Evidentemente non per tutti i minori vale la pena di lottare: razzismo, coscienza e la NSPCC  

Martin Kemp

 

12 gennaio 2021 – Middle East Monitor

 

 

L’Associazione Nazionale per la Prevenzione della Crudeltà contro i Minori (NSPCC), la maggiore ONG per l’infanzia della Gran Bretagna, è al centro di una campagna perché rinunci ai suoi rapporti con JC Bamford Excavators Ltd (JCB), ditta costruttrice di macchinari per l’edilizia, da cui ha ricevuto donazioni per milioni di sterline. I mezzi della JCB vengono usati dalle forze di sicurezza israeliane per distruggere le case dei palestinesi e per costruire insediamenti illegali/colonie nella Cisgiordania occupata. Denunciata nel 2012 in una relazione dell’organizzazione anti-povertà War on Want, nel 2020 la ditta è stata inserita dall’ONU in una lista di aziende implicate in violazioni delle leggi internazionali. In seguito all’esposto di Lawyers for Palestinian Human Rights [Avvocati per i Diritti Umani dei palestinesi, ong britannica, ndtr.] si trova attualmente sotto inchiesta da parte del Dipartimento per il Commercio Internazionale.

 

Non c’è bisogno di essere un esperto per rendersi conto della crudeltà a cui sono sottoposte varie migliaia di minori palestinesi dalla politica israeliana di distruggerne le case, o per immaginare l’estremo stress subito dalle decine di migliaia di famiglie che, ricevuto l’ordine di demolizione, ignorano totalmente quando i bulldozer dell’esercito arriveranno ad eseguirlo. Una ricerca eseguita da  PCC/Save the Children [ong internazionale per la difesa dei diritti dei minori, ndtr.], ad esempio, conferma, ovviamente, che i minori coinvolti rimangono profondamente segnati da tale esperienza.

Non sarebbe sicuramente accettabile che un governo europeo trattasse in questo modo i cittadini di una minoranza etnica. In che modo allora la NSPCC riesce a conciliare la sua missione benefica e gli stretti legami con una azienda simile?

Edward Colston (1636-1721), il mercante di schiavi di Bristol la cui statua è stata abbattuta durante le proteste di Black Lives Matter dello scorso anno, era un cittadino modello: uno stimato mercante che per senso civico finanziava molte opere filantropiche, compresi ricoveri per indigenti, ospedali e scuole per i giovani. Questo pio filantropo, che contribuì a costruire anche chiese, non fece nulla per scandalizzare la società britannica. E tuttavia, per i suoi concittadini antirazzisti del XXI secolo e ormai per il mondo intero, Colston rappresenta il ruolo avuto dalla Gran Bretagna nella corsa genocida per impadronirsi delle ricchezze dell’Africa, i cui costi per la popolazione di quel continente e le cui conseguenze su chi venne deportato e reso schiavo sono impossibili da quantificare.

Per spiegarci l’estrema contraddizione fra umanità e crudeltà che ci rivela il lascito di questo individuo dobbiamo considerare il razzismo anti-nero che prese piede in Gran Bretagna contemporaneamente all’espansione della sua potenza colonizzatrice e schiavizzante. Possiamo dare per scontato che l’amor proprio di Colston fosse garantito dalla convinzione che gli uomini e le donne nere che comprava e vendeva non erano per niente esseri umani, bensì beni mobili proprio come i vini e i tessuti in cui commerciava. La barbarie del bianco veniva proiettata sulle sue vittime, che potevano quindi essere considerate “selvaggi”.

Forse anche Colston avrebbe fatto donazioni alla NSPCC se fosse esistita a quei tempi, e l’equivalente tardo-seicentesco di questa organizzazione benefica, avendo interiorizzato gli stessi presupposti egemonici di Colston, ne avrebbe accettato i soldi senza alcuna remora.

Il razzismo anti-nero è ancora una ferita profonda nella nostra cultura e continua a produrre discriminazione e sofferenza alla popolazione di colore, però viene ormai quasi universalmente considerato una vergognosa aberrazione. Questo non vale, tuttavia, per ogni forma di razzismo. L’accumulazione del capitale, lo sfruttamento della manodopera, l’estrazione delle risorse naturali e persino forme di aperto colonialismo hanno ancora la priorità sui diritti delle popolazioni non-bianche. Esistono ancora specifici gruppi da disumanizzare e demonizzare, che devono essere resi “superflui” per il mondo moderno e la cui esistenza deve venire spinta ai margini della coscienza “bianca”.

L’autorità ufficiale di regolamentazione per le operazioni delle organizzazioni benefiche registrate in Gran Bretagna è la Charity Commission, che fornisce indicazioni per fare in modo che i fondi abbiano provenienza non dubbia e vengano spesi per fini leciti. Lo scopo è evitare il tipo di polemiche in cui venne coinvolta la London School of Economics quando accettò sovvenzioni dal defunto leader libico Mu’ammar Gheddafi.

A fronte delle richieste ricevute affinché rifiuti il denaro ricavato da attività che comportano danni gravi e permanenti per i minori palestinesi, la NSPCC ha replicato che “in conformità con le indicazioni della Charity Commission, la NSPCC ha prodotto linee guida etiche per la raccolta di fondi aziendali che riflettono i nostri valori… e mette in atto procedure efficaci di controllo basate sui criteri approvati dai suoi amministratori fiduciari in relazione alle aziende partners.”

Desta sorpresa che la NSPCC si senta autorizzata a considerare i profitti derivati dalla demolizione delle case, con tutte le crudeltà che ne derivano, alla stregua di denaro pulito? Forse la ragione sta nel fatto che quelle indicazioni consigliano soltanto di rifiutare i fondi “associati a qualsiasi organizzazione che abbia a che fare con la schiavitù, la tratta e il lavoro minorile oppure in cui un direttore o funzionario sia stato condannato per un crimine sessuale.”

In un opuscolo intitolato “Living Our Values” [Nel Rispetto dei Nostri Valori, n.d.tr.], la NSPCC dichiara: “Faremo sentire la nostra voce quando qualcosa non va… Cerchiamo di realizzare cambiamenti culturali, sociali e politici – influenzando legislazione, politica, pratiche e comportamenti e garantendo servizi che vadano a vantaggio di giovani e bambini.”  

Qui la NSPCC riconosce la responsabilità di contestare le regole comuni nel caso in cui esse mettano in pericolo i giovani. Tuttavia, quando si tratta di minori in Paesi lontani, essa suggerisce che le priorità commerciali del governo facciano premio sull’applicazione delle norme morali: “Le attività di esportazione di un’impresa non sono sottoposte al nostro codice deontologico” a meno che non riguardino Paesi “sottoposti formalmente a restrizioni da parte del governo/Dipartimento per il Commercio del Regno Unito.” 

 

Con questo approccio legalistico i funzionari della organizzazione benefica riescono ad eludere la sfida morale insita nel rapporto reciprocamente vantaggioso con JCB. Forse potremmo chiedere perché non si siano consultati invece con i loro omologhi palestinesi (del PCC [Palestinian Counseling Center, ong psicologi, educatori e attivisti di comunità che opera nei territori occupati, ndtr], GCMHP [Gaza Community Mental Health Programme, ong palestinese di operatori della salute mentale che opera a Gaza, ndtr.], DCI [Defence for Children International-Palestine, ong che difende i diritti dei minori, ndtr.] o PTC [Palestine Trauma Center, ong che offre sostegno psicologico a minori, famiglie e persone traumatizzate, ndtr.], per esempio) per scoprire quali siano le conseguenze delle demolizioni di case sulla salute mentale dei minori.

È possibile che lo stesso complesso psicologico-ideologico che permise a Colston di essere al contempo mercante di schiavi e stimato filantropo sia ravvisabile all’interno della NSPCC?

In un recente rapporto alla Assemblea Generale ONU, il professor Nils Melzer, relatore speciale sulla tortura, ha esaminato i meccanismi utilizzati da “perpetratori e spettatori” per giustificare la propria tolleranza alle torture.  Messi di fronte a violazioni inconfutabili dei diritti umani, essi “tendono a sopprimere i dilemmi morali che ne derivano grazie a schemi di negazione e di auto-inganno in gran parte inconsci.” In questi casi il meccanismo ideale è il razzismo, che, proiettando la brutalità dei perpetratori sulle sue vittime, le disumanizza agli occhi dei più forti e le sottrae così al giudizio della coscienza.

 

Il colonialismo delle colonie contiene una “logica di eliminazione”. Come disse l’allora Primo Ministro israeliano Golda Meir, “Non è vero che c’era un popolo palestinese in Palestina, che noi siamo arrivati, lo abbiamo cacciato e gli abbiamo portato via il Paese. Semplicemente non esisteva.”

Questo razzismo di tipo eliminatorio pervade l’intera cultura israeliana e influenza la mentalità dominante all’interno del mondo occidentale. Si può continuare a percepire Israele come una democrazia solo se i palestinesi che vivono senza diritto di voto nella Palestina storica e i profughi nei Paesi vicini non vengono riconosciuti come esseri umani al pari nostro e dei cittadini ebrei di Israele.

 

La mentalità colonialista delle culture metropolitane garantisce che la protezione teoricamente garantita erga omnes dalle leggi internazionali venga applicata invece in modo selettivo. A parole si professa il rispetto per la Convenzione ONU sui Diritti del Minore, ma nei fatti alcuni governi la ignorano impunemente.

È deplorevole che l’impegno della NSPCC nei confronti dei bambini maltrattati venga pregiudicato dalla sua riluttanza ad andare oltre le convenzioni per impegnarsi direttamente a favore dei giovani che vivono nella Palestina occupata. 

 

Comportandosi secondo l’etica dell’attuale capitalismo razziale, i funzionari della NSPCC non sono nè più nè meno malvagi di Edward Colston. Ciascuno a modo suo è rappresentativo del suo periodo storico e del suo milieu sociale, ciascuno riflette la collusione della società britannica con l’illegalità internazionale, nel passato con la schiavitù, oggi con il colonialismo degli insediamenti israeliani.

 

Il fatto che il razzismo anti-palestinese sia così diffuso nella nostra società non autorizza un’organizzazione benefica impegnata nella protezione dei minori che si promuove con lo slogan “vale la pena lottare per ciascun bambino”, ad assecondarne la bieca logica.

Evidentemente, per quanto riguarda la NSPCC, non per tutti i minori vale  la pena di lottare.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale del Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Stefania Fusero) 




Il rivale di Abbas, Dahlan, coordina l’aiuto degli EAU a Gaza mentre si avvicinano le elezioni palestinesi

Rasha Abou Jalal

15 gennaio 2021 – Al-Monitor

Gli Emirati Arabi Uniti hanno inviato un nuovo carico di aiuti sanitari alla Striscia di Gaza, il secondo in un mese, per aiutare ad affrontare la crisi da coronavirus, sollevando interrogativi sul ruolo di Mohammede Dahlan, leader espulso da Fatah e acerrimo nemico del presidente Mahmoud Abbas.

Gaza City, Striscia di Gaza – Il 10 gennaio un impianto per la produzione di ossigeno liquido per curare casi gravi che soffrono di problemi respiratori a causa del coronavirus ha raggiunto la Striscia di Gaza attraverso il valico di Rafah. L’impianto per la produzione di ossigeno, il più grande di Gaza, è giunto come parte di un invio di medicinali offerti al ministero della Sanità dell’enclave assediata.

Il convoglio ha raggiunto Gaza grazie all’impegno della Corrente Democratica Riformista, guidata da Mohammed Dahlan, espulso da Fatah, che vive negli Emirati Arabi Uniti (EAU). Dahlan è il principale avversario politico del presidente palestinese Mahmoud Abbas.

L’arrivo del convoglio nella Striscia di Gaza coincide con l’imminente annuncio di un decreto presidenziale di Abbas per fissare la data delle elezioni politiche palestinesi. L’aiuto sembra essere parte dei tentativi di Dahlan di rafforzare la sua popolarità in vista delle elezioni.

Il convoglio degli EAU comprendeva una grande quantità di equipaggiamenti sanitari per affrontare la crisi da coronavirus, tra cui 30 ventilatori, 2.000 tamponi, 12.000 camici e 10 bombole d’ossigeno.

Ghazi Hamad, dirigente di Hamas e sottosegretario del ministero per gli Affari Sociali, ha accolto il convoglio al valico di Rafah alla presenza di vari dirigenti della Corrente Democratica Riformista.

In una conferenza stampa tenutasi per accogliere il convoglio, Hamad ha ringraziato gli EAU per la loro assistenza medica di supporto alle autorità sanitarie nell’affrontare l’epidemia da coronavirus nella Striscia di Gaza, una delle aree più popolate al mondo, con più di 2 milioni di persone che vivono in una zona di 365 km2.

Ha anche ringraziato la Corrente Democratica Riformista del suo contributo per l’arrivo degli aiuti alla Striscia di Gaza.

Il 25 novembre 2020 il ministero della Sanità di Gaza ha avvertito che nell’Ospedale Europeo del sud di Gaza l’ossigeno liquido stava finendo.

Secondo le ultime statistiche del ministero della Sanità pubblicate il 12 gennaio a Gaza i morti per coronavirus hanno raggiunto i 453, e 211 casi hanno richiesto l’ospedalizzazione, di cui 112 pazienti hanno bisogno di respirazione forzata.

Il convoglio degli EAU è il secondo a Gaza in un mese: lo Stato del Golfo ha già inviato un carico di aiuti sanitari il 17 dicembre 2020.

Ashraf Gomaa, un dirigente della Corrente Democratica Riformista, ha detto ad Al-Monitor: “Il recente invio degli EAU è stato effettuato in risposta ad una richiesta di aiuto del ministero della Sanità a causa della scarsità di ossigeno liquido. Il convoglio migliorerà la situazione sanitaria nella Striscia di Gaza mentre cresce giornalmente il numero di casi di coronavirus.”

Gomaa ha affermato che finora gli EAU hanno donato a Gaza 130 ventilatori, quando nella Striscia di Gaza ne erano disponibili solo 100.

Ha evidenziato che Dahlan è impegnato in colloqui con politici degli EAU per la fornitura di vaccini contro il coronavirus e li ha offerti come aiuto gratuito immediato per la Striscia di Gaza.

Il 21 maggio 2020 l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) ha rifiutato di accettare gli aiuti sanitari degli EAU contro il coronavirus inviati in Cisgiordania attraverso Israele, a causa dei tentativi di quel periodo degli EAU rivolti a normalizzare i rapporti con Israele. Il 13 agosto questa normalizzazione è stata ufficializzata.

Mahmoud al-Aloul, vice capo di Fatah, ha detto ad Al-Monitor: “Ogni aiuto inviato ai palestinesi attraverso la normalizzazione con Israele e senza coordinamento con l’ANP è considerato ambiguo e viene respinto.”

Egli ha notato che gli EAU stanno sfruttando l’epidemia da coronavirus nei territori palestinesi per raggiungere obiettivi politici, soprattutto per placare la rabbia palestinese riguardo all’accordo di normalizzazione degli EAU con Israele e per ripulire l’immagine di Dahlan agli occhi dei palestinesi.

Aloul ha affermato: “La candidatura di Dahlan alle elezioni palestinesi è assolutamente respinta, dato che un tribunale palestinese lo ha accusato di delitti relativi alla corruzione e al furto di denaro pubblico, ed egli è un latitante (che si è rifugiato) negli EAU.”

Il membro dell’ufficio politico di Hamas Mousa Abu Marzouk ha detto ad Al-Monitor: “Accogliamo con favore qualunque aiuto umanitario che ci giunga attraverso ogni Stato e non rifiuteremo ogni forma di assistenza per ragioni politiche.”

Lo ha sorpreso che l’ANP non abbia accettato aiuto sanitario a causa della normalizzazione tra gli EAU e Israele.

Ha aggiunto: “L’ANP porta avanti il coordinamento per la sicurezza con Israele che sta occupando i territori palestinesi, poi rifiuta di accettare aiuti dagli EAU perché hanno normalizzato i rapporti con Israele. È una bizzarra contraddizione.”

Abu Marzouk ha affermato che l’aumento dell’aiuto degli EAU ai palestinesi arriva mentre si stanno avvicinando le elezioni palestinesi. Sostiene: “Penso che Dahlan voglia assolutamente partecipare alle elezioni palestinesi e a noi non importa la sua candidatura. La gente stabilirà la popolarità e l’influenza politica di Dahlan in futuro attraverso le elezioni.”

Talal Okal, giornalista del quotidiano palestinese Al-Ayyam [secondo quotidiano palestinese, vicino all’ANP, ndtr.], ha dichiarato ad Al-Monitor che il recente invio di aiuti degli EAU e le imminenti elezioni generali sono legati: “Gli EAU vogliono rafforzare la popolarità di Dahlan in ambienti palestinesi per designarlo a rimpiazzare Abbas, che non ha fatto un passo avanti nel processo di pace,” ha affermato.

Ha sottolineato che Dahlan, appoggiato dagli EAU, gode del sostegno degli Stati Uniti e di altri Paesi arabi, come l’Egitto.

Ahmad Awad, professore di scienze politiche all’università Al-Quds di Abu Dis [nei pressi di Gerusalemme est, ndtr.] ha detto ad Al-Monitor: “Dahlan farà di tutto per candidarsi alle imminenti elezioni, dato che è la sua unica speranza di tornare nell’arena politica palestinese.”

Ha aggiunto: “Ma Dahlan non è molto popolare tra i palestinesi, soprattutto in Cisgiordania. È ricercato dalla giustizia palestinese. Penso che il suo ritorno non sarà facile.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Siamo la più importante associazione israeliana per i diritti umani, e questo lo chiamiamo apartheid

Hagai El-Ad

martedì 12 gennaio 2021 – The Guardian

La sistematica promozione della supremazia di un gruppo di persone su un altro è profondamente immorale e deve finire.

Non si può vivere neppure un giorno in Israele/Palestina senza provare la sensazione che questo luogo sia stato costantemente ideato per privilegiare un popolo e solo esso: il popolo ebraico. Eppure metà di quanti vivono tra il fiume Giordano e il mar Mediterraneo sono palestinesi. Il divario tra queste situazioni vissute aleggia nell’aria, si espande, è ovunque su questa terra.

Non mi riferisco solo a dichiarazioni ufficiali che lo precisano, e ce ne sono tante, come l’affermazione nel 2019 del primo ministro Benjamin Netanyahu, secondo cui “Israele non è uno Stato per tutti i suoi cittadini”, o la legge fondamentale dello “Stato-Nazione”, che sancisce che “lo sviluppo della colonizzazione ebraica è un valore nazionale”. Quello a cui sto cercando di arrivare è una sensazione più profonda di persone come desiderabili o indesiderabili e una consapevolezza del mio Paese a cui sono stato esposto gradatamente dal giorno in cui sono nato ad Haifa. Ora è una presa di coscienza che non può più essere evitata.

Benché ci sia una parità demografica tra i due popoli che vivono qui, la vita è gestita in modo tale per cui solo una metà gode della grande maggioranza del potere politico, delle risorse del territorio, di diritti, libertà e protezione. È proprio una prodezza conservare simile negazione dei diritti. Ancor di più lo è venderla con successo come una democrazia (all’interno della “Linea Verde”, il confine dell’armistizio del 1949), a cui viene associata un’occupazione temporanea. Di fatto, un governo gestisce chiunque e qualunque cosa tra il fiume e il mare che ovunque sotto il suo controllo risponde allo stesso principio organizzativo e opera per far progredire e perpetuare la supremazia di un gruppo di persone, gli ebrei, su un altro, i palestinesi. Questo è apartheid.

Non c’è un solo centimetro quadrato nel territorio controllato da Israele in cui un palestinese e un ebreo siano uguali. Le uniche persone di prima classe sono i cittadini ebrei come me, e noi godiamo di questo status sia all’interno dei confini del 1967 che al di là, in Cisgiordania. Divisi dal differente status personale assegnato loro e dalle molte varianti di inferiorità a cui Israele li sottomette, i palestinesi che vivono sotto il dominio di Israele sono uniti dal fatto di essere tutti discriminati.

A differenza dell’apartheid sudafricano, l’applicazione della nostra versione, chiamatelo se volete apartheid 2.0, evita alcuni aspetti particolarmente sgradevoli. Non troverete cartelli “solo per bianchi” sulle panchine. Qui “proteggere il carattere ebraico” di una comunità, o dello Stato stesso, è uno degli eufemismi appena velati utilizzato per cercare di nascondere la verità. Però l’essenza è la stessa. Che in Israele le definizioni non dipendano dal colore della pelle non fa una differenza reale: è la situazione di superiorità che è al centro della questione, e che deve essere sconfitta.

Fino all’approvazione della legge sullo Stato-Nazione, la lezione fondamentale che Israele sembra aver appreso riguardo a come è finito l’apartheid sudafricano è stata evitare dichiarazioni e leggi troppo esplicite. Queste possono rischiare di provocare giudizi morali, ed eventualmente, dio ne scampi, conseguenze concrete. Al contrario la paziente, tranquilla e graduale accumulazione di prassi discriminatorie tende a evitare reazioni da parte della comunità internazionale, soprattutto se non si intendono onorare seriamente le sue norme e attese.

È così che la supremazia ebraica da entrambi i lati della Linea Verde è realizzata e applicata. Abbiamo progettato la composizione demografica della popolazione, lavorando per incrementare il numero di ebrei e limitare quello dei palestinesi. Ovunque Israele abbia il controllo abbiamo consentito l’immigrazione ebraica, con la cittadinanza automatica. Per i palestinesi è vero il contrario: ovunque ci sia il controllo di Israele, non possono acquisire lo stato civile, persino se la loro famiglia è di qui.

Abbiamo progettato il potere in modo da attribuire, o negare, diritti politici. Ogni cittadino ebreo ha diritto di voto (e ogni ebreo può diventare cittadino), ma meno di un quarto dei palestinesi sotto il controllo israeliano ha la cittadinanza e quindi vota. Il 23 marzo, quando gli israeliani andranno a votare per la quarta volta in due anni, non sarà una “festa della democrazia”, come spesso vengono definite le elezioni. Sarà invece un ennesimo giorno in cui i palestinesi privati di diritti vedranno come il loro futuro sarà determinato da altri.

Abbiamo progettato il controllo della terra espropriando vaste estensioni di terra palestinese, escludendoli dalla possibilità di beneficiarne o utilizzandole per costruire città, quartieri e colonie ebraici. All’interno della Linea Verde lo abbiamo fatto da quando è stato fondato lo Stato, nel 1948. A Gerusalemme est e in Cisgiordania lo abbiamo fatto da quando le abbiamo occupate, fin dal 1967. Il risultato è che le comunità palestinesi, ovunque tra il fiume e il mare, devono affrontare una situazione di demolizioni, espulsioni, impoverimento e sovraffollamento, mentre le stesse risorse della terra sono destinate a nuove aree di sviluppo urbano per gli ebrei.

E abbiamo progettato, o meglio limitato, gli spostamenti dei palestinesi. La maggior parte di loro, che non sono né cittadini né residenti, dipende da permessi e posti di controllo israeliani per viaggiare all’interno di un’area e tra una zona e l’altra, così come per andare all’estero. Per i due milioni della Striscia di Gaza le restrizioni agli spostamenti sono più severe: non è semplicemente un bantustan [territori che nel Sudafrica dell’apartheid, venivano destinati alla popolazione nativa, ndtr.], in quanto Israele ne ha fatto una delle prigioni all’aria aperta più grandi sulla Terra.

Haifa, la mia città natale, dal 1948 vive una situazione di parità demografica. Dei circa 70.000 palestinesi che vi vivevano prima della Nakba [la Catastrofe, l’espulsione dei palestinesi nel 1948, ndtr.], ne venne lasciato in seguito meno del 10%. Da allora sono passati ormai 73 anni, e adesso Israele/Palestina è una realtà bi-nazionale con parità demografica. Io sono nato qui. Voglio, cerco di rimanervi. Ma voglio, pretendo di vivere in un futuro molto diverso.

Il passato è fatto di traumi e ingiustizie. Nel presente, sono riprodotte costantemente ancor più ingiustizie. Il futuro deve essere radicalmente diverso, il rifiuto della supremazia, costruito sull’impegno per la giustizia e per la nostra comune umanità. Chiamare le cose con il loro nome, apartheid, non è un momento di disperazione, ma di chiarezza morale, un passo sul lungo cammino ispirato dalla speranza. Vedi la realtà per quello che è, chiamala col suo nome senza infingimenti, e contribuisci a realizzare un futuro giusto.

Hagai El-Ad è un attivista israeliano per i diritti umani e direttore esecutivo di B’Tselem [associazione israeliana per i diritti umani, ndtr.]

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Il cantante Assaf è l’ultima vittima della guerra contro la cultura palestinese

Ramzi Baroud

11 gennaio 2021- ArabNews

Perché le autorità israeliane odiano il cantante palestinese Mohammed Assaf? Avi Dichter, parlamentare della Knesset nel partito di destra Likud, ha annunciato questo mese che sarà revocato il permesso speciale di Assaf per entrare nella Cisgiordania occupata.
Assaf, originario di Gaza, ora vive con la sua famiglia negli EAU [Emirati Arabi Uniti, ndtr.]. È diventato una celebrità nel 2013 quando ha vinto il talent show “
Arab Idol”. La sua performance vincente della canzone “Raise Your Keffiyeh” ha suscitato un raro momento di unità in tutte le comunità palestinesi. Mentre pubblico, giudici e milioni di arabi ballavano con lui, Assaf ha conquistato il centro della scena a Beirut, offrendo alla cultura palestinese di dar nuovamente prova del suo valore come strumento politico che non può essere ignorato.
Da allora, Assaf ha cantato di tutto quello che è palestinese: dalla Nakba, la catastrofica perdita della patria palestinese, all’intifada e al dolore di Gaza, a ogni altro simbolo culturale palestinese.
Nato e cresciuto nella Striscia di Gaza, ha sperimentato in prima persona l’occupazione militare israeliana, parecchie guerre terribili e, naturalmente, l’assedio tuttora in corso. Entrambi i genitori sono rifugiati, la madre viene da Beit Daras [città a nord est di Gaza svuotata dei suoi abitanti dalle milizie sioniste nel 1948, ndtr.] e il padre da Beir Al-Saba [l’attuale Be’er Sheva, principale città del Negev, ndtr.]. L’abilità del giovane di andare oltre il doloroso vissuto della sua famiglia e restare ciononostante dedito ai valori culturali della sua società, merita alcune riflessioni e molte lodi.
L’annuncio di Dichter che ad Assaf sarà impedito di ritornare in patria non è così scandaloso come potrebbe sembrare. La guerra di Israele contro la cultura palestinese è vecchia quanto Israele stesso.

Negli ultimi settant’anni, Israele ha dimostrato la sua capacità di sconfiggere militarmente i palestinesi e persino interi eserciti arabi e inoltre, con l’aiuto dei suoi benefattori occidentali, è riuscito a dividere i palestinesi in gruppi rivali, spezzando nel contempo l’unita araba sulla Palestina. I palestinesi sono stati divisi geograficamente e isolati in tanti spazi ridotti nella speranza che ogni collettività avrebbe poi sviluppato aspirazioni diverse basate su priorità politiche completamente differenti. Di conseguenza i palestinesi sono stati assediati a Gaza, trattenuti in zone segregate in Cisgiordania e Gerusalemme Est, in comunità economicamente marginalizzate all’interno di Israele e dispersi nella “shatat” (diaspora).
Persino i palestinesi della diaspora, alcuni diventati più volte di seguito rifugiati, sopravvivono in contesti politici su cui hanno pochissimo controllo. I palestinesi dell’Iraq, per esempio, si sono trovati a dover fuggire all’inizio dell’invasione americana di quel Paese nel 2003; la stessa cosa è successa prima in Libano e poi in Siria.

I continui tentativi israeliani miranti a distruggere la Palestina si sono anche spostati dalla sfera fisica a quella virtuale, facendo pressioni per censurare le voci palestinesi sui social e persino rimuovendo dai menù delle linee aeree i riferimenti alla Palestina.
Naturalmente niente di tutto ciò avviene per caso, dato che i leader israeliani capiscono che la distruzione della Palestina, tangibile e presente, deve essere accompagnata dalla distruzione dell’idea palestinese, l’insieme di valori culturali e politici che garantiscono la sua coesione e continuità nelle menti di tutti i palestinesi, ovunque essi siano.
Dato che la cultura si basa su una miriade di forme di espressione, Israele ha dedicato molta energia e molte risorse a eliminare espressioni culturali palestinesi che permettono alla Palestina di esistere, nonostante le divisioni politiche, le divisioni fra arabi e la frammentazione geografica. Ci sono numerosi esempi che dimostrano ampiamente l’ossessione della dirigenza israeliana per sconfiggere la cultura palestinese. Come se l’obliterazione fisica della Palestina nel 1948 non fosse abbastanza, i politici israeliani inventano costantemente nuovi modi per rimuovere ogni rimanente simbolo di cultura palestinese e araba.
Nel 2009, per esempio, il governo di destra israeliano ha avviato il processo per cambiare i nomi dall’arabo all’ebraico su migliaia di cartelli stradali. E nel 2018 la “legge dello Stato-Nazione”, apertamente razzista, ha degradato lo status della lingua araba.
Ma questi esempi sono stati solo l’inizio della guerra israeliana contro la cultura palestinese. I fondatori di Israele erano consci dei pericoli che la cultura palestinese poneva per la sua capacità di unificare il popolo palestinese dopo la pulizia etnica di circa due terzi della popolazione dalla loro patria storica.

Una lettera ufficiale mandata a Yitzhak Gruenbaum, il primo ministro degli Interni israeliano, gli ordinava di cambiare i nomi di villaggi e regioni palestinesi recentemente spopolati con alternative in ebraico. “I nomi tradizionali devono essere sostituiti dai nuovi … dato che, in una anticipazione del rinnovamento dei nostri giorni come erano anticamente, per vivere la vita di un popolo sano con le sue radici nella terra del proprio Paese, noi dobbiamo cominciare con la fondamentale ebraicizzazione della sua carta geografica,” affermò. Subito dopo, fu creata una commissione governativa con il compito di cambiare nome a tutto ciò che era arabo palestinese.

Un’altra lettera, scritta nell’agosto 1957 da un funzionario del ministero degli Esteri israeliano, sollecitava il Dipartimento delle Antichità a velocizzare la distruzione delle case palestinesi svuotate durante la Nakba. “Le rovine dei villaggi e dei quartieri arabi o gli isolati di edifici che sono rimasti vuoti dal 1948 risvegliano connessioni sgradevoli che causano considerevole danno politico,” scrisse. “Devono essere spazzati via.”

Per Israele, cancellare dalla memoria la Palestina e strappare il popolo palestinese dalla storia della loro patria è sempre stata un’impresa di valore strategico. Spostiamoci velocemente all’oggi e la macchina ufficiale israeliana resta dedita alla stessa missione coloniale. L’accordo firmato nel 2016 fra il governo israeliano e Facebook per porre fine alla “istigazione ” palestinese online ha lo stesso obiettivo: zittire la voce del popolo palestinese.
La cultura palestinese è stata molto utile alla lotta del popolo palestinese. Nonostante l’occupazione israeliana e l’apartheid, gli ha dato un senso di continuità e coesione, tenendolo legato ad un senso collettivo di identità.
L’annuncio di Israele che vieterà a un cantante palestinese di ritornare e quindi di esibirsi per i palestinesi che vivono sotto occupazione non è, dal punto di vista israeliano, per niente scandaloso. È un altro tentativo di interrompere il flusso naturale della cultura palestinese che, nonostante la perdita della Palestina stessa, è forte e concreto, come sempre lo è stato.

  • Ramzy Baroud è giornalista e direttore di ‘The Palestine Chronicle’. È autore di cinque libri. Il suo ultimo è “These Chains Will Be Broken: Palestinian Stories of Struggle and Defiance in Israeli Prisons[Queste catene saranno spezzate: storie palestinesi di lotta e sfida nelle carceri israeliane] (Clarity Press, Atlanta).

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




La risoluzione tedesca anti –BDS viola il diritto alla libertà d’espressione

Adri Nieuwhof

8 gennaio 2021 – Electronic Intifada

Alcune istituzioni culturali tedesche hanno criticato la risoluzione del parlamento tedesco contro il boicottaggio, disinvestimento e sanzioni [contro Israele, ndtr.] perché determina una zona d’ombra giuridica e minaccia il diritto alla libertà d’espressione.

La risoluzione del 2019 esorta le istituzioni e le pubbliche autorità tedesche a negare finanziamenti e strutture ad associazioni della società civile che supportino il movimento BDS.

Ma in dicembre importanti istituzioni artistiche ed accademiche tedesche hanno denunciato la risoluzione come “dannosa per la sfera democratica pubblica” e hanno messo in guardia dal suo impatto negativo sul libero scambio di opinioni.

Sempre in dicembre, ciò ha suggerito una ricerca da parte del dipartimento del servizio scientifico del Bundestag, un organismo consultivo del parlamento federale, che è arrivato a una conclusione simile, secondo cui la risoluzione anti-BDS non è giuridicamente vincolante e viola il diritto alla libertà di espressione, difeso dalla Costituzione tedesca.

Esperti dell’ONU, la Lega Araba, la società civile palestinese, artisti, studiosi e attivisti della solidarietà con la Palestina hanno protestato contro la risoluzione tedesca contro il BDS.

L’élite culturale interviene

L’iniziativa “Weltoffenheit GG 5.3” di dicembre da parte di responsabili di importanti istituzioni artistiche e accademiche tedesche, tra cui il Goethe Institute, il Museo Ebraico di Hohenems [comune austriaco, ndtr.], l’Humboldt Forum [museo berlinese, ndtr.] e il Centro per la Ricerca sull’ Anti-Semitismo dell’Università Tecnica [politecnico, ndtr.] di Berlino, ha visto intervenire nella contesa l’élite culturale tedesca.

Con questa iniziativa le istituzioni si sono unite per segnalare il clima nocivo determinato dalla risoluzione anti-BDS che impedisce la libertà di parola.

Weltoffenheit si può approssimativamente tradurre come “apertura al mondo”, e GG5.3 fa riferimento all’articolo della costituzione tedesca sulla libertà di opinione nelle arti e a livello accademico.

Durante una conferenza stampa dell’11 dicembre i responsabili delle istituzioni coinvolte hanno rivelato che a causa della risoluzione temono sempre più le conseguenze di lavorare con artisti o intellettuali che sono a favore del BDS o come tali sono percepiti.

L’iniziativa ha specificamente citato come esempio le calunnie di antisemitismo contro il professor Achille Mbembe, noto a livello internazionale.

Il filosofo camerunense era stato invitato a fare il discorso d’apertura del Ruhrtriennale Festival di Bochum [rassegna triennale di arte e cultura della Ruhr, ndtr.], ma i responsabili del festival hanno subito pressioni da politici perché ritirassero l’invito allo studioso africano a causa del suo presunto antisemitismo, per le critiche delle politiche israeliane.

Il festival è stato di fatto annullato in seguito alla pandemia di COVID-19.

Le preoccupazioni dell’élite culturale sono appoggiate da oltre 1.400 firme racconte da una lettera aperta di un gruppo di artisti internazionali e tedeschi in Germania o che lavorano con istituzioni tedesche.

Entrambe le iniziative contribuiscono a un intenso dibattito pubblico, che alla fine ha spinto il responsabile tedesco per l’antisemitismo Felix Klein a suggerire l’idea di chiedere al dipartimento per il servizio giuridico del parlamento tedesco un parere consultivo sull’argomento.

Klein è indicato come la persona che ha sollecitato la risoluzione anti-BDS, che equipara quest’ultimo all’antisemitismo e si basa sulla controversa definizione di antisemitismo dell’International Holocaust Remembrance Alliance [organizzazione intergovernativa a cui aderiscono 34 Paesi, ndtr.] (IHRA), “un grande segno di solidarietà con Israele.”

Opinione degli esperti: dare priorità al diritto alla libertà di parola

Il rapporto dell’organismo di consulenza dei servizi scientifici del parlamento non ha affrontato il modo in cui la definizione di antisemitismo dell’IHRA, la base della risoluzione anti-BDS, viene utilizzata per mettere a tacere e calunniare i palestinesi e i loro sostenitori.

Ma il rapporto ha confermato l’affermazione dell’iniziativa Weltoffenheit, secondo cui la risoluzione non è giuridicamente vincolante: è un’opinione politica.

Il parere dell’esperto afferma che, come legge, la risoluzione sarebbe una limitazione anticostituzionale del diritto alla libertà di espressione, che è protetta dalla costituzione tedesca.

Il rapporto ha rappresentato un rimprovero nei confronti dell’esperto berlinese di antisemitismo, il professor Samuel Salzborn, che in precedenza aveva sostenuto di essere “irritato e infastidito” dall’appello dell’élite culturale tedesca.

D’altronde Salzborn aveva molto tempo fa svelato le sue tendenze antipalestinesi quando aveva twittato di essersi sentito a disagio su un treno perché “la gente vicino a te inizia a parlare di ‘Palestina’ senza nessuna ragione apparente,” un tweet accompagnato dall’ hashtag, #anti-Semitism.

Spazio per voci palestinesi?

La Germania ha una consistente comunità di circa 250.000 persone di origine palestinese, 40.000 delle quali a Berlino.

Ma molti di loro affermano di aver paura di criticare Israele o l’occupazione israeliana.

Molti giovani palestinesi non osano impegnarsi,” ha detto al quotidiano tedesco Tageszeitung [giornale berlinese di estrema sinistra, ndtr.] l’ex-presidente di un’organizzazione palestinese che ha voluto rimanere anonimo. “Temono che ciò possa danneggiare la loro carriera professionale.”

L’attivista tedesco palestinese Amir Ali conferma che in Germania i palestinesi hanno paura di parlare liberamente.

Ali è uno dei Bundestag 3 for Palestine [3 del Buntestag per la Palestina] (BT3P) che hanno citato in giudizio il parlamento tedesco per la risoluzione anti-BDS quando è stata emanata.

In un video realizzato come parte di quella campagna parla di come alcuni amici gli hanno chiesto perché è pronto a rischiare il suo futuro personale con un’azione legale.

Lo faccio perché difendere i diritti umani in generale e quelli dei palestinesi in particolare è la cosa giusta da fare… So che in Germania molti palestinesi la pensano così, ma, poiché ciò mette in pericolo il loro futuro, non possono partecipare alla nostra azione legale.”

Majed Abusalama, un attivista palestinese che ha vissuto in Germania negli ultimi 5 anni, ribadisce questa sensazione.

Non c’è alcuno spazio per un palestinese che non faccia il discorso tedesco della soluzione a due Stati, o che citi il BDS,” dice a Electronic Intifada.

La Germania sta andando molto oltre nel traumatizzare la nostra comunità.”

Abusalama è stato uno dei tre militanti denunciati in Germania per aver disturbato all’università di Berlino un evento che ospitava un politico israeliano. Ci sono voluti tre anni perché un tribunale tedesco lo assolvesse.

Nel 2018, a causa della sua partecipazione alla protesta nell’università, è stato inserito in un rapporto dell’agenzia di intelligence interna dello Stato di Berlino nella sezione sull’antisemitismo.

Ciò a sua volta lo ha portato a comparire sul The Jerusalem Post [giornale israeliano di destra in lingua inglese, ndtr.] come “un attivista filo-BDS molto aggressivo”.

Un video dell’intervento di Abusalama all’evento rivela che la descrizione è palesemente inesatta.

Tutta la faccenda lo ha sconfortato.

È stato una grave intimidazione, persecuzione, diffamazione e distruzione della mia immagine, intesa non solo a far tacere me, ma a cancellare ogni segno di attivismo palestinese per l’uguaglianza, la libertà e la giustizia in Germania,” dice Abusalama.

E più in generale, afferma, “è parte del razzismo antipalestinese in aumento” in Germania.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Alcuni giuristi affermano che Williamson sbaglia a obbligare le università ad attenersi alla definizione di antisemitismo

Harriet Sherwood

7 gennaio 2021 – The Guardian

Una lettera accusa il ministro dell’Istruzione di “ingerenza indebita” dopo un ordine riguardante il testo dell’IHRA

Un gruppo di eminenti giuristi, tra cui due ex-giudici di Corte d’Appello, ha accusato Gavin Williamson, il ministro all’Istruzione, di “ingerenza indebita” a danno dell’autonomia universitaria e del diritto alla libertà di espressione.

Essi affermano che l’insistenza di Williamson perché le università adottino la definizione di antisemitismo dell’International Holocaust Remembrance Alliance [Alleanza Internazionale per il Ricordo dell’Olocausto, ente intergovernativo a cui aderiscono 34 Paesi, ndtr.] oppure debbano affrontare sanzioni è “illegale e immorale”. La loro dichiarazione giunge nel bel mezzo di una certa resistenza a livello accademico alla lettera inviata in ottobre da Williamson ai vice-rettori delle università, in cui minacciava: “Se entro Natale non avrò visto la stragrande maggioranza delle istituzioni [universitarie] adottare la definizione (dell’IHRA), allora interverrò.”

In questo mese docenti dell’University College di Londra dovrebbero decidere se chiedere all’organo direttivo dell’istituzione di annullare l’adozione, nel novembre 2019, della definizione dell’IHRA. Alcuni sostengono che ciò impedisce un libero dibattito su Israele.

Oxford e Cambridge sono tra le università che nelle scorse settimane hanno adottato la definizione dell’IRHA. Il ministero dell’Istruzione afferma che, dall’invio della lettera di Williamson, almeno 27 istituzioni l’hanno adottata.

Secondo un calcolo dell’Union of Jewish Students [Unione degli Studenti Ebrei] (UJS), un totale di 48 su 133 [università] hanno al momento adottato la definizione, compresa la grande maggioranza di quelle d’eccellenza che fanno parte del Russell Group [rete di 24 università in Gran Bretagna che ricevono i 2/3 dei finanziamenti alla ricerca, ndtr.]. L’UJS sostiene che le istituzioni che resistono a fare altrettanto starebbero dimostrando “disprezzo…nei confronti dei loro studenti ebrei.”

Invece la lettera dei giuristi, pubblicata dal Guardian, afferma: “Il diritto legalmente riconosciuto alla libertà di espressione viene minacciato dalla promozione di una ‘definizione operativa giuridicamente non vincolante’ di antisemitismo intrinsecamente incoerente. La sua promozione da parte di pubbliche istituzioni sta portando alla limitazione della discussione. Le università e altri enti che rifiutano l’indicazione… di adottarla dovrebbero essere appoggiate nel fare ciò.”

Essa cita la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo relativa alla libertà di espressione, che è inserita nel diritto del Regno Unito dalla legge sui diritti umani del 1998.

Williamson ha “sbagliato giuridicamente ed eticamente in ottobre a dare indicazioni alle università inglesi di adottare e mettere in pratica” la definizione di antisemitismo dell’IHRA. Questa minaccia di sanzioni “sarebbe un’indebita interferenza con la loro autonomia.”

La lettera aggiunge: “L’impatto sul dibattito pubblico sia dentro che fuori le università è già stato significativo.”

Tra gli otto firmatari ci sono Sir Anthony Hooper e Sir Stephen Sedley, entrambi giudici di Corte d’Appello in pensione.

L’opposizione accademica all’adozione generalizzata della definizione dell’IHRA si concentra sulla libertà di espressione, e in particolare sul fatto se verrebbero impedite le critiche al modo in cui Israele tratta il popolo palestinese.

La definizione dell’IHRA è di sole 40 parole.

Essa afferma: “L’antisemitismo è una certa percezione degli ebrei che può essere espressa come odio per gli ebrei. Manifestazioni di antisemitismo verbali e fisiche sono dirette verso gli ebrei o i non ebrei e/o alle loro proprietà, verso istituzioni comunitarie ebraiche ed edifici utilizzati per il culto”.

Ma essa è accompagnata da 11 esempi esplicativi, sette dei quali riguardano Israele.

Secondo il rapporto di un gruppo di lavoro istituito dal consiglio di facoltà della UCL, la definizione e gli esempi “spostano in modo sproporzionato il dibattito su Israele e Palestina nelle discussioni riguardo all’antisemitismo, confondendo potenzialmente antisionismo e antisemitismo…in modo da…rischiare di eliminare la legittima discussione e la ricerca accademica.”

Il rapporto afferma che la definizione non ha basi legali e c’è già “un vasto corpo di leggi esistenti nel Regno Unito e politiche coerenti dell’UCL che invece dovrebbero essere utilizzate come base di ogni meccanismo istituzionale per combattere l’antisemitismo.”

Le università hanno “l’esplicito obbligo statutario di proteggere la libertà di parola nel rispetto delle leggi,” dice il rapporto.

Come strumento educativo la definizione “potrebbe avere in effetti un potenziale valore, ma esso dovrebbe essere equilibrato contro effetti potenzialmente deleteri sulla libertà di parola, quali l’istigazione a una cultura della paura o all’autocensura nell’insegnamento o nella ricerca o nella discussione in aula di contenuti controversi.”

Il rapporto afferma: “La possibilità di tenere discussioni scomode o di sentirsi interpellati da idee in conflitto è al cuore del mandato dell’educazione superiore. Sono tempi in cui sentiamo la necessità di chiarire e illuminare queste tensioni invece di affrettarci ad accogliere le richieste di detrattori che potrebbero travisare questi esempi come atti di discriminazione, se dobbiamo difendere i valori della vita universitaria.”

Pur riconoscendo “prove inquietanti che incidenti di antisemitismo sono presenti nella nostra università,” il rapporto raccomanda all’organismo direttivo dell’UCL di annullare l’adozione della definizione dell’IHRA e di “prendere in considerazione alternative più coerenti.”

Il corpo docente dell’UCL avrebbe dovuto votare sulle raccomandazioni del rapporto prima di Natale, ma, data la sua importanza, ha deciso di approfondire la discussione nel nuovo anno.

Harry Goldstein, uno dei critici del rapporto, ha sostenuto che i suoi argomenti danno credito “proprio alle teorie cospirative che sono al centro dell’antisemitismo classico. Ci deve sempre essere un complotto per mettere a tacere le critiche a Israele.”

In un messaggio sul suo blog, Goldstein, che si definisce un sostenitore di Israele progressista di centro-sinistra, ha affermato che il rapporto confonde la distinzione tra critiche a Israele e antisionismo, utilizza un linguaggio tendenzioso e “non comprende la natura differente dell’antisemitismo rispetto ad altre forme di razzismo.”

Dave Rich, responsabile per le questioni politiche del Community Security Trust (CST), che assiste la comunità ebraica del Regno Unito sui problemi di sicurezza, afferma che la discussione accademica sulle definizioni di antisemitismo “perde di vista quello che realmente importa: il benessere e la sicurezza degli studenti ebrei nelle università britanniche.”

Un rapporto del CST, Campus Antisemitism in Britain 2018-20 [Antisemitismo nei campus britannici 2018-20] ha registrato un totale di 123 incidenti legati all’antisemitismo che nel corso dei due anni hanno coinvolto studenti in 34 città e cittadine.

Decisamente troppi studenti ebrei sperimentano pregiudizi e fanatismo nei campus, fuori dai campus e in rete. Ciò include l’antisemitismo dell’estrema sinistra, che mescola l’odio contro Israele con il sospetto nei confronti di ogni ebreo che non sia d’accordo con essa,” ha scritto lo scorso mese Rich.

James Harris, il presidente di UJS, ha sostenuto che la continua battaglia sulla definizione dell’IHRA è “inaccettabile”.

Ha aggiunto: “Abbiamo visto molteplici esempi di razzismo antiebraico ignorati dalle università che rifiutano sistematicamente di adottare questa definizione. Quando essa non viene usata, ciò dà la possibilità a quanti devono svolgere indagini di determinare arbitrariamente quello che ritengono costituisca antisemitismo.

La definizione dell’IHRA è la pietra angolare per garantire che l’antisemitismo, quando registrato, venga affrontato in modo tale per cui gli studenti ebrei possano aver fiducia.”

Un portavoce del ministero dell’Istruzione ha affermato: “Il governo si aspetta che le istituzioni abbiano un approccio di tolleranza zero verso l’antisemitismo, con la messa in pratica di severe misure per affrontare i problemi quando sorgono.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Il 2021 offre alla Palestina un’opportunità di reagire

Ramzy Baroud

5 gennaio 2021 – Middle East Monitor


Un anno fa il 2020 è iniziato con un’indiscutibile spinta da parte americana a trasformare la sua nuova visione politica in azioni decisive. Il 28 gennaio il cosiddetto “Accordo del secolo” è stato dichiarato una vera dottrina politica. Molto velocemente ha preso piede un nuovo lessico politico. Il “processo di pace”, che ha dominato il linguaggio di Washington per parecchi decenni, è apparso un antico ricordo. Poiché l’Autorità Nazionale Palestinese, anch’essa per decenni, ha improntato la propria strategia all’accondiscendenza verso le richieste e le aspettative degli USA, il cambiamento a Washington le ha lasciato ben poche scelte.
Gli ultimi dodici mesi entreranno nella storia come l’anno in cui si è chiuso il “processo di pace” israelo-palestinese sponsorizzato dall’America. Se il 2021 non ribalterà l’enorme cambiamento negli atteggiamenti e negli obbiettivi degli Stati Uniti in Palestina, Israele e Medio Oriente, offrirà però ai palestinesi l’opportunità di pensare al di fuori degli schemi legati all’America.

Il primo febbraio dello scorso anno il presidente dell’ANP Mahmoud Abbas ha dichiarato che avrebbe annullato tutti i rapporti diplomatici con Israele e gli USA. A ciò ha fatto seguito in maggio l’annuncio che la leadership palestinese stava cancellando tutti gli accordi con Israele, inclusi quelli sulla sicurezza. Tuttavia, mentre questa decisione avrebbe dovuto avere lo scopo di placare la rabbia dei palestinesi, non ha avuto effetti concreti e comunque è durata poco.

Il 17 novembre l’ANP ha annunciato di aver ripristinato tutti i rapporti per le questioni civili e sulla sicurezza con Israele, vanificando i nuovi colloqui sull’unità tra Fatah e Hamas. I colloqui erano iniziati a luglio e, a differenza di precedenti incontri, le due principali fazioni palestinesi sembravano unite su una serie di concetti politici, primo fra tutti il rigetto dell’“Accordo del secolo” e dei piani israeliani di annettere larga parte dei territori occupati.

In ultima analisi l’ANP, che del resto non ha mai goduto di molta credibilità tra i palestinesi, ha perso tutta la fiducia che ancora vantava tra i suoi rivali. Abbas è sembrato utilizzare i colloqui sull’unità come mezzo per avvertire Washington e Tel Aviv che politicamente aveva ancora in mano alcune carte.

Tuttavia, se in passato la leadership palestinese è riuscita a giocare la tattica attendista che fin dalla sua nascita nel 1994 le garantiva il flusso di denaro estero, quella strategia sta arrivando ora alla sua fine. Le priorità degli USA in Medio Oriente sono ovviamente cambiate e persino gli alleati europei dell’ANP difficilmente considerano come una priorità Abbas e la sua autorità. Un’Unione Europea indebolita dall’uscita del Regno Unito e dal devastante impatto economico della pandemia da Covid-19 ha relegato la Palestina in fondo agli interessi dell’Occidente.

Se il 2021 dovrà portare qualche cambiamento positivo nelle prospettive della lotta dei palestinesi per la libertà, devono essere introdotte nuove strategie. Il ragionamento dovrebbe rivolgersi completamente verso un panorama politico totalmente nuovo.

Per prima cosa deve essere ridefinita l’unificazione palestinese in modo che non si limiti ad una mera intesa politica tra i rivali Hamas e Fatah, ognuno motivato dai propri programmi e dall’autoconservazione. L’unificazione dovrebbe arrivare ad includere un dialogo nazionale che riguardi tutti i palestinesi – in Israele, nei territori occupati e anche nella diaspora – che dovrebbe avere un ruolo nella formazione in una nuova visione del proprio Paese che sia palestinese invece che settaria.

Questa nuova visione dovrebbe essere sviluppata ed articolata in modo da sostituire logori luoghi comuni, dogmi e velleitarismi. Una soluzione a due Stati, per esempio, è semplicemente irraggiungibile, non solo perché Israele e USA hanno fatto il possibile per affossarla, ma perché, anche se realizzata, non soddisferebbe le minime aspettative in termini di legittimazione dei diritti dei palestinesi.

In uno scenario a due Stati i palestinesi rimarrebbero frammentati geograficamente e politicamente e ben difficilmente potrebbe essere attuata una realistica ed equa applicazione del diritto al ritorno. Un “unico Stato democratico” in Palestina ed Israele forse non può risolvere tutte le ingiustizie del passato, ma è il passaggio più significativo per poter immaginare un possibile e sicuramente miglior futuro per tutte le persone che vivono tra il fiume [Giordano, ndtr.] e il mare [Mediterraneo, ndtr.].

Inoltre dovrebbe cessare l’ossessiva fiducia in Washington come unica parte in grado di mediare tra Israele e la Palestina. Non solo gli USA, attraverso il generoso e continuo appoggio militare e politico a Israele, hanno dimostrato la loro inaffidabilità, ma si sono anche rivelati un grave ostacolo sulla via della libertà e della liberazione palestinese.

Spetta alla leadership palestinese capire che gli equilibri dei poteri globali stanno fondamentalmente cambiando e che USA ed Israele non sono più i soli ad avere l’egemonia nel Medio Oriente. È ora che i palestinesi diversifichino le proprie scelte, rafforzino i rapporti con le potenze asiatiche emergenti e si alleino con i Paesi sudamericani e africani per ribaltare la totale dipendenza politica ed economica dagli USA e dai loro alleati.

Cosa ancor più importante, benché la resistenza popolare in Palestina si sia costantemente espressa sotto varie forme, deve ancora essere messa in grado di costituire un’adeguata base di resistenza che si possa trasformare in capitale politico. Lo scorso anno è iniziato con l’interruzione delle manifestazioni della ‘Grande Marcia del Ritorno’ a Gaza, che ha visto decine di migliaia di palestinesi unirsi in una storica dimostrazione di unità. Tuttavia i palestinesi nella Cisgiordania occupata stanno disperatamente cercando di districarsi tra due fonti di controllo sovrapposte: l’occupazione israeliana e l’ANP. Questo si è dimostrato un danno, in quanto marginalizza il popolo palestinese e gli impedisce di giocare un ruolo fondamentale nel delineare la propria lotta. La resistenza popolare deve costituire la spina dorsale di qualunque autentica prospettiva di liberazione.

Infine, perché la nuova narrazione politica palestinese si imponga a livello internazionale, deve essere sostenuta da un movimento di solidarietà globale, che si allinei ad una visione palestinese unitaria, promuovendo i diritti dei palestinesi a livello locale, statale e nazionale. Il duro attacco di USA e Israele al Movimento di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS) è una prova del successo di questa tattica nel modificare la narrazione su Palestina e Israele. Eppure, seppure ormai esista una solida base di solidarietà verso la Palestina in tutto il mondo, questo movimento non dovrebbe puntare solo su ambiti accademici e circoli intellettuali: dovrebbe lavorare per coinvolgere la gente comune, dovunque essa sia.

È vero che il 2020 è stato un anno devastante per la Palestina, ma un’analisi più rigorosa ci può portare a vederlo come prodromo di un’opportunità sulla quale può essere costruita una nuova prospettiva politica complessiva palestinese. L’anno 2021 offre alla Palestina un’opportunità per reagire.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Ha cercato di prendersi il generatore. Gli hanno sparato al collo

Yuval Abraham 

3 gennaio 2021 – +972

Harun Abu Aram, la cui casa è stata demolita lo scorso mese, è stato colpito da distanza ravvicinata da un soldato mentre stava cercando di riprendere il suo generatore. Tutto perché Israele possa impossessarsi della sua terra.

Venerdì pomeriggio un soldato israeliano ha sparato al collo da distanza ravvicinata a un ventiseienne palestinese di nome Harun Abu Aram, che si trova ora in condizioni critiche in un ospedale di Hebron, nella Cisgiordania occupata. Secondo il ministero della Sanità palestinese, se dovesse riprendersi, Abu Aram probabilmente rimarrà paralizzato.

Lo sparo è avvenuto nei pressi del villaggio palestinese di al-Rakiz, sulle colline meridionali di Hebron. Appena un mese fa l’esercito è arrivato con scavatori per demolire quattro case della comunità. Una era quella di Abu Aram.

Contrariamente a quanto sostiene l’esercito israeliano, gli abitanti di al-Rakiz non sono delinquenti. Hanno costruito le loro case sulla loro terra nel rispetto della legge. L’esercito le ha distrutte perché l’Amministrazione Civile, l’ente del governo militare israeliano che gestisce la vita quotidiana di 2,8 milioni di palestinesi in Cisgiordania, si è rifiutato di concedere permessi edilizi alla comunità. Di fatto l’Amministrazione Civile ha respinto il 98,7% delle richieste per permessi edilizi [presentate] da palestinesi che vivono nei 164 villaggi dell’Area C, una zona che rappresenta i due terzi della Cisgiordania e si trova sotto il totale controllo militare e amministrativo di Israele.

Lo scopo di questo accanimento burocratico è rendere miserabile la vita dei palestinesi al punto che se ne vadano. Perché? Perché, se se ne vanno, sarà più facile per Israele in futuro annettere la terra senza dover concedere a nessuno la cittadinanza israeliana. Un semplice calcolo demografico.

L’Amministrazione Civile rifiuta il concetto che questa terra appartenga a proprietari privati palestinesi e quindi impedisce loro di ottenere licenze edilizie e piani regolatori. L’amministrazione sa che la distruzione di case e infrastrutture renderà miserabile la vita della popolazione locale, e, con il tempo, la obbligherà ad abbandonare la propria terra.

Abu Aram è arrivato venerdì mattina per aiutare a ricostruire una delle case che erano state demolite. Dopo qualche ora di lavoro sotto il sole, è arrivato un veicolo dell’Amministrazione civile con a bordo cinque soldati israeliani, che hanno detto ad Abu Aram e ai suoi amici che non potevano costruire lì. Poi si sono diretti al suo generatore, che aveva utilizzato per la costruzione, e gliel’hanno confiscato. Queste confische sono un ulteriore sistema per obbligare i palestinesi dell’Area C ad andarsene dalla loro terra, e l’esercito regolarmente si porta via cisterne per l’acqua, utensili da muratore, trattori e baracche di lamiera.

Quando un soldato ha iniziato a trascinare via il generatore, Abu Aram ha fatto resistenza. Ha iniziato a gridare, mentre i suoi amici più vicini cercavano di calmarlo. Ma lui si è messo a gridare. Un mese fa la sua casa era stata demolita, un mese fa la sua sorellina e sua madre erano state sottoposte a un trauma inconcepibile. Io ero lì. Ora erano venuti a prendersi il suo generatore. E quindi si è messo a gridare e a fare resistenza.

Abu Aram ha cercato di riprendersi il generatore con la forza, maledicendo i soldati. Per un momento ci è persino riuscito. Ma poi è stata la volta dei soldati di reagire.

Hanno iniziato a spintonarlo, e poi improvvisamente è risuonato uno sparo. I soldati non hanno lanciato una granata assordante o un lacrimogeno. No, hanno sparato al collo con proiettili veri da vicino su un uomo disarmato, la cui casa era stata demolita un mese prima, le cui sorella e madre erano state obbligate a dormire all’addiaccio. Per un generatore.

Il video dello sparo è rapidamente diventato virale sulle reti sociali. Nel video si può sentire lo sparo. Poi si vede Abu Aram sanguinante. Poi si sente gridare sua madre.

In seguito al ferimento, l’unità portavoce delle IDF [l’esercito israeliano, ndtr.] ha emanato il seguente comunicato: “Durante una normale missione da parte delle forze delle IDF e della polizia di frontiera per la confisca e l’evacuazione di una struttura illegale nel villaggio di a-Tuwani si sono avuti disordini da parte di circa 150 palestinesi che hanno incluso un massiccio lancio di pietre. I soldati delle IDF hanno risposto usando misure antisommossa ed hanno sparato in aria. Durante i disordini è avvenuto un incidente cruento in cui parecchi palestinesi hanno usato violenza contro le forze (dell’esercito).”

Questo comunicato è una palese menzogna. Lo si può vedere nel video. Lì c’è solo una famiglia, circa 10 persone in totale. I testimoni affermano che non c’erano pietre e neppure 150 persone nelle vicinanze.

Nei prossimi giorni l’esercito israeliano potrebbe annunciare che “hanno avviato un’indagine sull’incidente.” Lo fa quasi sempre, ma praticamente mai ne viene fuori qualcosa. In casi molto rari potrebbero persino annunciare che un soldato ha aperto il fuoco “in violazione del regolamento”. Forse, dato che il ferimento di Abu Amar è stato ripreso in un video, utilizzeranno di nuovo questa scusa.

Ma non è questo il punto. La politica complessiva è quella che genera il comportamento di quel soldato ad al-Rakiz, una politica motivata dalla demografia che impedisce a migliaia di palestinesi nell’Area C di costruire sulla propria terra, che impedisce ai palestinesi di vivere, che cerca di farli sparire. Non è facile scriverlo, ma è la verità. In genere quando arrivano i soldati si finisce con il furto di beni o con la distruzione di una casa. Questa volta è finita con un proiettile nel collo.

Yuval Abraham è uno studente di fotografia e linguistica.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Ultimissime sulle elezioni israeliane: ‘Gli israeliani’ e la propaganda del corona

Jonathan Ofir

4 gennaio 2021 – Mondoweiss

Ron Huldai, da vent’anni sindaco di Tel Aviv, ha formato un nuovo partito, “Gli israeliani”, per abbattere definitivamente Netanyahu. Ma Netanyahu ha ancora una carta da giocarsi: il vaccino contro il coronavirus.

Israele si sta avviando verso la quarta tornata elettorale in due anni, questa volta con la scusa di non essere riusciti ad approvare il bilancio 2020. Benny Gantz, il cavaliere bianco liberale, ex generale entrato in politica due anni fa vantandosi di aver riportato Gaza “all’età della pietra”, si è dimostrato un perdente incapace di costituire una reale minaccia per Netanyahu. Lui non vedrà arrivare il suo ‘turno’ [come primo ministro, ndtr.], proprio come la maggioranza degli israeliani si aspettava fin dall’inizio, e secondo i sondaggi i resti del suo partito Blu e Bianco si aggirano appena intorno alla soglia di sbarramento di 4 seggi.

Dal Likud, lo stesso partito di Netanyahu, proviene Gideon Sa’ar, un altro cavaliere bianco con politiche probabilmente ancora più a destra di Netanyahu stesso. Lui salverà Israele con il suo partito “New Hope – Unity for Israel”, [Nuova Speranza – Unità per Israele] difendendo la supremazia ebraica dei “diritti naturali e storici del popolo ebraico sulla terra di Israele”, sostenendo i “valori dello Stato nazionale del popolo ebraico”. Sa’ar, il Netanyahu senza champagne e sigari, negli ultimi sondaggi si aggira sui 17 seggi, rispetto ai 22 previsti una settimana fa, (in Israele, per creare una coalizione di governo, c’è bisogno di una maggioranza di 61 seggi sui 120 del parlamento).

Nessun altro cavaliere bianco?

Ron Huldai, da lungo tempo sindaco di Tel Aviv, ha appena annunciato il suo nuovo partito. Tenetevi forte: ‘Gli Israeliani’. Dovete ammetterlo, un nome originale. E arrogante: noi siamo i ‘veri’ israeliani. In che senso? Huldai rappresenta la vecchia ideologia laburista israeliana, liberale se paragonata alla destra, ma elitaria nel suo sionismo militante, ovviamente. Perciò, Huldai come prima fra le sue credenziali ha scelto di dire che è stato un pilota da guerra. Sai, è una di quelle cose che questi israeliani fanno. Se hai la qualifica di pilota di aerei da combattimento la tiri fuori per prima. Poi ci sono anche quelle di educatore e sindaco. Huldai cerca di riaccendere la speranza del partito laburista israeliano, anche se il partito è appena finito nel dimenticatoio e si dubita che riesca a superare la soglia di sbarramento. Huldai ha dalla sua Amir Peretz, leader del Labor che ha appena lasciato vacante il suo posto, nel caso ci sia qualcuno che veramente lo voglia.

Gli Israeliani’ sembra essere andato bene nel primo sondaggio, attorno agli 8 seggi. Potrebbe piacere ad alcuni fra gli elettori di sinistra che erano andati verso il centro con Blu e Bianco, ma sono rimasti delusi. Ofer Shelah, uno dei suoi leader, ha appena cercato di formare un suo partito per suscitare un maggiore interesse a sinistra, ma i sondaggi lo danno vicino allo zero. Avi Nissenkorn, uno dei ministri di spicco di Gantz (fino ad ora ministro della Giustizia), è passato a Huldai.

Ancora una volta, come è stato pe le tre precedenti elezioni, qui non c’è un blocco assolutamente chiaro per la creazione di un governo. Il Likud ha perso un numero considerevole di voti a causa della scissione di Sa’ar e si aggira ora attorno ai 26 seggi (dai 36 dell’ultima elezione a marzo); ciononostante è di gran lunga il maggior partito e Netanyahu di gran lunga il candidato premier più popolare, più del doppio rispetto a Sa’ar.

E il blocco di Netanyahu? Consisterebbe di quelli che non sono nel campo di chi dice ‘ Purché non sia Netanyahu’, che include i partiti religiosi Shas [partito sefardita, ndtr.] e United Torah Judaism [Giudaismo unito nella Torah, ebrei haredim ultraortodossi ashkenaziti, ndtr.] (insieme raggiungono un consistente numero di 15-16 seggi) e Yamina, il partito nazionalista di destra di Naftali Bennett, ora, stando ai sondaggi, con circa 13 seggi. Yamina è salito fino a 19 all’inizio del mese, ma Sa’ar potrebbe avergli portato via i più moderati. Quindi se aggiungiamo i 26 seggi del Likud si arriva appena a 55. Ma neanche i blocchi rivali, da destra a sinistra, vanno oltre.

È chiaro che dal punto di vista di Netanyahu il sogno sarebbe semplicemente di ampliare i votanti del Likud per riprendersi quei circa 6 seggi e continuare a governare per sempre.

Ma c’è bisogno di un cambio di passo. Qualcuno ha delle idee?

Ma ovvio: il coronavirus.

La propaganda del Corona

Netanyahu ha adocchiato da tempo l’opportunità di essere il ‘re del corona’ e di battere la minaccia del COVID-19 al punto da diventare famoso come il padre della Nazione che la proteggerà come nessun altro. Gli accordi tanto strombazzati sotto il re Trump con gli EAU, Bahrain, Sudan, Marocco sono stati un bel lavoro, ma non decisivi. Dopotutto, le decine di migliaia di turisti israeliani che vanno a Dubai, molti dei quali turisti sessuali, non porteranno così tanti seggi. Ora in Israele c’è il terzo lockdown e la gente vuole uscire, non necessariamente per andare a Dubai, basterebbe uscire di casa.

Perciò Netanyahu sta lavorando freneticamente per assicurarsi un’enorme quantità di dosi di vaccino per gli israeliani, ma, cosa importante, non per i palestinesi sotto occupazione. Si è vantato di chiamare l’amministratore generale di Pfizer alle due di notte. È stato riportato che la Germania avrebbe cambiato le regole sulla condivisione europea del vaccino per dare a Israele parte della quota destinata alla UE per via della ‘relazione speciale’ [con Israele, ndtr.]. Un funzionario dell’ambasciata israeliana ha detto che “ la Germania vede Israele come parte dell’Europa quando si tratta di procurarsi il vaccino e perciò ne permetterà l’invio in Israele quando sarà approvato.” 

Il Likud di Netanyahu continua a tirar fuori il vaccino quando si tratta di rispondere agli sfidanti. “Auguriamo a Gantz e Huldai buona fortuna mentre il primo ministro Netanyahu porta in Israele milioni di vaccini, traghetta Israele fuori dalla crisi da coronavirus e ci dà la vita,” ha ribattuto in risposta al recente annuncio di Huldai di correre alle elezioni.

Netanyahu ha fatto il suo atteso spettacolino della vaccinazione in pubblico il 19 dicembre e Israele è entrato nella corsa per vaccinare gli israeliani ventiquattr’ore su ventiquattro. Ora si vantano di essere i primi al mondo, avendo vaccinato circa il 7% della popolazione (con la prima dose). Per esempio, questo video da hasbara [propaganda israeliana] trasmesso sul canale 4IL: “La Nazione start-up è diventata la VacciNazione! Con il 7% della popolazione già vaccinata, oltre 600.000 vaccini somministrati Israele è al #1 posto al mondo per le vaccinazioni.”

Nel video si vaccina persino un ‘arabo’, un druso [popolazione araba che collabora con Israele, ndtr.]. Naturalmente è per far scena. Se Israele veramente adempisse i suoi obblighi di potenza occupante, allora dovrebbe vaccinare molti ‘arabi’(palestinesi) in più.

No, quello che adesso è importante per Netanyahu è la corsa contro il tempo per inoculare una consistente quantità di israeliani, soprattutto tutti i coloni dei territori palestinesi occupati, entro il 23 marzo, data delle elezioni. Netanyahu ha affermato che Israele sarà in salvo “entro poche settimane”. Vuole che su questo Israele sia #1. Ci aveva già provato prima, lo scorso anno quando aveva detto che in primavera Israele sarebbe stato il posto più sicuro, ma poi in estate era diventato il posto più insicuro. Ma ora sembra più probabile che la popolazione israeliana ebraica possa essere convinta della sua abilità di portarle la salvezza. Pare che Israele stia somministrando circa 150.000 dosi al giorno, quindi in un mese potrebbe vaccinare circa metà dei suoi cittadini.

Netanyahu la vede come una guerra da cui potrebbe uscire vincitore. E bisogna tener conto dell’aspetto: “cosa c’è di meglio?” I più vogliono vaccinarsi, certamente vogliono la fine del COVID-19, almeno per loro. E chi se ne importa dei palestinesi.

In questo modo, Netanyahu entrerebbe nelle vene degli israeliani. Capirebbero quanto profondamente ci tiene a loro. E in quei momenti di beatitudine, potrebbero ridargli quei seggi che quelli del ‘purché non sia Netanyahu’ gli hanno tolto. Netanyahu farà vedere a tutti che è lui quello di cui hanno veramente bisogno ‘gli israeliani.’     

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Le note critiche da parte del CICR su “Fauda” colpiscono un nervo scoperto

Jonathan Ofir

29 DICEMBRE 2020 – Mondoweiss

Il Comitato Internazionale della Croce Rossa si è rivolto alle reti sociali per evidenziare tutti i modi in cui il programma televisivo “Fauda” rappresenta le violazioni dei diritti umani da parte di Israele. Gli organi di informazione israeliani, i funzionari governativi e vari [loro] sostenitori non ne sono stati per niente contenti.

La popolare serie televisiva israeliana “Fauda” [«caos» in arabo, nel gergo militare israeliano il momento in cui un’azione sotto copertura fallisce mandando a monte tutti i piani, ndtr.] si basa sulla realtà dell’occupazione israeliana, soprattutto nel delineare la pratica dei “Mistarvim”, soldati israeliani che si spacciano per palestinesi per infiltrarsi, assassinare e rapire questi ultimi.

Posso anche ammettere che non sono neppure interessato a guardarla. Così come molti israeliani sembrano essere orgogliosi di questa serie, molti palestinesi, come George Zeidan [co-fondatore di Right to Movement Palestine, organizzazione palestinese che utilizza la corsa sportiva come strumento di promozione del diritto fondamentale alla libertà di movimento, ndtr.] su Haaretz, che la definisce “ignorante”, “disonesta”, “propaganda anti-palestinese”, la considerano un’odiosa propaganda razzista. Ma il mio articolo non è una recensione su un’ulteriore serie televisiva militarista, riguarda la vita reale, il dramma ultra-nazionalista che ha fatto seguito al momento in cui un collegamento tra finzione e vita reale è stata semplicemente oggetto di commenti, sfavorevoli, da parte di un’organizzazione umanitaria internazionale – il Comitato Internazionale della Croce Rossa (CICR).

Domenica scorsa il CICR in Israele e nei Territori (palestinesi) occupati ha lanciato una serie di tweet, iniziando con questo:

Come molti di voi, quest’anno abbiamo guardato anche noi @FaudaOfficial e abbiamo notato una serie di violazioni del #IHL. [Diritto umanitariointernazionale].

La sequenza [dei tweet] presenta brevi clip della serie, facendo una rapida menzione a quali violazioni – sia israeliane che palestinesi – ci si riferisca.

Ciò che ne è seguito è stato un attacco concertato al CICR da parte dei sostenitori di Israele. Per lo più hanno cercato di usare un umorismo sprezzante, suggerendo che il CICR non possa criticare una serie televisiva, in quanto le violazioni descritte non si verificherebbero effettivamente nella realtà. Il creatore della serie, Avi Issacharoff, ha twittato in risposta che le violazioni dei Diritti Internazionali dell’Uomo costituiscono per lui un ottimo passatempo.

Gli attacchi al CICR hanno impiegato un esercito di troll [personaggi che intralciano su internet il normale svolgimento di una discussione inviando messaggi provocatori, irritanti o fuori tema, ndtr.] della propaganda, organi di stampa e funzionari governativi.

Secondo le notizie dell’israeliano Channel 12, “la Croce Rossa ha twittato contro ‘Fauda’, gli israeliani hanno risposto al fuoco in rete“.

Channel 12 sta prendendo in giro entrambe le parti? No, è del tutto seria e totalmente di parte. Il pezzo continua:

Cosa vuole l’organizzazione internazionale dalla fortunata serie israeliana? Il rappresentante della Croce Rossa in Israele e presso l’Autorità Nazionale Palestinese (sic) e Gaza (sic), ha pubblicato ieri (domenica) una strana serie di tweet, in cui ha deciso di individuare le “violazioni” del diritto internazionale umanitario comparse nella popolare serie israeliana “Fauda”, la quale riceve riconoscimenti in tutto il mondo.

L’articolo prosegue raccontandoci degli “israeliani sulla rete” che “hanno risposto al fuoco”. Va avanti così:

Coloro a cui non sono piaciuti gli attacchi contro la fortunata serie israeliana, e che hanno visto la serie dei tweet della Croce Rossa come un altro esempio del doppio standard dell’organizzazione contro Israele, sono gli agenti e gli influencer della rete internet della [azienda] filo-israeliana “DigiTell”. La rete è stata costituita tre anni fa dal Ministero degli Affari Strategici al fine di fornire una risposta all’attività anti-israeliana sulle piattaforme sociali di internet. Oggi include più di 100 membri, con più di 15 milioni di follower nel complesso delle piattaforme sociali.

Ebbene, sotto [la guida di] Gilad Erdan (che ora è l’ambasciatore israeliano delle Nazioni Unite) il ministero israeliano per gli affari strategici – che è stato il quartier generale della campagna anti-BDS, che comprendeva operazioni segrete – ha istituito sui social media un esercito di propagandisti. Questo è qualcosa su cui Channel 12 News sembra fare commenti favorevoli, nel senso che [ritiene che] qualcuno debba proteggerci dal presunto CICR anti-israeliano.

Il propagandista filo-israeliano Hen Mazzig, che dirige il Dipartimento dell’istruzione israeliano per Stand WithUs [organizzazione della destra statunitense pro-Israele, ndtr.] in Israel, ha twittato:

Potete per favore riferire delle violazioni dei diritti umani in Avengers End Game [film di fantascienza prodotto dalla Marvel, ndtr.]? Thanos compie letteralmente un genocidio sulla metà delle vite della galassia, il che dovrebbe essere una grave violazione della convenzione di Ginevra.

Quindi qui l’obiezione sembra essere che la serie sarebbe di finzione. Ma Hen Mazzig si preoccuperebbe di commentare una critica verso “Avengers”? Sicuramente no. Per quanto la serie sia di finzione, egli la difende così energicamente proprio perché è legata all’etica militante di Israele e basata su alcune realtà effettive.

Il blogger David Collier ha twittato dal Regno Unito:

E il premio per il PIÙ STUPIDO TWEET del 2020 va chiaramente alla Croce Rossa Internazionale

@ICRC_ilot che in realtà ha rivolto la sua attenzione a uno spettacolo Netflix (Fauda) e l’ha passato al setaccio sulle violazioni dei diritti umani in modo da demonizzare Israele.

Niente su questo pianeta è così stupido come l’attivismo anti-israeliano.

Collier è una persona disonesta sulla quale mi è capitato di trattare in un articolo qualche anno fa. Considera il BDS un “movimento terroristico” ed è implacabile nel tacciare il movimento come intrinsecamente antisemita. Può darsi che il CICR sia andato un po’ oltre il suo solito copione, ma posso pensare a cose molto più stupide in questo mondo che istruire le persone sui diritti umani consuetudinari, anche se in riferimento ad una serie di fantasia, specialmente quando le violazioni si verificano effettivamente nella vita reale.

Il pezzo di Channel 12 si è concluso con uno sfogo di Ido Daniel, il responsabile del settore digitale presso il Ministero degli Affari Strategici. Queste sono proprio le parole conclusive del capo della propaganda digitale nazionale:

Il bizzarro attacco su Twitter della Croce Rossa contro una delle serie israeliane di maggior successo al mondo è bizzarro

È un po’ bizzarro pronunciare così tante volte [la parola] bizzarro. Per un propagandista di professione è piuttosto patetico. Allora, qual’è il problema?

Non sono sorpreso che abbiano deciso di attaccare proprio ‘Fauda’, che rappresenta fedelmente, secondo decine di milioni di osservatori in tutto il mondo, la complessità della vita in Israele sullo sfondo delle minacce del terrorismo e le operazioni delle forze di sicurezza che lavorano di notte e giorno per prevenirlo.

Quindi, aspetta un attimo. Daniel non sta dicendo che Fauda sia una finzione. No, sta “precisamente” sottolineando che si tratta della rappresentazione di una realtà. Questo per quanto riguarda le difese di David Collier e Hen Mazzig. Chi parla è il rappresentante ufficiale del governo israeliano. Voi potreste dire che “Fauda” sia solo una finzione, ma lui ha detto che rappresenta “fedelmente” la realtà israeliana.

Perfidia

Il tema centrale di Fauda è ciò che nel diritto internazionale è noto come perfidia. Il CICR fornisce la definizione di perfidia sulla base normativa del diritto internazionale umanitario:

Costituiscono perfidia gli atti rivolti ad acquisire la fiducia dell’avversario per indurlo a credere di avere diritto a, o di essere obbligato ad offrire, protezione in base alle norme del diritto internazionale applicabili nei conflitti armati, con l’intento di tradire tale fiducia.

In altre parole, si tratta di condurre un’operazione militare sotto le mentite spoglie di un civile, o impersonando un individuo a cui dovrebbe essere offerta una protezione umanitaria speciale. Questo atto è pericoloso anche perché mette a rischio civili e operatori umanitari, poiché crea il sospetto che possano essere coinvolti nelle ostilità.

Tale perfidia è per Israele una procedura operativa standard. Due anni fa un’unità di commando israeliana che, secondo quanto riferito, si spacciava per [un gruppo di] operatori umanitari, si mise nei guai a Gaza dopo aver sparato, uccidendolo, a un alto comandante militare di Hamas, Nour Baraka. I combattenti di Hamas risposero al fuoco. In tutto vennero uccisi 7 palestinesi, 6 dei quali membri di Hamas. Fu [anche] ucciso un alto comandante israeliano. In seguito, un ex comandante israeliano, il generale Tal Rousso, ha cercato di attenuare la convinzione che si trattasse di un tentativo di omicidio deliberato contro il comandante del battaglione di Hamas Nour Baraka sostenendo:

Queste sono operazioni che si svolgono continuamente, ogni notte, in tutte le divisioni. Questa è un’operazione che probabilmente è stata scoperta.

Vedete, costui è l’esperto. Ogni notte, in tutte le divisioni.

Istigazione contro i cittadini palestinesi

Ma “Fauda” è problematico [anche] in un altro senso. Il grosso problema è dato soprattutto dal modo in cui ritrae i palestinesi. George Zeidan su Haaretz:

Ma per me una delle scene peggiori, persino pericolose, si verifica verso la fine della terza stagione, quando un fisioterapista arabo, mentre sta iniziando una seduta di terapia in un ospedale israeliano, tenta di uccidere il capo di una sezione dello Shin Bet [servizi segreti israeliani, ndtr.] in Cisgiordania. Vale la pena di smontare questo complotto: il 17% dei medici israeliani, il 24% degli infermieri e il 47% dei farmacisti sono arabi. Non c’è mai stato nella storia un solo incidente in cui in Israele gli operatori sanitari arabi abbiano tradito il loro giuramento di Ippocrate e causato danno a un paziente. È al di là del ridicolo mettere in scena un personaggio e una trama che contrassegna gli arabi che lavorano all’interno del sistema sanitario israeliano come inaffidabili, sleali e capaci di attacchi violenti. Può solo creare ulteriore sfiducia tra le persone. Promuovere un’immagine del genere è completamente ingannevole e falso – e, peggio, alimenta quelle voci, anche ai vertici del governo israeliano, che squalificano insistentemente i cittadini arabi di Israele, legiferano sulla loro disuguaglianza e istigano contro di loro.

Quindi “Fauda” è semplicemente una serie sleale. Dovrebbe essere semplicemente evitata. Non so dire se il CICR nel commentare una serie che è teoricamente finzione sia andata oltre le proprie competenze ufficiali. In ogni caso le risposte che ha suscitato mostrano che ha colpito un nervo scoperto dell’orgoglio militante del nazionalismo israeliano, l’orgoglio della perfidia.

Uno speciale ringraziamento a Ofer Neiman

(traduzione dall’inglese di Aldo lotta)