Gli Stati Uniti non possono continuare a ignorare i crimini di Israele a Gerusalemme

Daoud Kuttab

27 aprile 2021   Al Jazeera

L’amministrazione Biden deve usare maniere forti con Israele se vuole fare la differenza in Medio Oriente.

È diventato praticamente un cliché. La nuova amministrazione statunitense si insedia e delude le aspettative che intensifichi gli sforzi per risolvere il conflitto israelo-palestinese, elencando invece nuove priorità estere come Afghanistan, Russia e Cina. Allo stesso modo, l’amministrazione Biden ha segnalato una mancanza di serio interesse per la questione palestinese.

Ma le proteste violente e gli scontri scoppiati nella Gerusalemme est occupata all’inizio di questo mese dovrebbero smuovere la leadership degli Stati Uniti dalla loro apatia.

Il primo giorno di Ramadan le autorità israeliane hanno deciso di rompere il fondamentale impegno a rispettare il diritto di culto entrando con la forza nei quattro minareti della moschea di Al Aqsa, per interrompere la chiamata serale alla preghiera, che coincideva con la cerimonia israeliana per la Giornata della Memoria svoltasi presso il Muro Occidentale di Gerusalemme alla presenza di alti funzionari israeliani.

Dopo di che le autorità israeliane hanno anche deciso di negare l’ingresso ad Al Aqsa a un gran numero di fedeli musulmani che volevano unirsi ai loro fratelli e sorelle per la rottura del digiuno nel cortile della moschea. Ai palestinesi è stato anche vietato di riunirsi presso la Porta di Damasco, cosa che fanno tradizionalmente durante il Ramadan.

Le affermazioni dei funzionari che queste misure fossero state prese per proteggere i palestinesi dal COVID-19 non sono credibili. La maggior parte dei residenti di Gerusalemme Est è già stata vaccinata, poiché, a differenza dei palestinesi che vivono a Gaza e in Cisgiordania, hanno avuto accesso ai vaccini dalle autorità israeliane. A un numero limitato di palestinesi nel resto dei territori occupati è stato concesso il permesso di visitare la città occupata e tutti hanno dovuto presentare un certificato di vaccinazione.

Come se non bastasse, la polizia israeliana ha permesso a centinaia di giovani dell’organizzazione di estrema destra Lehava, considerata razzista ed estremista anche dagli israeliani, di marciare verso la città vecchia di Gerusalemme al grido di “morte agli arabi” e “via gli arabi”. Quando i palestinesi li hanno fronteggiati, per disperdere la folla palestinese la polizia israeliana ha usato granate assordanti, gas lacrimogeni e violenza fisica.

In tutto il mondo, le tattiche per prevenire la violenza includono non solo una presenza di polizia ampia e controllata, ma anche tentativi di convincere i leader politici o religiosi a usare la loro posizione per incoraggiare i membri della loro comunità a non entrare in alterchi fisici e a disperdersi pacificamente.

Il problema è che Israele ha da tempo abbandonato questi strumenti di comunicazione con i palestinesi di Gerusalemme est. Dal 1993, con la firma degli accordi di Oslo alla Casa Bianca a Washington, gli israeliani agiscono aggressivamente per recidere ogni legame dei palestinesi di Gerusalemme con la loro leadership nazionale.

Le autorità israeliane interrompono regolarmente gli eventi nella città occupata sponsorizzati dal governo palestinese di Ramallah anche se l’evento è uno spettacolo di marionette per bambini. I leader locali palestinesi vengono spesso trascinati via e imprigionati o minacciati di pene detentive se continuano a comunicare con i leader palestinesi loro colleghi.

E le violazioni israeliane dei diritti dei palestinesi in Gerusalemme non si fermano qui. Israele ha rifiutato di onorare una serie di clausole del patto interinale quinquennale degli accordi di Oslo che riguardano i gerosolimitani. Ha rifiutato di negoziare lo status della città occupata e ha continuato la sua campagna demografica e di sicurezza intesa a sradicare i residenti palestinesi. Ha anche continuato negli sforzi diplomatici per far riconoscere Gerusalemme come sua capitale.

Ora sta anche pianificando di impedire ai palestinesi di Gerusalemme di votare alle elezioni legislative palestinesi che si terranno il 22 maggio. Questo nonostante il fatto che l’accordo interinale garantisca il diritto dei palestinesi di Gerusalemme di votare alle elezioni palestinesi.

Il governo israeliano, che dichiara costantemente di presiedere “all’unica democrazia del Medio Oriente” e di rispettare il diritto dei fedeli di tutte le religioni a praticare la loro fede a Gerusalemme e in tutta la Terra Santa, sta tristemente venendo meno su entrambi i fronti.

Nel frattempo l’amministrazione Biden ha rilasciato solo una debole dichiarazione di “preoccupazione” sulla marcia degli estremisti ebrei a Gerusalemme che ha provocato tensioni. Significa anche che non si opporrà al rinvio delle elezioni palestinesi, cosa che l’Autorità Nazionale Palestinese potrebbe essere costretta a fare poiché non è riuscita a ottenere da Israele il permesso di indire le votazioni a Gerusalemme est.

In patria, l’amministrazione Biden si è opposta all’estremismo di estrema destra e alla repressione degli elettori. Non ha senso che la sua politica estera nei confronti di Israele e Palestina non rifletta gli stessi principi.

Se il presidente Joe Biden è davvero deciso a riparare i danni che il suo predecessore Donald Trump ha fatto in patria e all’estero, allora deve cambiare tattica con Israele. Chiudere un occhio sui crimini israeliani contro i palestinesi e scegliere continuamente di compiacere Israele non porterà a una risoluzione pacifica del conflitto israelo-palestinese.

Biden deve fare pressione su Israele affinché sia accomodante su Gerusalemme, consenta lo svolgimento delle elezioni palestinesi in modo che possa essere eletta una nuova leadership palestinese, e poi procedere per riportare le due parti al tavolo dei negoziati.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la posizione della redazione di Al Jazeera.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Superato il limite. Le autorità israeliane e i crimini di apartheid e persecuzione

27 aprile 2021 – Human Rights Watch

(Gerusalemme) – In un rapporto reso noto oggi, Human Rights Watch [notissima Ong per i diritti umani con sede negli USA, ndtr.] afferma che le autorità israeliane stanno commettendo i crimini contro l’umanità di apartheid e persecuzione. Queste conclusioni si fondano su una politica complessiva del governo israeliano per mantenere il dominio degli ebrei israeliani sui palestinesi e su gravi violazioni commesse contro i palestinesi che vivono nei territori occupati, compresa Gerusalemme est.

Il rapporto di 213 pagine, “Superata la soglia. Le autorità israeliane e i crimini di apartheid e persecuzione”, esamina il trattamento dei palestinesi da parte di Israele. Presenta la situazione attuale di un’autorità unica, il governo israeliano, che è il potere dominante nell’area tra il fiume Giordano e il mar Mediterraneo, popolata da due gruppi più o meno delle stesse dimensioni numeriche, e che privilegia metodicamente gli ebrei israeliani reprimendo i palestinesi, in modo più pesante nei territori occupati.

“Per anni voci autorevoli hanno avvertito che l’apartheid sarebbe stato proprio dietro l’angolo se la traiettoria del dominio di Israele sui palestinesi non fosse cambiata,” afferma Kenneth Roth, direttore esecutivo di Human Rights Watch. “Questo studio dettagliato mostra che le autorità israeliane sono già andate oltre quell’angolo e oggi stanno commettendo i crimini contro l’umanità di apartheid e persecuzione.” La conclusione che si tratta di apartheid e persecuzione non muta lo status giuridico dei territori occupati, costituiti da Cisgiordania, compresa Gerusalemme est, e Gaza, né la situazione concreta dell’occupazione.

Originariamente coniato riguardo al Sud Africa, oggi “apartheid” è un termine giuridico universale. La proibizione contro discriminazioni e oppressione istituzionalizzati particolarmente gravi, o apartheid, costituisce un principio fondamentale del diritto internazionale. La Convenzione Internazionale sulla Soppressione e Punizione del Crimine di Apartheid e lo Statuto di Roma del 1998 che ha creato la Corte Penale Internazionale (CPI) definiscono l’apartheid un crimine contro l’umanità che consiste in tre elementi fondamentali:

1. L’intenzione di conservare la dominazione di un gruppo razziale su un altro.

2. Un contesto di oppressione sistematica del gruppo dominante sul gruppo emarginato.

3. Atti disumani.

Il riferimento a un gruppo razziale è inteso oggi come relativo non solo a modalità di trattamento sulla base di tratti genetici, ma anche di discendenza e origine nazionale o etnica, come definita nella Convenzione Internazionale sull’Eliminazione di Ogni Forma di Discriminazione Razziale. Human Rights Watch applica questa interpretazione più ampia di razza.

Il crimine contro l’umanità di persecuzione, come definito dallo Statuto di Roma e dal diritto consuetudinario internazionale, consiste in una grave privazione di fondamentali diritti di un gruppo razziale, etnico o altro con intenti discriminatori.

Human Rights Watch ha rilevato che gli elementi di questi crimini si ritrovano nel territorio occupato come parte di un’unica politica del governo israeliano. Questa politica intende conservare la dominazione degli ebrei israeliani sui palestinesi in Israele e nei territori occupati, dove è accompagnata da oppressione sistematica e azioni inumane contro i palestinesi che vi vivono.

Avvalendosi di anni di documentazione sui diritti umani, studi di caso e dell’esame di documenti programmatici del governo, di affermazioni di politici e di altre fonti, Human Rights Watch ha messo a confronto politiche e prassi nei confronti dei palestinesi nei territori occupati e in Israele con quelli riguardanti ebrei israeliani che vivono nelle stesse zone. Nel luglio 2020 Human Rights Watch ha scritto al governo israeliano, sollecitando il suo punto di vista su questi problemi, ma non ha ricevuto alcuna risposta.

In Israele e nei territori occupati le autorità israeliane hanno cercato di estendere il più possibile la terra a disposizione delle comunità ebraiche e di concentrare la maggior parte dei palestinesi in centri densamente popolati. Le autorità hanno adottato politiche per contenere quello che hanno descritto esplicitamente come una “minaccia demografica” da parte dei palestinesi. A Gerusalemme, per esempio, i progetti del governo per il Comune, comprese sia la parte occidentale che quella orientale occupata della città, hanno fissato l’obiettivo di “conservare una solida maggioranza ebraica in città” e persino specificato la percentuale demografica che sperano di preservare.

Per mantenere la loro dominazione le autorità israeliane discriminano sistematicamente i palestinesi. La discriminazione istituzionale che i cittadini palestinesi di Israele devono affrontare include leggi che consentono a centinaia di cittadine ebraiche di escludere di fatto i palestinesi e stanziamenti che destinano solo una quota ridotta alle scuole palestinesi rispetto a quelle che accolgono bambini ebrei israeliani. Nel territorio occupato la durezza della repressione, compresa l’imposizione di un regime militare draconiano sui palestinesi, accordando nel contempo agli ebrei israeliani che vivono in modo segregato nello stesso territorio pieni diritti in base alla legge civile israeliana che ne rispetta i diritti, rappresenta la sistematica oppressione inerente all’apartheid.

Le autorità israeliane hanno commesso una serie di abusi contro i palestinesi. Molti di quelli commessi nel territorio occupato costituiscono gravi violazioni dei diritti fondamentali e azioni inumane relative di nuovo all’apartheid, tra cui: vaste restrizioni agli spostamenti nella forma del blocco di Gaza e di un regime di permessi, la confisca di più di un terzo della terra in Cisgiordania, dure condizioni in parti della Cisgiordania che hanno portato al trasferimento forzato di migliaia di palestinesi fuori dalle loro case, negazione dei diritti di residenza a centinaia di migliaia di palestinesi e dei loro familiari e la sospensione dei diritti civili fondamentali di milioni di palestinesi. Molte delle violazioni che sono al centro della perpetrazione di questi crimini, come la quasi totale negazione dei permessi edilizi ai palestinesi e la demolizione di migliaia di case con il pretesto della mancanza di permessi, non hanno alcuna giustificazione riguardante la sicurezza. Altre, come l’effettivo congelamento dell’anagrafe che Israele controlla nei territori occupati, che non ha altro scopo che impedire la riunificazione della famiglia per i palestinesi che vi vivono e impedisce agli abitanti di Gaza di vivere in Cisgiordania, utilizzano la sicurezza come pretesto per ulteriori obiettivi demografici. Anche quando la sicurezza fa parte della motivazione, essa non giustifica l’apartheid e la persecuzione più di quanto lo facciano la forza eccessiva o la tortura, afferma Human Rights Watch.

“Negare a milioni di palestinesi i diritti fondamentali senza alcuna legittima giustificazione riguardo alla sicurezza ed esclusivamente perché sono palestinesi e non ebrei non è solo una questione di occupazione illegittima,” scrive Roth. “Queste politiche, che concedono agli ebrei israeliani gli stessi diritti e privilegi ovunque vivano e discriminano i palestinesi a vari livelli ovunque essi vivano riflette una politica che privilegia un popolo a spese di un altro.”

Negli ultimi anni affermazioni e azioni delle autorità israeliane, compresa l’approvazione nel 2018 di una legge con valenza costituzionale che definisce Israele “lo Stato-Nazione del popolo ebraico”, il crescente insieme di leggi che privilegiano ulteriormente i coloni israeliani in Cisgiordania e non si applicano ai palestinesi che vivono sullo stesso territorio, così come negli ultimi anni la massiccia espansione di colonie e relative infrastrutture che le collegano a Israele hanno chiarito l’intenzione di conservare la supremazia degli ebrei israeliani. La possibilità che un futuro leader israeliano possa un giorno definire un accordo con i palestinesi che smantelli il sistema discriminatorio non smentisce la situazione attuale.

Le autorità israeliane dovrebbero eliminare ogni forma di repressione e discriminazione che privilegi gli ebrei israeliani a spese dei palestinesi, anche per quanto riguarda la libertà di movimento, la destinazione di terre e risorse, l’accesso all’acqua, all’elettricità e ad altri servizi e la concessione di permessi di costruzione. La procura generale della Corte Penale Internazionale (CPI) dovrebbe indagare e perseguire quanti sono verosimilmente implicati nei crimini contro l’umanità di apartheid e persecuzione. Dovrebbero farlo anche i Paesi in accordo con le proprie leggi nazionali in base al principio della giurisdizione universale e imporre sanzioni individuali, compreso il divieto di viaggiare e il blocco dei beni, contro funzionari pubblici responsabili di aver commesso questi crimini.

Le prove di crimini contro l’umanità dovrebbero indurre la comunità internazionale a rivedere la natura del proprio impegno in Israele e Palestina e adottare un approccio centrato sui diritti umani e sulla responsabilizzazione invece che esclusivamente sul “processo di pace” in fase di stallo. I Paesi dovrebbero formare una commissione d’inchiesta ONU per indagare la discriminazione e repressione sistematiche in Israele e Palestina e [nominare] un inviato internazionale dell’ONU per i crimini di persecuzione e apartheid con il mandato di mobilitare un’azione internazionale per porre fine a persecuzione e apartheid in tutto il mondo. I Paesi dovrebbero condizionare la vendita di armi e l’assistenza militare e per la sicurezza a Israele al fatto che le autorità israeliane prendano iniziative concrete e verificabili e smettano di commettere questi crimini. I Paesi dovrebbero vietare accordi, programmi di cooperazione e ogni tipo di commercio e trattati con Israele per individuare quanti contribuiscono direttamente a commettere questi crimini, ridurre l’impatto sui diritti umani e, ove non fosse possibile, porre fine ad attività e finanziamenti destinati ad agevolare questi gravi crimini.

“Mentre la maggior parte del mondo considera la cinquantennale occupazione come una situazione temporanea che il pluridecennale “processo di pace” presto risolverà, l’oppressione dei palestinesi ha raggiunto là un livello e una persistenza che corrispondono alla definizione di crimini di apartheid e persecuzione,” afferma Roth. “Quanti si impegnano per la pace tra israeliani e palestinesi, che sia una soluzione a uno Stato unico o a due Stati o una confederazione, dovrebbero nel contempo riconoscere questa situazione per quello che è e attivare gli strumenti per la difesa dei diritti umani necessari per porvi fine.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Studio Fotografico Kegham: l’archivio perduto di Gaza

Un inviato dall’Egitto

17 aprile 2021 Al-Monitor

Il nipote di Kegham Djeghalian, superstite del genocidio armeno del 1915 e fondatore del primo studio fotografico di Gaza, ha recentemente organizzato una mostra con i negativi trovati tre anni fa.

Nel 2018 l’artista e studioso Kegham Djeghalian trovò tre piccole scatole rosse lasciate dal padre in un armadio del suo appartamento al Cairo. Ciascuna scatola conteneva una raccolta, apparentemente senza un filo logico comune, di negativi diversi, dagli anni Quaranta fino ai Settanta. Le foto erano state scattate da suo nonno – che si chiamava anche lui Kegham Djeghalian. Dai racconti sentiti da quando era ragazzo sapeva che era stato il più importante fotografo della Striscia di Gaza, ma non aveva mai visto le sue fotografie. Djeghalian decise di portarsi i 1.100 negativi a Parigi, dove vive, e incominciò a scansionarli e stamparli.

Lo scorso marzo Djeghalian ha curato una mostra dedicata al lascito del nonno, il primo fotografo professionista di Gaza. Il suo obiettivo era esplorare la storia visiva della Striscia di Gaza. La mostra si è svolta nell’ambito della Settimana Fotografica del Cairo, una kermesse fotografica tenutasi nel centro del Cairo.

“Questo progetto mi ha ossessionato per quasi dodici anni. Ho fatto due passi avanti e poi ne ho fatti dieci indietro,” ha raccontato Djeghalian ad Al-Monitor. “L’interesse che mi ha mosso è stato studiare Kegham senza impegnarmi in [un vero e proprio] lavoro di archivio – perché non c’è un archivio, c’è un retaggio,” ha detto.

Giovane sopravvissuto al genocidio armeno del 1915, Kegham crebbe in diverse città del Medio Oriente e quando divenne maggiorenne si trasferì in Palestina. Lì fece diversi lavori prima di sposarsi a Giaffa e di decidere di stabilirsi con la moglie a Gaza, dove fondò il suo primo studio fotografico – Foto Kegham – nel 1944. Come sottolinea Djeghalian durante la mostra, lo studio si trasformò in un’istituzione fondamentale nella società di Gaza, dove Kegham finì con l’essere comunemente riconosciuto come il padre della fotografia. Kegham morì nel 1981, dopo avere segnato la storia fotografica di Gaza per quasi quarant’anni.

“L’importanza di mio nonno – oltre ad essere stato il primo fotografo di Gaza e colui che più l’ha documentata – [è che] godeva della fiducia delle persone di Gaza. … Lo facevano entrare nelle loro case, [partecipare] ai loro matrimoni e funerali. Era diventato l’emblema del fotografo di una città,” afferma Djeghalian. “Gaza è molto chiusa. Non ci sono molti stranieri. Non è come Gerusalemme, crocevia di ogni tipo di viaggiatori e abitanti. E così, che un armeno arrivi e venga accettato così profondamente e sinceramente … vuol davvero dire molto.”“E l’aspetto interessante riguardante il periodo temporale è che lui stava lì prima del 1948. Israele non esisteva. Parliamo di Gaza sotto il mandato britannico. [Ha visto] la Gaza del 1948, la Nakba [la catastrofe, il termine con cui i palestinesi indicano la pulizia etnica ad opera dei sionisti, ndtr.] e la guerra. Poi c’è stata la fondazione di Israele. e Gaza è passata sotto il controllo egiziano. Nel 1956 Gaza venne invasa per sei mesi da Israele. Di questo c’è ampia documentazione. Poi l’Egitto. E infine nel 1967 Gaza venne occupata,” dice. “Questi sono i punti più critici nella storia moderna di Gaza, e lui li ha vissuti tutti.”

I millecento negativi che Djeghalian trovò in quelle scatole al Cairo sono soprattutto di foto degli anni ’50 e ’60, qualcuna degli anni ’40, pochissime degli anni ’70. Dapprima si accostò alle foto con una procedura da lavoro archivistico formale, prendendo i negativi per scansionarli, catalogarli, datarli, esaminando e raggruppando il materiale. Ma ben presto abbandonò l’idea di diventare il curatore di un piccolo archivio familiare.

Da quel momento, spiega Djeghalian, scelse di impegnarsi in una contrapposizione dura con le foto, in una lettura “dirompente” che ritiene generatrice di un’ambiguità che preserva l’affettivo e il nostalgico e al contempo prende atto della narrazione e del contesto disgregati in cui erano immersi Kegham e le sue foto. Decise inoltre di non restaurare i negativi al fine di mantenere un degrado che ritiene sia “bello e poetico.”

“In quanto sopravvissuto al genocidio armeno, [Kegham passò dalla] perdita di una continuità armena alla perdita della Palestina. La perdita di Gaza. La perdita dell’archivio. E la perdita dei materiali fotografici, perché i negativi si stanno deteriorando,” dice Djeghalian. “L’ambiguità conferisce qualche senso di rivelazione al [suo] lavoro e potrebbe rischiare di essere destabilizzante, e questo sentimento è costruttivo. In certo qual modo è costruttivo, e tuttavia destabilizzante,” aggiunge.

Djeghalian dice che si è rivelato impossibile ottenere accesso all’archivio di Gaza. Spiega che alla morte di Kegham la sua famiglia offrì lo studio all’apprendista Maurice, che ne preservò l’eredità finché non scomparve anche lui. Il fratello di Maurice, che non aveva alcun interesse per la fotografia, rilevò lo studio, di cui non si occupò mai, e l’archivio, che ha completamente monopolizzato e trascurato da allora, secondo Djeghalian.

Nella mostra del Cairo le opere di Kegham erano suddivise in quattro aree tematiche. Le prime due si incentravano sulla pratica professionale e l’impegno socio-politico, mostrando prima l’attività dello studio e mappandone poi le attività di documentazione fotografica di Gaza, inclusi paesaggi, matrimoni, feste, governanti egiziani, scuole e campi profughi. La terza era dedicata all’album familiare, che secondo Djeghalian può servire anche come una specie di lettura socio-geografica della Gaza del tempo. L’ultima mostrava alcune delle foto più significative di Kegham mediante una zumata fra Djeghalian al Cairo e l’attuale proprietario di buona parte dell’archivio di Kegham, a Gaza.

Come ha detto ad Al-Monitor Alia Rady, assistente curatrice della mostra, “La Striscia di Gaza non è stata documentata al pari di altre zone della Palestina. Per un certo periodo Kegham è stato il primo e l’unico fotografo di Gaza ed il suo archivio è in assoluto il più grande che abbiamo a tutt’oggi. Credo che questo archivio sia [il] racconto di un luogo che non esiste più E’ la documentazione di luoghi e persone che non esistono quasi più, ed è l’illustrazione visiva delle storie che abbiamo sentito sulla Gaza che non abbiamo mai visto.”

Rady prosegue: “L’archivio Kegham abbracciava ogni aspetto di Gaza: fotoritratti in interno, vita quotidiana, escursioni, gite al mare, picnic, paesaggi, politici, militari, campi profughi. Qualsiasi cosa accadesse a Gaza, Kegham la catturava con il suo obiettivo.”

Come riassume Djeghalian, “Questa è la storia visiva di un [luogo] che viene scarsamente documentato, e pertanto è problematico. È la storia di un Paese contestato, storia molto dirompente, problematica e contestata. In Egitto la percezione di Gaza si è costruita attraverso i dati, gli elementi visivi, le storie che ci arrivano. [Gaza] è diventata un punto nero nel Medio Oriente e nei Territori Palestinesi. L’aspetto impressionante della mostra è stato vedere che quasi tutti i visitatori sono rimasti turbati da questo impatto con la storia di un [luogo] che viene costruita in modo così negativo, perlomeno nella loro immaginazione.”

(traduzione dall’inglese di Stefania Fusero)




Se Israele non ha commesso crimini di guerra, perché rifiuta l’inchiesta della CPI?

Kamel Hawwash

10 aprile 2021 – Days Of Palestine

Il 5 febbraio i palestinesi hanno visto brillare in fondo ad un lungo tunnel una debole luce di giustizia. La Prima Camera Preliminare della Corte Penale Internazionale (CPI) “ha deciso a maggioranza che la giurisdizione territoriale della Corte sulla situazione in Palestina, uno Stato aderente allo Statuto di Roma della CPI, si estende ai territori occupati da Israele dal 1967.” Ora la CPI ha giurisdizione per investigare sui crimini che i palestinesi affermano essere stati commessi da Israele in Cisgiordania, Gerusalemme est e Gaza. La procuratrice della Corte, Fatou Bensouda, aveva precedentemente chiesto le indagini, affermando che vi era “una ragionevole base per ritenere” che si fossero verificati crimini di guerra.

Le reazioni in Palestina e in Israele sono state quelle previste. I palestinesi hanno accolto con favore la decisione. Il Ministro della Giustizia palestinese Mohammed Al-Shalaldeh ha plaudito alla decisione della CPI definendola “storica”.

La decisione della Corte Penale Internazionale è storica e rappresenta l’inizio immediato delle indagini sulle gravi violazioni nei territori occupati palestinesi”, ha detto Al-Shalaldeh. Ha poi aggiunto che la Corte darà priorità a tre dossier: la guerra israeliana contro Gaza del 2014, le colonie israeliane e i prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane.

Il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha denunciato la decisione in una dichiarazione scritta. “Oggi la Corte Penale Internazionale ha dimostrato ancora una volta di essere un ente politico e non un’istituzione giudiziaria”, ha detto Netanyahu. “Con questa sentenza il tribunale ha violato il diritto delle democrazie a difendersi contro il terrorismo ed è stato manipolato da coloro che minano gli sforzi per estendere l’ambito della pace”, ha aggiunto.

Chiunque si aspettasse un cambio nella posizione americana dalla nuova amministrazione Biden è stato subito deluso. In una telefonata a Netanyahu la vicepresidente americana Kamala Harris gli ha detto che secondo la Casa Bianca gli USA sono contrari all’inchiesta della CPI su possibili crimini di guerra nei territori palestinesi.

Ciò ha fatto seguito ad un annuncio del Segretario di Stato USA Antony Blinken che diceva che Washington “è fermamente contraria e profondamente delusa” dalla decisione della CPI. Ha sottolineato che “Israele non è membro della CPI e non ha accettato la giurisdizione della Corte e siamo molto preoccupati per i tentativi della CPI di esercitare la propria giurisdizione sul personale israeliano”, ha affermato Blinken in un comunicato.

Israele deve essere rimasto un po’ sconcertato, ma certamente deluso, per il fatto che la stessa amministrazione (USA) recentemente ha tolto le sanzioni sul personale della CPI imposte dal predecessore di Biden, Trump, nel dicembre 2020. Il team di Blinken ha affermato: “Quella decisione rispecchia la nostra valutazione secondo cui le misure adottate erano inappropriate e inefficaci” prosegue l’amministrazione, “riguardo all’obiettivo di dissentire fortemente dalle azioni della CPI relative alle situazioni di Afghanistan e Palestina” ed opporsi agli “sforzi della CPI di rivendicare la giurisdizione sul personale di Stati non membri, quali gli Stati Uniti e Israele.”

Gli USA hanno preso questa decisione nonostante le indagini, che potrebbero prendere di mira personale militare USA per crimini commessi in Afghanistan. Ci si sarebbe potuti aspettare che Israele seguisse l’esempio e riconoscesse che la CPI è un tribunale indipendente e che il procuratore capo abbia condotto scrupolose consultazioni prima di sentenziare che la Corte ha giurisdizione sui Territori Palestinesi Occupati e che avrebbe condotto indagini su crimini commessi da entrambe le parti, compresi i palestinesi, a partire dal 2014. Tuttavia chi ben conosce l’atteggiamento di Israele nei confronti di un necessario esame esterno non si sarebbe sorpreso per il suo rigetto formale della decisione della CPI di indagare i crimini dei suoi dirigenti.

Israele è chiaramente preoccupato per la decisione della CPI. Dopo una riunione dei suoi vertici ha deciso di inviare una lettera alla Corte per comunicare il proprio rifiuto a collaborare. Alla riunione erano presenti, tra gli altri, il Primo Ministro, il Ministro della Difesa, il Ministro per gli Affari Strategici, il Ministro dell’Educazione, il Ministro dell’Acqua, il Procuratore Generale, il capo del Consiglio di Sicurezza Nazionale e il Capo di Stato Maggiore.

Coerentemente con la sua consolidata posizione Israele non collaborerà all’inchiesta della Corte Penale Internazionale su presunti crimini di guerra e sosterrà che la Corte non ha giurisdizione per avviare l’indagine. Durante la riunione Netanyahu ha sostenuto che “mentre i soldati dell’IDF (l’esercito israeliano) combattono con estrema moralità contro terroristi che commettono quotidianamente crimini, la Corte dell’Aja ha deciso di accusare Israele.” “Non vi è altro termine per questo, se non ipocrisia. Un’istituzione creata per lottare per i diritti umani si è trasformata in un’istituzione ostile che difende chi calpesta i diritti umani.”

Nella lettera da inviare alla CPI Israele sosterrà di avere la propria “magistratura indipendente” in grado di giudicare i soldati che commettano crimini di guerra.

I palestinesi chiederanno di fare diversamente, dato che le indagini di Israele sui propri crimini non hanno fatto giustizia. Prendiamo per esempio l’inchiesta sull’uccisione, nel 2018, dell’infermiera palestinese ventunenne Razan Al-Najjar vicino alla barriera di Gaza. Un’inchiesta israeliana ha affermato che “nel corso di un esame preliminare dell’incidente che ha avuto luogo il primo giugno 2018, in cui è stata uccisa una donna palestinese di 22 anni, è stato riscontrato che durante l’incidente sono stati sparati pochi proiettili e che nessuno sparo è stato deliberatamente o direttamente indirizzato a lei.” Commentando l’inchiesta, l’organizzazione per i diritti umani Al-Haq ha affermato: “L’esame preliminare frettolosamente concluso mette in luce l’incapacità di Israele di condurre un’indagine indipendente, efficace ed imparziale su presunti crimini di guerra.” Ha inoltre affermato:

Di fatto l’esercito israeliano agisce impunemente. Tra il 2005 e il 2009, su 800 denunce presentate per crimini di guerra, solo 49 indagini hanno portato ad incriminazioni.

Perciò Israele non può essere ritenuto affidabile nel condurre in modo imparziale proprie indagini, e questo è il motivo per cui è necessaria un’indagine esterna. Inoltre, ha una storia decennale di rifiuti di concedere accesso a squadre investigative internazionali per indagare su potenziali crimini di guerra.”

Nel 2002 è stato negato l’ingresso al campo al team di Amnesty International che indagava su potenziali crimini commessi dalle truppe israeliane nel campo profughi di Jenin. Il professor Derrick Pounder, che faceva parte del team di 3 persone inviato ad indagare su violazioni dei diritti umani, ha detto: “Il rifiuto di consentirci di svolgere o anche di aiutare altri a svolgere tali indagini è molto grave e solleva dubbi sulle motivazioni delle autorità.”

Nel 2009 al team guidato dal giudice Goldstone per indagare su possibili crimini commessi durante la guerra contro Gaza del 2008/09 Israele ha negato i visti, e il team ha dovuto entrare a Gaza attraverso l’Egitto. Alla fine il suo rapporto ha concluso che Israele e gruppi armati palestinesi erano colpevoli di crimini di guerra. Il rapporto ha inoltre riferito che ad Amnesty International, Human Rights Watch e B’Tselem era stato vietato di entrare a Gaza per condurre le proprie indagini.

Nel 2014 Israele ha nuovamente negato l’ingresso ai team che erano incaricati di indagare su potenziali violazioni dei diritti umani. La commissione investigativa dell’UNHCR [Alto Commissariato Nazioni Unite per i Rifugiati, ndtr.] ha rilevato che sia Israele che gruppi armati palestinesi avevano commesso crimini di guerra.

Israele ha anche negato l’ingresso ai relatori dell’ONU Richard Falk e Michael Link, relatore speciale ONU per i Territori palestinesi.

Forse Israele ha qualcosa da nascondere? Certo, sicuramente sì. Le sue violazioni dei diritti umani riempiono pagine su pagine di ogni dossier. Che riguardino i crimini di guerra nel corso delle ripetute guerre contro la popolazione palestinese indifesa e intrappolata a Gaza, o la sua illegale impresa coloniale, o il trasferimento della sua popolazione in aree illegalmente occupate, o il trasferimento di prigionieri palestinesi dai territori occupati nel proprio territorio. E le demolizioni di case, gli sgomberi delle famiglie?

Con questi foschi precedenti, giustizia impone che le violazioni israeliane vengano indagate e che Israele ne renda conto. I suoi dirigenti devono rispondere di persona dei loro presunti crimini di guerra e devono comparire di fronte al tribunale dell’Aja. Altrimenti continueranno a commettere crimini, con la consapevolezza di non doverne pagare le conseguenze. Le ruote della giustizia devono girare più veloci e allora i criminali di guerra israeliani non potranno più dormire tranquillamente la notte pensando che possono alzarsi al mattino e commettere impunemente altri crimini.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Days of Palestine.

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(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Perché la UE contribuisce ad etichettare come antisemite le critiche a Israele?

Ilan Baruch,

19 aprile 2021 – +972 MAGAZINE

Adottando la definizione dell’IHRA la UE prende parte al programma dei gruppi di sostegno a Israele che minano l’impegno della società civile contro l’occupazione.

Da quando l’International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA) [Alleanza internazionale per la memoria dell’olocausto: organizzazione intergovernativa fondata nel 1998 col fine di promuovere e divulgare l’educazione sull’Olocausto, ndtr.] nel maggio 2016 ha adottato la sua “definizione operativa di antisemitismo diverse organizzazioni israeliane – alcune delle quali con legami dichiarati con il governo israeliano – hanno promosso quella definizione con l’obiettivo di screditare e minare l’impegno della società civile che esige risposte da Israele sull’occupazione della Palestina.

Una di queste organizzazioni è NGO Monitor [ONG israeliana che monitora i dati relativi alla comunità internazionale delle ONG da una prospettiva filo-governativa e di destra, ndtr.] che è stata contestata per aver preso di mira le fonti di finanziamento di organizzazioni critiche nei confronti di Israele. Unaltra è l’International Legal Forum (ILF) [Foro giuridico internazionale, ndtr.] una rete giuridica nota per contrastare la pressione internazionale contro le politiche del governo israeliano. Negli ultimi anni entrambe le organizzazioni hanno preso parte ad una campagna più estesa che ha portato alla riduzione dello spazio civico per le iniziative a sostegno dei diritti umani nell’ambito della questione israelo-palestinese.

Per queste organizzazioni in difesa di Israele la definizione dell’IHRA è diventata un progetto importante. Nelle scorse settimane l’ILF, ad esempio, ha contribuito a stilare una lettera aperta di intellettuali a sostegno della definizione. La definizione occupa un posto di rilievo anche nel recente rapporto dell’ILF, “Antisemitism & De-Legitimization”. Il gruppo ha anche assegnato una pagina web alla promozione di un’analisi giuridica in cui si sostiene che la definizione “fornisce, per la prima volta nella storia (sic), uno standard oggettivo per identificare le motivazioni e gli intenti antisemiti dietro comportamenti discriminatori” e per “riconoscere e comprendere con chiarezza che cosa costituisca antisemitismo.”

Tuttavia la definizione dell’IHRA non rappresenta certo un criterio oggettivo. Come molti critici hanno evidenziato, la definizione manca di chiarezza e demarcazione, il che la rende vulnerabile a interpretazioni errate e manipolazioni. Ancora più suscettibili ad un uso arbitrario sono gli undici “esempi contemporanei di antisemitismo” allegati alla definizione IHRA, sette dei quali si riferiscono a Israele.

Questi esempi relativi a Israele sembrano essere uno dei motivi principali per cui organizzazioni come l’ILF stanno promuovendo con tale entusiasmo la definizione dell’IHRA. In effetti l’ILF non tratta la definizione dell’IHRA come una dichiarazione simbolica – pretende che sia applicata nel concreto da agenzie e funzionari governativi, tra cui polizia, pubblici ministeri e giudici.

Rendere operativa la definizione

Purtroppo la Commissione Europea ha condiviso gli obiettivi dell’ILF e dell’NGO Monitor quando, il 7 gennaio 2021, ha pubblicato un “Manuale per l’uso pratico della definizione operativa di antisemitismo dell’IHRA”. Il manuale rappresenta un ambizioso piano d’azione per l’operatività e il rafforzamento della definizione dell’IHRA in molteplici aree politiche, dall’istruzione alla giustizia al finanziamento della società civile.

Una coalizione di ONG, sindacati e gruppi di solidarietà progressisti del Belgio, denominata “11.11.11”, ha risposto con un documento utile e istruttivo sollevando otto dubbi riguardo questo manuale, alcuni dei quali sono riassunti di seguito.

Benché pubblicato con il logo ufficiale della Commissione Europea, il manuale è stato di fatto scritto dalla RIAS (l’Associazione federale dei dipartimenti per la ricerca e l’informazione sull’antisemitismo), un ente finanziato dallo zar tedesco dell’antisemitismo, il dottor Felix Klein, che lavora per il Ministero dell’Interno del Paese. Klein è stato una forza trainante in Germania nel condurre la strumentalizzazione politica della lotta contro l’antisemitismo, in particolare contro i gruppi che sostengono il BDS, cosa che ha portato a delle richieste di dimissioni nei suoi confronti.

Secondo il manuale, per produrre i suoi contenuti la RIAS si è rivolta ad una serie di soggetti di interesse politicamente coinvolti. Uno dei collaboratori elencati è il direttore degli affari governativi del Simon Wiesenthal Center [ONG con sede a Los Angeles intitolata al famoso cacciatore di nazisti, ndtr.] che pubblica un elenco annuale dei “10 peggiori eventi antisemiti”.

Molte edizioni di questo elenco comprendono degli eventi che poco hanno a che fare con l’antisemitismo. Ad esempio, nel 2015 il Centro Wiesenthal ha elencato l’Unione Europea come antisemita per la sua decisione di etichettare i prodotti delle colonie israeliane. Nel 2016 la Francia è stata inserita nell’elenco per lo stesso motivo. Nel 2018, il centro ha riportato una banca tedesca come antisemita per aver aperto il conto di un’organizzazione ebraica che sostiene il BDS. Nel 2019 ha bollato l’ambasciatore tedesco delle Nazioni Unite Christoph Heusgen come antisemita per aver criticato Israele al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.

Tra gli altri collaboratori al manuale c’è il presidente del consiglio di IIBSA (l’Istituto internazionale per l’educazione e la ricerca sull’antisemitismo), un’organizzazione tedesca che nel 2018 ha pubblicato un rapporto che inquadra il movimento BDS come antisemita.

È interessante notare che il manuale della Commissione Europea non fa alcuna menzione esplicita del BDS. Tuttavia promuove come “esempi di buone pratiche” due risoluzioni approvate dai parlamenti francese e austriaco che associano il BDS all’antisemitismo. A vantaggio dei suoi autori, il manuale non fa riferimento alla storica sentenza della Corte di Giustizia Europea del giugno 2020 che sancisce il BDS come espressione della libertà di parola.

L’ambiguità del manuale va oltre il BDS. Non riconosce nessuna delle crescenti preoccupazioni sulla definizione dell’IHRA e sui modi in cui viene strumentalizzata, come sostenuto da innumerevoli studiosi e organizzazioni della società civile compresi i gruppi per le libertà civili. Persino Kenneth Stern, il principale redattore della definizione dell’IHRA, si è espresso contro l’impiego della definizione come arma lesiva della libertà di parola, in particolare nelle università.

Implicazioni di vasta portata

Gli effetti del manuale della Commissione Europea possono avere conseguenze concrete e pratiche su coloro che difendono i diritti dei palestinesi e criticano la politica israeliana. In primo luogo, facilita il progetto dell’ILF di attribuire un’efficacia quasi giuridica alla definizione dell’IHRA, compresi gli esempi relativi a Israele. Sebbene il manuale riconosca che la definizione è “non giuridicamente vincolante”, chiede alle autorità di contrasto di utilizzare la definizione per identificare, registrare, analizzare e classificare i crimini antisemiti e di aggiungere “riferimenti” alla definizione dell’IHRA nella “giurisdizione sui crimini d’odio e/o nella normativa contro l’antisemitismo.”

In secondo luogo, il manuale rappresenta un aiuto efficace per l’attuale campagna di NGO Monitor volta a pregiudicare finanziamenti internazionali alle ONG che critichino e accusino il governo israeliano. Esso propone che i governi e gli attori internazionali introducano riguardo ai loro finanziamenti delle condizioni basate sulla definizione dell’IHRA, suggerendo che “le iniziative e le organizzazioni che fondano le loro azioni sulla [definizione]” dovrebbero avere la priorità nel sostegno finanziario. Il manuale raccomanda inoltre che i governi e gli attori internazionali utilizzino la definizione come “meccanismo di controllo per evitare il finanziamento di organizzazioni e progetti antisemiti” – in altre parole, per escludere organizzazioni o progetti percepiti, sulla base di un’interpretazione politica, come in violazione della definizione dell’IHRA.

In tale contesto, il manuale tratta gli “esempi contemporanei di antisemitismo” come parte integrante della definizione IHRA. Ciò contraddice le precedenti dichiarazioni dell’UE, dalle quali gli esempi erano stati deliberatamente omessi. Ora, poiché il manuale li include, le sue raccomandazioni politiche per le autorità giuridiche di contrasto e per le condizioni ai finanziamenti si estendono efficacemente agli esempi relativi a Israele allegati alla definizione. Ciò potrebbe avere implicazioni di vasta portata.

Non ci è voluto molto perché NGO Monitor cogliesse l’opportunità offerta dal manuale. Appena 18 giorni dopo la pubblicazione del documento della Commissione Europea, NGO Monitor ha pubblicato un atto programmatico dal titolo “Implementing the IHRA Definition of Antisemitism for NGO Funding” [La messa in pratica della definizione dell’IHRA sull’antisemitismo nel campo dei finanziamenti alle ONG, ndtr.].

Ciò rivela fino a che punto l’Unione Europea si è invischiata con attori e programmi che utilizzano la definizione dell’IHRA come arma per motivi diversi dalla lotta all’antisemitismo. Questo è particolarmente preoccupante in un momento in cui il governo israeliano accusa la Corte Penale Internazionale di antisemitismo per aver inteso indagare su sospetti crimini di guerra commessi nei territori palestinesi occupati. Lo stesso governo israeliano, come era prevedibile, ha accolto con entusiasmo il manuale della Commissione Europea nel rendere la definizione dell’IHRA “uno strumento centrale” nella lotta all’antisemitismo.

L’ex ambasciatore Ilan Baruch presiede il Policy Working Group [Gruppo di lavoro politico, ndtr.], un collettivo di accademici, ex ambasciatori e difensori dei diritti umani israeliani di alto livello che sostengono e promuovono una trasformazione delle relazioni tra Israele e Palestina dall’occupazione ad una coesistenza basata su una soluzione a due stati.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Il vero apartheid

Asa Winstanley

17 aprile 2021 Middle East Monitor

“E’ questo il vero apartheid,” ha twittato la scorsa settimana l’avvocata ebrea americana Brooke Goldstein. “il fatto che gli ebrei non possano entrare in territorio palestinese,” ha dichiarato. “Non accetto che ci siano posti dove è pericoloso entrare perché SONO EBREA.”

Goldstein ha inserito nel tweet la foto di un grande cartello rosso in Cisgiordania con la scritta (in ebraico, arabo e inglese): “Questa strada porta a villaggio palestinese [sic] l’ingresso è pericoloso per i cittadini israeliani.”

Tuttavia la Goldstein, a prescindere dalla vergognosa sovrapposizione di ebrei con israeliani, ha trascurato un fatto basilare – il cartello era opera di Israele, non dei palestinesi. In questo modo ha fatto apparire i palestinesi colpevoli di “odio per gli ebrei”.

E’ il regime di apartheid israeliano che stabilisce chi può andare e dove in Cisgiordania. E’ il sistema dittatoriale israeliano dei posti di blocco dell’esercito, delle basi militari e dell’elaborato sistema di permessi che decreta chi si può muovere, dove e perché.

Il post della Goldstein è stato parecchio deriso dagli utenti di Twitter.

Ha ricevuto ciò che i giovani definiscono una “ratio”, vale a dire che ha suscitato molti più commenti (1.100 mentre scrivo questo articolo) che “likes” (378) o retweet (soltanto 145). Le risposte e le citazioni sono quasi tutte critiche e di scherno, fra cui alcune decisamente esilaranti.

Questi cartelli si vedono spesso in Cisgiordania. Chiunque vi sia stato li ha visti all’ingresso dei maggiori agglomerati urbani palestinesi.

Ma questi divieti sono conseguenza del razzismo del regime di apartheid israeliano, non di un immaginario endemico antisemitismo palestinese. L’esercito israeliano ha incominciato a mettere i cartelli intorno all’anno 2006, il periodo in cui vivevo in Cisgiordania.

Questi cartelli non sono unici nella storia del separatismo razziale e coloniale. Molti ricordano che nel sud degli USA ai tempi delle leggi Jim Crow [in vigore fra il 1877 e il 1964, servirono a mantenere la segregazione razziale in tutti i servizi pubblici, ndtr] (prima che il movimento per i diritti civili ottenesse le decisive vittorie degli Anni Sessanta) e in Sud Africa durante l’epoca dell’apartheid, quei regimi avevano implementato un sistema talvolta definito di “segregazione secondaria”.

Cartelli e altre attrezzature segnalavano numerosi spazi pubblici come “riservati ai bianchi” oppure “riservati agli europei”. E’ noto che ai neri veniva negato l’accesso alle fontanelle pubbliche, ed anche a tavole calde ed altri negozi.

Ma il corollario naturale dei cartelli “riservati ai bianchi” erano i concomitanti “riservati ai neri” o “riservati alla gente di colore”, anche questi esposti dagli stessi regimi suprematisti bianchi. Non diversamente, il regime segregazionista israeliano erige questi cartelli rossi per mantenere “al loro posto” i palestinesi.

L’obiettivo vero di quei cartelli non è tenere gli israeliani – certamente non gli ebrei – fuori dalle zone palestinesi in Cisgiordania, semmai di rafforzare l’ideologia europea di separatismo razziale, che nega la pari umanità alla popolazione indigena “non bianca”.

L’obiettivo è far rispettare il principio che nel Sud statunitense delle leggi Jim Crow veniva raccontato come “separati ma uguali”, mentre in realtà era tutto tranne che equo. Gli afroamericani erano sistematicamente tenuti nella povertà più abietta, non diversamente da come il Sudafrica dell’apartheid teneva la maggioranza nera in sistemica povertà.

Il regime segregazionista israeliano nega ai palestinesi pari accesso al sistema scolastico, ai contributi pubblici, alle infrastrutture e alle altre normali funzioni dello Stato, mentre destina generosi investimenti alle comunità ebraiche israeliane. Se questo vale per i palestinesi che teoricamente sono “cittadini israeliani”, non parliamo poi della questione della Cisgiordania occupata, che non è altro che una dittatura dominata dall’esercito israeliano, in cui i palestinesi hanno zero diritti.

Se abbiamo consapevolezza di questa ideologia, possiamo allora comprendere che a chi ha preso in giro la Goldstein per la sua stupidità, pur avendo avuto tutte le ragioni di farlo, è sfuggito però un punto fondamentale.

Quello della Goldstein non è stato un semplice equivoco ed è altrettanto improbabile che ignorasse che è Israele a erigere quei cartelli. E’ invece assai più plausibile che stesse intenzionalmente mentendo per distogliere l’attenzione dal fatto che Israele è un regime segregazionista, fatto di cui si sta sempre di più prendendo coscienza. Ecco perché ha dichiarato che in quel cartello sta il “vero apartheid”.

La realtà è che la Goldstein non è esattamente una qualsiasi sprovveduta con un account su Twitter. In effetti, è una razzista impegnata nella causa anti-palestinese e nell’accanita propaganda a favore dell’imposizione del regime di apartheid israeliano – che si estende alla punizione e persecuzione di chi sostiene i diritti dei palestinesi in ogni parte del mondo.

Gestisce l’organizzazione sionista Lawfare Project [Progetto Guerra Legalista, che finanzia cause legali a sostegno delle comunità ebraiche filoisraeliane, ndtr], che ha la missione di attaccare i palestinesi ed i loro sostenitori nel mondo utilizzando cause legali pretestuose.

Una volta è arrivata a sostenere che “Non esistono persone palestinesi”.

Quindi l’accusa ingiustificata di antisemitismo rivolta dalla Goldstein ai palestinesi è stato un tipico caso di proiezione per cui il razzista presume che tutti quanti – specialmente le sue vittime – condividano le sue stesse idee razziste.

 Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale del Middle East Monitor.

(Traduzione dall’inglese di Stefania Fusero)

 




La repressione israeliana vuole mettere a tacere i giornalisti palestinesi

Greg Shupak 

13 aprile 2021 Electronic Intifada

Le operazioni di insediamento dei coloni mirano a impedire agli espropriati di documentare le loro esperienze, e sono parte del tentativo più ampio di dominarli e disumanizzarli e annullare ogni aspetto della loro indipendenza.

La violenza di Israele contro i giornalisti palestinesi ne è un esempio.

Nel 2019 il Congresso mondiale della Federazione Internazionale dei Giornalisti ha adottato una mozione del Sindacato dei Giornalisti Palestinesi che “condanna le continue violazioni della libertà di stampa nei Territori Occupati palestinesi”.

Israele reprime con violenza i giornalisti che documentano i suoi crimini contro i palestinesi – prendendo di mira principalmente i giornalisti palestinesi ma non esclusivamente – perché il controllo delle narrazioni è una componente cruciale del controllo politico.

Violenza

Secondo il Centro Palestinese per lo Sviluppo e la Libertà dei Media, MADA, tra il 2000 e il settembre 2018 Israele ha ucciso 43 giornalisti in Cisgiordania e Gaza.

Durante i primi sei mesi della Grande Marcia del Ritorno di Gaza, una serie di proteste iniziate nel marzo 2018, Israele ha effettuato decine di attacchi contro i giornalisti, incluso il caso di un cecchino israeliano che ha ucciso il giornalista Yaser Murtaja mentre si trovava a circa 350 metri dal confine di Gaza con indosso un giubbotto e un casco che lo identificavano chiaramente come membro della stampa.

Una settimana dopo, in circostanze identiche i soldati israeliani hanno sparato ad Ahmad Abu Hussein che si trovava a diverse centinaia di metri dal confine e indossava un giubbotto e un casco che lo contraddistinguevano come giornalista. Abu Hussein ha subito una serie di operazioni ma è morto circa due settimane dopo.

Israele ha inflitto una miriade di ferite gravi ai giornalisti palestinesi durante le proteste. Yasser Fathi Qudih è stato colpito all’addome, ciò che ha portato all’asportazione di parte della milza. Abdullah al-Shourbaji è stato colpito al bacino e ha perso parte dell’intestino. Yasmin al-Naouq è stata colpita alla schiena.

Decine di giornalisti sono stati sottoposti ad amputazioni a causa delle ferite riportate.

MADA ha riscontrato che in totale, nel 2018 in soli due mesi dal 30 marzo, primo giorno della Grande Marcia del Ritorno, al 30 maggio, ci sono stati 46 giornalisti feriti a Gaza con munizioni vere o proiettili esplosivi.

Questo elevato bilancio, conclude MADA, è “un risultato diretto dell’impunità dell’esercito e degli ufficiali di occupazione israeliani per i crimini commessi negli ultimi anni”.

“Massimo danno “

Il Centro Palestinese per i Diritti Umani ha riscontrato ulteriori 25 feriti fra i giornalisti che coprivano la Grande Marcia del Ritorno tra il 1 ° maggio 2019 e il dicembre dello stesso anno, quando le proteste furono sospese. Tutte le ferite erano imputabili all’esercito israeliano. Cinque di quei giornalisti sono stati colpiti da proiettili veri.

L’associazione conclude che Israele “ha preso di mira i giornalisti per infliggere loro il massimo danno” – giornalisti come Sami Jamal Taleb Misran, che è stato colpito a un occhio con un proiettile rivestito di gomma e alla fine ha perso la vista a quell’occhio. Grazie al suo giubbotto antiproiettile Misran era già sopravvissuto una settimana prima a un colpo diretto al petto.

La violenza contro i giornalisti non è affatto limitata a Gaza e alle proteste della Grande Marcia del Ritorno.

Il Centro Palestinese per i Diritti Umani riporta, nell’anno esaminato, 15 casi di soldati israeliani che hanno ferito giornalisti in Cisgiordania con proiettili veri, proiettili rivestiti di gomma o bombolette di gas lacrimogeni sparati direttamente contro di loro.

In uno di questi casi, le forze israeliane hanno sparato a Moath Amarneh negli occhi mentre copriva le proteste contro le confische di terra vicino a Hebron. Ha perso un occhio.

I soldati israeliani attaccano spesso i giornalisti mentre svolgono il loro lavoro.

Nell’anno esaminato dal Centro Palestinese per i Diritti Umani quattordici giornalisti “sono stati sottoposti a percosse e altre forme di violenza e trattamenti inumani e degradanti da parte delle forze israeliane”, incluso Mashhoor Wahwah dell’agenzia di stampa Wafa che, nell’ottobre 2019, stava riferendo di un’incursione israeliana a sud di Hebron quando un soldato israeliano lo ha picchiato con il calcio del fucile e lo ha costretto a lasciare l’area.

Soltanto un giorno dopo i soldati israeliani hanno attaccato fisicamente sei giornalisti mentre riferivano di una protesta pacifica di decine di civili a Gerusalemme est in solidarietà con i prigionieri palestinesi in sciopero della fame.

Israele ha arrestato quattro giornalisti – uno dell’agenzia turca Anadolu e gli altri dei canali palestinesi Alkofiya Satellite Channel e del quotidiano al-Quds – e ha costretto tutti gli altri giornalisti a lasciare l’area.

Arresti, detenzioni e intimidazioni

Israele arresta e imprigiona regolarmente i giornalisti. MADA riporta che dall’inizio del 2014 alla metà del 2017 ci sono stati 93 arresti e detenzioni di operatori dei media e giornalisti.

Fra questi 18 casi riguardano 15 persone sottoposte a detenzione amministrativa, la pratica di tenere qualcuno in carcere senza accusa o processo e per la quale Israele è stato criticato dalle Nazioni Unite.

Nel 2018 Israele ha arrestato quattro giornalisti palestinesi – Ala Rimawi, Mohammad Ulwan, Husni Injass e Qutaibah Hamdan – che lavoravano per la televisione Al-Quds in Cisgiordania, dopo aver definito la rete una “organizzazione mediatica terroristica” per i suoi legami con Hamas, una mossa condannata dalla Federazione Internazionale dei Giornalisti.

I soldati israeliani hanno anche sequestrato dalle loro case due automezzi e attrezzature tecniche, inclusa una telecamera.

Un mese dopo Israele ha prorogato la detenzione amministrativa di Ali Dar Ali, un popolare giornalista della TV palestinese. Ali era stato arrestato settimane prima per presunta “istigazione alla violenza contro i soldati israeliani” per aver pubblicato un video sulla sua pagina Facebook ufficiale che mostrava le forze di occupazione israeliane all’opera nel campo profughi di al-Amari.

Il Centro riferisce che nell’anno esaminato Israele ha detenuto o arrestato 26 giornalisti “in servizio o a casa loro… perché erano giornalisti”.

Nel marzo 2020 Israele ha arrestato Abdulrahman Dhaher e lo ha detenuto per mesi senza accusa. Una settimana prima del suo arresto aveva pubblicato un video sui social media con interviste raccolte per strada sulla storia dell’occupazione israeliana di Gaza.

Lo scorso novembre Christine Rinawi, corrispondente da Gerusalemme di Palestine TV, si è dimessa in seguito a quelle che Reporter Senza Frontiere ha descritto come “ripetute minacce giudiziarie e di polizia” da parte di Israele.

Rinawi se n’è andata dopo che la polizia israeliana l’ha convocata per l’ottava volta in un anno per interrogarla. Israele l’accusava di aver violato il divieto di lavorare a Gerusalemme. La polizia ha detto che l’avrebbero incarcerata se avesse continuato a lavorare per Palestine TV, che ha sede a Ramallah e – con l’importante eccezione di Gerusalemme – opera nei territori occupati.

Reporter Senza Frontiere ha descritto la vessazione nei confronti di Rinawi come “eccessiva e ingiustificata”.

Censura

Israele censura i palestinesi usando anche un’altra serie di strumenti.

Il Centro Palestinese per i Diritti Umani documenta la messa al bando di due giornali, al-Resalah e Palestine, pubblicati a Gaza ma stampati da al-Ayyam in Cisgiordania.

Nel maggio 2014, prima del sanguinoso assalto israeliano a Gaza dell’estate, le forze israeliane hanno fatto irruzione negli uffici di al-Ayyam a Beitunia, a ovest di Ramallah, per informare i proprietari che non avrebbero più avuto l’autorizzazione a stampare o distribuire alcun giornale che provenisse da Gaza.

Lo scorso novembre Israele ha prolungato di sei mesi la chiusura dell’ufficio di Palestine TV a Gerusalemme est, estendendo quello che in origine era un divieto di 12 mesi.

L’emittente era stata chiusa all’inizio per il crimine di trasmettere “contenuti anti-israeliani e anti-sionisti”. (Evidentemente Israele garantisce ai palestinesi il diritto di esprimersi sempre che non si tratti di ingratitudine per essere oggetto di pulizia etnica!)

I giornalisti palestinesi cittadini di Israele operano in un contesto caratterizzato sia da censura totale che da un’economia politica che agisce come forma di censura.

Quando Israele ha definito Al-Quds TV un’organizzazione “terrorista” a causa della sua adesione ad Hamas, lo Stato ha vietato alla rete di svolgere attività all’interno di Israele o in Cisgiordania. Una conseguenza è stata l’eliminazione di potenziali opportunità di lavoro per i giornalisti palestinesi che vivono in Israele.

Il giorno in cui è stato annunciato il divieto, la polizia israeliana ha convocato il personale di una società palestinese di produzione di media che forniva servizi alla TV Al-Quds e li ha interrogati per diverse ore.

Musawa è l’unico canale televisivo palestinese rivolto specificamente ai palestinesi all’interno di Israele. Ma è legato all’Autorità Nazionale Palestinese e, secondo un dipendente di Musawa, le critiche all’ANP non sono ammesse nelle trasmissioni.

Nel frattempo Makan, la versione in lingua araba dell’emittente nazionale israeliana Kan, impiega arabi e fornisce salari più alti e più risorse rispetto alle strutture arabe in Israele. Tuttavia a Makan parole come “occupazione” e “Nakba” sono proibiti.

La pratica della liberazione

Uccidere, mutilare, aggredire, imprigionare, minacciare e censurare i giornalisti palestinesi nella portata sopra descritta si sommano al sistematico tentativo israeliano di assicurarsi il controllo sulle narrazioni che circolano degli eventi nella Palestina storica.

Sembrerebbe che tali incessanti minacce ai mezzi di sostentamento, alla libertà, al benessere mentale e fisico e alla sopravvivenza dei lavoratori dei media palestinesi potrebbero avere l’effetto di un blocco. Eppure i palestinesi persistono nel produrre giornalismo di notevole quantità e qualità.

Il fatto che il loro lavoro continui non prova che Israele sia una democrazia che consente lo scambio aperto di idee e informazioni.

Suggerisce piuttosto che il giornalismo palestinese va compreso non solo come un modo di documentare i fatti su ciò che il sionismo significa per loro come popolo, ma anche come mezzo per aiutare a preservare proprio la possibilità di parlare dei palestinesi come popolo.

In questo senso il giornalismo palestinese è sia uno strumento nella lotta per la liberazione sia una pratica effimera ma viva che Israele, nonostante i suoi strenui sforzi, non è riuscita a spegnere.

Greg Shupak è autore di narrativa e analisi politica e insegna Media Studies e Inglese all’Università di Guelph-Humber. Ha scritto The Wrong Story: Palestine, Israel, and the Media [OR Books 2018, Una storia sbagliata: Palestina, Israele e i media, ndtr.]

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Libri per illuminare la vita dei giovani palestinesi

John Cassel

Maggio 2021 – Washington Report on Middle East Affairs 

Libri per illuminare la vita dei giovani palestinesi

John Cassel

Maggio 2021 – Washington Report on Middle East Affairs 

Estephan Salameh se ne era andato da Gerusalemme con in tasca una borsa di studio per frequentare la scuola di specializzazione all’Università di North Park a Chicago e soldi sufficienti per pagare metà dell’affitto di un mese. Per far fronte alle spese, Salameh ha insegnato arabo agli studenti di North Park e ad altri nella comunità. Una di loro, Laurie Millner, che stava studiando per conseguire un master in managerialità non profit, è diventata sua moglie nel 2004.

I Salameh volevano migliorare la situazione in Palestina, dove circa 5 milioni di palestinesi vivono vite pesantemente condizionate dall’occupazione israeliana. Il loro amore condiviso per i libri faceva sì che la conversazione della coppia ritornasse spesso alla necessità di biblioteche sia per i bambini che per le loro famiglie. Nel 2005 hanno lanciato il Seraj Library Project [progetto Seraj per le biblioteche] per portare informazioni e instaurare un legame con il mondo nei villaggi isolati e nei campi profughi in Palestina. A simbolo del progetto è stata scelta la parola Seraj, che in arabo sta per lampada ad olio o luce. 

Le biblioteche sono la soluzione ideale per la Palestina, dove la cultura è incentrata sulla famiglia e l’istruzione è grandemente valutata. Secondo Factbook, la pubblicazione annuale della CIA [che riporta dati statistici fondamentali e informazioni sintetiche riguardanti tutti i Paesi del mondo], più della metà degli abitanti della Cisgiordania e di Gaza ha meno di 25 anni e più del 97% oltre i 15 anni sa leggere e scrivere. I palestinesi sono un popolo affamato di conoscenza. Secondo l’Ufficio centrale di statistica palestinese, purtroppo solo il 3% dei nuclei famigliari indica di aver accesso a una biblioteca o a Internet dopo l’orario scolastico. 

In Cisgiordania, ci sono ora 10 biblioteche comunitarie, a cominciare dalla biblioteca a Jifna, lanciata dalla Seraj in collaborazione con la Jifna Women Charitable Society. La Seraj US, un’organizzazione di volontari, ha contribuito con circa 900.000 dollari a creare queste 10 biblioteche, oltre a una rete di programmi culturali per i bambini e le loro famiglie. 

Le biblioteche sono sempre sviluppate grazie a collaborazioni tra la Seraj e un’organizzazione locale. Di solito la comunità offre lo spazio, i volontari e la direzione, mentre la Seraj fornisce libri, arredamento, computer ed esperienza. 

Quest’anno, la Seraj Palestine, ora un’ONG formalmente riconosciuta in Palestina con un proprio consiglio di amministrazione, sta per lanciare due grandi progetti, uno a Kufor Aqab, vicino a Gerusalemme, e un altro a Birzeit, vicino a Ramallah. Essi rappresentano una novità importante per l’organizzazione e un notevole contributo alla vita culturale della Palestina.

Raccontare storie è sempre stato particolarmente importante per la Seraj. Infatti tutto il suo lavoro e tutte le attività nascono dalle storie, riscoprendo narrazioni perdute e conservando sia quelle significative che quelle che apparentemente sembrano insignificanti per riportarle in vita nelle comunità palestinesi tramite l’interpretazione di vari tipi di artisti. 

Le storie ci dicono da dove siamo arrivati e possono guidarci nel percorso che abbiamo intrapreso. Dicono la verità sul nostro passato in modo tale che, una volta risanati, si possa affrontare il futuro. Ci connettono con chi è venuto prima di noi, con chi ci circonda e con coloro che devono ancora arrivare.

Ecco perché il National Storytelling Center [Centro Nazionale per lo Storytelling] della Seraj, il primo del genere in Palestina, è così entusiasmante. Cosa eccezionale, la Seraj è stata invitata a partecipare a un progetto del Riwaq Center for Architectural Conservation [centro per la conservazione del patrimonio architettonico con sede a Ramallah; il riwaq è un porticato, ndtr.] per ristrutturare due case di 150 anni a Kufor Aqab. Riwaq ha completato magnificamente la ristrutturazione e ha consegnato le chiavi alla Seraj per iniziare il lavoro di arredo degli interni. Queste due case ospiteranno una biblioteca, un centro studi con un caffè, un piccolo ufficio per la Seraj e, cosa più importante, il nuovo Centro della Narrazione. 

Anche il comune di Birzeit in Cisgiordania progetta di rivitalizzare la Città Vecchia, “attivando” l’area tramite l’aggregazione di organizzazioni culturali, piccole attività interessanti ed istituzioni educative. Il municipio crede che avere una biblioteca e un centro culturale attirerà la gente nella parte storica della cittadina. Così il Comune ha contattato la Seraj per aprire una biblioteca e un centro culturale. 

Naturalmente il punto centrale sono le biblioteche. Ci sarà abbastanza spazio per una biblioteca per i bambini e una per gli studenti universitari. A Birzeit al momento non ce n’è una, eccetto quella universitaria, e non c’è un posto dove gli studenti possano andare dopo la chiusura dell’università alle 16.30. Inoltre la Seraj progetta di aprire una biblioteca musicale e artistica per ospitare oggetti d’arte e per tenere eventi musicali creati da altre organizzazioni palestinesi. Quello che nel corso degli ultimi 15 anni la Seraj ha sempre fatto bene è il partenariato con le organizzazioni comunitarie per cooperare su obiettivi condivisi. La filosofia della Seraj si basa non sulla competizione con il lavoro di altre organizzazioni, ma sull’accompagnarle per creare qualcosa di diverso e valido.

Dato che la collaborazione è essenziale in tutto quello che la Seraj fa, il lavoro con organizzazioni locali, famiglie, artisti, musicisti e narratori è alla base dei progetti di Kufor Aqab e Birzeit. Ma la partnership fondamentale è fra gli USA e la Palestina. I volontari in America raccolgono fondi dopo aver descritto a una rete di donatori il lavoro e i bisogni. I fondi sono trasformati da volontari e alcuni stipendiati in Palestina in biblioteche e programmi. La direttrice, Laurie Salameh, e il coordinatore della biblioteca, Fida’a Ataya (un maestro in storytelling), durante anni in biblioteche comunitarie e programmi di sviluppo hanno conseguito un tesoro di esperienze.

Mentre espande il proprio cerchio di sostenitori, il Seraj Library Project continua a collegarsi con persone e organizzazioni interessate che vogliono far parte di questo importante lavoro. E naturalmente i visitatori sono sempre i benvenuti nelle varie biblioteche sparse in Cisgiordania. 

John Cassel, funzionario della Seraj, ha compilato questo articolo attingendo a varie fonti della Seraj. Estephan Salameh, che è ritornato a Gerusalemme con un dottorato in urbanistica e politiche pubbliche, insegna presso l’Università di Birzeit e lavora come consulente del Primo Ministro Palestinese per la Pianificazione e il Coordinamento degli aiuti. Laurie Salameh siede nel consiglio di amministrazione di World Vision Gerusalemme- Cisgiordania- Gaza. [WV è una grande ONG statunitense con sedi in 97 Paesi che si occupa principalmente di adozione a distanza di orfani di guerra, ndtr.].

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Nel 2020 Israele ha censurato circa quattro articoli al giorno – la media più bassa nell’arco di un decennio.

Haggai Matar

7 aprile 2021 +972 magazine

Secondo stime ufficiali, il 2020 ha visto la censura militare israeliana vietare la pubblicazione integrale di 116 articoli e censurarne in parte altri 1403.

Il 2020 è stato un anno tranquillo per la censura militare israeliana. Di fatto, con una media di un solo articolo totalmente censurato ogni tre giorni, è stato per la censura l’anno più fiacco nell’arco di un decennio. Nel corso dell’anno la censura dell’esercito ha impedito che venissero pubblicati 116 articoli e ne ha censurati parzialmente altri 1403, secondo le cifre fornite dalla censura su richiesta di +972 Magazine [rivista on line indipendente gestita da giornalisti israeliani e palestinesi contrari all’Occupazione, ndtr.] e del Movimento per la Libertà di Informazione [Movement for the Freedom of Information], ONG israeliana che opera per ottenere trasparenza da parte del governo.

Questo calo di attività censoria nell’arco dell’ultimo decennio si riflette anche nel numero di servizi inviati al vaglio della censura da parte degli organi di stampa (6.421) e nella percentuale di pezzi totalmente esclusi dalla pubblicazione (1,81%). Per fare un confronto, nel 2014 – l’anno dell’ultima campagna militare su larga scala lanciata da Israele – gli organi di stampa israeliani avevano sottoposto alla censura un totale di 14.274 articoli. Quell’anno ci furono 3.122 servizi parzialmente censurati e 597 non videro la stampa (oltre il 4% di tutti gli articoli esaminati).

Tutti gli organi di stampa in Israele, così come gli autori e gli editori, sono tenuti a inoltrare gli articoli che hanno a che fare con la sicurezza e gli affari esteri alla censura militare, la quale li esamina prima della pubblicazione. La censura deriva la propria autorità dal “regime di emergenza” varato alla fondazione di Israele, che rimane in vigore ancora oggi.

Queste norme permettono al censore di respingere o censurare parzialmente un articolo sottoposto al suo vaglio – o anche uno già pubblicato senza la sua revisione, vietando al contempo agli organi di stampa di segnalare in alcun modo se il pezzo in questione è stato censurato. Tuttavia, mentre i criteri legali che definiscono la sfera di autorità della censura militare sono al tempo stesso stringenti e ampi, la decisione su quali servizi siano da sottoporre al vaglio della censura rimane nelle mani dei direttori degli organi di stampa.

Poiché la censura militare non fornisce né informazioni sulla natura dei servizi che decide di censurare, né una ripartizione mensile per organo di stampa, è difficile dedurre da che cosa dipenda il calo del numero di articoli censurati. Si può presumere che si siano verificati meno casi legati alla difesa o giudicati particolarmente sensibili durante un anno colpito dalla pandemia globale, oppure che i giornalisti abbiano riservato un’attenzione decisamente minore a ciò che non era legato al COVID. In alcuni casi i corrispondenti per la sicurezza sono stati riassegnati a seguire la pandemia, con un conseguente calo delle critiche all’apparato della sicurezza.

Persino in un anno di fiacca, un numero di intromissioni militari sui mezzi di informazione in ragione di quattro al giorno è estremamente alto, specialmente considerando che Israele è l’unico Paese al mondo che, pur definendosi una democrazia liberale occidentale, obbliga per legge i giornalisti a sottoporre al vaglio della censura gli articoli che hanno a che fare con le forze armate prima di pubblicarli.

Un’altra parte del lavoro della censura riguarda la gestione degli archivi nazionali di Israele, Siccome gli archivi sono totalmente on line e non hanno una biblioteca cartacea aperta al pubblico, il censore sta rivedendo tutto il materiale desecretato, e in alcuni casi documenti già resi pubblici sono stati nuovamente secretati.

Nel 2016, quando è iniziata la digitalizzazione, i responsabili degli archivi hanno sottoposto al vaglio della censura circa 7.800 documenti. Nel 2020 il numero è sceso a 2.940. A differenza degli articoli, il censore si è rifiutato di fornire le cifre relative al materiale di archivio censurato, rispondendo solo che “la grande maggioranza dei documenti ha ottenuto il visto alla pubblicazione senza modifiche.” Questo indicherebbe che alcuni documenti sono stati invece censurati, nonostante avessero già superato la censura interna agli archivi.

Il censore è totalmente esonerato dall’adempiere all’Israel’s Freedom of Information Act [Legge sulla Libertà di Informazione, che garantisce il diritto di cittadini e di gruppi ad ottenere informazioni detenute da pubbliche autorità, ndtr], e sebbene in anni recenti abbia volontariamente acconsentito a rispondere alle domande di +972, le sue risposte si sono progressivamente ridotte. “Esaminare l’attività della censura rendendo pubblici questi dati è estremamente importante per la tutela della libertà di stampa,” afferma Atty Or Sadan del Movimento per la Libertà di Informazione.

Nel 2006, nelle prime risposte alle nostre richieste, il censore ha dichiarato il numero dei documenti di archivio censurati, nonché quello dei casi in cui aveva richiesto agli organi di stampa di eliminare informazioni pubblicate senza previa autorizzazione (una media di 250 casi l’anno). Nonostante le nostre ripetute richieste, in questi anni non ci sono più stati forniti numeri. (Si possono trovare maggiori informazioni sulla politica di +972 nei confronti della censura a questo link).

“Le informazioni comunicate dal censore ci consentono di esaminare le tendenze delle sue operazioni e perlomeno a far sì che le sue interferenze non crescano eccessivamente. Riteniamo che la semplice pubblicazione di questa rassegna annuale crei un effetto dissuasivo [sul censore militare] e contribuisca a garantire che la decisione di censurare un articolo venga presa con cautela, senza mai dimenticare che la censura sottrae al pubblico informazioni ritenute rilevanti dal giornalista,” continua Sadan.

Il censore è totalmente esonerato dall’adempiere all’Israel’s Freedom of Information Act, e sebbene in anni recenti abbia volontariamente acconsentito a rispondere alle domande di +972, le sue risposte si sono progressivamente ridotte. Col passare del tempo, +972 non ha più ricevuto dati sul numero dei libri inviati al vaglio della censura, né dei documenti di archivio censurati, né dei casi in cui il censore ha chiesto ad organi di stampa e ad individui sui social di eliminare pezzi già pubblicati.

“Come mai le informazioni censurate rimangono nascoste al pubblico talvolta anche dopo avere cessato di essere potenzialmente pericolose?” chiede Sadan. “Il censore dovrebbe consentire la pubblicazione retroattiva di servizi censurati una volta che vengano ritenuti sicuri, per permettere al pubblico di esaminare quali siano i suoi [del censore] metodi ed il livello di restrizioni frapposti alla libertà di stampa.” Non dare risposta a queste questioni permette al censore militare di avvolgere in un alone di mistero le sue attività antidemocratiche, sottraendole al controllo del pubblico.

Nel corso dell’ultimo anno la dirigenza dell’IDF [Israel Defence Forces, le forze armate di Israele, ndtr] ha visto notevoli cambiamenti. Il generale di brigata Ariella Ben Avraham, a capo della censura dal 2015, ha lasciato il posto nel 2020 per entrare, pare, nel gruppo NSO, l’estremamente controversa compagnia israeliana specializzata in sicurezza informatica che vende programmi di hacking ai governi di mezzo mondo ed è stata più volte accusata di complicità in intercettazioni abusive. Ben Avraham è stato sostituito dal colonnello (riservista) Eyal Samuelov come capo agli interim per sei mesi, e a questi è poi subentrato Doron Ben Barak, l’attuale censore capo delle Forze Armate. Purtroppo sembra che Ben Barak abbia scelto di perseguire la stessa politica di chi lo ha preceduto: limitare la diffusione al pubblico di informazioni sulla censura militare.

Haggai Matar, attivista politico e giornalista pluripremiato, è stato anche direttore generale di “972 – Advancement of Citizen Journalism,” la onlus che pubblica +972 Magazine.

traduzione dall’inglese di Stefania Fusero




In Canada una mozione del NDP ottiene una vittoria a favore dei diritti dei palestinesi e della democrazia di base

Yves Engler

13 aprile 2021 – Palestine Chronicle

Sabato in Canada i membri del Nuovo Partito Democratico [NDP, di ispirazione socialdemocratica, uno dei quattro partiti presenti nel parlamento canadese, ndtr.] hanno ottenuto una vittoria a favore dei diritti dei palestinesi e hanno inferto un duro colpo alla lobby israeliana.

Oltre l’80% dei delegati del congresso [del NDP, ndtr.] ha votato a favore di una risoluzione che chiede “la cessazione di ogni cooperazione commerciale ed economica con le colonie illegali in Israele-Palestina” e “la sospensione del commercio bilaterale con lo Stato di Israele di tutte le armi e dei materiali connessi fino a quando non saranno rispettati i diritti dei palestinesi.”

Poche ore dopo il voto il notiziario della rete CBC News ha riferito che i membri dell’NDP “hanno votato a favore di sanzioni nei confronti di Israele contro la colonizzazione” e un video successivo sul loro sito era intitolato “Singh [Jagmeet Singh Jimmy Dhaliwal, segretario del NDP, ndtr.] adotterà la risoluzione dei delegati riguardante le sanzioni contro Israele come posizione [ufficiale] dell’NDP?” Numerosi organi di stampa hanno anche ripreso il rapporto della Canadian Press [agenzia di stampa nazionale canadese, ndtr.] secondo cui “è stata approvata con l’80% dei voti una risoluzione che chiede al Canada di sospendere il commercio di armamenti con Israele e di porre fine al commercio con le colonie israeliane”.

In risposta il Centre for Israel and Jewish Affairs [agenzia delle federazioni ebraiche del Canada, ndtr.] (CIJA) ha pubblicato un rozzo comunicato col titolo “La risoluzione dell’NDP evidenzia una persistente morbosa ossessione su Israele”.

Se qualcuno non avesse colto il messaggio dal titolo, il comunicato condanna “la morbosa ossessione su Israele”, la “preoccupazione patologica nei confronti di Israele” e la “preoccupazione ossessiva per Israele” del partito, che [il CIJA, ndtr.] etichetta come “vergognose”. Su Twitter il rabbino David Mivasair [rabbino canadese impegnato in politica come democratico progressista, ndtr.] ha irriso la dichiarazione del CIJA definendola un perfetto esempio di ipocrisia”, aggiungendo che “la lobby israeliana in Canada, la cui unica ragion d’essere è imporci Israele, afferma che l’NDP è “ossessionato da Israele””.

Il comunicato del CIJA successivo alla risoluzione e la reazione al congresso dell’NDP evidenziano nel modo più chiaro come Israele abbia perso i progressisti e come la sua lobby sia sempre più propensa ad intimidire coloro che sostengono i diritti dei palestinesi definendoli antisemiti. Più di un mese prima del congresso dell’NDP, il CIJA ha iniziato a fare pressioni pubblicamente sulla dirigenza del partito per impedire una risoluzione critica verso la definizione anti-palestinese di antisemitismo dell’International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA).

La feroce campagna rivolta a soffocare la possibilità che i membri dell’NDP discutessero un documento progettato per impedire il dibattito sui diritti dei palestinesi ha raggiunto lo scopo di intimorire il leader dell’NDP inducendolo a sopprimere la discussione sulla persistente oppressione dei palestinesi (la risoluzione dell’IHRA non è mai stata discussa).

Una settimana fa Jagmeet Singh è stato intervistato a The House [rubrica radiofonica settimanale di attualità politica, ndtr.] dalla CBC sulle risoluzioni presentate all’assemblea dell’NDP riguardo “le relazioni del Canada con Israele e il territorio palestinese”. Egli invece di rispondere alla domanda ha menzionato quattro volte l’“antisemitismo”. All’ulteriore domanda sulle “risoluzioni che in qualche modo condannano il modo in cui Israele tratta i palestinesi” Singh ancora una volta non ha menzionato la Palestina o i palestinesi. Ha invece parlato di “aumento dei crimini d’odio anche contro persone di fede ebraica”.

La disastrosa intervista ha generato un’ondata di critiche riguardo all’atteggiamento anti-palestinese della dirigenza del partito e ha dato slancio, in vista del congresso, agli schieramenti filo-palestinesi all’interno del partito. Con una significativa inversione di tendenza, la mattina dopo il voto dell’assemblea Singh ha difeso la risoluzione che la principale corrispondente politica della CBC, Rosemary Barton, ha descritto in questo modo: “Il tuo partito ha votato in modo schiacciante a favore di una imposizione di sanzioni nei confronti delle colonie e del divieto della vendita di armi a Israele”. Rimarcando la legittimità delle “organizzazioni per i diritti umani”, Singh ha affermato che è importante “fare pressione su Israele affinché rispetti i diritti dei palestinesi”. Pur restando un po’ ambiguo riguardo al pieno sostegno alla risoluzione sulla Palestina, Singh ha ribadito per tre volte l’importanza di applicare “pressioni” su Israele.

Una foglia al vento su questo tema, Singh va ovunque venga spinto. Questa è la situazione della maggior parte delle assemblee dell’NDP. Due giorni prima del convegno il deputato Charlie Angus ha twittato: “Continuo a essere citato da alcuni di quelli che vogliono che l’NDP si opponga alla definizione internazionale di antisemitismo. Questa non è la strada da percorrere. Sostengo le mozioni che chiedono giustizia per il popolo palestinese. Ma resto anche profondamente preoccupato per la crescente minaccia dell’antisemitismo “.

Per quel che ne so, nessuno ha detto che Angus abbia sostenuto la risoluzione contraria alla definizione dell’IHRA. Piuttosto è stato rimarcato che a gennaio un membro conservatore del parlamento dell’Ontario e un alto diplomatico israeliano hanno entrambi fatto uso della definizione dell’IHRA per attaccare Angus per aver condiviso un articolo del Guardian che critica il fatto che Israele non abbia vaccinato i palestinesi contro il Covid 19. Il nome di Angus è stato presentato come un esempio concreto di come la definizione dell’IHRA calpesti i diritti dei palestinesi. Ma Angus ha vigliaccamente gettato sotto il tritasassi della lobby israeliana quanti lo difendevano dalle diffamazioni.

Tuttavia, vale la pena riflettere sull’impostazione di Angus. Dal momento che il grosso della contro-reazione si è concentrata sulla risoluzione contraria alla definizione dell’IHRA, la dichiarazione sulla Palestina è apparsa accettabile. Le campagne su più fronti possono essere efficaci.

Ci sono voluti sforzi immensi da parte di un’ampia schiera di attivisti per arrivare alla partecipazione di più di 30 (Risoluzione sulla Palestina) e 40 (Risoluzione sull’IHRA) sezioni distrettuali del partito, oltre che di numerose altre organizzazioni, al fine di approvare queste risoluzioni, ma ne è valsa la pena. L’assemblea dell’NDP conferma che esiste un significativo sostegno popolare ai diritti dei palestinesi. I sondaggi hanno dimostrato che i canadesi sono ampiamente favorevoli a esercitare pressioni su Israele riguardo la sua politica di colonizzazione. Scommetto che la maggior parte del 15% dei delegati dell’NDP che ha votato contro la risoluzione sulla Palestina lo ha fatto in quanto preoccupata delle reazioni, non della sostanza della risoluzione.

Se da un lato la risoluzione sulla Palestina è stata una vittoria a favore dei diritti dei palestinesi e un duro colpo per la lobby israeliana, è stata anche una piccola vittoria per la democrazia di base e la prova che le persone si possono mobilitare sulla base di una richiesta di giustizia in politica estera.

  • Yves Engler è l’autore di Canada and Israel: Building Apartheid [Canada e Israele: la costruzione dell’apartheid, ndtr.] e numerosi altri libri. Ha scritto questo articolo per The Palestine Chronicle.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)