Israele allaga le fattorie di Gaza?

Amjad Ayman Yaghi

25 marzo 2021 The Electronic Intifada

Le terre palestinesi vengono deliberatamente allagate da Israele?

Da molti anni i contadini di Gaza lamentano la distruzione dei loro raccolti a causa di improvvisi flussi d’acqua.

Un recente rapporto del gruppo per i diritti umani Al Mezan [organizzazione non governativa con sede a Gaza, ndtr] esclude che per numerosi casi documentati di inondazioni la causa “…sia di origine naturale.”

Samir Zaqout, esponente di Al Mezan, ha dichiarato che tale conclusione si basa su ciò che ricercatori dell’organizzazione hanno osservato “sul campo” quest’anno.

I ricercatori avevano notato dopo forti precipitazioni un “flusso d’acqua”all’interno della barriera che separa Gaza da Israele, acqua che successivamente hanno visto entrare a Gaza dal lato di Israele.

“Riteniamo che ci siano grandi vasche d’acqua usate [all’interno di Israele] per la raccolta di acqua piovana e che quando queste sono piene, l’acqua venga scaricata in direzione della Striscia di Gaza,” ha affermato Zaqout.

“Perso in un batter d’occhio”

A febbraio dei contadini che lavorano vicino al confine fra Gaza e Israele avevano programmato di raccogliere le verdure da vendere al mercato, ma la mattina in cui sono andati al lavoro hanno trovato i loro terreni – situati ad est della città di Gaza – allagati.

“Il raccolto stagionale era andato perso in un batter d’occhio,” ha dichiarato Musad Habib, contadino di quella zona. Il raccolto comprendeva melanzane, pomodori, lattuga e patate.

Il cinquantaquattrenne Musad imputa ad Israele la responsabilità dell’allagamento.

I militari israeliani vogliono impedire le attività agricole vicino al confine in modo da avere “una visuale più chiara dell’area per scopi militari,” afferma Musad.

“Hanno già aperto il fuoco contro di noi diverse volte,” aggiunge.

“Stanno cercando di costringerci a lasciare i nostri terreni.”

E’ già stato documentato come l’esercito israeliano abbia impiegato aerei da irrorazione per spargere diserbanti ritenuti cancerogeni lungo il confine orientale di Gaza, oltre a spianare terreni agricoli e residenziali all’interno di Gaza per aumentare il campo visivo dei soldati.

Musad aveva pensato di fare una piccola festa proprio il giorno in cui ha scoperto che il raccolto era stato distrutto. Se il raccolto fosse stato abbondante, avrebbe ordinato una cena da asporto al ristorante da godersi in relax con la famiglia.

Invece quel giorno tornò a casa dai campi in preda ad un profondo senso di tristezza.

La distruzione del raccolto ha aggravato i suoi già seri problemi economici. Con sette figli, due dei quali sposati, è sostanzialmente lui a mantenere la numerosa famiglia.

“Neppure i pennuti sono al sicuro

Hussein Habib possiede un’azienda avicola vicino ai campi di Musad Habib.

Nelle prime ore dello stesso giorno di febbraio un altro contadino telefonò a Hussein per avvisarlo che molti terreni erano stati allagati.

Hussein andò di corsa nella sua azienda. Lo aspettava una scena veramente angosciante.

Cercò immediatamente di salvare tutte le galline che poteva. Ne riuscì a salvare circa metà, ma per le rimanenti era già troppo tardi. Erano annegate.

Neppure i pennuti sono al sicuro dall’occupazione di Israele,” afferma Hussein. “Gaza è densamente popolata e non c’è molto spazio per coltivare o per allevare galline. Ecco perché i contadini devono lavorare nella zona al confine, perché è lontana dalle abitazioni.”

“Sappiamo che è pericoloso e che gli occupanti israeliani possono aprire il fuoco in qualsiasi momento,” prosegue. “Ma non abbiamo altra scelta. E’ estremamente difficile riuscire a campare a Gaza.”

Prima delle perdite patite da Hussein e dai suoi colleghi, quest’anno Israele era già stato accusato un’altra volta di avere deliberatamente allagato i terreni di Gaza.

“Angosciato”

Lo scorso gennaio le coltivazioni di melanzane, lattuga, pomodori, cetrioli, prezzemolo e crescione di Muhammad Abu Asir furono allagate.

Cercò di salvare il salvabile e cosparse terriccio sul terreno agricolo in affitto sperando di ricavare qualcosa, per quanto scarso, al momento del raccolto, ma il terreno venne allagato di nuovo il mese successivo.

Il cinquantenne Abu Asir ha già sofferto molto a causa della violenza di Israele. La sua casa di al-Shujaiyeh, quartiere della città di Gaza, fu distrutta nel 2014 durante un massiccio attacco israeliano.

“Corro costantemente il rischio di venire ucciso,” afferma. “I miei quattro figli mi hanno chiesto di mollare l’attività agricola. Ma non ci sono altri lavori che possa fare. Tutta la mia vita è legata alla terra.”

“Sono profondamente angosciato,” aggiunge. “Anche i contadini israeliani hanno i nostri stessi problemi? Se ci fossero attacchi contro di loro, Israele accuserebbe di terrorismo i palestinesi. I continui attacchi di Israele contro i palestinesi che lottano per sopravvivere sono terrorismo.”

Secondo Al Mezan, Israele ha deliberatamente allagato le proprietà agricole di Gaza sette volte nel corso del 2020, danneggiando così circa cinquanta acri di terra.

I difensori dei diritti umani hanno raccolto le prove che i militari israeliani hanno perseguito una politica di allagamenti intenzionali nel corso dello scorso anno. Amit Shohanski, consulente legale dell’esercito di Israele, ha replicato che esso ”non era responsabile dell’amministrazione e gestione delle riserve idriche nelle aree adiacenti alla Striscia di Gaza.”

I militari, dichiara Shohanski, “non hanno mai messo in atto alcun intervento al fine di regolare o deviare l’acqua dagli invasi situati sul lato israeliano in direzione della Striscia di Gaza, se davvero ciò sia mai accaduto.”

Samir Zaqout di Al Mezan ha osservato che non è la prima volta che i soldati israeliani “negano i loro crimini.”

“Se ammettessero questi crimini, allora avrebbero la responsabilità di risarcire i contadini per i danni provocati. Ed i contadini potrebbero citare in giudizio Israele. Non è quindi una cosa che gli israeliani ammetteranno mai.”

Amjad Ayman Yaghi è un giornalista che vive a Gaza.

traduzione dall’inglese di Stefania Fusero




I risultati finali delle elezioni israeliane confermano la situazione di stallo

26 marzo 2021 – Al Jazeera

Il conteggio definitivo mostra il partito Likud del premier Benjamin Netanyahu e i suoi alleati otto seggi sotto la maggioranza per la guida del Paese.

I risultati finali delle elezioni hanno mostrato che Israele si trova ancora una volta in una situazione di stallo politico, dato che il primo ministro Benjamin Netanyahu e i suoi oppositori non hanno raggiunto la maggioranza necessaria per governare.

Il voto di martedì, le quarte elezioni parlamentari in due anni in Israele, è stato generalmente visto come un referendum sull’adeguatezza di Netanyahu a governare in concomitanza con il processo per corruzione.

Egli ha posto al centro della sua campagna il grande risultato della campagna di vaccinazioni in Israele, ma è stato criticato per i precedenti passi falsi durante la pandemia e per aver rifiutato di dimettersi dopo essere stato incriminato.

Giovedì la commissione elettorale israeliana ha dichiarato che con il 100% dei voti scrutinati il partito di destra Likud di Netanyahu e i suoi alleati naturali hanno conquistato 52 dei 120 seggi della Knesset, il parlamento israeliano. Uno schieramento ideologicamente diversificato di partiti impegnati nel volerlo rimpiazzare ha conquistato 57 seggi.

Un partito di destra [Nuova Destra, ndtr.], guidato dall’ex alleato di Netanyahu Naftali Bennett, ha conquistato sette seggi e un partito arabo islamista [Lista Araba Unita, ndtr.] guidato da Mansour Abbas ne ha ottenuti quattro. Nessuno dei due partiti è legato a una coalizione, ma, date le molte rivalità in parlamento, non è chiaro se uno dei due possa concedere i propri voti per la maggioranza richiesta.

Ma giovedì il dirigente del Partito Sionista Religioso [di estrema destra, alleato di Netanyahu, ndtr.] Bezalel Smotrich ha sostenuto che “non ci sarà un governo di destra con il sostegno di Abbas”, chiudendo di fatto la porta a una possibile alleanza tra il partito islamista israeliano e quelli ebraici religiosi.

Gideon Saar, un transfuga del Likud di Netanyahu che ora è a capo di un partito con sei seggi [Nuova Speranza, ndtr.] impegnato a cacciarlo dal potere, ha dichiarato che “è chiaro che Netanyahu non ha la maggioranza per formare un governo sotto la sua guida. Ora occorre fare in modo che si possa formare un governo per il cambiamento”.

Il Likud, che ha conquistato un numero di seggi maggiore rispetto a tutti gli altri partiti, ha reagito dicendo che un tale veto sarebbe “antidemocratico”. Ha paragonato gli oppositori di Netanyahu alla dirigenza religiosa dell’Iran, acerrimo nemico di Israele, che controlla i candidati alle alte cariche.

Yohanan Plesner, presidente dell’Israel Democracy Institute [centro indipendente di ricerca e impegno dedicato al rafforzamento delle basi della democrazia israeliana, ndtr.], ha descritto la situazione di stallo come la “peggiore crisi politica israeliana degli ultimi decenni”.

“È evidente che il nostro sistema politico trova molto difficile esprimere un risultato definitivo“, ha detto Plesner.

Ha aggiunto che le debolezze intrinseche del sistema elettorale israeliano sono aggravate dal “fattore Netanyahu”: un primo ministro popolare che lotta per rimanere al potere mentre è posto in stato di accusa.

“Su tale questione gli israeliani sono divisi a metà.”

Molti degli oppositori di Netanyahu hanno iniziato a discutere la presentazione di un disegno di legge per impedire che un politico sotto accusa possa essere incaricato di formare un governo, una misura volta a escludere il primo ministro di lunga data dall’incarico. Un disegno di legge simile è stato presentato dopo le elezioni del marzo 2020, ma non è mai stato approvato.

Netanyahu è sotto processo per frode, abuso di fiducia e per tre casi di corruzione. Ha negato qualsiasi addebito e ha respinto le accuse in quanto si tratterebbe di una caccia alle streghe da parte di magistrati e organi d’informazione faziosi.

Nonostante le accuse contro di lui il partito Likud di Netanyahu ha ricevuto circa un quarto dei voti, che ne fa il più grande partito in parlamento.

In tutto 13 partiti, il numero più elevato dalle elezioni del 2003, hanno ottenuto voti sufficienti per entrare alla Knesset e rappresentano una molteplicità di tendenze ultra-ortodosse, arabe, laiche, nazionaliste e progressiste.

(traduzione dall’inglese di Aldo lotta)




Orizzonte Palestina: vincere la partita a lungo termine

Richard Falk

21 marzo 2021 – Global Justice in the 21st Century

Il bilancio palestinese: vittorie normative, delusioni geopolitiche

Vincere la partita a lungo termine

Nelle scorse settimane il popolo palestinese ha ottenuto importanti vittorie che potrebbero avere serie conseguenze per Israele se la legge e l’etica governassero il futuro politico. Invece a questi successi si contrappongono sviluppi geopolitici avversi dato che la presidenza Biden ha accolto alcuni dei peggiori aspetti dell’assoluta partigianeria di Trump riguardo a Israele/Palestina. La legge e l’etica incidono sulla reputazione, influenzano la legittimità di politiche contestate, mentre la geopolitica incide più direttamente sui comportamenti. La differenza è meglio compresa separando le politiche simboliche da quelle concrete.

Eppure le conquiste relative alla legittimità non dovrebbero essere scartate solo perché niente che importi sul terreno sembra cambiare, e a volte per vendetta cambia in peggio. Nella lunga partita del cambiamento sociale e politico, soprattutto nel corso degli ultimi 75 anni, il vincitore della guerra per la legittimazione, intrapresa per conquistare terreno sul piano legale ed etico e la ricompensa per l’intensità dell’impegno politico, alla fine lungo il percorso ha per lo più determinato il risultato della lotta per l’autodeterminazione nazionale e per l’indipendenza, superando gli ostacoli geopolitici e la superiorità militare. Finora la dirigenza israeliana, benché preoccupata delle battute d’arresto nel campo di battaglia della guerra per la legittimazione, non si è allontanata dalla strategia americana di concepire la sicurezza attraverso una combinazione di capacità militari e attività regionale, alleandosi contro l’Iran e sovvertendo nel contempo l’unità e la stabilità di Stati vicini potenzialmente ostili.

È fondamentale la grande lezione dell’ultimo secolo che non è stata appresa secondo la quale nella guerra del Vietnam gli USA erano superiori in quanto a potenza militare, eppure sono riusciti a perderla. Perché non è stata appresa? Perché se lo fosse stata, la necessità di un bilancio militare da permanente stato di guerra sarebbe svanita e l’ostinata convinzione mitica che ‘il nostro esercito ci garantisce la sicurezza’ avrebbe perso molta della sua credibilità.

Con il presidente Biden, che riprende una geopolitica conflittuale basata sulle alleanze, la prospettiva è quella di un peggioramento pericoloso e costoso delle relazioni tra le principali potenze economiche e militari mondiali, evitando il tipo di riallocazione delle risorse urgentemente necessaria per affrontare le sfide dell’Antropocene. Possiamo lamentare la disfunzionalità del militarismo globale, ma come possiamo raggiungere la forza politica per sfidarlo? Questa è la domanda che dovremmo fare ai nostri politici, senza distoglierli dall’affrontare le urgenze della politica interna che riguardano salute, rilancio dell’economia e attacchi al diritto di voto.

La lotta dei palestinesi prosegue e offre il modello di una guerra coloniale portata avanti in un’epoca post-coloniale, in cui un potente regime oppressivo sostenuto dal consenso geopolitico è necessario per consentire a Israele di andare controcorrente opponendosi alle potenti maree di libertà della storia. Israele ha dimostrato di essere uno Stato colonialista di insediamento pieno di risorse che ha portato a compimento il progetto sionista per tappe e con il fondamentale aiuto del potere geopolitico e che solo di recente ha iniziato a perdere il controllo del discorso normativo in precedenza controllato attraverso la drammatizzazione della vicenda degli ebrei perseguitati in Europa che meritavano un luogo sicuro, insieme al rifiuto negazionista delle rivendicazioni nazionali dei palestinesi di stare al sicuro nella loro stessa patria. I palestinesi, senza rapporti significativi con la storia dell’antisemitismo, hanno pagato i costi umani inflitti agli ebrei dall’Olocausto, mentre l’Occidente democratico assisteva nel più totale silenzio. Questo discorso unilaterale è stato rafforzato in nome dei benefici della modernità, insistendo sulla sostituzione della sordida arretrata stagnazione araba in Palestina con un’egemonia ebraica dinamica, moderna e fiorente, che in seguito è stata anche considerata come un avamposto occidentale in una regione ambita per le sue riserve di energia e più di recente temuta per il suo estremismo contro l’Occidente e per la rivolta islamista. Il conflitto per la terra e l’identità ideologica dello Stato emergente, sviluppata per un secolo, ha conosciuto molte fasi ed è stata interessata, quasi sempre sfavorevolmente, da sviluppi regionali e interventi geopolitici dall’esterno.

Come nel caso di altre lotte anticoloniali, il destino dei palestinesi prima o poi si invertirà se le lotte del popolo vittimizzato potrà durare più del molteplice potere congiunto dello Stato repressore e, come in questo caso, degli interessi regionali e strategici di attori geopolitici. Può il popolo palestinese garantirsi i diritti fondamentali attraverso la sua stessa lotta condotta contro un insieme di forze interne/esterne, basandosi sulla resistenza palestinese all’interno e sulle campagne di solidarietà internazionali dall’estero? Questa è la natura della partita di lungo termine palestinese e attualmente la sua traiettoria è celata tra le mistificazioni e le contraddizioni di una storia che si sviluppa a livello nazionale, regionale e globale.

Le vittorie normative dei palestinesi

Cinque anni fa nessuna persona sensata avrebbe previsto che B’Tselem, la più autorevole ong israeliana per i diritti umani, avrebbe reso pubblico un rapporto in cui si afferma che Israele ha formato uno Stato unico di apartheid che governa dal fiume Giordano al mare Mediterraneo, che include cioè non solo la Palestina occupata, ma lo stesso Israele. (This is Apartheid: A regime of Jewish Supremacy from the Jordan River to the Mediterranean Sea [Questo è apartheid: un regime di supremazia ebraica dal mare Giordano al mare Mediterraneo], B’Tselem: The Israeli Information Center for Human Rights in Occupied Territory, 12 Jan 2021).[cfr la versione italiana]

Attentamente analizzato, il rapporto mostra che le politiche e le prassi israeliane rispetto all’immigrazione, ai diritti sulla terra, alla residenza e alla mobilità sono state gestite in accordo con un contesto preminente di supremazia ebraica e, in base a questa logica, di sottomissione dei palestinesi (più precisamente dei non ebrei, inclusi i drusi e i cristiani non arabi). Tale assetto politico discriminatorio e di sfruttamento si qualifica come apartheid, come inizialmente instaurato in Sudafrica e poi reso universale come crimine a livello internazionale nella Convenzione Internazionale sull’Eliminazione e la Punizione del Crimine di Apartheid. Questa idea del carattere criminale dell’apartheid è stata portata avanti nello Statuto di Roma, che rappresenta il contesto nel quale la Corte Penale Internazionale dell’Aia svolge le proprie attività. L’articolo 7 dello Statuto di Roma, un trattato tra le parti che regola la CPI, elenca i vari crimini contro l’umanità su cui la CPI esercita la propria autorità giurisdizionale. Nell’articolo 7(j) l’apartheid è definito come tale, benché senza alcuna definizione che l’accompagni, e non c’è mai stata un’indagine della CPI per accuse di apartheid che abbia coinvolto i responsabili israeliani. È significativo che vedere l’‘apartheid’ come crimine contro l’umanità ridurrebbe, rispetto alle accuse di ‘genocidio’, l’onere della prova.

Poche settimane dopo il rapporto di B’Tselem, il 6 febbraio 2021 è arrivata la tanto attesa decisione della Camera preliminare della CPI. Con una votazione di 2 a 1 la decisione della Camera ha stabilito l’autorità di Fatou Bensouda, la procuratrice generale della CPI, di procedere con un’indagine per crimini di guerra commessi dal 2014 nei territori palestinesi occupati, come definiti geograficamente dai suoi confini provvisori del 1967.

Per raggiungere questo obiettivo la decisione ha dovuto fare due importanti affermazioni: primo, che la Palestina, benché priva di molte attribuzioni della statualità come definita dalle leggi internazionali, si configura come uno Stato per le finalità di questo procedimento della CPI, essendo stata accettata nel 2014 come Stato membro dello Statuto di Roma dopo essere stata riconosciuta dall’Assemblea Generale il 29 novembre 2012 come “Stato osservatore non-membro”; secondo, che la giurisdizione della CPI per indagare crimini commessi nel suo territorio, la Palestina è stata autorevolmente identificata come la Cisgiordania, Gerusalemme est e Gaza, cioè i territori occupati da Israele durante la guerra del 1967.

Con una decisione che intendeva dare l’impressione di autolimitazione giurisdizionale, è stato sottolineato che queste situazioni giudiziarie sono state limitate ai fatti e alle richieste presi in considerazione e non pretendono di giudicare in anticipo la statualità o le rivendicazioni territoriali di Israele o della Palestina in altri contesti. L’opposizione di lunga data a questa impostazione ha rifiutato questo ragionamento, basandosi prevalentemente sull’attuale vigenza degli accordi conclusi dalla diplomazia di Oslo che avrebbe modificato lo status dell’occupazione ed avrebbe la prevalenza, concludendo che la procuratrice generale non ha competenza giuridica per procedere con l’indagine (il futuro di questo procedimento giudiziario è incerto, dato che l’ incarico dell’attuale procuratrice termina nel giugno 2021 e subentra un nuovo procuratore, Karim Khan).

Andrebbe rilevato che questo procedimento preliminare ha insolitamente attirato un interesse generale in tutto il mondo sia per l’identità delle parti che per l’intrigante carattere delle questioni. I giuristi sono stati a lungo interessati alla definizione di statualità in relazione a diversi ambiti giudiziari, e hanno definito dispute legali affrontando questioni sollevate in territori senza confini stabiliti in modo definitivo e in mancanza di una chiara definizione dell’autorità sovrana. Un numero senza precedenti di memorie sono state presentate alla CPI da “amicus curiae” [parti terze che intervengono in un procedimento con considerazioni giuridiche presso un tribunale, ndtr.], anche di eminenti figure di entrambe le parti della controversia. (Io ne ho presentata una con la collaborazione del ricercatore di Al Haq [Ong palestinese per i diritti umani, ndtr.] Pearce Clancy. ‘The Situation in Palestine,’ amicus curiae Submissions Pursuant to Rule 103, ICC-01/18, 16 March 2020). Israele non è uno Stato membro dello Statuto di Roma e si è rifiutato di partecipare direttamente al procedimento, ma le sue posizioni sono state ben articolate da varie memorie di amicus curiae. (Ad esempio di Dennis Ross, che ha guidato i negoziati di pace all’epoca di Clinton tra Israele e Palestina (‘Observations on Issues Raised by Prosecution for a ruling on the Court’s territorial jurisdiction in Palestine,’ ICC-01/18, 16 March 2020).

Dal punto di vista palestinese questa decisione fa ben sperare, in quanto un’esaustiva indagine preliminare condotta dalla procura nel corso degli ultimi sei anni ha già concluso che ci sono molte ragioni per credere che in Palestina siano stati commessi crimini da parte di Israele e di Hamas, soprattutto in riferimento a questi tre contesti: 1) la massiccia operazione militare delle IDF [Forze di Difesa Israeliane, l’esercito israeliano, ndtr.] nel 2014 a Gaza, nota come “Margine protettivo”; 2) l’uso sproporzionato della forza da parte delle IDF in risposta alle proteste per il diritto al ritorno nel 2018; 3) l’attività di colonizzazione in Cisgiordania e a Gerusalemme est.

Ora è stato stabilito dal punto di vista giuridico che la procura può procedere anche all’ identificazione di singoli responsabili che potrebbero essere imputati e chiamati a rispondere delle proprie azioni.

Se ciò avverrà dipende ora dall’approccio adottato da Khan quando in giugno assumerà il ruolo di procuratore, il che rimane un mistero nonostante alcune supposizioni.

Un’ulteriore vittoria dei palestinesi è la defezione di sionisti progressisti molto autorevoli e noti che, per così dire, non sono rinsaviti, ma ne hanno parlato apertamente e regolano l’accesso ai principali media. Peter Beinert è l’esempio più significativo nel contesto americano, ma il suo annunciato scetticismo sulla volontà da parte di Israele di trovare un accordo con i palestinesi su una qualunque base ragionevole è un’ulteriore vittoria nel campo della politica simbolica.

Delusioni geopolitiche

È stato ragionevole per la Palestina e i palestinesi sperare che la più moderata presidenza Biden avrebbe ribaltato le iniziative più dannose prese da Trump e che sembravano compromettere ulteriormente il potere negoziale palestinese, così come hanno violato significativamente i diritti fondamentali dei palestinesi e lo hanno negando l’autorità sia dell’ONU che delle leggi internazionali.

Il segretario di Stato di Biden, Antony Blinken, ha inviato segnali in merito alle questioni più significative che sono sembrati confermare e ratificare piuttosto che invertire o modificare l’attività diplomatica di Trump. Blinken ha affermato quello che Biden ha fatto intendere riguardo allo spostamento dell’ambasciata USA da Tel Aviv a Gerusalemme e quindi si è unito a Trump nella sfida alla risoluzione dell’assemblea generale dell’ONU del 2017 che affermava che questa iniziativa era “non valida” e priva di effetti giuridici. Blinken ha anche sostenuto l’annessione da parte di Israele delle Alture del Golan, che è un’ulteriore sfida alle leggi internazionali e all’ONU, che ha difeso un saldo principio, in precedenza sostenuto nella storica Risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU riguardo all’occupazione israeliana dei territori palestinesi dopo la guerra del 1967. Questo testo confermò che un territorio estero non può essere acquisito con la forza ed ha previsto il ritiro israeliano sui confini del 1967 (modificati da negoziati relativi a trascurabili aggiustamenti di confine in accordo tra le parti).

E Blinken ha soprattutto appoggiato gli accordi di normalizzazione tra Israele e quattro Stati musulmani (EAU, Bahrain, Sudan, Marocco) raggiunti da Trump con metodi vessatori e il perseguimento di interessi personali. Ci sono state vittorie principalmente simboliche di Israele relative all’accettazione a livello regionale e a credenziali di legittimità, così come il contenimento regionale e prese di posizione di rifiuto contro l’Iran. Per molti aspetti esse ampliano precedenti sviluppi di fatto con un impatto minimo sulle dinamiche tra Israele e Palestina.

Valutare vittorie e sconfitte

Finora l’ira israeliana contro la CPI prevale sulle sconfitte geopolitiche palestinesi, essendo queste ultime ridotte probabilmente dalle chiare speranze persistenti di un rapporto parzialmente migliore tra l’ANP, gli Usa e i Paesi dell’UE. E ci sono state alcune giuste modifiche, compresa l’annunciata volontà di riaprire i centri di informazione dell’OLP negli USA, la ripresa dei contatti diplomatici tra Washington e l’Autorità Nazionale Palestinese, e qualche dichiarazione che suggerisce un ritorno alla diplomazia in contrasto con il tentativo di Trump di dettare i termini di una vittoria israeliana presentata come “l’accordo del secolo”.

Eppure le prime iniziative di Biden in questioni politiche meno controverse per rimediare il più possibile ai danni di Trump a livello internazionale, dal ritorno all’Accordo di Parigi sul Cambiamento Climatico, all’OMS e al Consiglio ONU per i Diritti Umani per esprimere l’intenzione di ribadire la cooperazione internazionale e un redivivo internazionalismo, contrastano con il fatto di lasciare immutati i peggiori aspetti del tentativo di Trump di infrangere le speranze dei palestinesi. Che ciò possa essere spiegato con la forza dell’appoggio bipartisan negli USA al rapporto incondizionato con Israele o da fattori strategici regionali è oggetto di congetture.

Forse la spiegazione più plausibile è il passato filoisraeliano dello stesso Biden, insieme al suo proclamato impegno per unificare l’America, lavorando il più possibile con i repubblicani. Il suo motto totemico sembra essere “insieme possiamo fare tutto”, che finora non ha ricevuto molto incoraggiamento dall’altro schieramento.

Ciò che potrebbe far sperare in parte i palestinesi è il livello in cui questi due sviluppi sono stati un terreno di scontro per quanti difendono Israele in ogni modo. Persino Jimmy Carter è stato umiliato come “antisemita” perché nel titolo il suo libro del 2007 suggerisce semplicemente che Israele deve fare la pace con i palestinesi o rischia di diventare uno Stato di apartheid. Si ricordi che l’osservazione piuttosto banale di John Kerry secondo cui Israele aveva ancora due anni per fare la pace con i palestinesi nel contesto di Oslo per evitarsi un futuro di apartheid ha incontrato una reazione talmente ostile che egli è stato portato a chiedere scusa per queste considerazioni, rinnegando più o meno ciò che sembrava così plausibile quando lo aveva affermato.

Nel 2017 uno studio accademico commissionato dall’ONU, che ho scritto insieme a Virginia Tilley e che confermava le accuse di apartheid, è stato denunciato al Consiglio di Sicurezza come un documento diffamatorio indegno di essere associato all’ONU. Le affermazioni critiche sono state accompagnate da velate minacce americane di ritirare finanziamenti all’ONU se il nostro rapporto non fosse stato sconfessato, ed esso è stato diligentemente tolto dal sito web dell’ONU per ordine del Segretario Generale [il socialista portoghese António Guterres, ndtr.]. Ormai nei contesti internazionali persino la maggior parte dei militanti sionisti preferisce il silenzio piuttosto che organizzare attacchi contro B’Tselem, una volta molto apprezzata dai sionisti progressisti come prova tangibile che Israele è “l’unica democrazia del Medio Oriente.”

Le reazioni alla decisione della CPI da parte di Israele raggiungono livelli apodittici di intensità. La furibonda risposta di Netanyahu è stata ripresa da tutto lo spettro della politica israeliana. Secondo la vergognosa calunnia contro la CPI: “Quando la CPI indaga su Israele per falsi crimini di guerra ciò è puro e semplice antisemitismo.” Ed ha aggiunto: “Lotteremo con tutte le nostre forze contro questa perversione della giustizia.” In quanto così smodati, questi commenti dimostrano che a Israele interessano molto le questioni di legittimità, e a ragione. Le leggi internazionali e l’etica possono essere sfidate come Israele ha fatto ripetutamente nel corso degli anni, ma è profondamente sbagliato supporre che alla dirigenza israeliana non interessino. Mi pare che i leader israeliani comprendano che il razzismo sudafricano è crollato in buona misura perché ha perso la guerra per la legittimità. Forse alcuni dirigenti israeliani hanno iniziato a capirlo. La decisione della CPI potrebbe risultare un punto di svolta proprio come il massacro di Sharpeville del 1965 [in realtà nel 1960. La polizia sudafricana uccise 70 persone e oltre 180 furono ferite, ndtr.]. Potrebbe essere così persino se, come è probabile, neppure un israeliano venisse portato davanti alla CPI per essere giudicato.

RICHARD FALK

Richard Falk è uno studioso di Diritto Internazionale e Relazioni Internazionali che ha insegnato per quarant’anni all’università di Princeton. Dal 2002 vive a Santa Barbara, California, ha insegnato Studi Globali e Internazionali nel campus dell’università della California e dal 2005 presiede il consiglio della Fondazione per la Pace nell’Epoca Nucleare. Ha iniziato questo blog in parte per festeggiare i suoi 80 anni.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Ingerenze straniere nelle elezioni palestinesi

Adnan Abu Amer

21 Marzo 2021 Al-Jazeera

Mentre i palestinesi iniziano il conto alla rovescia per le loro elezioni legislative e presidenziali rispettivamente in maggio e luglio, sembra crescere l’interesse tra soggetti stranieri nel manipolare il loro esito. Questo ha iniziato a preoccupare la leadership palestinese.

Il 16 febbraio il general maggiore Jibril Rajoub, segretario generale del Comitato Centrale di Fatah, ha dichiarato alla televisione palestinese che alcuni Paesi arabi hanno cercato di interferire pesantemente nelle elezioni palestinesi e nei colloqui di riconciliazione tra Fatah e Hamas.

Tre giorni dopo Bassam al-Salhi, segretario generale del Partito del Popolo Palestinese e membro del Comitato Esecutivo dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), in un’intervista sul sito web Arabi21 ha detto: “Molti Paesi invieranno ingenti quantità di denaro perché vogliono influenzare il Consiglio Legislativo. Siamo di fronte ad interferenze da parte di molti Paesi, arabi e stranieri.”

Benché questi dirigenti palestinesi non abbiano fatto i nomi dei soggetti stranieri a cui si riferiscono, sembra che siano preoccupati soprattutto per le pressioni di Egitto, Giordania e Emirati Arabi Uniti (EAU). Tutti loro hanno parecchie poste in gioco nelle elezioni e preconizzano determinati risultati in linea con i loro interessi regionali e interni.

Interessi stranieri

Non è un segreto che indire le elezioni da parte del presidente (dell’ANP) Mahmoud Abbas non è stata una decisione volontaria o dovuta a iniziative arabe, ma il risultato di pressioni americane ed europee. L’Unione Europea ha persino minacciato di interrompere il supporto finanziario che fornisce a Ramallah se fossero state cancellate le elezioni. Sia Bruxelles che Washington vogliono che l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) riconquisti legittimità prima di procedere con le loro trattative con i palestinesi. Le elezioni sono anche appoggiate da altri due importanti attori regionali: la Turchia e il Qatar.

Tuttavia l’annuncio delle votazioni non è stato ben accolto da alcune capitali arabe, soprattutto Il Cairo e Amman. Entrambe temono il ripetersi delle elezioni del 2006, quando Hamas riportò una netta vittoria a Gaza, che condusse ad un conflitto armato con Fatah. Se ciò accadesse di nuovo, potrebbe avere un effetto destabilizzante sugli affari interni sia dell’Egitto che della Giordania.

In particolare il regime egiziano considera Hamas un ramo della Fratellanza Musulmana, che ha cercato di sradicare fin dal colpo di Stato contro il presidente Mohamed Morsi nel 2013. Una vittoria potrebbe rendere Hamas più sordo alle pressioni del Cairo, dal momento che otterrebbe una legittimazione elettorale. Potrebbe anche ridare vigore alla Fratellanza (Musulmana) in Egitto.

Anche la Giordania teme un rafforzamento di Hamas, ma è preoccupata anche da una possibile instabilità post-elettorale, che potrebbe provocare agitazioni all’interno della vasta popolazione palestinese che vi abita.

Gli Emirati Arabi Uniti mostrano altresì un serio interesse nelle elezioni palestinesi. Guidando l’azione della normalizzazione araba con Israele, hanno tentato di strappare la questione palestinese ai suoi sponsor tradizionali – Egitto e Giordania – per rinsaldare ulteriormente le relazioni con Israele ed assicurarsi l’appoggio USA.

Neanche Israele è stato felice all’annuncio delle nuove elezioni palestinesi. Anche se i suoi propri cittadini sono stati chiamati a quattro elezioni in due anni, Israele preferisce che i palestinesi non vadano affatto alle urne perché vuole mantenere lo status quo. Israele vuole che Abbas resti al potere e continui a collaborare con i servizi di sicurezza israeliani, consentendo ad Israele di espandere costantemente l’occupazione e l’apartheid. Perciò chiunque formi il governo israeliano dopo le elezioni del 23 marzo probabilmente auspicherà una vittoria di Fatah (specialmente della componente vicina a Abbas) e cercherà di indebolire Hamas.

Le forze israeliane hanno già cercato di intimidire i membri di Hamas in Cisgiordania, arrestando alcuni loro leader e attaccandone altri per scoraggiarli dal partecipare alle elezioni.

Diplomazia della pressione

La prima avvisaglia che le elezioni palestinesi non sarebbero state una questione interna è giunta il 17 gennaio, meno di 48 ore dopo che Abbas ha emesso il decreto presidenziale con l’annuncio della data delle elezioni, con i capi dell’intelligence egiziana e giordana, Abbas Kamel e Ahmed Hosni, arrivati a Ramallah.

Ho saputo da fonti palestinesi informate su questa prima visita che Kamel e Hosni hanno discusso con Abbas i dettagli procedurali delle elezioni, compresa la situazione politica di Fatah, che ha affrontato divisioni interne e potrebbe andare incontro a defezioni prima del voto.

Attualmente non vi è accordo all’interno del partito riguardo alla rielezione di Abbas e c’è la possibilità che emergano degli sfidanti. C’è un ormai crescente sostegno alla candidatura di Marwan Barghouti, un leader di Fatah che sta scontando diversi ergastoli in un carcere israeliano.

Inoltre all’interno di Fatah non c’è accordo nemmeno sui candidati al Consiglio Legislativo. Al momento si stanno predisponendo diverse liste elettorali che cercheranno di attrarre l’elettorato tradizionale di Fatah: una della cerchia di Abbas; una di Nasser al-Qudwa, nipote del defunto leader palestinese Yasser Arafat; e una di Mohammed Dahlan, ex capo della sicurezza di Gaza, espulso da Fatah nel 2011.

Questi disaccordi all’interno di Fatah prima delle elezioni sicuramente favoriranno Hamas, che è riuscito a garantire una coesione interna e avrà gioco facile nello sconfiggere il suo indebolito e diviso antagonista.

E’ per questo motivo che Egitto e Giordania vogliono assicurarsi che Fatah abbia una lista elettorale unica ed un candidato condiviso per l’elezione presidenziale. Ed è per la stessa ragione che stanno facendo pressione su Abbas perché si riconcili con Dahlan.

L’ex dirigente di Fatah è stato uno stretto alleato degli EAU, che negli ultimi dieci anni lo hanno appoggiato, sponsorizzato e sostenuto in tutti i modi. Alcuni osservatori ritengono che Abu Dhabi abbia formato Dahlan come futuro capo dell’Autorità Nazionale Palestinese. Ciò ha provocato molta ansia ad Abbas, che finora ha rifiutato di riammettere Dahlan nel partito.

Dahlan ed i suoi sostenitori non fanno mistero dell’appoggio politico, mediatico e finanziario che ricevono dagli Emirati per poter rientrare nella politica palestinese. Questo appoggio li ha messi in grado di creare alleanze con forze politiche palestinesi, compresi personalità di Fatah scontente di Abbas.

Hamas, contrario al ritorno di membri della fazione di Dahlan nella Striscia di Gaza a causa del loro ruolo nel conflitto armato del 2007, alla fine ha accettato di lasciarli tornare dopo aver ricevuto pressioni dall’Egitto. Questo ha permesso a Dahlan di annunciare diversi progetti umanitari per i palestinesi, compresa la distribuzione di vaccini anti Covid, senza coordinarsi con l’Autorità Nazionale Palestinese.

Lo scopo finale di tutte queste attività è assicurare che qualunque nuova leadership palestinese venga eletta sarà facilmente influenzabile da quelle potenze straniere e spinta ad accettare qualunque nuova richiesta proverrà da Israele. Ciascuno di questi attori vuole giocare un ruolo importante nella questione palestinese, sperando di ingraziarsi gli USA e ottenere il loro appoggio.

Ma ciò che faranno queste ingerenze sarà minare il processo democratico in Palestina e sabotare ancora una volta l’autorità del volere del suo popolo.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera.

Adnan Abu Amer

Il dott. Adnan Abu Amer è capo del Dipartimento di Scienze Politiche all’università Ummah di Gaza. E’ ricercatore a tempo parziale presso molti centri di ricerca palestinesi ed arabi e scrive periodicamente per Al Jazeera, The New Arabic e The Monitor. Ha scritto più di 20 libri sul conflitto arabo-israeliano, sulla resistenza palestinese e su Hamas.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Il colono mi ha colpito in testa con un tubo e si è fatto tutto buio.

 

Basil al Adraa

18 marzo 2021 +972 magazine

Un picnic di famiglia sulle colline di Hebron è finito nel sangue dopo che un colono ha colpito con un tubo di metallo Said Abu Aliyan facendolo finire in ospedale

Sabato scorso ho trascorso la giornata all’ospedale Al-Ahli di Hebron, davanti al letto di un palestinese ferito che non riusciva quasi a parlare. Said Abu Aliyan, abitante di Umm Lasfa, villaggio sulle colline a sud di Hebron, mi fa da guida da molti anni. Aspettava che lo operassero alla mandibola, che gli aveva rotto quella mattina un colono armato di un tubo di metallo.

Quando Said mi ha visto, ha sussurrato a fatica: “Stavamo sulla nostra terra. Tutta la famiglia. I miei figli, quelli dei miei fratelli, mia moglie. Andiamo lì tutti i sabati, nella nostra terra, che si trova vicino all’avamposto di Mitzpe Yair.”

“All’improvviso è spuntato un colono,” ha proseguito Said. “Lo conosco. Non appena ci ha visti, è tornato di corsa nella sua colonia. In zona lo conoscono tutti. Sempre a cercar grane, porta le pecore a pascolare sui nostri terreni e attacca le case dei palestinesi con l’aiuto degli altri coloni.”

Dopo qualche minuto il colono si è rifatto vivo insieme con altre 15 persone se non di più, ricorda Said. “Si sono scagliati contro di noi con mazze, tubi e pietre. Ero in piedi davanti alla mia macchina, terrorizzato, e facevo del mio meglio per proteggere i bambini vicini a me. Qualcuno di loro è corso dentro a nascondersi.”

Poi hanno cominciato ad attaccare Said e la sua famiglia. “I coloni ci tiravano pietre da ogni parte, senza pietà,” mi ha detto Said. “I bambini gridavano. Un sasso mi ha colpito alla mano e ho iniziato a sanguinare. A stento mi rendevo conto di quanto stava accadendo, quando un colono mi ha afferrato e mi ha picchiato al volto con un tubo metallico, poi mi ha colpito ripetutamente alla testa. Sono caduto, ho perso i sensi e tutto si è fatto buio. Sono svenuto. Da quel momento non mi ricordo niente. Ma la paura per i miei figli – questo orrore- continuava.”

Mentre Said raccontava dell’attacco alla moglie Rima, che gli sedeva accanto, sfuggiva qualche gemito di dolore. Un colono aveva colpito anche lei con una mazza. “Quando sono arrivati i coloni,” mi ha detto, “ero impietrita per la paura. Ma poi mi sono ricordata che situazioni come questa vanno documentate, così ho tirato fuori il cellulare e ho iniziato a riprendere la scena.”

“Filmavo e intanto cercavo di proteggere i bambini,” ha aggiunto Rima. “Li chiamavo: venite da me – venite qui! Poi il colono ha cercato di strapparmi il cellulare. Non volevano che qualcuno vedesse i loro crimini. Non volevano che qualcuno vedesse la paura negli occhi dei miei figli. Un colono mi ha colpita alla schiena con una mazza. Ho tentato di scappare ma è arrivato un altro colono che ha cercato di nuovo di strapparmi il cellulare. L’ho stretto forte. Il colono mi ha lasciata andare e ha incominciato a colpire mio marito con la stessa mazza.”

E’ stato terribilmente difficile ascoltare Said e Rima – ascoltare la storia di una famiglia che un sabato è uscita per godersi un picnic e bersi del thè insieme.

Said ha chiamato noi, gli attivisti palestinesi che documentano regolarmente casi nella zona di violenza da parte dei coloni e di distruzioni da parte dell’esercito israeliano, ma non sono riuscito ad arrivare in tempo per filmare l’attacco. Anche se siamo partiti immediatamente dal villaggio di Susiya, l’esercito israeliano aveva bloccato la strada.

Di recente l’esercito sta approntando posti di blocco improvvisati per impedirci di documentare le ingiustizie commesse in zona. E’ esattamente quello che avevano fatto anche stavolta per impedirci di raggiungere il luogo dell’aggressione. Ho visto nei loro occhi e nel loro comportamento che mi odiano. Ci odiano tutti perché siamo sempre lì a registrare tutto ciò che fanno.

Ho già assistito a simili aggressioni. Già da bambino ho sperimentato i crimini perpetrati dai coloni contro la mia famiglia ed i miei vicini. Non parlo solo dei pestaggi: i coloni ci sradicano gli alberi, fanno irruzione nelle nostre case, attaccano gli studenti, investono e avvelenano le nostre pecore, ci inquinano i pozzi.

A tutt’oggi non ho visto un solo colono arrestato dalla polizia israeliana, nonostante le loro violenze siano ampiamente documentate. Sebbene i palestinesi presentino regolarmente denunce alla polizia, non si fa mai nulla. Da queste parti la giustizia è merce rara.

In compenso, quando i coloni vogliono fare arrestare dei palestinesi, i soldati li accontentano senza problemi – proprio come è successo la settimana scorsa, quando un gruppo di bambini palestinesi sono stati fermati e portati in una stazione di polizia per avere raccolto verdure selvatiche nei pressi di un avamposto israeliano.

A volte gli arresti vengono eseguiti di notte nel corso di un’irruzione, come hanno fatto con mio padre il mese scorso. Arrestato dopo che un colono lo aveva ingiustamente accusato di avergli scagliato delle pietre. E’ stato rilasciato qualche giorno dopo.

Questa è la differenza fra noi e loro. Spesso i palestinesi evitano di presentare denunce alla polizia israeliana; dei 1.293 casi di violenza commessi dai coloni in Cisgiordania fra il 2005 e il 2019 documentati dalla organizzazione israeliana per i diritti umani Yesh Din, il 91% si è concluso al termine delle indagini senza alcun rinvio a giudizio.

Non ho motivo di credere che il caso di Said finirà in modo diverso.

Per me l’obiettivo di questa violenza è evidente. Coloni, soldati, poliziotti hanno tutti un unico obiettivo: costringerci a cedere. Farci chinare il capo per la disperazione. Costringerci ad abbandonare le nostre terre per poterle annettere.

Basil al-Adraa è un attivista e fotografo del villaggio di a-Tuwani, nelle colline a sud di Hebron.

traduzione dall’inglese di Stefania Fusero




I rapporti fra Israele e Giordania sul punto di rottura per gli ostacoli frapposti alla visita reale alla moschea di Al-Aqsa

Osama al Sharif

16 marzo 2021 Al-Monitor

Re Abdullah II ne ha abbastanza delle provocazioni di Benyamin Netanyahu sul suo ruolo di custode della moschea di Al-Aqsa e dopo che Israele ha reso difficile la visita di suo figlio a Gerusalemme si è vendicato affossando il presunto viaggio storico del premier israeliano negli Emirati Arabi Uniti. Mentre Netanyahu combatte per la propria sopravvivenza politica alle elezioni della settimana prossima, i legami tra Giordania e Israele sono ora di nuovo al minimo.

Dopo quasi un decennio il tormentato rapporto tra il re di Giordania Abdullah II e il primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu è finalmente esploso la scorsa settimana quando Amman ha affossato quella che doveva essere la visita storica del premier israeliano negli Emirati Arabi Uniti.

Il 10 marzo, il principe ereditario di Giordania Hussein ha dovuto annullare all’ultimo minuto il previsto viaggio ad Al-Haram Al-Sharif (quello che Israele chiama il Monte del Tempio) di Gerusalemme Est perché Israele, secondo la Giordania, ha violato i protocolli della visita. Israele ha affermato che la cancellazione del viaggio era dovuta a controversie sugli accordi di sicurezza per proteggere il principe giordano, ma la Giordania ha negato.

L’11 marzo il ministro degli Esteri giordano Ayman Al-Safadi ha detto ai media che Israele “ha cercato di porre ostacoli per impedire l’ingresso dei gerosolimitani alla moschea”, aggiungendo: “Abbiamo concordato con Israele le modalità della visita e siamo rimasti sorpresi che all’ultimo momento Israele abbia voluto imporre nuovi accordi e cambiare l’itinerario.”

Il principe voleva visitare la moschea di Al-Aqsa per celebrare una festività sacra musulmana. Doveva anche visitare le chiese cristiane nella Città Santa. Anche per la Giordania questa sarebbe stata una visita storica: la prima di un reale giordano da quando Giordania e Israele hanno firmato un trattato di pace nel 1994. Al-Monitor ha appreso che Abdullah, che a quanto pare ne ha avuto abbastanza dei tentativi di Netanyahu di sfidare il ruolo del re di custode dei luoghi santi musulmani ad Al-Haram Al-Sharif e di provocare i giordani, era così arrabbiato che ha ordinato al governo di non concedere a Netanyahu il permesso di venire ad Amman e salire a bordo del jet privato degli Emirati Arabi Uniti che gli era stato inviato per portarlo l’11 marzo ad Abu Dhabi. Quando finalmente ore dopo l’approvazione è arrivata, il piano di Netanyahu di una breve visita ad Abu Dhabi, dove avrebbe dovuto incontrare il principe ereditario Mohammad Bin Zayed, era fallito.

Più tardi nello stesso giorno Safadi ha detto alla CNN che ad Amman erano indignati: come poteva Netanyahu – che aveva compromesso una visita religiosa e pacifica del principe ereditario alla moschea di Al-Aqsa – aspettarsi di venire in Giordania e andarsene tranquillamente via?

La calibrata risposta dei giordani ha colpito Netanyahu dove fa più male: la sua candidatura per la rielezione la prossima settimana. “Se Netanyahu pensava di poter fare un giro trionfale volando negli Emirati Arabi Uniti a celebrare lo scambio di relazioni diplomatiche tra i due paesi a scapito di Amman, ebbene ha avuto qualcos’altro”, ha detto ad Al-Monitor una fonte ben informata vicina al governo, che ha chiesto di mantenere l’anonimato.

Al centro della questione c’è il problema della custodia da parte degli hashemiti dei luoghi santi musulmani di Gerusalemme Est. A dieci giorni dalla quarta elezione in due anni in Israele, Netanyahu voleva rendere quella custodia un tema elettorale per corteggiare gli elettori ebrei di estrema destra. Non sarebbe la prima volta che ha cercato di contestare il ruolo speciale della Giordania e di sfidare il re.

Per la Giordania, non esiste un caso legale o politico che Israele possa sollevare. Quel ruolo speciale è sancito nel trattato di pace del 1994 ed è stato confermato quando l’allora Segretario di Stato americano John Kerry mediò tra i due paesi nel 2014. Quell’intesa “ha ribadito l’impegno allo status quo per il complesso di Al Haram Al Sharif / Monte del Tempio”, riconoscendo nuovamente la custodia del complesso da parte della Giordania.

Ma subito dopo, Netanyahu aveva rinnegato di nuovo le sue promesse consentendo a funzionari israeliani e a gruppi ebraici estremisti di entrare nel complesso a recitarvi le preghiere. Le incursioni occasionali sono diventate regolari dal 2014 nonostante le continue proteste diplomatiche giordane. Alcuni di questi gruppi, che sostengono apertamente Netanyahu, dichiarano altrettanto apertamente di voler distruggere la Moschea di Al-Aqsa e costruire un tempio ebraico sulle sue rovine.

La custodia della Giordania non è stata smentita o contestata da altri. È stata sostenuta dalla Lega Araba, riconosciuta dall’Autorità Nazionale Palestinese e dalla comunità musulmana internazionale.

Ma il rifiuto della Giordania di accettare la decisione di Donald Trump di trasferire l’ambasciata americana a Gerusalemme e di riconoscere una Gerusalemme unita sotto la sovranità israeliana ha irritato Netanyahu e gli alti funzionari della Casa Bianca. Inoltre, quando Netanyahu minacciò di procedere con l’annessione unilaterale di gran parte della Cisgiordania, il re fece sapere che una tale mossa avrebbe avuto un effetto disastroso sul trattato di pace.

Non è un segreto che Abdullah abbia sempre diffidato di Netanyahu. Diverse fonti confermano che il re ha rifiutato molte proposte di incontro da parte di Netanyahu e che si è rifiutato di rispondere alle sue chiamate da quando il premier israeliano è venuto meno alla promessa di processare un diplomatico israeliano che aveva ucciso due giordani nell’ambasciata israeliana ad Amman nel 2017.

Lo scorso febbraio Abdullah ha fatto arrabbiare Netanyahu incontrando segretamente il ministro della Difesa Benny Gantz.

Gantz, rivale di Netanyahu, si è scagliato contro il suo primo ministro l’11 marzo quando ha affermato che la condotta di Netanyahu negli ultimi anni ha gravemente danneggiato le relazioni di Israele con la Giordania. Ha twittato: “La Giordania è un partner strategico di Israele. I nostri rapporti diplomatici e di difesa sono una pietra miliare nelle nostre prospettive di sicurezza nazionale.” Diversi funzionari della sicurezza israeliana hanno avvertito dei pericoli nel danneggiare i rapporti Israele-Giordania.

Con il destino politico di Netanyahu in bilico, è difficile dire dove stiano andando le relazioni con la Giordania. La fonte anonima ha confermato che la Casa Bianca di Joe Biden era a conoscenza della visita reale a Gerusalemme. Ha aggiunto che la questione del ruolo speciale della Giordania su Al-Haram Al-Sharif si presenterà di nuovo quando il re visiterà Washington nelle prossime settimane.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




In ricordo di Rachel Corrie

16 marzo 2021 – Monitor de Oriente

L’attivista di 23 anni assassinata da una scavatrice israeliana in Palestina

L’attivista statunitense per la pace Rachel Corrie, di 23 anni, venne assassinata da una scavatrice israeliana che nel 2003 stava per demolire una casa palestinese nella Striscia di Gaza. Da allora Corrie è diventata un’icona della solidarietà mondiale con il popolo palestinese.

Nata il 10 aprile 1979 a Olympia, Washington, Corrie ha dedicato la propria vita a difendere i diritti dei palestinesi. Nel 2003 andò nella Striscia di Gaza come militante del Movimento di Solidarietà Internazionale [International Solidarity Movement, ISM, ndtr.].

Era nota per il suo amore per la pace e per la difesa dei diritti dei palestinesi, e diffondeva con frequenza reportage fotografici in cui evidenziava le violazioni dei diritti umani commesse da Israele nei territori occupati.

Il 16 marzo 2003 nella città di Rafah, nel sud della Striscia di Gaza, Corrie si mise davanti a una scavatrice israeliana nella speranza di impedire la demolizione della casa di una famiglia palestinese del luogo.

Corrie pensava che i suoi lineamenti da straniera e i capelli biondi avrebbero dissuaso la scavatrice, ma si sbagliò. Secondo le testimonianze morì schiacciata quando il guidatore della pala meccanica la travolse varie volte.

La popolazione di Gaza accolse la notizia del suo assassinio con dolore e orrore, definendola una “martire” e organizzando all’attivista statunitense un funerale molto partecipato.

Da allora il nome di Rachel Corrie è diventato sinonimo della causa palestinese. È stata scelta per denominare una nave di soccorso irlandese partita in direzione di Gaza nel 2010 e la sua storia è stata narrata in molti documentari che raccontano le sofferenze dei palestinesi.

In seguito la sua famiglia ha presentato una denuncia contro le autorità israeliane per la morte della figlia. Tuttavia un tribunale israeliano ha assolto il guidatore della scavatrice con un verdetto del 2013 che ha provocato polemiche, una decisione denunciata da gruppi per i diritti umani.

In una lettera inviata alla sua famiglia da Gaza poco prima dell’assassinio Corrie aveva descritto le sofferenze dei palestinesi di cui era testimone.

“Nessuna lettura, partecipazione a conferenze, visione di documentari e quello che ho sentito raccontare avrebbero potuto prepararmi alla realtà di questa situazione,” scrisse. “Non puoi immaginarlo se non lo vedi.”

(traduzione dallo spagnolo di Amedeo Rossi)




Perché non posso vivere con il trauma di Gaza

Tamam Abusalama

15 marzo 2021 – Electronic Intifada

Mio padre rispose a una telefonata che lo avvertiva che tutta la nostra famiglia doveva evacuare la nostra casa. Stava per essere bombardata.

La chiamata veniva da qualcuno che lavorava per il comitato internazionale della Croce Rossa. Arrivò un giorno durante l’operazione Piombo Fuso, una pesante offensiva israeliana contro Gaza tra la fine del dicembre 2008 e le prime settimane del gennaio 2009.

Non ricordo la data esatta della chiamata. In quel periodo tutti i giorni sembravano uguali.

Per le strade vuote non c’era gente. Ma erano piene di macerie degli edifici che erano stati distrutti o danneggiati.

Nell’aria si sentiva l’odore degli esplosivi.

Era inquietante, ma non silenzioso.

I carri armati e gli elicotteri israeliani erano estremamente rumorosi. Più rumorosi di qualunque altra cosa riuscissimo a sentire.

Al-Saftawi, il quartiere in cui vivevano a nord di Gaza, era buio e spaventoso. Non c’erano acqua, cibo e quasi per niente energia elettrica.

Panico

Il giorno in cui abbiamo ricevuto quella chiamata ha lasciato una cicatrice nella mia anima.

Ricordo mio padre gridare il mio nome e quelli dei miei fratelli e sorelle. Doveva avvertire anche le altre persone che vivevano nel nostro caseggiato.

Sentivo il panico nella sua voce.

Ricordo i vicini affrettarsi verso di noi per aiutarci.

Uno mi teneva per mano mentre correvo. Ero scalza.

Avevo riempito una borsa con quelle poche cose che io, allora quindicenne, consideravo preziose.

In quella borsa finirono i miei vestiti preferiti e il mio diario. Avevo anche messo delle cose che mi avrebbero ricordato i miei migliori amici.

Ma ho dovuto abbandonare la borsa.

Quando ho implorato mio padre di permettermi di portarla, mi disse di uscire immediatamente.

Tutti quelli che abitavano nel nostro edificio si rifugiarono in un altro davanti a casa nostra.

Aspettammo.

Aspettavamo che Israele bombardasse tutto quello che avevamo.

La nostra casa aveva cinque piani e un giardino paradisiaco, con olivi, limoni, fichi e palme. Era stata costruita dai miei genitori con soldi guadagnati duramente. Sul retro avevamo un’altalena. Da bambina mi faceva sentire una privilegiata.

In casa avevamo una foto incorniciata dei nostri nonni. Era un ricordo costante delle traversie della nostra famiglia, di come noi fossimo dei rifugiati perché i nostri nonni erano stati espulsi dai loro villaggi natii di Beit Jirja e Isdud [il primo era un villaggio distrutto dagli israeliani nel 1948, la seconda è l’attuale città israeliana di Ashdot, n.d.tr.] dalle forze sioniste nel 1948.

Le affiliazioni politiche della nostra famiglia erano ovvie dalle foto sui muri.

La fotografia dei miei nonni era appesa accanto a quella di George Habash, il fondatore del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina [storico gruppo marxista-leninista della resistenza palestinese, n.d.tr.].

La mia casa rappresentava tutto per me. Ora stavo aspettando che venisse fatta saltare in aria.

Aspettammo per quella che ci sembrò un’eternità. Non successe niente. Fortunatamente.

Non c’è tempo per rimarginare le ferite

L’operazione Piombo Fuso durò tre settimane, durante le quali Israele uccise circa 1400 palestinesi, principalmente civili, inclusi più di 300 minorenni.

Quando finì, avrei voluto che tutto si fermasse per alcuni giorni, così avremmo potuto elaborare quello che avevamo passato, la crudeltà a cui gli israeliani ci avevano sottoposto.

Ma non c’era tempo per metabolizzare. La vita doveva andare avanti.

I palestinesi a Gaza, me inclusa, devono fare i conti con paura e perdite fin da piccoli.

Dopo ogni evento traumatico si continua con le faccende quotidiane. Poi, inaspettato, si verifica un altro evento traumatico.

Dopo l’operazione Piombo Fuso ho fatto quello che ho potuto per vivere una vita ordinaria. Son tornata a scuola e ho fatto finta che tutto fosse a posto.

Ma non era così.

Per quanto mi sforzassi, non riuscivo a sfuggire a quello che era successo il primo giorno dell’operazione Piombo Fuso. Il rumore degli elicotteri israeliani ronzava ancora nella mia testa.

Io e mia sorella Shahd eravamo a scuola il giorno in cui gli israeliani hanno attaccato una località vicina.

Siamo scappate da scuola insieme, ma fuori ci siamo separate. Per la strada continuavo a chiamare Shahd, ma non riuscivo a trovarla.

Fortunatamente, ci siamo ritrovate dopo poco. Ma da allora mi ha accompagnata il pensiero che quel giorno Shahd sarebbe potuta essere uccisa.

Sono ancora perseguitata anche dall’immagine dei miei compagni di scuola che correvano di qua e di là cercando disperatamente riparo.

E non dimenticherò mai come la nostra famiglia dovette dare la terribile notizia a una nostra amica che allora stava a casa nostra. Anche suo padre stava con noi e fu ucciso durante un’incursione aerea israeliana mentre andava a fare la spesa.

Abbiamo dovuto informare la mia amica e i suoi fratelli della morte del loro padre.

Nessun futuro

Anche se non riuscivo a togliermi queste cose dalla testa, sono riuscita a vivere con un certo grado di normalità fino agli inizi del 2011. Poi sono scoppiate le rivolte in Egitto e Tunisia.

I giovani a Gaza sono stati ispirati da quelle rivolte. Ci spronavano a lottare per i nostri diritti.

Abbiamo iniziato a progettare le nostre proteste e abbiamo cominciato a mobilitarci sui social.

Le attività politiche mi distraevano dai miei studi. Passavo le mattine a scuola e il resto del giorno nelle proteste o organizzandole con gli altri attivisti.

Quell’anno a marzo, abbiamo protestato per tre giorni consecutivi prima che le autorità guidate da Hamas mettessero fine alla nostra protesta. Poliziotti in borghese ci hanno picchiati.

Quel poco di ottimismo nato dalla rivolta egiziana e tunisina a Gaza non è durato a lungo.

L’assedio imposto da Israele ed Egitto ha continuato ad avere un effetto soffocante sulle nostre vite.

I giovani hanno continuato ad essere disperati. La disoccupazione era ancora alta e quasi tutte le famiglie dipendevano da aiuti alimentari, particolarmente delle Nazioni Unite.

Alla fine del 2011 mi sono iscritta all’università di al-Azhar a Gaza City. Ho cominciato un corso di laurea in letteratura inglese e francese.

Andare all’università dovrebbe essere un’esperienza gioiosa ed emozionante. Eppure sentivo che né io né qualsiasi altro giovane avrebbe potuto avere un bel futuro a Gaza.

Per le ragazze è ancora più difficile che per i loro coetanei maschi. Le autorità a guida Hamas non vedono di buon occhio, per usare un eufemismo, donne politicamente attive come me.

Decenni di colonizzazione israeliana hanno reso più pronunciata la cultura patriarcale a Gaza.

Il blocco totale imposto da Israele dal 2006 ci ha isolati dal resto del mondo.

Una conseguenza è che la società è diventata più conservatrice. L’uguaglianza di genere non è considerata come una priorità da molti nel momento in cui peggiorano le condizioni economiche.

Dopo meno di un anno all’università di al-Azhar, ho deciso di lasciare Gaza e trasferirmi in un posto più sicuro. Un posto dove avrei potuto vivere più libera.

Sono andata in Turchia, dove ho studiato giornalismo all’Università di Ankara.

Dalla Turchia ho fatto vari viaggi in Europa. Mi sono poi trasferita in Belgio, dove adesso studio francese.

Ora manco da Gaza da otto anni. Quasi la metà di questo periodo l’ho passato a Bruxelles, dove mi hanno concesso lo status di rifugiata.

Eppure gli orrori di cui sono stata testimone a Gaza non mi hanno abbandonata.

Ho spesso problemi a dormire. Quando riesco ad addormentarmi, spesso ho degli incubi.

Sono regolarmente assalita da paura e ansia. Mi sento insicura, instabile e incerta.

Ho dei flashback delle facce dei miei genitori quando ci hanno detto di andarcene di casa. Erano terrorizzati e impotenti, impossibilitati a compiere il loro dovere fondamentale di proteggere i loro figli.

Ho paura di perdere qualcuno che amo, o cose preziose che mi sono guadagnata con fatica.

Una sensazione di pericolo incombe su di me da molto tempo.

Sono ossessionata dal pensiero di programmare i giorni e talvolta persino le ore seguenti. Se le cose non vanno come avrei voluto, ho degli attacchi di panico.

Trauma complesso

Il trauma che ho subito è complesso e ho deciso che non posso conviverci.

La psicologia occidentale ha dei limiti quando si tratta di quello che i palestinesi hanno vissuto.

Spesso sentiamo che il disturbo da stress post-traumatico è prevalente a Gaza. Il prefisso “post” implica che il trauma è dietro di noi, mentre invece in realtà è costante.

Nonostante i limiti della psicologia occidentale, ho cominciato una terapia cognitivo-comportamentale in Europa occidentale.

Ho cominciato sapendo che il processo di guarigione sarebbe stato lungo e difficile, specialmente perché la violenza inflitta a Gaza sta continuando. Ma il processo è stato facilitato perché ho trovato la terapista giusta che ha capito che il mio trauma è simultaneamente personale e il risultato di quello che i palestinesi hanno vissuto per molte generazioni.

Il mio trauma è parte della memoria e della coscienza collettiva dei palestinesi.

Durante i miei incontri psicoterapeutici, ho imparato di più sull’origine di ognuna delle emozioni che provo.

Ciò mi ha aiutato a sviluppare una strategia. Cerco di affrontare, accettare ed esprimere le paure, invece di evitarle.

Sono costantemente conscia che devo vivere nel presente, invece di lasciare che i ricordi prendano il controllo.

La resilienza del mio popolo mi dà la forza e la speranza che mi servono per continuare.

Riconoscere il trauma che ho subìto mi ha fatta quello che sono oggi e ha modellato la mia consapevolezza delle altre ingiustizie nel mondo. Mi ha resa più forte.

Guerra psicologica

Israele combatte una guerra psicologica che fa parte dell’occupazione. È parte di una strategia deliberata.

Ariel Sharon, ex leader politico e militare israeliano, ha sviluppato una filosofia di quello che è stato definito “mantenere l’incertezza.”

L’analista Alastair Crooke ha scritto di come, implementando la filosofia di Sharon, Israele abbia “ripetutamente esteso e poi limitato lo spazio in cui i palestinesi possono operare attraverso un’imprevedibile combinazione di regolamenti mutevoli fatti rispettare in modo selettivo.”

La Palestina stessa è stata divisa con la costruzione di colonie israeliane e una rete di strade riservate per i coloni. Tutto ciò è inteso a indurre nei palestinesi un senso di “provvisorietà permanente,” scrive Crooke.

La guerra psicologica israeliana è diventata più estrema dopo l’operazione Piombo Fuso.

Durante i pesanti attacchi contro Gaza del 2012 e 2014, Israele ha adottato tattiche più possenti di quanto non ne abbia precedentemente impiegate per tormentare e perseguitare. Le forze israeliane hanno telefonato a palestinesi con messaggi ostili, lanciato da aerei volantini con contenuti intimidatori e interrotto programmi radiotelevisivi palestinesi per trasmettere propaganda israeliana.

La decisione della Corte Penale Internazionale di aprire un’indagine sui crimini nella Cisgiordania occupata e nella Striscia di Gaza è significativa. Finalmente Israele potrebbe essere chiamato a rispondere di alcuni dei suoi crimini.

La decisione solleva anche domande.

Perché la CPI ha impiegato così tanto tempo ad arrivare a questa decisione?

Perché la CPI vuole indagare sulle attività sia di Israele che dei gruppi armati palestinesi? Perché sta trattando “entrambe le parti” – l’occupante e l’occupato – come se fossero uguali?

Perché l’indagine è limitata a eventi che sono successi dopo il giugno 2014? Ciò significa che molti dei crimini israeliani– inclusi quelli commessi durante l’Operazione Piombo Fuso – sono stati ignorati.

Finirà veramente mai l’impunità israeliana? Le vite dei palestinesi importeranno mai ai governi e alle istituzioni più potenti al mondo?

I palestinesi sanno molto bene che gli USA e l’Unione Europea sono complici dei crimini commessi contro di loro. Essi si presentano come avvocati dei diritti umani, eppure finanziano e consentono le violazioni israeliane dei diritti basilari dei palestinesi.

Alcuni dei protagonisti dell’operazione Piombo Fuso godono di una rispettabilità immeritata.

Gabi Ashkenazi, il generale che ha comandato l’offensiva, è ora ministro degli Esteri israeliano. Ciò significa che detiene la carica che Tzipi Livni ha occupato nel 2008 e agli inizi del 2009, quando incoraggiò le truppe israeliane a comportarsi con estrema violenza durante l’attacco contro Gaza.

Oggi, Livni siede nel consiglio di amministrazione dell’International Crisis Group [ong transazionale con sede a Bruxelles e che ha tra i fondatori George Soros, n.d.tr.]. Il sito web dell’International Crisis Group afferma che esso sta “lavorando per prevenire guerre e definire politiche che costruiranno un mondo più pacifico.”

Israele ha sempre agito come se fosse al di sopra del diritto internazionale. Sin dalla sua costituzione, Israele tratta i palestinesi fin dalla culla come una “bomba demografica ad orologeria”.

Sebbene Israele abbia sviluppato e messo in pratica una gamma di tecniche differenti per contenere e spezzare i palestinesi, noi non siamo andati via.

Come ha scritto Tawfiq Ziyad, uno dei nostri grandi poeti:

Qui noi rimarremo

Un muro sopra il nostro petto
affamati, nudi, cantiamo canzoni
riempiamo le strade
con dimostrazioni

e le prigioni con orgoglio
noi generiamo ribellioni
una dopo l’altra
come se fossimo una ventina di impossibilità restiamo

A Lydda, Ramleh, Galilea.

Tamam Abusalama è nata e cresciuta nella Striscia di Gaza. Ora vive in Belgio.

(tradotto dall’inglese da Mirella Alessio)




Vaccinare i palestinesi solo se è funzionale a Israele

Maureen Clare Murphy

12 marzo 2021 – The Electronic Intifada

Come direbbero i ragazzini, Il COGAT [Coordinatore delle attività governative nei territori: unità del ministero della difesa israeliano che coordina le questioni civili tra il governo di Israele, le forze di difesa israeliane, le organizzazioni internazionali, i diplomatici e l’Autorità Nazionale Palestinese, ndtr.] ricomincia con le sue stronzate.

All’inizio di questa settimana l’ente militare israeliano ha twittato foto di lavoratori palestinesi mentre vengono vaccinati contro il COVID-19 ai posti di blocco in Cisgiordania.

Il COGAT, famigerato per la sua propaganda mediocre e strumentale, ha affermato che l’iniziativa sui vaccini “è un passo importante per assicurare la salute pubblica e la stabilità economica”.

“Fatevi vaccinare!” ha implorato il COGAT, il quale troppo spesso ritarda o nega ai palestinesi i permessi di viaggio per accedere alle cure mediche.

Tuttavia la stragrande maggioranza dei palestinesi che vivono sotto l’occupazione militare israeliana, anche se lo volesse, non potrebbe essere vaccinata.

Mentre Israele si vanta della sua campagna di vaccinazione di tutti i suoi cittadini, ha rifiutato di fornire il vaccino ai palestinesi che vivono sotto occupazione, in base a quanto previsto dalla Quarta Convenzione di Ginevra.

Vaccinare i palestinesi a vantaggio di Israele

Israele ha recentemente iniziato a fornire vaccini a circa 130.000 palestinesi che lavorano nelle sue fabbriche, nei suoi cantieri e nelle sue colonie, il lavoro sottopagato e sfruttato da cui dipende l’economia israeliana.

Ma Israele non fornirà vaccini ai restanti oltre 5 milioni di palestinesi che vivono in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza.

Come ha detto un palestinese alla Reuters “ Anche i lavoratori palestinesi che [gli israeliani] hanno vaccinato, lo hanno fatto a vantaggio della comunità israeliana, non in funzione del benessere dei lavoratori”.

 

Omar Shakir, direttore del programma di Human Rights Watch [organizzazione non governativa internazionale che si occupa della difesa dei diritti umani, ndtr.] ha osservato che “vaccinare solo quei palestinesi che entrano in contatto con israeliani rafforza [l’idea] che per le autorità israeliane la vita palestinese conti solo nella misura in cui influisca sulla vita ebraica”.

Nel frattempo le unità di terapia intensiva degli ospedali di alcune aree della Cisgiordania stanno attualmente operando al 100% della capacità, poiché nelle comunità palestinesi del territorio i casi di COVID-19 sono in aumento.

Nelle ultime due settimane le città palestinesi hanno introdotto blocchi totali per controllare la crescita del numero delle infezioni da COVID-19, proprio mentre il vicino Israele ha iniziato a revocare le restrizioni procede con una delle campagne di vaccinazione più veloci al mondo”, ha riferito la Reuters.

Apartheid sanitario

La disparità nell’accesso ai vaccini COVID-19 è un chiaro esempio del regime israeliano di apartheid imposto dal fiume Giordano al Mar Mediterraneo.

“Il regime israeliano mette in campo leggi, pratiche e violenze di Stato progettate per cementare la supremazia di un gruppo – gli ebrei – su un altro – i palestinesi”, ha affermato l’associazione per i diritti umani B’Tselem [organizzazione israeliana non governativa che documenta le violazioni dei diritti umani nei territori palestinesi occupati, ndtr.] in un recente studio.

La distribuzione del vaccino è una dimostrazione scioccante di come gli strateghi israeliani si muovano in modo di volta in volta differente riguardo ai gruppi sottoposti alle sue norme inique.

Mentre i palestinesi con cittadinanza o residenza israeliana hanno diritto a ricevere i vaccini da Israele, i palestinesi in possesso di documenti di identità della Cisgiordania sono stati cacciati dai siti di vaccinazione gestiti da Israele.

L’apartheid sanitario nei territori sotto il controllo di Israele non è una novità.

Physicians for Human Rights-Israel [Medici per i diritti umani: ONG no profit con sede negli Stati Uniti che utilizza medicina e scienza per documentare le gravi violazioni dei diritti umani in tutto il mondo, ndtr.] ha affermato che le disparità nelle condizioni della salute tra israeliani e palestinesi derivano direttamente dall’occupazione.

Uno studio del 2015 dell’organizzazione ha rilevato che l’aspettativa di vita dei palestinesi nella Cisgiordania occupata e a Gaza è di circa 10 anni inferiore a quella in Israele.

Lo stesso studio ha rilevato che la mortalità infantile e la mortalità materna erano quattro volte superiori in Cisgiordania e Gaza rispetto a Israele.

Nello stesso anno, uno studio dell’UNRWA, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi, ha individuato nell’assedio da parte di Israele una delle ragioni dell’aumento a Gaza, per la prima volta in 50 anni, del tasso di mortalità infantile.

Le organizzazioni palestinesi per i diritti umani affermano che il regime dell’apartheid israeliano “ha portato per decenni alla frammentazione e al deterioramento del sistema sanitario” della Cisgiordania e di Gaza.

Ciò ha “negato ai palestinesi il diritto al soddisfacimento di standard ottimali di salute fisica e mentale”.

Vaccini al posto di blocco

La salute dei palestinesi è profondamente intrecciata con l’occupazione israeliana. Il COGAT lo dimostra inconsapevolmente nei suoi tweet sui lavoratori palestinesi che ricevono le vaccinazioni ai posti di blocco militari, che chiama eufemisticamente “punti di passaggio“.

Qualsiasi vaccino che i palestinesi ricevano, sia da Israele che da qualunque altro organismo, dovrebbe passare attraverso i posti di blocco israeliani.

Israele ha rallentato il primo trasferimento di dosi di vaccino agli operatori sanitari a Gaza poiché alcuni parlamentari hanno cercato di condizionare la spedizione a concessioni politiche da parte di Hamas.

Lo ha fatto mentre trasferiva vaccini in altri Paesi in cambio del loro sostegno politico:

giovedì i palestinesi di Gaza hanno ricevuto 40.000 dosi del vaccino russo Sputnik V.

Secondo quanto riferito, le dosi costituivano una donazione da parte degli Emirati Arabi Uniti, assicurata da Muhammad Dahlan, l’ex capo dell’intelligence dell’Autorità Nazionale Palestinese diventato signore della guerra e rivale del leader dell’ANP Mahmoud Abbas all’interno della fazione di Fatah.

Dahlan ha condotto una breve e sanguinosa guerra civile a Gaza dopo la vittoria di Hamas nelle elezioni legislative palestinesi del 2006. Le sue forze sono state sconfitte e Dahlan ora vive in esilio nello Stato del Golfo ricco di petrolio.

Secondo la Reuters, Dahlan ha dichiarato che metà della spedizione di vaccini a Gaza sarebbe stata assegnata ai palestinesi in Cisgiordania.

I pochissimi vaccini che sono arrivati ​​in Cisgiordania non sono stati distribuiti equamente dall’Autorità Nazionale Palestinese che, secondo quanto riferito, li ha assegnati alle élite del partito di Fatah, agli organi di informazione allineati e ai loro familiari.

Resta da vedere se Israele consentirà il trasferimento delle dosi da Gaza alla Cisgiordania, o se il COGAT scoprirà in esso una utilità propagandistica.

E così i palestinesi che vivono sotto l’occupazione militare continueranno ad aspettare mentre la loro salute viene gestita da Israele, da Dahlan e dall’Autorità Nazionale Palestinese in termini di battaglia politica e mentre i Paesi terzi stanno a guardare senza far nulla.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




In Nuova Zelanda il Super Fund dà il benservito alle banche israeliane che finanziano le colonie in Palestina

Roger Fowler

5 marzo 2021 The Palestine Chronicle

In Nuova Zelanda il fondo pensione statale multimiliardario NZ Super Fund ha finalmente disinvestito da cinque delle maggiori banche israeliane perché finanziano la costruzione di colonie illegali nei territori palestinesi occupati.

Il parlamentare del partito neozelandese dei Verdi Golriz Ghahraman ha affermato in una dichiarazione a Spinoff [rivista online neozelandese, ndtr] che il Partito dei Verdi ha accolto con entusiasmo la decisione:

“Da molto tempo i valori e gli obblighi morali della nostra nazione sono calpestati da investimenti che facilitano ciò che l’ONU ha ripetutamente definito un’occupazione illegale, che causa sofferenza al popolo palestinese e si traduce in ulteriori violazioni del diritto umanitario.”

Questa settimana il PSNA [Palestine Solidarity Network Aotearoa, rete neozelandese di associazioni nata nel 2013 per sostenere la causa palestinese, ndtr] ha dichiarato che i sostenitori della Palestina in Aotearoa/Nuova Zelanda [Aotearoa è la denominazione Maori del Paese, ndtr] hanno più volte denunciato queste banche al NZ Super Fund, specialmente dopo che un rapporto di Human Rights Watch del 2018 ha accertato che esse hanno contribuito attivamente alla costruzione delle colonie, in violazione della legge internazionale.

Nel 2012 NZ Super Fund aveva già messo fine per motivi etici ai suoi investimenti in tre compagnie israeliane che stavano costruendo colonie illegali su terre palestinesi.

Janfrie Wakim, portavoce di PSNA, ha dichiarato che Super Fund NZ ha finalmente condotto una indagine accurata arrivando alla conclusione definitiva che sarebbe stato immorale continuare ad investire con queste banche.

“Sia il grande numero di notizie certe sia la legge rendono insostenibile per Super Fund NZ la possibilità di continuare ad investire con queste banche. Nessuna istituzione neozelandese dovrebbe fornire alcun sostegno alla costante espropriazione del popolo palestinese nella sua stessa terra e alla brutale occupazione israeliana.”

“Il Fondo, che mantiene ancora investimenti in altre compagnie israeliane, sostiene che presterà la massima attenzione a tutti i futuri rapporti dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani che riguardino il coinvolgimento di altre compagnie israeliane nella costruzione di colonie illegali,” ha aggiunto Waakim.

Il governo neozelandese è “ancora in ritardo”

Janfrie Wakim ha inoltre affermato che la decisione di disinvestire da parte di NZ Super Fund – insieme con gli argomenti usati – ha evidenziato ciò che definisce un terribile ritardo del governo della Nuova Zelanda.

“Il primo disinvestimento di NZ Super Fund ha riguardato il produttore di armi Elbit Systems e risale ormai al 2012.”

“Eppure, il governo neozelandese ha ammesso che sta comprando forniture militari, collaudate sui palestinesi, da Elbit Systems, vale a dire dalla stessa compagnia che NZ Super Fund ha eliminato dal proprio portfolio di investimenti nel 2012,” ha proseguito Wakim.

Per leggere il documento di NZ Super Fund sulle banche israeliane fai click qui.

-Roger Fowler è uno storico attivista per la pace e rappresentante di comunità di Auckland, Aotearoa/New Zealand e coordina Kia Ora Gaza, che organizza il sostegno di convogli di solidarietà internazionale e di Freedom Flotilla per spezzare l’illegale blocco israeliano di Gaza. Roger è il direttore di kiaoragaza.net. Ha scritto questo articolo per The Palestine Chronicle.

(traduzione dall’inglese di Stefania Fusero)