliaia di persone, comprese donne e bambini, giusto? Ma hanno attaccato. La chiamata alla preghiera è iniziata circa mezz’ora dopo la prima granata stordente. E anche prima, e fino alla preghiera notturna, i membri del Waqf [fondazione religiosa islamica] hanno gridato dagli altoparlanti, hanno pregato la polizia di non fare irruzione e hanno chiesto alle persone di mostrare moderazione.

Mi hanno sorpreso le granate stordenti che la polizia ha lanciato sulla piazza e il gran numero di militari che hanno fatto irruzione. In modo aggressivo, sparando alle persone con proiettili di metallo dalla punta di gomma – proprio così, in tutte le direzioni. Ho fotografato il primo ferito: indossava una maglietta rossa, era steso a terra. Pochi secondi dopo sono stato colpito al braccio destro. Guarda, c’è ancora il segno sul braccio, tondo come il proiettile. Sono caduto e dei giovani mi hanno portato in clinica.

Eravamo solo in due, il ragazzo con la maglia rossa e io. E poi, nel giro di meno di 10 minuti, nella clinica non c’era più posto. All’interno c’erano almeno 20 feriti. Alcuni avevano ferite alla testa. Ricordo di aver visto un ragazzo, tre o quattro vecchi e una donna che venivano curati. Ero ancora un po’ stordito. I medici hanno messo del ghiaccio nel punto in cui sono stato colpito. Ho preferito andarmene, per far posto a chi aveva ferite peggiori delle mie. Sono rimasto fuori e non potevo credere che stesse accadendo ciò che stava accadendo. Ogni centimetro era pericoloso.

Gli scontri continuavano, ho cercato un posto un po’ sicuro. Ma la sparatoria proseguiva, non c’era minuto senza che una o più persone fossero ferite. I medici lavoravano senza sosta. Ho fotografato persone in fuga verso la Cupola della Roccia (che di solito è destinata a donne e bambini). C’erano altri quattro o cinque fotografi accanto a me e ho visto la polizia che ci puntava i fucili.

Il soldato che mi ha sparato era a circa 50 metri da me. Ero con la mia macchina fotografica, di fronte a lui, in qualche modo ho girato la testa nel momento in cui ha premuto il grilletto e sono stato colpito sotto la scapola destra, alla schiena. Questa volta era uno sparo intenzionale, non casuale”. Poiché il dolore non diminuiva, Bassam è stato visitato e ha scoperto di avere una costola rotta.

Se non mi fossi voltato, mi avrebbe colpito in un punto più vulnerabile. Ho sentito dalle squadre della Mezzaluna Rossa [la Croce Rossa araba, ndtr.] che tre persone hanno perso gli occhi nella sparatoria di quel giorno. Il gran numero di feriti (205) non è un caso.

Sono caduto di nuovo e mi hanno riportato in clinica. Il dolore era peggiore della prima volta e la clinica era più affollata di prima. Ci sono voluti circa 10 minuti prima che i medici avessero tempo per me. Di nuovo mi hanno messo del ghiaccio sulla ferita e sono andati a prendersi cura degli altri: molti erano stati feriti da schegge di granate stordenti e sanguinavano.

Ho visto un ragazzo colpito al petto da un proiettile che sanguinava dalla bocca. Non potevo andarmene, perché continuavano a sparare. Questa volta sono rimasto per circa mezz’ora. Sono uscito e non ho potuto fare foto. Sono stato sorpreso a vedere che la piazza era vuota, solo agenti di polizia ovunque che correvano come pazzi, e tutti i cancelli di uscita dalla piazza erano chiusi, quindi i restanti fedeli non potevano andarsene. La polizia ha chiuso le porte della moschea orientale [la principale] con le catene.

Sono entrato nella Cupola della Roccia, come altri uomini che c’erano entrati per trovare riparo. La gente bloccava le porte in modo che la polizia non facesse irruzione. Ma la polizia ha lanciato granate stordenti alle porte e un poliziotto ha gridato chiedendo a tutti di uscire. Ero vicino alla porta, ho sentito un membro del servizio d’ordine del Waqf dire a un poliziotto: “Dammi cinque minuti e usciranno tutti”. Il poliziotto ha detto: “Un minuto”. Questo ha davvero spaventato la gente, le donne hanno iniziato a gridare, altri sedevano e leggevano il Corano e piangevano. Sono rimasto lì tutta la notte, sveglio, ho recitato la preghiera dell’alba e sono tornato a casa, stanco morto”.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Questa volta potrebbe andare diversamente: sulla commissione d’inchiesta ONU che deve indagare le violazioni nei territori palestinesi occupati

Lori Allen

1 giugno 2021 – Mondoweiss

Grazie a un contesto politico in rapido cambiamento la nuova commissione ONU per i diritti umani annunciata il 27 maggio potrebbe essere diversa da tutte le altre del passato – questa potrebbe effettivamente chiamare Israele a rispondere delle sue azioni.

Il voto della Commissione ONU per i Diritti Umani del 27 maggio per la creazione di una commissione d’inchiesta permanente che riferisca sulle violazioni dei diritti in Israele, nella Cisgiordania occupata, a Gerusalemme est e nella Striscia di Gaza è molto simile alle molte commissioni che sono state create in precedenza. Formata con un voto a maggioranza in favore della risoluzione A/HRC/S-30/L.1, questa commissione riafferma le responsabilità dello Stato nella protezione dei diritti umani e delle leggi internazionali umanitarie come base per la pace.

L’ONU e altre organizzazioni internazionali hanno già varato decine di commissioni simili in precedenza. Molte sono state motivate da un aumento straordinario della violenza nella Striscia di Gaza. Quest’ultima commissione giunge come risposta a 11 giorni di attacchi israeliani contro la Striscia di Gaza, iniziati il 10 maggio, che hanno ucciso almeno 253 palestinesi, tra cui 66 minori, e ferito più di 1.900 persone, con 13 vittime in Israele. Tra le altre recenti inchieste dell’ONU ve ne fu una nel 2014 e un’altra, nota come la Missione Goldstone, nel 2009, che svolse un’inchiesta sui combattimenti del 2008-09 nella Striscia di Gaza che avevano ucciso 1.400 palestinesi.

Tuttavia di questa più recente commissione è unico il contesto in cui è nata, segnato da un risorgente tentativo legale e degli attivisti a livello internazionale, anche tra gli ebrei, per sfidare la sistematica violenza e spoliazione dei palestinesi nei territori palestinesi occupati, in Israele e nella diaspora. Sebbene una commissione ONU di per sé possa fare poco per cambiare le azioni di Israele, all’interno delle attuali dinamiche sociali e politiche in movimento essa può giocare un ruolo nel concentrare l’attenzione e una significativa azione di mobilitazione per fermare e contrastare il progetto colonialista d’insediamento di Israele.

Specificando che questa inchiesta dovrebbe raccogliere prove delle violazioni “per ottimizzare le possibilità della loro ammissibilità in procedimenti legali”, il testo di quest’ultima risoluzione ONU evidenzia un nuovo importante fatto di contesto, ossia che il 5 febbraio 2021 la Corte Penale Internazionale (CPI) ha deciso di avere la giurisdizione sui territori palestinesi occupati, consentendo alla procura di indagare su crimini di guerra e contro l’umanità avvenuti nei territori palestinesi occupati.

Aprendo la sessione speciale a Ginevra la scorsa settimana Michelle Bachelet, alta commissaria ONU per i Diritti Umani, si è riferita agli attacchi israeliani contro Gaza di questo mese come possibili crimini di guerra.

Anche nei risultati della missione Goldstone l’attenzione nei confronti di possibili crimini di guerra era centrale e il rapporto di quella missione si concentrava sulla fine dell’impunità. Tuttavia, come ho evidenziato nel mio libro A History of False Hope: Investigative Commissions in Palestine [Una storia di vane speranze: commissioni d’inchiesta in Palestina], ciò ha segnato un punto di svolta nel linguaggio giuridico internazionale utilizzato per analizzare il conflitto israelo-palestinese, ma non ha portato ad azioni concrete per porre fine all’impunità israeliana. Gli abitanti della Striscia di Gaza continuano a soffrire, soggetti a restrizioni e a un assedio imposto dagli anni ’90 e intensificatosi nel 2007, e questo lembo di terra è gestito [da Israele] come una prigione a cielo aperto per il milione 800mila palestinesi che vi vivono. Se quest’ultima commissione d’inchiesta “identificherà, ove possibile, i responsabili con l’obiettivo di garantire che gli autori delle violazioni vengano chiamati a risponderne,” la CPI potrebbe essere in grado di utilizzare queste prove.

Un secondo elemento distintivo del contesto in cui questa commissione è nata è il coro di analisi che individuano Israele come uno Stato di apartheid. Diffuso nell’aprile 2021, il rapporto dell’ong internazionale Human Rights Watch (HRW) condanna Israele in quanto responsabile dei crimini di apartheid e persecuzione. È solo l’ultimo di una serie di rapporti simili. Nel 2017 l’ESCWA, un’agenzia dell’ONU, ha reso pubblico un rapporto sulle pratiche di apartheid contro i palestinesi da parte di Israele. Anche molte organizzazioni palestinesi hanno partecipato a questo coro. Nel 2019 otto associazioni palestinesi, regionali e internazionali, tra cui Al-Haq, BADIL e Addameer, hanno presentato un rapporto alla Commissione ONU per l’Eliminazione delle Discriminazioni Razziali in cui dettagliano le pratiche israeliane che in base alle leggi internazionali costituiscono il crimine di apartheid. Come quello di Human Rights Watch il rapporto del gennaio 2021 dell’ong israeliana B’Tselem suggerisce che il riconoscimento internazionale di Israele come Stato dell’apartheid sta diventando molto diffuso. Dato che la nuova commissione permanente d’inchiesta intende indagare “ogni problema fondamentale sotteso alle continue tensioni, instabilità e prosecuzione del conflitto”, comprese “discriminazione e repressione in base all’identità nazionale, etnica, razziale o religiosa,” potremmo vedere altre prove autorevoli dei crimini di apartheid da parte di Israele che portino a far pressione sugli Stati perché vi pongano fine.

Come ciò che avvenne in risposta al regime di apartheid sudafricano, un movimento di boicottaggio internazionale ha spinto accademici, attivisti e artisti a sostenere libertà, giustizia e uguaglianza per i palestinesi. Il BDS, movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni, è la terza caratteristica dell’attuale contesto. Il BDS promuove formazione pubblica sulla condizione dei palestinesi, facendo nel contempo pressione sulle istituzioni israeliane perché pongano fine alla loro complicità con l’oppressione dei palestinesi da parte dello Stato e chiedendo che il governo israeliano rispetti le leggi internazionali.

Oltre al BDS, sono da rilevare nuove attività di solidarietà, soprattutto in risposta alla violenza di maggio, compreso l’appoggio del Consiglio Internazionale dei Lavoratori Portuali- IDC allo sciopero generale palestinese, azioni da parte di lavoratori israeliani e palestinesi che hanno rifiutato di considerarsi nemici e cortei di protesta in tutto il mondo.

Dinamiche più persistenti che suggeriscono l’aumento di un appoggio diverso a favore dei palestinesi includono una rinascita dell’internazionalismo dei neri, [il movimento] Black Lives Matter e di altri gruppi progressisti neri che hanno rivitalizzato la solidarietà tra neri e palestinesi, dichiarazioni in appoggio ai diritti dei palestinesi da parte di importanti figure ebraiche e l’allontanamento dei giovani ebrei progressisti dal sionismo e la loro simpatia per la causa palestinese.

Ciò che non cambia sono il continuo rifiuto da parte di Israele di confrontarsi con i procedimenti giudiziari internazionali, come la commissione di inchiesta e la CPI, e i tentativi USA di difendere Israele dall’essere giudicato. Spesso gli USA giustificano il loro rifiuto di inchieste giudiziarie internazionali su Israele con l’affermazione secondo cui esse minerebbero i progressi per la risoluzione del conflitto. Non ci sono stati progressi su questo fronte da moltissimo tempo. Se le persone di coscienza coglieranno l’opportunità offerta dall’ultimo tentativo dell’ONU di far crescere la consapevolezza dell’opinione pubblica riguardo al modo in cui Israele tratta i palestinesi, questa potrebbe essere una delle rarissime commissioni che contribuirà a smuovere Israele e Palestina dalla palude in cui sono rimasti bloccati per così tanto tempo.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Israele sta perdendo la battaglia della percezione negli USA mentre cresce la simpatia verso i palestinesi

Anchal Vohra

1 giugno 2021 – Al Jazeera

Le opinioni dei parlamentari e dell’opinione pubblica USA stavano cambiando già prima degli 11 giorni di bombardamento su Gaza

Il mese scorso, mentre Israele portava avanti la campagna di bombardamenti durata undici giorni contro la Striscia di Gaza assediata e Hamas, il gruppo palestinese che la controlla, rispondeva lanciando razzi, dall’altra parte del mondo qualcosa di importante stava cambiando.

Per la prima volta dopo molto tempo è parso che Israele stesse perdendo terreno, almeno negli Stati Uniti, nella battaglia della percezione mentre i parlamentari mettevano in discussione le politiche filo-israeliane del loro governo.

Qui non si tratta di entrambe le parti,” ha detto in un suo intervento la parlamentare USA Alexandria Ocasio-Cortez, “si tratta di uno squilibrio di potere,” a favore di Israele, causato principalmente dal sostegno militare e diplomatico americano.

Il presidente ha detto che Israele ha il diritto di difendersi. Ma i palestinesi non hanno forse il diritto di sopravvivere?”.

La sua collega Rashida Tlaib ha fatto un appello commuovente nel suo discorso al Congresso raccontando la storia di una madre palestinese indifesa.

Mi ha detto: ‘Stasera metto a dormire i bambini nella nostra camera da letto così quando moriremo, moriremo insieme. E nessuno vivrà per piangere la scomparsa degli altri’, ha detto Tlaib in lacrime. “Queste parole mi hanno sconvolta ancora di più, perché le politiche e i finanziamenti del mio Paese negano a questa madre il diritto di vedere vivere i figli, i suoi figli, senza paura.”

Dei circa 250 palestinesi uccisi dagli attacchi aerei israeliani, 66 sono minori. Il New York Times ha pubblicato i loro volti in prima pagina e, nel corso degli scontri, varie pubblicazioni e canali televisivi americani hanno dato uno spazio più ampio alle voci di giovani palestinesi.

Black Lives Matter e ‘il punteggio simpatia’

Lo spostamento della percezione americana forse è stato reso netto dopo le politiche molto ostili dell’amministrazione Trump verso le richieste palestinesi.

Un recente sondaggio ha rilevato che, anche se negli USA il giudizio su Israele è ancora positivo, la simpatia a favore dei palestinesi è salita negli ultimi due anni, un periodo durante il quale gli americani hanno lottato contro la discriminazione razzista nel proprio Paese.

L’ultimo aggiornamento annuale della Gallup circa le opinioni degli americani sul conflitto israelo-palestinese, basato su sondaggi fatti prima dello scoppio delle recenti violenze, ha rilevato che i giovani e i democratici progressisti sono sempre di più a favore dei palestinesi riguardo all’irrisolvibile conflitto.

Il sondaggio aggiunge che quest’anno è migliorata persino l’opinione dei repubblicani sull’Autorità Nazionale Palestinese.

Stando al sondaggio della Gallup il 33% dei democratici progressisti simpatizza più per gli israeliani, mentre il 48% simpatizza più per i palestinesi, “con una differenza netta (di simpatia) del 15% in meno a favore di Israele”.

Due anni fa, prima che emergesse il movimento Black Lives Matter (BLM) [‘Le vite dei neri contano, movimento di protesta contro la violenza della polizia nei confronti delle minoranze, ndtr.] a favore della giustizia razziale, i democratici progressisti simpatizzavano in parti uguali per gli israeliani e i palestinesi.

Le opinioni dei democratici moderati e conservatori rispecchiano all’incirca quelle dei democratici progressisti: nel 2021 il 48% simpatizza per gli israeliani e il 32% per i palestinesi, totalizzando più 16% a favore di Israele,” aggiunge il sondaggio.

Il rapporto conclude che sul lungo termine la simpatia per Israele è scesa in entrambi i gruppi dei democratici; la relazione riporta che:

Le opinioni dei democratici ora sono a una svolta, dato che le loro simpatie per i palestinesi sono più o meno uguali a quelle per Israele, mentre i democratici progressisti sono passati dall’altra parte e ora solidarizzano di più con i palestinesi,” sostiene

Si indebolisce il sostegno per Israele’

Dana al-Kurd, autrice di Polarized and Demobilized: Legacies of Authoritarianism in Palestine [Polarizzati e smobilitati: retaggi dell’autoritarismo in Palestina] e ricercatrice presso l’Institute for Graduate Studies a Doha, dice che il cambiamento nella percezione è dovuto più al consistente ed efficace attivismo digitale dei palestinesi che alla stampa americana.

Secondo al-Kurd: “la differenza è dovuta all’ingresso di un maggior numero di persone di colore nel Congresso e nelle istituzioni di potere”.

È stato inoltre determinante il Black Lives Matter, che ha veramente cambiato il dibattito e modificato il modo in cui le persone percepiscono i temi relativi a razzismo e apartheid. I palestinesi sono stati di gran sostegno al movimento Black Lives Matter e hanno messo in contatto attivisti e organizzatori. Quindi è questo che ha spostato la percezione sulla questione palestinese.”

Sentiamo voci ebree in favore della pace e assistiamo all’emergere di una discussione veramente progressista fra gli ebrei americani,” aggiunge. “E ciò ha eroso il supporto a Israele.”

Anwar Mhajne, una ricercatrice presso lo Stonehill College in Massachusetts e politologa specializzata in relazioni internazionali, riconosce che sembra esserci un leggero cambiamento negli atteggiamenti della stampa americana a proposito del conflitto e lo attribuisce a un più vasto cambiamento nelle politiche statunitensi.

I molti membri democratici della Camera dei Rappresentanti che si sono espressi contro l’appoggio militare degli Stati Uniti a favore di Israele e invocato la protezione dei diritti dei palestinesi evidenziano anche una crescente visibilità delle voci palestinesi e il riconoscimento delle sofferenze dei palestinesi vittime dell’occupazione,” ha detto Mhajne.

Questi sono cambiamenti importanti di cui gli attivisti sul posto e all’estero sono consapevoli e che cercano di sfruttare per promuovere la loro causa.”

Favorire il ripensamento del problema’

Altri manifestano la speranza che il cambiamento delle opinioni negli USA possa incoraggiare l’amministrazione Biden non solo a prestare attenzione al conflitto, ma anche a giocare il ruolo che gli USA hanno tradizionalmente promesso, quello di un mediatore onesto.

Tamara al-Rifai, portavoce dell’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi (UNRWA) afferma che secondo lei il tema dell’insoluto conflitto, inclusa l’emergenza dei rifugiati palestinesi, ha ricevuto un’attenzione che mancava da molto tempo.

Dei due milioni di abitanti di Gaza, 1,4 sono rifugiati, fa notare al-Rifai, aggiungendo che è il momento di portare il dibattito verso una soluzione duratura. C’è un’atmosfera che favorisce un ripensamento del dramma dei rifugiati palestinesi e la necessità di imporre pari diritti e la fine delle discriminazioni nei territori della Palestina occupata,” dice ad Al Jazeera.

Giovedì il commissario generale dell’UNRWA ha informato il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ed ha ripetuto che solo un onesto percorso politico può portare una pace duratura, non certo un fragile cessate il foco ,” afferma al-Rifai.

Quest’anno gli USA hanno ripreso il loro consistente sostegno all’UNRWA che noi sinceramente apprezziamo, non solo come donatori ma anche come partner e Stato membro delle Nazioni Unite con peso e autorità sufficienti ad aiutare a spostare il dibattito verso la ricerca di una soluzione politica.”

Emily Wilder, una giornalista americana, è stata licenziata dal suo datore di lavoro,The Associated Press [agenzia di stampa USA, ndtr.], pare per dei tweet che riflettevano una posizione a favore dei palestinesi.

Wilder ha respinto l’accusa e ha detto in una dichiarazione di essere stata “vittima di un’applicazione asimmetrica delle regole sull’obiettività e i social media”. Ha detto che AP le ha comunicato che era stata licenziata per aver violato la politica aziendale a proposito dei social media, ma senza specificare quali tweets abbiano violato tale policy.

Se il favore per Israele non è tramontato, in Occidente il sostegno a favore dei palestinesi sembra crescere sia per il maggiore ingresso di progressisti nel governo che per l’uso che i palestinesi in Palestina e in tutto il mondo fanno delle piattaforme digitali per raccontare le proprie storie.

Tuttavia c’è un rinnovato slancio nella comunità internazionale verso la soluzione dei due Stati che sembrava essere scomparsa durante l’era Trump.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Un punto di vista ebraico antisionista sull’antisemitismo crescente

Benay Blend

1 giugno 2021 The Palestine Chronicle

 

In data 25 maggio 2021 Politico [rivista USA che si rivolge soprattutto a chi fa parte dell’establishment politico, ndtr] registrava un aumento di aggressioni antisemite contro gli ebrei in America. Proprio nel pieno dell’ultima escalation di violenza messa in atto dal regime israeliano contro i palestinesi, i giornalisti di Politico Nicholas Wu, Andrew Desiderio e Melanie Zanona si premuravano di fare coincidere l’antisemitismo con la resistenza palestinese.

“Le recenti violenze di Gaza,” spiegano i tre, “sono stati il contesto per attacchi discriminatori contro ebrei verificatisi in diversi Stati USA, oltre che in città in altre parti del mondo.” Analizzare questa frase introduttiva può essere un buon punto di partenza per comprendere come la stampa utilizzi la discriminazione contro un gruppo per promuovere pregiudizi contro un altro.

Giovedì scorso la ADL [Lega Antidiffamazione, ong USA che combatte “l’antisemitismo e tutte le forme di pregiudizio”, ndtr] ha diffuso i primi resoconti di 193 casi di antisemitismo in USA registrati durante una settimana di conflitti in Medio Oriente, mentre erano stati 131 durante la settimana precedente. “Mentre continuano ad aumentare le violenze fra Israele e Hamas, assistiamo ad un pericoloso e preoccupante aumento di odio anti-ebraico qui nel nostro Paese,” ha affermato il presidente di ADL Jonathan Greenblatt, per poi aggiungere: “la sezione sull’estremismo di ADL ha documentato decine di proteste anti-israeliane negli USA dall’inizio delle violenze in Israele, e altre sono in programma.”

Qui Greenblatt identifica erroneamente il sostegno per la Palestina con l’antisemitismo, ma è l’ADL stesso a non essere certo un modello di attivismo progressivo. Basti dire che l’ADL si rifiuta di collocare l’antisemitismo nel contesto di un aumento dei crimini di odio nel Paese. Anzi, non solo si concentra esclusivamente sull’antisemitismo, ma addirittura favorisce l’aggressione nei confronti di altri gruppi di persone, in quanto finanzia l’addestramento in Israele delle forze di polizia, le quali poi adottano quelle stesse tecniche qui in patria.

Inoltre il linguaggio usato dalla rivista ha lo scopo di far ricadere sulle vittime la colpa delle loro oppressione. Ecco così che l’articolo di Politico prosegue riferendo che

“mentre aumenta il numero di Democratici che sostengono apertamente la causa palestinese, i Repubblicani li accusano di abbandonare il più fedele alleato USA in Medio Oriente per fare il gioco del gruppo terroristico Hamas, che prima della tregua annunciata giovedì aveva lanciato migliaia di razzi contro Israele.”

La citazione precedente dimostra che i giornalisti si concentrano esclusivamente su Hamas come unico attore della violenze. E’ già abbastanza fuorviante etichettare come gruppo terroristico Hamas, quando in realtà esso ha reagito alla provocazione di Israele che aveva fatto irruzione nella moschea di al-Aqsa. Inoltre l’articolo non fa alcun cenno ai bombardamenti israeliani di Gaza o all’intensificazione della pulizia etnica a Gerusalemme, che hanno provocato oltre duecento morti e numerosi feriti, né alle recenti retate di palestinesi in Cisgiordania in ritorsione all’umiliazione subita a Gaza.

Grazie a queste omissioni, che incolpano le vittime della propria morte, i giornalisti contribuiscono a far sembrare Israele la vittima innocente di violenza. Che ha a che fare questo con l’antisemitismo? Niente, ma etichettando i gruppi che si oppongono a tale linea come terroristi fa comprensibilmente aumentare la simpatia verso Israele ed i suoi sostenitori.

Tutto ciò contribuisce ad intorbidare le acque in cui si è venuto a trovare Israele, anzi l’intera comunità ebraica. Come spiega Jonathan Cook [giornalista free-lance britannico che dal 2001 vive a Nazareth, ndtr], gli apologeti di Israele

“non possono difendere acriticamente Israele quando commette crimini di guerra o chiedere modifiche normative per assistere Israele nel perpetrare tali crimini di guerra – si tratti dell’ultima aggressione di civili a Gaza, o dell’uccisione di palestinesi disarmati che protestano contro quindici anni di blocco israeliano dell’enclave costiera – e accusare chiunque lo critichi per questo di essere un antisemita.”

Mentre il regime sionista cerca di giustificare e/o cancellare i suoi ultimi interventi di pulizia etnica, si trova anche a fronteggiare un aumento del sostegno per la Palestina in tutto il mondo. Infatti a Washington DC, oltre mille persone si sono radunate [29 maggio 2021, ndtr] sui gradini del Lincoln Memorial per esprimere la propria solidarietà.

Così Israele si ritrova con un assortimento sempre più ristretto di alleati. C’è ad esempio la CUFI – Christians United for Israel [organizzazione cristiana USA con oltre 10 milioni di affiliati che sostiene Israele, ndtr], forse la più grande lobby pro-israeliana degli USA. Però, come riferisce il rabbino Lynn Gottlieb, la destra che sostiene Israele non è amica né degli ebrei né dei palestinesi, in quanto i leader di CUFI si riempiono la bocca, dice, di una “miscela tossica di antisemitismo, razzismo, omofobia, islamofobia e sessismo.”

“Mentre il loro sostegno per Israele dovrebbe dimostrare che il loro programma non è antisemita,” nota la Gottlieb, “l’interesse mostrato dai membri di CUFI per Israele non va al di là della dichiarazione che gli ebrei sono utili nella misura in cui servono ad innescare la fine dei giorni.” [secondo il fondatore John Hagee, Hitler e l’Olocausto sono stati parte del disegno di Dio per riportare gli ebrei in Terra d’Israele e preparare il mondo alla seconda venuta di Cristo, ndtr] In questo scenario la tragedia dei palestinesi non merita alcun interesse.

“Da molto tempo questo tipo di teologia pseudo-fondamentalista costituisce la base del suprematismo bianco e del colonialismo,” conclude la Gottlieb, il che fa sì che Israele e sostenitori si ritrovino alleati con le stesse persone che li odiano.

Per chi di noi crede che “la giustizia sia indivisibile”, come sostiene la professoressa Rabab Abdulhadi [professoressa associata di Studi Etnici/Razza e Resistenza alla San Francisco State University, ndtr], l’antisemitismo dovrebbe venire rifiutato fra le nostre file né più né meno di razzismo, sessismo, omofobia, e di ogni altra forma di discriminazione.

Ma non dovrebbe polarizzare l’attenzione a spese di altri crimini, specialmente quando i palestinesi soffrono nella propria terra, sempre più africani (neri) vengono uccisi da poliziotti americani razzisti e aumentano i crimini contro gli americani asiatici.

L’antisemitismo esiste. L’ho toccato con mano nella mia vita, così come i miei familiari, ma mi ha insegnato a lottare contro l’ingiustizia ovunque, non a mettere in primo piano le mie esperienze. Inoltre ci sono sempre stati casi di infiltrati nei movimenti per la giustizia sociale disposti a commettere atti che discreditano l’intero gruppo.

Secondo il giornalista Max Blumenthal, [fondatore di The Grayzone, sito web di giornalismo investigativo indipendente che analizza la politiche dell’impero USA, ndtr] molti di questi casi sono stati inventati dalle lobby pro-israeliane per sminuire le crescenti critiche contro gli ultimi crimini di guerra israeliani. In un recente articolo Max documenta meticolosamente esempi di filmati elaborati e di accuse sospette che hanno lo scopo di distogliere l’attenzione da Gaza.

E’ inoltre importante acquisire consapevolezza del tipo di linguaggio utilizzato dai media per mettere in buona luce il governo israeliano e nel contempo macchiare la resistenza palestinese etichettandola come “terroristica”, una mossa razzista in sé, in quanto mira a ridurre un intero gruppo di persone ad uno stereotipo dispregiativo.

Queste sono le parole pronunciate dall’attivista palestinese Iyad Burnat subito dopo l’arresto dei due figli durante una recente retata della polizia israeliana: “Noi avremmo sostenuto gli ebrei contro i nazisti perché avevano tutti i diritti di resistere ai nazisti e di difendersi. Perché allora definite “terrorismo” la resistenza palestinese?

“E’ facile ripetere la narrazione comune,”, ricorda ai lettori Steven Salaita [studioso a cui l’Università dell’Illinois ha negato l’assunzione a seguito delle obiezioni a una serie di suoi tweet critici nei confronti di Israele e del sionismo accusati di antisemitismo, ndtr]. “La consapevolezza è super-importante. E’ un impegno costante.”

“Si deve comprendere [poi],” scrive Salaita,

” che i sionisti del Nord America stanno ponendo le basi per un nuovo ciclo di punizioni. Lo fanno ad ogni massacro compiuto da Israele (e fra l’uno e l’altro). Lo schema è chiaro. Non cambia da decenni. E tutte le volte che accade un sacco di gran bella gente -antirazzisti convinti e attivisti caritatevoli- subiscono significativi danni personali e professionali. Attenzione a non diventare il coglione di turno che nel malaccorto tentativo di sembrare garbato agevola i castighi dei sionisti ripetendone i subdoli argomenti.”

Nelle recenti settimane diverse celebrità hanno fatto marcia indietro sul loro sostegno per la Palestina, allo stesso modo di certi leader neri, in parte per il timore di venire intaccati dalla macchia dell’antisemitismo. Ancora con le parole di Steven Salaita, “se non sei disposto ad affrontare una punizione per mantenere fede ai tuoi principi, allora non hai nulla di positivo da offrire agli oppressi ed ai perseguitati. Meglio starne semplicemente fuori allora. L’accomodamento fa più male del silenzio.”

Benay Blend ha conseguito un dottorato in Studi Americani presso l’università del Nuovo Messico. Il suo lavoro di studiosa include: ‘Situated Knowledge’ in the Works of Palestinian and Native American Writers” [‘Saperi contestualizzati’ nel lavoro di scrittori palestinesi e nativi americani] (2017) in “’Neither Homeland Nor Exile are Words’”[Nè Patria nè Esilio sono parole], curato da Douglas Vakoch e Sam Mickey. Ha scritto questo articolo per Palestine Chronicle.

traduzione dall’inglese di Stefania Fusero




Importanti personalità attaccano l’ “ostruzionismo” rispetto all’inchiesta della CPI sulla Palestina

Peter Beaumont

31 maggio 2021The Guardian

Esclusivo: una lettera aperta firmata da decine di ex dirigenti europei chiede di porre fine “alle immotivate critiche pubbliche” contro l’inchiesta su presunti crimini di guerra.

Più di 50 tra ex Ministri degli Esteri, Primi Ministri e alti dirigenti internazionali, inclusi due ex Ministri britannici conservatori, hanno firmato una lettera aperta di condanna delle interferenze politiche nei riguardi degli sforzi della Corte Penale Internazionale (CPI) di indagare su presunti crimini di guerra in Palestina.

La lettera fa seguito all’iniziativa dell’amministrazione Trump di sanzionare funzionari della Corte – ordini che poi sono stati annullati dall’amministrazione Biden – e viene anche vista come una critica a Boris Johnson, il Primo Ministro britannico.

Il mese scorso Johnson ha detto che un’inchiesta della CPI avviata a marzo ha dato “l’impressione di essere un ingiusto attacco basato su un pregiudizio ad un amico ed alleato del Regno Unito”, con riferimento ad Israele. Il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu aveva affermato che un’inchiesta della CPI sarebbe stata “puro antisemitismo”.

Condannando i “crescenti attacchi contro la CPI, il suo staff e le associazioni della società civile che vi collaborano”, la lettera definisce l’iniziativa dell’amministrazione Trump contro la Corte parte di una più vasta tendenza.

Abbiamo assistito con seria preoccupazione all’ordine esecutivo emanato negli Stati Uniti dall’ex presidente Donald Trump e alle sanzioni previste contro il personale della Corte ed i membri delle sue famiglie”, afferma la lettera.

Ora è estremamente preoccupante l’ingiustificata critica pubblica alla Corte relativamente all’inchiesta su presunti crimini compiuti nei territori palestinesi occupati, incluse le infondate accuse di antisemitismo.”

È chiaramente stabilito e riconosciuto che l’attribuzione di responsabilità per gravi violazioni di diritti da parte di tutte le parti in conflitto è essenziale per raggiungere una pace sostenibile e duratura. È questo il caso di Israele-Palestina, come anche di Sudan, Libia, Afghanistan, Mali, Bangladesh/Myanmar, Colombia ed Ucraina.

Tentativi di screditare la Corte e ostacolare il suo lavoro non possono essere tollerati, se davvero intendiamo promuovere e sostenere la giustizia a livello globale”, aggiungono i firmatari, respingendo accuse come quelle che Johnson ha sollevato in una lettera ai Conservatori Amici di Israele.

Comprendiamo i timori circa accuse e inchieste indotte da motivazioni politiche. Tuttavia crediamo fermamente che lo Statuto di Roma garantisca i massimi criteri di giustizia ed offra una via maestra per combattere l’impunità per i più gravi crimini al mondo. Rinunciare ad agire avrebbe gravi conseguenze.”

L’inchiesta della CPI ha trovato anche l’opposizione di altri Paesi europei, compresa la Germania, il cui Ministro degli Esteri Heiko Maas ha affermato che “la Corte non ha giurisdizione perché manca l’elemento dell’esistenza di uno Stato palestinese, richiesto dal diritto internazionale.”

I firmatari della lettera provengono dall’intero spettro politico europeo e comprendono i Ministri del precedente governo conservatore Sayeeda Warsi e Chris Patten; Douglas Alexander, ex segretario di Stato laburista per lo sviluppo internazionale; Sir Menzies Campbell, ex leader del partito liberal-democratico e Ben Bradshaw, un ex sottosegretario laburista al Ministero degli Esteri.

Tra i firmatari a livello internazionale ci sono molti ex Primi Ministri, compresi il francese Jean-Marc Ayrault, il norvegese Gro Harlem Brundtland, l’irlandese John Bruton, lo svedese Ingvar Carlsson e l’italiano Massimo d’Alema. Tra gli altri firmatari vi sono l’ex segretario generale della Nato Javier Solana e Hans Blix, ex direttore generale dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica.

Difendendo l’attuale inchiesta su presunti crimini di guerra in Palestina, l’ex Ministro degli Esteri danese ed ex presidente dell’assemblea generale delle Nazioni Unite, Mogens Lykketoft, ha detto a The Guardian: “Un ordine globale basato sulle leggi si fonda sull’idea che le violazioni del diritto internazionale debbano comportare delle conseguenze.

La Corte Penale Internazionale è uno strumento essenziale a tale scopo e spetta a noi preservare la sua indipendenza e rafforzare la sua capacità operativa. Al contrario, minacciare l’indipendenza della Corte significa minacciare la salvaguardia di un ordine globale fondato sulle leggi.

L’attuale inchiesta della Corte Penale Internazionale può essere un importante elemento in questo senso e la comunità internazionale deve fare il possibile per tutelare l’indipendenza della Corte nel condurre il proprio lavoro.”

Mentre la lettera non nomina espressamente Johnson, il suo intervento ha messo in luce le preoccupazioni circa i tentativi di ostacolare l’inchiesta della CPI, che è stata annunciata formalmente all’inizio di quest’anno.

La missione palestinese nel Regno Unito ha definito la lettera di Johnson una “assai deplorevole” contraddizione rispetto al diritto internazionale e alla precedente politica britannica.

Essa segnala un basso livello nelle relazioni tra Regno Unito e Palestina e compromette la credibilità del Regno Unito sul piano internazionale”, ha affermato. “È chiaro che adesso il Regno Unito ritiene che Israele sia al di sopra delle leggi. Non c’è altra interpretazione possibile di una dichiarazione che dà carta bianca a Israele.”

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Sheikh Jarrah microcosmo della Palestina

Sheikh Jarrah è un microcosmo della questione palestinese

Jamal Kanj

21 maggio 2021 – Middle East Monitor

I racconti sulla diaspora palestinese coprono una vasta casistica. Sheikh Jarrah è la storia delle famiglie palestinesi in un quartiere di Gerusalemme Est sotto l’occupazione israeliana.

Invece la mia diaspora parte da una famiglia di pastori di pecore e agricoltori della Galilea cacciati nel 1948 in un campo profughi del nord del Libano a cui fu impedito di tornare alle loro case. Per un caso fortunato, sono finito a vivere negli Stati Uniti e sono diventato un ingegnere civile iscritto [all’ordine] nello Stato della California.

Con l’esperienza di essere cresciuto come un rifugiato apolide, posso ben comprendere la disgrazia che la minaccia di espulsione fa pesare sulle famiglie palestinesi di Sheikh Jarrah.

La lotta per il quartiere di Sheikh Jarrah è un microcosmo della questione palestinese. Mentre la guerra e la paura furono i principali strumenti israeliani per scacciare i miei genitori e più di 700.000 palestinesi dalle loro città e villaggi nel 1948, le attuali politiche israeliane usano trucchi legali per cambiare la composizione demografica delle comunità palestinesi, come nel caso di Sheikh Jarrah.

Sheikh Jarrah, situata a poco più di un chilometro a nord della Città Vecchia, prende il nome  dal medico del Saladino: Jarrah in arabo significa chirurgo. La comunità, originariamente costruita intorno alla tomba del chirurgo risalente al XIII° secolo, crebbe sino diventare tra le prime e più ricche comunità di cristiani e musulmani palestinesi al di fuori delle mura della Città Vecchia. Dopo la guerra del 1948, Sheikh Jarrah si espanse con l’arrivo di rifugiati palestinesi espulsi dal quartiere  Talbiya nella Gerusalemme occidentale occupata e da altre località.

Dal momento dell’occupazione di Gerusalemme Est nel 1967, diversi governi israeliani e amministrazioni comunali hanno usato pressioni, tribunali e violenza per sradicare i nativi di Gerusalemme  dalle  loro  case.

Un esempio calzante: nel 2001 coloni ebrei israeliani occuparono con la forza una parte della casa della famiglia Al-Kurd, sostenendo che durante l’era dell’Impero Ottomano la terra era di proprietà di  ebrei.  Invece di rimuovere gli intrusi, i tribunali israeliani assegnarono la casa a coloni ebrei. Gli Al- Kurd  divennero inquilini – nella loro stessa casa – e fu loro ordinato di pagare l’affitto agli intrusi.  Quando il  proprietario della casa si rifiutò di pagare l’affitto ai coloni estremisti, i tribunali israeliani dichiararono che la famiglia era insolvente e la costrinsero a lasciare quella che per 52 anni era stata la sua casa.

Muhammad Al- Kurd, il capo della famiglia, morì meno di due settimane dopo essere stato espulso  dalla sua casa per la seconda volta. La prima era stata nel 1948 dalla città di Haifa e la seconda fu, appunto, nel 2008.  Sua moglie, Fawzieh Al- Kurd, sconvolta, all’epoca cinquantaseienne, si piazzò  in una tenda fuori della sua casa per protestare contro questa espulsione.

Gli Al- Kurd non furono i primi palestinesi a perdere la loro casa a Sheikh Jarrah e non saranno gli ultimi. Nel 2002, Israele ha espulso con la forza 43 palestinesi dalle loro case per lasciarle a coloni  israeliani. Nell’agosto 2009, anche le famiglie palestinesi Al- Hanoun e Al- Ghaw hanno perso le loro case cedute a coloni estremisti. Nel 2017, la famiglia Shamasneh ha incontrato un destino analogo.

Oggi 500 palestinesi di Sheikh Jarrah sono a rischio di espropriazione a causa dell’ingiunzione di sgombrare le loro case da parte di un tribunale israeliano di primo grado. Poiché i palestinesi  hanno  poche o nessuna possibilità nel sistema legale israeliano,  la protesta pubblica  è l’unica  risorsa  rimasta loro per pubblicizzare l’ingiustizia e impedire al governo israeliano di privarli di nuovo della loro casa.

Le decisioni del tribunale israeliano sulle proprietà immobiliari a Sheikh Jarrah rendono evidente lo sfacciato carattere discriminatorio delle leggi nei confronti dei non ebrei nello Stato di Israele.  Ad esempio, la contestata pretesa dei coloni alla proprietà dei terreni non è basata sul diritto  di  qualsiasi individuo a esigere la sua legittima eredità, ma piuttosto su una pretesa di carattere religioso basata su un atto di proprietà fasullo vecchio di centocinquant’anni.

Quegli stessi tribunali, però, non riconoscono gli stessi diritti alle famiglie Al- Kurd, Al- Hanoun, Al- Ghaw e Shamasneh o agli altri 500 palestinesi a Sheikh Jarrah che sono in possesso di atti di proprietà di terreni e case a Gerusalemme Ovest e Haifa. In Israele solo gli ebrei possono reclamare le proprietà. I palestinesi, musulmani e cristiani, che vivono a Gerusalemme est sono considerati  “proprietari assenteisti” giuridicamente impossibilitati a rivendicare le case da cui sono stati sfrattati con la forza 70 anni prima.

Quando gli è stata posta una domanda sulle leggi che permettono agli ebrei, ma non ai palestinesi, di reclamare le proprietà, l’attuale vice-sindaco di Gerusalemme, Fleur Hassan-Nahoum, ha risposto: “Questa è una Nazione ebraica”. Come riportato dal New York Times all’inizio di questo mese, ha  aggiunto, “È ovvio che vi siano leggi che qualcuno può ritenere a favore degli ebrei: siamo uno Stato ebraico, costituito appositamente per proteggere il popolo ebraico.”

Il vice sindaco di Gerusalemme ha involontariamente rivelato il razzismo istituzionale su cui si basa il sistema gerarchico di Israele che favorisce un gruppo a scapito di tutti gli altri.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale del Middle East Monitor.

 

(traduzione dall’inglese di Giuseppe Ponsetti)

 

 

 




La polizia israeliana sottopone a retate centinaia di palestinesi per “regolare i conti” attraverso un’ondata di arresti di massa

Yumna Patel

24 maggio 2021 – Mondoweiss

Dopo due settimane di rivolte palestinesi contro le aggressioni israeliane a Gerusalemme, Sheikh Jarrah e Gaza le forze israeliane stanno portando avanti retate di massa di palestinesi all’interno di Israele e nei Territori Palestinesi Occupati, nel quadro di quella che la polizia israeliana chiama “Operazione Legalità e Ordine”.

Dopo due settimane di rivolte palestinesi contro le aggressioni israeliane a Gerusalemme, Sheikh Jarrah e Gaza le forze israeliane stanno portando avanti retate di massa di palestinesi all’interno di Israele e nei Territori Palestinesi Occupati, nel quadro di quella che la polizia israeliana chiama “Operazione Legalità e Ordine”.

Poco dopo la mezzanotte di lunedì la polizia israeliana ha annunciato l’intenzione di “lanciare un’ampia operazione di arresti in tutto il Paese”, prendendo di mira nelle successive 48 ore i cittadini palestinesi di Israele al fine di “regolare i conti” e “chiudere i conti”.

I siti dei media israeliani in lingua ebraica hanno riferito che l’operazione è stata approvata dal ministro della sicurezza interna israeliano Amir Ohana e dal commissario di polizia generale Kobi Shabtai, il secondo dei quali ha incaricato migliaia di poliziotti attivi e riservisti di raggiungere l’obiettivo di 500 palestinesi sotto arresto.

Ynet news [sito di notizie del quotidiano Yedioth Ahronot, ndtr.] ha riferito che “pochi giorni dopo essersi ripresa, soprattutto dal trauma di Lod (Lydd)”, la polizia israeliana si sarebbe resa conto che la sua politica di “deterrenza” era stata “gravemente compromessa”.

Nelle prime ore di lunedì mattina hanno iniziato ad affiorare sui social media dei video in cui la polizia israeliana ammanettava, bendava e arrestava i palestinesi nelle strade di Lydd (Lod), una città storicamente palestinese nel centro di Israele che due settimane fa è stata teatro di massicce proteste palestinesi, dopo che un colono israeliano aveva sparato a Moussa Hassouna, un abitante di Lydd, uccidendolo.

Ynet riporta che la polizia ha già preparato denunce circostanziate nei confronti dei palestinesi arrestati, “con prove che consentiranno di presentare rapidamente imputazioni“, aggiungendo che l’ufficio del procuratore di Stato israeliano ha già presentato nei vari distretti più di 140 accuse contro circa 230 imputati, arabi ed ebrei, alcuni dei quali minorenni, per vari reati nel quadro delle sommosse”.

Mentre la polizia israeliana ha affermato che l’operazione era diretta contro i palestinesi “identificati come facenti parte di organizzazioni criminali”, attivisti e organizzazioni palestinesi a favore dei diritti umani hanno protestato nei confronti delle autorità israeliane per quella che definiscono una “chiara punizione collettiva” e un evidente tentativo di punire e reprimere coloro che hanno partecipato alle proteste come parte della “rivolta collettiva”.

“La massiccia campagna di arresti annunciata dalla polizia israeliana la scorsa notte è un’aggressione militarizzata contro i cittadini palestinesi di Israele”, ha dichiarato il dott. Hassan Jabareen, direttore generale di Adalah – Il centro giuridico per i diritti della minoranza araba in Israele.

Questa è una guerra contro manifestanti, attivisti politici e minori palestinesi, che impiega massicce forze di polizia israeliane per fare irruzione nelle case dei cittadini palestinesi. Questi raid hanno lo scopo di intimidire e vendicarsi dei cittadini palestinesi di Israele – “per regolare i conti” con i palestinesi, secondo le stesse parole della polizia israeliana – per le loro posizioni e attività politiche,” ha detto Jabareen.

Un sistema per i palestinesi, un altro per gli ebrei

Tuttavia, la campagna di arresti di lunedì non si è limitata ai cittadini palestinesi di Israele, in quanto delle informazioni da parte di organizzazioni per i diritti dei palestinesi come Grassroots Jerusalem riportano che lunedì mattina sono stati arrestati almeno 15 palestinesi di Gerusalemme.

I media locali palestinesi hanno anche riferito dello svolgersi nel corso delle ultime settimane di estesi raid notturni nella Cisgiordania occupata, con soldati israeliani che hanno preso di mira attivisti, giornalisti e giovani palestinesi che hanno partecipato alle recenti proteste nel territorio.

In un rapporto pubblicato lunedì l’organizzazione per i diritti dei prigionieri palestinesi Addameer ha sottolineato che da aprile in Cisgiordania, Gerusalemme e nella Palestina storica almeno 1.800 palestinesi sono stati arrestati e/o detenuti.

Per quanto riguarda coloro che sono stati arrestati e vittime delle retate nelle settimane precedenti la campagna di lunedì, molti palestinesi in luoghi come Gerusalemme stanno affrontando divieti arbitrari di entrare nei loro luoghi santi e sono costretti a pagare migliaia di dollari su cauzione.

Addameer sottolinea che, mentre l’arresto arbitrario di palestinesi che partecipano alle proteste e alla vita politica palestinese è una pratica comune per Israele, la più recente escalation della violenza di Stato israeliana “si è notevolmente intensificata nel suo intento di repressione generale e punizione collettiva verso tutti coloro che partecipano alla protesta, coloro che agiscono per legittima difesa, e tanti altri.”

L’organizzazione ha sottolineato il fatto che, mentre molti palestinesi, in particolare quelli che vivono in Israele, vengono braccati e incriminati con l’accusa di “istigazione” e violenza di matrice razzista contro gli ebrei, alla violenza dei coloni israeliani è “offerta immunità e protezione”, nonostante la diffusa documentazione di folle israeliane che in luoghi come Gerusalemme, Haifa, Jaffa e Akka cantano “morte agli arabi” e prendono di mira i palestinesi e le loro proprietà, spesso in presenza della polizia.

I media israeliani hanno diffusamente parlato del caso di tre ebrei israeliani incriminati con l’accusa di “terrorismo” per la loro partecipazione al linciaggio di un uomo palestinese, il 33enne Said Moussa, nella città di Beit Yam, nella zona centrale di Israele.

Il linciaggio di Moussa è stato trasmesso in diretta dalla televisione israeliana, mentre la folla ebrea israeliana lo tirava fuori dalla sua auto e lo picchiava a morte, pare in presenza delle forze dell’ordine israeliane.

Haaretz ha riportato che prima del linciaggio di Moussa, dozzine di attivisti di destra hanno marciato in città e hanno attaccato un certo numero di attività commerciali di proprietà araba. I rivoltosi hanno rotto finestre, lanciato oggetti e cantato slogan razzisti.”

Nel suo articolo Haaretz cita un alto funzionario di polizia che ha affermato che “si pensava che avrebbero partecipato alcune decine di persone, ma in realtà ne sono accorse 300″.

Nonostante la documentazione sui media e sulle reti sociali e l’ammissione da parte della polizia che centinaia di ebrei israeliani hanno preso parte a questi assalti, non esistono tuttavia prove che suggeriscano che le centinaia di ebrei israeliani siano state ugualmente sottoposte a retate con massicce campagne di arresti come quelle che attualmente prendono di mira i palestinesi.

Addameer afferma che l’esistenza di due diversi sistemi giuridici per gruppi che vivono nella stessa area, evidenziata dall’escalation degli eventi recenti, sancisce chiaramente il regime di apartheid israeliano, sia a Gerusalemme e nei territori occupati del 1948 [cioè in Israele, ndtr.], sia in Cisgiordania sotto il regime militare”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Israele vanifica la distinzione tra civili e militari

Muhammad Ali Khalidi – 24 maggio 2021

Institute for Palestine Studies

Basta un’occhiata alle cifre delle vittime civili durante l’offensiva israeliana su Gaza per rendersi conto del numero terribilmente sproporzionato di civili palestinesi uccisi o feriti rispetto al numero dei militanti. Secondo i dati preliminari, a Gaza gli attacchi aerei e di artiglieria israeliani hanno ucciso 248 persone di cui almeno 66 bambini (il 27% di tutti i decessi), facendo 1.900 feriti. Il 16 maggio in un unico attacco Israele ha distrutto quattro case uccidendo 42 civili, seppellendo gli abitanti sotto le macerie.

L’elevata percentuale di vittime civili è una caratteristica degli attacchi militari israeliani sia sul fronte palestinese che su quello libanese. Nel 2014 l’assalto israeliano a Gaza ha provocato un totale di 2.189 morti, di cui 1.486 civili (68%) e circa 360 bambini sotto i 12 anni (16% del totale). Negli attentati del 2008-2009 sono stati uccisi ben 1.419 palestinesi, di cui 1.167 civili (82%) e 318 bambini (il 22% di tutte le vittime). Nella guerra del 2006 in Libano sono stati uccisi dall’esercito israeliano circa 1.200 civili libanesi (circa il 96% del totale).

I principali media hanno dato le vittime civili palestinesi come semplici incidenti e deplorevoli danni collaterali di una campagna israeliana diretta precisamente contro i militanti di Hamas. Ma è una forzatura credere che Israele, con una delle macchine militari tecnologicamente più avanzate che il mondo abbia mai visto possa essere così incapace ad evitare di causare danni ai civili. Data la pubblicità negativa associata all’infliggere morte e ferite a una popolazione civile disarmata, cosa c’è dietro il numero elevato e enormemente sproporzionato di vittime civili palestinesi?

Una risposta parziale si trova in uno stupefacente articolo pubblicato nel 2005 su una rivista accademica dall’ex capo dell’intelligence militare israeliana, Amos Yadlin, e da un professore israeliano, Asa Kasher. Il documento delineava l’ “etica militare” che dovrebbe guidare la guerra di Israele al “terrore”. Gli autori spiegavano il loro rifiuto del “principio di distinzione” del diritto internazionale, che richiede alle parti in conflitto di distinguere tra combattenti e non, e di adottare tutte le misure necessarie per evitare danni ai non combattenti.

Secondo Michael Walzer, una delle maggiori autorità in materia di etica militare (e talvolta difensore delle azioni militari israeliane), il principio di distinzione afferma che gli eserciti dovrebbero fare attenzione a evitare danni ai non combattenti dell’altra parte, anche a rischio dei propri militari. Come dice Walzer, “se salvare vite di civili significa rischiare la vita di soldati, il rischio dev’essere accettato.” (Walzer, Just and Unjust Wars, p. 156).

Ma Kasher e Yadlin ignorano tale principio. A loro avviso, la sicurezza dei loro soldati dovrebbe avere la meglio sulla sicurezza dei civili dall’altra parte. Scrivono: “Se lo Stato non ha controllo effettivo sulle adiacenze, non deve assumersi la responsabilità del fatto che le persone coinvolte nel terrorismo operino in prossimità di persone che non lo sono” (p. 18). Ma anche se si accetta che i civili “operino” nelle adiacenze dei combattenti, ciò non esonera i militari dall’adottare tutte le misure per evitare di danneggiarli. Questo tentativo di giustificazione è moralmente e legalmente inaccettabile.

Gli apologeti di Israele affermano regolarmente che le vittime civili sono giustificate dal presunto uso di scudi umani da parte di Hamas. Ma il Rapporto Goldstone delle Nazioni Unite non ha trovato prove dell’uso di scudi umani da parte di Hamas a Gaza nel 2009. Invece è stato ampiamente documentato l’uso di scudi umani palestinesi da parte di Israele in precedenti attacchi a Gaza, nel Rapporto Goldstone, da Amira Hass su Haaretz e da Clancy Chassay sul Guardian. In effetti, la Corte Suprema israeliana ha riscontrato come l’esercito israeliano abbia usato palestinesi come scudi umani in 1.200 occasioni nei cinque anni precedenti al 2014. Per citare solo un caso, durante l’invasione di Gaza del 2008-2009 due soldati israeliani hanno ordinato a un ragazzo di nove anni, puntandogli il fucile, di aprire una borsa che sospettavano fosse una trappola esplosiva.

Ci sono numerose prove di come questa deviazione dalle regole di guerra da parte dell’ex capo dell’intelligence militare israeliana e del suo coautore non sia solo un esercizio accademico o un proclama teorico. È stata indubitabilmente trasmessa agli alti ufficiali militari, ai comandanti di medio livello e alla base. Ora fa parte della dottrina militare israeliana, corroborata da numerose dichiarazioni e interviste.

Per quel che riguarda il personale militare superiore, il concetto di fondo è stato chiaramente articolato nel 2006 in riferimento al Libano dal generale israeliano Gadi Eisenkot, allora capo del Comando Settentrionale dell’esercito israeliano e in seguito Capo di Stato Maggiore dell’esercito israeliano. Ha affermato che i militari israeliani avrebbero esercitato una forza sproporzionata sulle aree civili considerando tali aree basi militari. Divenne nota come “Dottrina Dahiya” (dal sobborgo meridionale di Beirut) ed Eisenkot segnalò che si trattava di un piano “autorizzato”.

I rapporti di organizzazioni come il Comitato Pubblico contro la Tortura in Israele e Breaking the Silence [organizzazione di soldati veterani che espongono al pubblico israeliano la realtà dei Territori occupati, ndtr.] da dieci anni confermano che dai comandi militari vengono date istruzioni di privilegiare la vita dei soldati israeliani rispetto ai civili palestinesi. Riferiscono anche dell’ordine di non fare distinzione tra civili palestinesi e militanti e di non correre alcun rischio per evitare danni ai civili.

Tutto ciò porta inesorabilmente alla lampante conclusione che Israele semplicemente rifiuta il principio di distinzione sancito dal diritto internazionale e rifiuta di riconoscere la differenza legale e morale tra civili e militari. Lo fa sia in teoria che nella pratica, eppure questo fatto evidente sembra essere ignorato dalla copertura mediatica e dal discorso politico prevalente a proposito dell’ultima offensiva israeliana. Quasi a giustificare questa equazione tra i civili palestinesi e i militanti da parte dei media occidentali, la CNN ha recentemente ordinato al suo staff di riferirsi al Ministero della Salute a Gaza come “gestito da Hamas”. Questa direttiva conferma efficacemente il rifiuto israeliano di distinguere tra obiettivi civili e militari.

Muhammad Ali Khalidi è Professore Emerito di filosofia presso il Graduate Center della City University di New York e ha lavorato sugli aspetti filosofici della questione palestinese.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Israele-Palestina: come le reti sociali sono state utilizzate e manipolate

Rayhan Uddin

Domenica 23 maggio 2021 – Middle East Eye

I giganti della tecnologia sono accusati di aver censurato alcuni contenuti palestinesi, di non aver messo a tacere la disinformazione e di aver consentito incitamenti alla violenza.

Durante la recente recrudescenza di violenze in Israele e nei territori palestinesi occupati le reti sociali si sono dimostrate una spada a doppio taglio.

Questo venerdì [21 maggio] alle 2 del mattino è entrato in vigore un cessate il fuoco, ma non prima di una devastante escalation durante la quale i bombardamenti aerei israeliani su Gaza hanno ucciso 248 palestinesi, di cui 66 minori, e i razzi lanciati dall’enclave palestinese assediata hanno provocato 12 morti in Israele.

Nel corso delle ultime due settimane il mondo digitale si è trovato al centro dell’attenzione. Ha offerto uno spazio per documentare direttamente e senza filtro la situazione sul terreno, un mezzo per far circolare l’informazione sotto diversi formati e forme, oltre che una piattaforma che consentiva di amplificare i messaggi e i gesti di solidarietà.

Tuttavia, anche se c’è stato un uso positivo, si sono anche evidenziati degli abusi.

I giganti della tecnologia sono accusati di aver censurato alcuni contenuti palestinesi, di non aver stroncato la disinformazione e di aver permesso degli incitamenti alla violenza. Le piattaforme sono state anche manipolate e utilizzate come vettori di propaganda dello Stato.

Middle East Eye si sofferma su cinque modi in cui le piattaforme di comunicazione informatica sono state sfruttate mentre la tensione era in aumento in Israele, a Gaza, nella Cisgiordania e a Gerusalemme est occupate.

1. Censura a danno dei palestinesi

La violenza e la brutalità degli ultimi giorni sono state accompagnate da ripetuti esempi di limitazione e cancellazione di contenuti sulle reti sociali.

Tutto è iniziato con la campagna di resistenza contro l’imminente espulsione di sei famiglie nel quartiere di Sheikh Jarrah a Gerusalemme est occupata – che ha catalizzato la repressione dei manifestanti da parte delle forze israeliane – che si è ritrovata al centro delle accuse di censura.

Il 7 maggio Middle East Eye ha informato che erano state sollevate preoccupazioni riguardo a contenuti eliminati e alla sopressione di account sulle reti sociali legate al quartiere. Mona al-Kurd, giornalista e abitante di Sheikh Jarrah minacciata di essere cacciata dalla casa della sua famiglia, ha visto il suo account Instagram temporaneamente sospeso mentre stava documentando i soprusi quotidiani. Anche suo fratello Mohammed al-Kurd ha visto il suo contenuto eliminato a causa dei “discorsi d’odio”, sebbene secondo lui si fosse limitato a filmare le violenze della polizia senza alcun commento.

Gli abitanti di Sheikh Jarrah si sono lamentati del fatto che le loro storie su Instagram ottenevano meno approvazioni e meno visualizzazioni per ragioni inspiegabili. Durante quel periodo su Facebook – società madre di Instagram – il gruppo “Salvare Sheikh Jarrah”, che contava più di 130.000 membri, è stato temporaneamente disattivato perché “violava gli standard della comunità”.

Ci sono state anche domande riguardo a Twitter quando l’account della giornalista palestinese Mariam Barghouti è stato sospeso mentre stava informando su una manifestazione di solidarietà con Sheikh Jarrah nella Cisgiordania occupata. In seguito Twitter ha dichiarato a VICE [società di media digitali statunitense-canadese, ndtr.] che la decisione era stata presa per sbaglio, omettendo di precisare quali disposizioni delle sue condizioni Barghouti fosse sospettata di aver infranto.

“Le limitazioni e la censura hanno un grande impatto sulla possibilità delle persone di comunicare, di organizzarsi e di condividere informazioni,” ha dichiarato a MEE Marwa Fatafta, responsabile delle politiche per il Medio Oriente e il Nord Africa di Access Now, Ong per la difesa dei diritti digitali.

“Quando non potete accedere al vostro account o un vostro contenuto è eliminato ciò viola la possibilità di esercitare il vostro diritto alla libertà d’espressione su internet.”

Queste restrizioni non riguardano unicamente l’attivismo relativo a Sheikh Jarrah. Quando la polizia israeliana ha fatto irruzione nella moschea di al-Aqsa per reprimere brutalmente i fedeli in preghiera durante gli ultimi giorni del Ramadan, sono comparse denunce di censura.

Su Istagram l’hashtag “al-Aqsa” è stato temporáneamente nascosto a causa di indicazioni in base alle quali secondo una notifica ricevuta dagli utenti certi contenuti erano “suscettibili di non soddisfare le regole della comunità di Instagram”.

Facebook, che possiede Instagram, ha attribuito le soppressioni di contenuti a un “problema tecnico su scala mondiale che non era legato a un argomento specifico.”

Tuttavia, secondo alcuni documenti di comunicazione interna consultati da BuzzFeed [società statunitense di notizie specializzata in media digitali, ndtr.], pare che gli hashtag siano stati bloccati perché il sistema di controllo dei contenuti della piattaforma aveva associato per errore al-Aqsa (terzo sito più sacro per l’islam) con un’organizzazinoe terroristica.

Numerose organizzazioni ritengono che ogni censura da parte dei giganti delle reti sociali potrebbe essere paragonata alla distruzione di prove nella documentazione dei crimini di guerra, cosa su cui attualmente indaga la Corte Penale Internazionale in rapporto con le recenti violenze.

Oltre all’“errore”, un altro motivo possibile per il ritiro di certi contenuti sarebbe l’uso del termine “sionista”.

Secondo un articolo di “The Intercept” [sito fondato da Edward Snowden, ex tecnico della CIA che ha denunciato l’uso di dati riservati dei propri cittadini da parte di USA e GB, ndtr.], la politica di Facebook consistente nel sopprimere ogni contenuto che utilizzi il termine “sionista” come sinonimo di “ebreo” o di “ebraismo” si è rivelato difficile da mettere in pratica. Secondo uno dei moderatori della piattaforma le direttive lasciano “poco spazio alla critica del sionismo”.

Malgrado le preoccupazioni degli attivisti palestinesi, sono i responsabili del governo israeliano che la settimana scorsa hanno incontrato i funzionari di Facebook e TikTok. Il ministro della Giustizia Benny Gantz ha esortato le reti sociali a sopprimere i contenuti violenti e a rispondere rapidamente alle richieste dell’ufficio per l’informatica di Israele.

L’unità israeliana per l’informatica, che opera all’interno del ministero della Giustizia, sorveglia sistematicamente i contenuti palestinesi e li segnala ai giganti del digitale. Secondo un rapporto pubblicato dall’organizzazione di difesa dei diritti informatici palestinesi 7amleh Facebook accoglie l’81% delle richieste di soppressione dei contenuti da parte di questa unità informatica.

“Ciò conferma che la discriminazione digitale a cui sono esposti i palestinesi nello spazio informatico non è un errore tecnico,” ha dichiarato Mona Shtya di 7amleh a MEE. “Al contrario si tratta delle conseguenze dei tentativi sistematici delle autorità israeliane per far tacere gli attivisti per i diritti umani e per influenzare le politiche delle imprese tecnologiche in materia di controllo dei contenuti.”

Una coalizione di organizzazioni per i diritti informatici ha invitato Twitter e Facebook a fornire dati dettagliati relativi alle richieste presentate dall’unità informatica israeliana e ad essere trasparenti sul processo decisionale riguardante il ritiro di contenuti.

Inoltre un’organizzazione palestinese per la protezione dei dati, due agenzie di stampa e un traduttore hanno denunciato Facebook, accusandolo di censurare le loro pubblicazioni e in qualche caso di aver chiuso il loro account in violazione delle stesse politiche dell’impresa.

Il documento di 14 pagine inviato al relatore speciale dell’ONU incaricato della promozione e della protezione del diritto alla libertà d’opinione e d’espressione, consultato da Middle East Eye, concede alla società 21 giorni per dare spiegazioni. In caso contrario seguiranno delle azioni legali.

2. Disinformazione e notizie false

Milioni di persone in tutto il mondo si basano sulle reti sociali per informarsi sulle violenze in Israele e Palestina. Tuttavia non tutti i contenuti, compresi quelli ufficiali, sono corretti.

La disinformazione relativa a quanto avviene a Gaza si trova ai livelli più alti dello Stato: il portavoce arabofono ufficiale del primo ministro israeliano, Ofir Gendelman, ha condiviso un video che secondo lui mostra che Hamas lanciava dei razzi contro Israele. Queste immagini risalivano in realtà al 2018 e mostravano missili lanciati nel governatorato di Deraa, in Siria.

Questo tweet era stato originariamente etichettato da Twitter come un “media manipolato”, prima di essere cancellato da Gendelman.

Anche l’account Twitter ufficiale dell’esercito israeliano ha fatto circolare false informazioni. L’account @IDF (Forze di Difesa Israeliane) ha condiviso un video che sosteneva mostrasse Hamas mentre nascondeva dei lanciatori di missili in quartieri civili. Tuttavia nelle immagini si vede di fatto un finto mezzo militare utilizzato da Israele durante le esercitazioni di addestramento nel nord ovest del Paese.

Questo video è stato retwittato dall’account Twitter verificato “Stop Antisemitismo”, che in seguito si è scusato per l’errore. Nelle sue scuse ha insistito in modo provocatorio a etichettare le immagini come provenienti da un “quartiere in maggioranza musulmano”, cosa che sembra un chiaro tentativo di mettere in rapporto un’arma israeliana con i palestinesi.

“La disinformazione e le notizie false fanno parte integrante della propaganda delle autorità israeliane,” dichiara Mona Shtya. “Questo tipo di informazioni colpisce la coscienza della gente e i movimenti politici palestinesi.”

Secondo 7amleh, il 54% dei partecipanti a un sondaggio pubblicato nel suo rapporto “Notizie false in Palestina” ha indicato le autorità israeliane come la principale fonte di informazioni false. Il rapporto conclude anche che le notizie false aumentano del 58% durante gli attacchi israeliani contro i palestinesi.

Tra gli altri esempi di disinformazione che circolano su internet figurano le false informazioni in base alle quali a Gaza alcuni palestinesi hanno organizzato falsi funerali per suscitare la compassione della comunità internazionale.

Questo video falso, pubblicato dal consigliere del ministero degli Affari Esteri israeliano Dan Poraz, mostra un gruppo di adolescenti che apparentemente stanno portando una “salma”. Improvvisamente risuonano delle sirene e gli adolescenti, compresa la “salma”, si disperdono e fuggono. In realtà queste immagini sono state girate l’anno scorso in Giordania da un gruppo di giovani che cercavano di sfuggire alle restrizioni relative al COVID-19 fingendo di organizzare dei funerali.

Poraz ha condiviso questo video con l’hashtag “Pallywood” (combinazione delle parole Hollywood e Palestina), un concetto molto dannoso sostenuto dalla destra filo-israeliana che intende cínicamente accusare i palestinesi di drammatizzare la loro sofferenza per attirare i favori della comunità internazionale.

Un altro esempio di internauti che spacciano notizie false per associare i gazawi a “Pallywood”: la condivisione di un video che dovrebbe mostrare dei palestinesi mentre disegnano false ferite provocate dagli attacchi israeliani con l’aiuto di cosmetici. Queste immagini condivise la settimana scorsa sono state in effetti rintracciate nel 2018 e sono state girate nel quadro di un reportage su artisti palestinesi del trucco.

Nelle ultime settimane sono emerse anche due notizie filopalestinesi false. Il New York Times ha informato che alcuni media arabi hanno erroneamente associato immagini che mostravano ebrei che a Gerusalemme si stracciavano le vesti in segno di devozione con affermazioni secondo le quali simulavano delle ferite. Il Times ha scoperto che quel video era circolato varie volte in precedenza quest’anno.

Nel contempo una pubblicazione Facebook molto condivisa e che dovrebbe mostrare un giornalista che piange filmando degli avvenimenti all’interno di al-Aqsa [moschea di Gerusalemme, ndtr.], di fatto mostrava un fotografo irakeno durante una partita di calcio nel 2019.

3. Propaganda israeliana

Nel corso delle ultime due settimane gli account israeliani ufficiali sulle reti sociali, soprattutto quelli relativi all’esercito, sono stati utilizzati per condividere messaggi di propaganda altamente provocatori, spesso incendiari.

Mercoledì 12 maggio l’account Instagram in ebraico dell’esercito ha festeggiato la distruzione di un edificio civile a Gaza con uno meme prima e dopo.

Anche l’account Twitter @IDF ha condiviso in varie occasioni immagini di edifici bombardati dall’esercito israeliano a Gaza, in particolare un immobile che ospitava giornalisti di Al Jazeera, dell’Associated Press [agenzia di stampa USA, ndtr.] e di Middle East Eye. Queste immagini sono quasi sempre accompagnate da affermazioni secondo le quali gli edifici ospitavano attività di intelligence militare di Hamas, senza alcuna prova a suffragarle.

Il 13 maggio l’esercito israeliano ha annunciato su Twitter che, nel quadro di una più vasta campagna nel corso della quale ha informato i media internazionali che era in corso una invasione di terra, le sue forze terrestri avevano iniziato “attacchi nella Striscia di Gaza”. Tuttavia in seguito i media israeliani hanno informato che il tweet e la condivisione di informazioni avevano l’obiettivo deliberato di far credere ai combattenti di Hamas che fosse in corso un’invasione e di esporne al pericolo il maggior numero.

A causa di questo ricorso all’inganno sulle reti sociali molti hanno accusato l’esercito israeliano di fare cattivo uso delle sue piattaforme ufficiali e di “twittare dal vivo crimini di guerra.”

“Trovo inaccettabile che l’esercito israeliano utilizzi reti sociali per minacciare la gente e diffondere disinformazione quando è attivamente impegnato in azioni che si configurano come crimini di guerra,” lamenta Marwa Fatafta.

Gli attivisti dei diritti digitali hanno fatto un confronto tra il modo in cui vengono trattati dalle imprese delle reti sociali gli account ufficiali israeliani e la loro gestione degli account palestinesi.

“Ciò testimonia l’applicazione discriminatoria delle condizioni di utilizzo delle piattaforme ai loro utenti: censurano gli attivisti permettendo nel contempo alle pagine gestite dagli Stati di utilizzarle ed abusarne in funzione dei propri obiettivi politici e militari.”

Allo stesso modo numerosi osservatori hanno sottolineato le differenze tra gli account in ebraico e in inglese dell’esercito israeliano. Sull’account Instagram in ebraico dell’esercito le storie hanno la tendenza a essere aggressive e militariste e spesso includono immagini di edifici bombardati a Gaza, con l’ora e il luogo. Nel contempo sull’account in inglese il contenuto è spesso più difensivo e presenta Israele come vittima delle recenti violenze con l’aiuto di infografiche e presentazioni colorate.

In un post pubblicato sul suo account Instagram in inglese l’esercito israeliano ha ripreso un metodo di condivisione d’informazione popolare presso la generazione Y [i nati tra gli anni ’80 e ’90, noti anche come “millenians”, ndtr.] creando una serie di vignette e di fumetti per semplificare una serie di avvenimenti. A dispetto di fatti accertati, le immagini indicavano che Hamas era il solo responsabile di tutte le morti civili avvenute recentemente in Israele e a Gaza.

Nel contempo funzionari dell’esercito israeliano hanno sfruttato l’applicazione cinese per la condivisione di video TikTok riprendendo coreografie in voga per attirare il pubblico più giovane.

In particolare vari militari hanno partecipato al “Jalebi Baby Challenge “, nel corso del quale gli utenti indicano le proprie preferenze tra due emoticon. Praticamente sempre i soldati finiscono il video scegliendo una bandiera israeliana invece di una palestinese. Su un video militari israeliani scelgono l’emoticon escremento invece della bandiera palestinese e il dito medio alzato rivolto alla Palestina. In un altro esempio, che è stato oggetto di scherno, una soldatessa oppone per errore Israele alla bandiera del Sudan.

Oltre all’esercito, i messaggi di propaganda sono molto presenti anche su altri account ufficiali israeliani.

Martedì l’account Twittter ufficiale di Israele in arabo ha provocato indignazione pubblicando dei versetti del Corano accompagnati da una foto di Gaza sotto le bombe. Questo post è stato definito da alcuni critici “sadico e ignobile”.

Nel contempo l’account in inglese ha falsamente accusato la modella di origine palestinese Bella Hadid di voler “buttare in mare gli ebrei” quando si è unita allo slogan popolare filo-palestinese “dal fiume al mare, la Palestina sarà libera.”

“Non è un fatto inedito che i governi cerchino di infangare quanti prendono posizione o li accusino di fare l’apologia del terrorismo o, in questo caso, dell’antisemitismo. Ciò esisteva già prima dell’era delle reti sociali,” rileva Marwa Fatafta.

Secondo la sostenitrice dei diritti digitali Israele, come altri Stati, cerca di “trollare” e perseguitare le persone per ridurle al silenzio. Tuttavia, spiega, le ultime due settimane hanno dimostrato il potere dei media digitali di “trasmettere la verità”, quando non vengono censurati.

4. “Linciaggio” programmato sulle applicazioni di messaggistica

Oltre alle applicazioni per la condivisione di contenuti, le piattaforme di messaggistica istantanea sono state criticate per aver   presumibilmente contribuito a facilitare la violenza dei civili israeliani.

La scorsa settimana messaggi postati su Signal e WhatsApp che MEE ha potuto consultare mostravano che gruppi israeliani di estrema destra avevano discusso nel dettaglio la pianificazione di attacchi violenti contro cittadini palestinesi di Israele.

“Portate di tutto, coltelli, benzina,” indicava un messaggio in un gruppo di discussione battezzato “The Underground Unit” [L’unità clandestina], formata da parecchie centinaia di membri. “Non abbiate paura, noi siamo gli eletti.”

“Quando vedete un arabo accoltellatelo,” ordinava un messaggio pubblicato su WhatsApp in un gruppo denominato “Israel People Alive Haifa” [Israele popolo vivo Haifa]. “Venite con bandiere, mazze, coltelli, armi, tirapugni, assi di legno, spray urticanti, tutto quello che li può ferire. Ristabiliremo l’onore del popolo ebraico.”

In un altro gruppo di discussione, sempre su WhatsApp, un membro ha scritto: “Abbiamo bisogno di bottiglie molotov. Alla moschea. Per farli tremare. Bruceremo le loro case, le loro auto, tutto.”

Messaggi che incitavano alla violenza contro i palestinesi sono stati lanciati anche su Telegram, e di conseguenza vari utenti di Twitter hanno chiesto alle applicazioni di messaggistica di intervenire per proteggere delle vite.

“Se Telegram non reagisce rapidamente i messaggi pubblicati nello spazio digitale per incitare alla violenza contro i palestinesi continueranno a propagarsi per le strade,” sostiene Mona Shtaya.

L’azione della folla è stata esacerbata dalla diffusione di false informazioni: secondo il New York Times messaggi pubblicati su Telegram e WhatsApp indicavano che folle di palestinesi stessero preparando aggressioni contro cittadini israeliani. Nonostante questi avvertimenti nessuna violenza è stata segnalata nella zona citata nei messaggi.

Un giornalista ha paragonato questi sviluppi agli avvenimenti osservati in India nel 2018, quando la diffusione di false voci riguardanti il rapimento di bambini e l’espianto di organi avevano scatentato un’ondata di linciaggi collettivi durante i quali alcuni stranieri erano stati aggrediti ed uccisi.

Fino a domenica [23 maggio] i 116 incriminati imputati in seguito alle violenze della settimana precedente erano tutti palestinesi.

La settimana scorsa Fake Reporter, un organismo israeliano di sorveglianza della disinformazione, ha dichiarato di aver trasmesso alla polizia e ai media israeliani un rapporto dettagliato contenente informazioni su gruppi di estrema destra che utilizzano WhatsApp e Telegram per pianificare attacchi contro negozi e civili palestinesi.

La consegna di questo dossier non ha dato luogo ad alcuna misura, mentre alcuni media hanno persino risposto che non valeva la pena di parlarne in quanto non erano stati commessi delitti.

“L’incitamento alla violenza contro gli arabi e i palestinesi sulle reti social è aumentata in modo clamoroso,” afferma Mona Shtaya.

“Nel 2020 abbiamo constatato un incremento del 16% delle affermazioni violente contro gli arabi rispetto all’anno precedente (2019); inoltre un messaggio su dieci riguardante i palestinesi e gli arabi conteneva affermazioni violente,” aggiunge in riferimento all’indice annuale del razzismo e dell’incitamento all’odio creato da 7amleh.

“Telegram e le altre applicazioni non devono appoggiare la violenza contro i palestinesi o devono prendere misure per impedire la trasmissione di messaggi che incitano alla violenza, di discorsi d’odio e di razzismo dalla loro piattaforma al mondo reale.”

5. Esercito di troll appoggiato dallo Stato

Le reti sociali sono spesso utilizzate per rilevare l’opinione pubblica sulle questioni mondiali attraverso gli hashtag più condivisi e i livelli di impegno che servono da indicatori informali delle opinioni popolari.

Tuttavia queste piattaforme sono spesso utilizzate in modo più cinico per manipolare sistematicamente le conversazioni in rete.

La piattaforma israeliana in rete Act.IL è stata sviluppata nel giugno 2017 per reclutare e organizzare un’esercito di migliaia di troll incaricati di intrufolarsi nelle conversazioni in rete relative alla questione israelo-palestinese e in particolare al movimento BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni).

I troll ricevono dalla piattaforma istruzioni sui contenuti filo-israeliani e anti-palestinesi da ritwittare e da “approvare”, come sulle petizioni da firmare. Ricevono anche dei modelli di commenti che sono incoraggiati a copiare e incollare nelle discussioni al riguardo.

Act.IL è stato lanciato in collaborazione col ministero israeliano degli Affari Strategici, il cui ministro ha definito il dispositivo “Iron Dome [cupola di ferro] della verità”, in riferimento al sistema antimissilistico israeliano. La piattaforma riceve finanziamenti e direttive dallo Stato israeliano. L’applicazione è descritta come un dispositivo di “astroturfing”, una strategia di relazioni pubbliche sostenuta da un governo con l’intento di indurre in errore e dare la falsa impressione di una campagna popolare spontanea.

Michael Bueckert, ricercatore e vicepresidente di “Canadesi per la giustizia e la pace in Medio Oriente”, gestisce un account Twitter che tiene sotto controllo l’applicazione Act.IL. e riferisce delle sue attività. “Uno dei principali obiettivi dell’applicazione è tenere distinte le attività dei suoi utenti dallo Stato israeliano o dalle lobby e fare in modo che l’attività filo-israeliana sulle reti sociali che mette in scena sembri spontanea e organica,” spiega a MEE.

Secondo Michael Beuckert il ministero degli Affari Strategici ha come politica lavorare con organizzazioni di facciata “per dissimulare il ruolo dello Stato israeliano”. Ritiene d’altronde che sia ragionevole credere che il governo giochi “un ruolo più importante di quanto viene presentato in pubblico nel finanziamento continuo e nelle operazioni dell’applicazione.”

Domenica scorsa l’applicazione ha organizzato una tempesta su Twitter con gli hashtag #RightToSelfDefence (Diritto all’autodifesa) e #IsraelUnderFire (Israele sotto attacco).

Nel corso delle ultime due settimane Act.IL ha anche utilizzato il suo canale Telegram per inviare delle “missioni” ai propri utenti per diffondere un discorso anti-palestinese.

All’inizio del mese, durante la violenta repressione delle forze israeliane contro i fedeli ad al-Aqsa, l’applicazione ha spinto gli utenti a commentare degli aggiornamenti in tempo reale della Reuter, dell’AFP [agenzie di stampa, rispettivamente inglese e francese, ndtr.] e del Washington Examiner [sito di notizie conservatore statunitense, ndtr.] dando la colpa ai gruppi palestinesi.

“È inaccettabile che dei fedeli innocenti, dei civili e dei poliziotti siano vittime di violenti disordini fomentati da Hamas e da Fatah. Il terrorismo non ha posto nei luoghi santi e nelle loro vicinanze,” si può leggere sotto un aggiornamento dell’AFP, dove i troll sono stati incoraggiati a diffondere opinioni simili.

Nonostante i tentativi coordinati intesi a interferire nelle conversazioni in rete, Michael Bueckert ha dei dubbi riguardo all’impatto delle ultime attività dell’esercito israeliano di troll.

“Certo, possono contribuire a diffondere argomenti di discussione importanti dell’hasbara (diplomazia pubblica israeliana) sulle reti sociali e a diffondere ampiamente la disinformazione. Tuttavia ho l’impressione che molta gente non creda più a questi vecchi argomenti,” afferma. “Le persone non tollerano più tanto un atteggiamento che in genere continua a incolpare le vittime.

Le persone iniziano ad aprire gli occhi di fronte agli orrori dell’apartheid israeliano e non vogliono avere niente a che fare con esso; nessuna applicazione potrà cambiare ciò.”

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)




La guerra che Israele ha perso

Shir Hever

21 maggio 2021 – Open Democracy

Le forze armate israeliane posseggono armamenti superiori a livello tattico, ma stanno perdendo legittimità internazionale a livello strategico

Nel 2000, Ariel Sharon, politico israeliano di destra, entrò nella moschea di Al-Aqsa accompagnato da un distaccamento di guardie del corpo. La provocazione innescò la seconda Intifada durata fino al 2005. Sharon all’epoca era il leader del Likud, il partito di opposizione. Gli scontri scoppiati dopo la sua visita attizzarono anche le fiamme del populismo e del nazionalismo nel Paese e meno di un anno dopo, nel marzo 2001, il governo del partito laburista di Ehud Barak cadde e Sharon diventò primo ministro.

Gli eventi di questo maggio in Israele-Palestina sono una spaventosa ripetizione di ciò che era successo nel 2000.

I risultati delle elezioni in Israele nel marzo 2021, le quarte in due anni, sono stati inconcludenti. Benjamin Netanyahu (Likud) non è riuscito a raccogliere una maggioranza per formare un governo nel tempo concessogli. L’8 maggio, immediatamente dopo che il presidente aveva dato l’incarico a Yair Lapid, il leader del partito dell’opposizione Yesh Atid, Netanyahu ha inviato la polizia israeliana ad assaltare la moschea di al-Aqsa a Gerusalemme durante le preghiere della notte di Al-Qadr [‘la notte del destino’, una delle ultime 10 notti del Ramadan, ndtr.]  ferendo 330 palestinesi.

Il 10 maggio, nell’assediata Striscia di Gaza, alcuni gruppi palestinesi (cioè Hamas e Jihad Islamica) hanno lanciato razzi in risposta alla violazione della moschea. I pogrom di Gerusalemme, durante i quali folle inferocite sono andate a caccia di palestinesi da picchiare o uccidere, si sono allargati ad altre città. A Lod e in altre cosiddette “città miste”, i cittadini palestinesi di Israele hanno organizzato i propri gruppi e un ebreo israeliano è stato ucciso. L’aviazione israeliana ha cominciato una brutale campagna di bombardamenti della Striscia di Gaza, ma i razzi lanciati da Gaza non si sono fermati. Quando è iniziato il cessate il fuoco, dopo 11 giorni, erano stati uccisi 232 palestinesi (inclusi 65 bambini) e 12 israeliani.

Una manovra politica

Quattro elezioni consecutive in due anni non hanno raggiunto una chiara maggioranza per nessun candidato. Dai politici ci si aspetta che mostrino lealtà al proprio gruppo identitario piuttosto che a valori e ideali. Gli ebrei ultra-ortodossi sono diffidenti nei confronti degli ebrei secolari di classe media, i nazionalisti religiosi ortodossi detestano la comunità LGBT e naturalmente i palestinesi sono odiati ed emarginati da tutti i partiti sionisti.

In quest’ultima tornata elettorale, comunque, uno dei quattro partiti che formano la Lista Unita che rappresenta la maggioranza dei cittadini palestinesi in Israele e parte della sinistra israeliana ebraica, si è scisso. Ra’am, il partito che se n’è andato, è guidato da Mansour Abbas, un musulmano conservatore. Paradossalmente questa divisione all’interno della rappresentanza politica palestinese ha rafforzato la legittimità palestinese, con Abbas che gioca il ruolo di chi controlla la situazione, che né la destra né la sinistra possono permettersi di inimicarsi.

Quando è scoppiata la violenza, i politici israeliani, specialmente i sostenitori di Netanyahu, hanno intensificato l’istigazione razzista contro i palestinesi (sia a Gaza che in Cisgiordania o in Israele). Un’atmosfera di odio e paura si è impadronita del Paese con la forza. Dato che i partiti impegnati nei negoziati per formare una coalizione senza Netanyahu rappresentano gruppi con identità opposte oltre a Yesh Atid di Lapid, che rappresenta gli ebrei secolari di classe media, e Ra’am c’è la Nuova Destra di Naftali Bennet che rappresenta ebrei nazionalisti religiosi – essi potrebbero non cooperare più e i colloqui della coalizione si interromperebbero.

Nel frattempo, Lapid ha omesso di pronunciare una sola parola di critica sull’uccisione dei palestinesi da parte dell’esercito e della polizia. Ha tempo fino al 2 giugno per trovare una maggioranza e formare un governo, altrimenti saranno indette nuove elezioni e Netanyahu resterebbe come primo ministro ad interim.

Due leader di partiti con cui Lapid ha negoziato, Bennet e Gideon Saar (già membro del Likud, scontento della presunta corruzione di Netanyahu), hanno entrambi già insinuato che potrebbero rimangiarsi l’impegno preso durante la loro campagna di non unirsi al governo di Netanyahu. Appena Bennet e Saar hanno cambiato le loro posizioni, Netanyahu ha rapidamente accettato la proposta dell’Egitto di un cessate il fuoco con Hamas.

Per il pubblico israeliano e i media in generale, la manovra di Netanyah è completamente trasparente. Lo stato di emergenza gli dà l’occasione di restare in carica come primo ministro e di bloccare il suo processo per corruzione.

Eppure i politici israeliani che criticano Netanyahu hanno paura di parlare della sua cinica manipolazione della violenza. Se lo facessero, sarebbero marchiati come di “sinistra” o “amanti degli arabi”, entrambi considerati insulti nella politica israeliana. In Israele la paura che la propria lealtà e il proprio nazionalismo vengano mesi in dubbio è più forte della paura dei razzi di Hamas.

Un pesante tributo

A oggi, migliaia di persone sono state ferite e centinaia uccise, mentre i danni economici ammontano a miliardi di dollari, ma la maggior parte delle sofferenze sono state inflitte ai palestinesi, specialmente nella Striscia di Gaza.

Provocazioni e populismo stanno colpendo pesantemente la società israeliana. Molti giovani israeliani non si arruolano più nell’esercito, non per un’opposizione politica alle azioni dell’esercito, ma semplicemente per priorità personali. La corruzione è rampante nel governo, quindi perché dei cittadini qualunque dovrebbero impegnarsi di più e sacrificare anni delle proprie vite all’esercito?

Con questa mentalità di “ognuno per sé”, le istituzioni pubbliche stanno collassando. La polizia si è rivelata incapace o riluttante a fermare i pogrom, a proteggere i manifestanti o ad arrestare ebrei facinorosi e violenti. Quando il capo della polizia ha invocato la calma e parlato di “terroristi da entrambe le parti,” è stato immediatamente rimproverato da Amir Ohana, il ministro della Pubblica Sicurezza, del Likud, che l’ha bollato come personaggio di sinistra.

Analogamente, l’esercito non agisce in modo organizzato, ma come una torma indisciplinata e inferocita. Il brutale bombardamento di Gaza è stato coordinato male e persino la qualità della propaganda che l’esercito israeliano produce per giustificare i bombardamenti è più scadente del solito.

Il 14 maggio l’ufficio stampa dell’esercito israeliano ha ingannato i media stranieri dichiarando che le truppe di terra israeliane stavano marciando dentro Gaza per costringere i combattenti di Hamas a rifugiarsi nei tunnel che sono stati prontamente bombardati. La bugia non è stata creduta perché l’ufficio stampa dell’esercito non ha mandato la stessa disinformazione ai giornali israeliani. I combattenti di Hamas hanno scoperto il trucco ed evitato di entrare nei tunnel.

I servizi di sicurezza israeliane avrebbero potuto prepararsi contro i razzi da Gaza o le proteste in Cisgiordania e in Israele, ma non l’hanno fatto. La loro unica strategia è stata la deterrenza, per causare abbastanza morte e sofferenza in modo da convincere i palestinesi a restare docili per paura. Ma quando i palestinesi superano le proprie paure, come hanno fatto nelle ultime settimane, la deterrenza è inutile.

Una dimostrazione di forza

Il 18 maggio lo sciopero generale dei palestinesi in tutto il territorio israelo-palestinese ha dimostrato un livello di unità senza precedenti evidenziando anche quanto sia divisa l’opinione pubblica israeliana.

La sorprendente forza militare di Hamas nella Striscia di Gaza, la furiosa sollevazione dei palestinesi dopo decenni di discriminazioni e umiliazioni, l’allargarsi delle proteste in Cisgiordania, i palestinesi delusi dalla decisione di annullare le elezioni attese per quest’anno, tutto ciò ha creato il panico nel discorso pubblico israeliano, specialmente sui media.

I giornalisti israeliani critici sono stati zittiti, alcuni hanno ricevuto minacce di morte e hanno cercato la protezione di addetti alla sicurezza. Altri giornalisti, al contrario, hanno invocato più violenza, persino il massacro dei palestinesi. (Sui media, un eufemismo usato spesso per un massacro è “foto della vittoria” un’immagine simbolica di distruzione che negherebbe ai palestinesi l’opportunità di dichiarare vittoria.)

A livello tattico, le forze armate israeliane sono dotate di armi superiori, ma a livello strategico stanno perdendo legittimità internazionale. La parte israeliana è completamente prevedibile. Le operazioni militari sono dettate dagli interessi politici di Netanyahu a breve termine. Gli israeliani sono divisi internamente e paralizzati politicamente. La paura di perdere la faccia impedisce loro di cercare dei compromessi.

La parte palestinese, al contrario, è unita, ma imprevedibile e ha molte alternative su come procedere. L’operazione militare, soprannominata da Israele: “Guardiano delle Mura” è finita con un cessate il fuoco. Ma sembra che, nonostante il tremendo bilancio delle vittime palestinesi, la parte israeliana abbia perso.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)