Una delle migliori musiciste di Israele canta della guerra per liberare la Palestina

Ben Shalev

27 dicembre 2020 – Haaretz

La musica di Amal Murkus viene trasmessa di rado nelle radio israeliane. ‘Pago il prezzo di essere una persona libera’, dice a Haaretz prima dell’uscita di un nuovo album

È stata una giornata molto produttiva per Amal Murkus. Nel pomeriggio la cantante ha fatto un video di sé stessa mentre legge un libro per bambini nella sua casa a Kafr Yasif e lo ha inviato ad un’organizzazione tunisina che incoraggia i bambini alla lettura. Alla sera è andata in uno studio al Moshav [comunità agricola cooperativa sionista, ndtr.] Even Menahem per essere ripresa mentre canta la canzone popolare palestinese “Bahalilak”, che ha inviato in Cile per una serata in occasione della Giornata Internazionale di Solidarietà con il Popolo Palestinese del 29 novembre.

Murkus ha approfittato della sessione di registrazione per fare un’altra cosa: registrare nuovamente la traccia vocale di un singolo che ha prodotto, non a caso, quella stessa domenica 29 novembre.

Non ero soddisfatta della mia prestazione”, ha detto. “Sfumature: volevo migliorarla. Volevo che l’inizio fosse energico e al tempo stesso lento.”

Sembra una sfida quasi impossibile, ma Murkus è una cantante straordinaria, una delle migliori in Israele. Due dei suoi album, “Nana ya Nana”, (2007) e “Baghanni” (2011), secondo me sono tra i più belli usciti qui negli ultimi 15 anni.

La nuova canzone di Murkus, intitolata “Dola”, si basa su una poesia scritta da Samih al-Qasim all’ inizio anni ’70. La maggior parte delle sue poesie sono state scritte in arabo letterario. Murkus ne ha interpretata una nel suo album precedente, “Fattah al Ward”. “Dola” è stata scritta in dialetto.

C’è un motivo per questo. La poesia si basa su un gioco di parole con il termine “dola”, che significa Paese – e nel dialetto egiziano significa “quelli”, nel senso di “quella gente”. Quindi Murkus canta così: “Dola – mi hanno confusa/Dola – mi hanno fatta impazzire/Mi hanno privata della mia terra – Dola/Hanno calpestato la mia dignità – Dola/Mi hanno detto di stare zitta, di non fiatare/ in nome della sicurezza dello Stato.”

Dola” nel senso di “quelli” e “Dawla” nel senso di “Stato” in arabo sono scritti in modo differente. Quasi tutti i “dola” nella poesia di al-Qasim sono scritti nel primo significato: “Quella gente mi ha privato della mia terra/Quella gente ha calpestato la mia dignità.” Ma poiché i “dola” hanno lo stesso suono, gli ascoltatori di lingua araba percepiscono anche l’altro significato – lo Stato mi ha denegato, lo Stato ha calpestato la mia dignità. “Dawla”, scritto nel modo che significa “Stato”, compare solo una volta nella poesia – nelle frasi “Mi hanno detto di stare zitta, di non fiatare/In nome della sicurezza dello Stato.”

Murkus, nata nel 1968, è la figlia di Nimr Murkus, che per molti anni è stato capo del consiglio locale di Kafr Yasif ed era amico del poeta al-Qasim. Lei era una bambina quando al-Qasim scrisse la poesia. “Ricordo la poesia da allora”, dice. “Ho visto Samih recitarla durante una manifestazione per il primo maggio a Kafr Yasif. Era sul palco e leggeva la poesia, e la gente si entusiasmava, agitando le mani, caspita!”

Secondo Murkus “Dola” non è rimasta confinata all’ambito politico, bensì è diventata anche una canzone per i matrimoni. “Per via della melodia”, spiega. “Ha un timbro molto ritmico, in stile egiziano.” La musica fu composta (sotto la direzione di al-Qasim) da Rajab al-Suluh che, oltre ad essere un suonatore di oud, era il padrone del ristorante ad Haifa dove scrittori e editori del giornale Al-Ittihad [il primo giornale israeliano in lingua araba e di proprietà del Partito Comunista, ndtr.] solevano passare il tempo: tra questi c’era il padre di Murkus. “Il ristorante era in via Hahar”, ricorda. “Ora si chiama viale HaTzionut (Sionismo).” (In realtà il nome di viale Hahar inizialmente fu modificato in via Nazioni Unite, per riconoscenza all’appoggio dell’ONU alla creazione dello Stato di Israele. Nel 1975, per reazione alla risoluzione che equiparava il sionismo al razzismo, fu cambiato in viale HaTzionut).

Al-Qasim voleva che la musica di “Dola” fosse “folk, semplice, ballabile e divertente, in modo che la gente potesse ridere un po’ della situazione, e forse questo l’avrebbe resa più sopportabile. Mentre lavoravo alla canzone ho intervistato persone che l’avevano cantata allora ad una rappresentazione studentesca. Samih ha detto loro durante le prove: ‘Voglio che il contenuto sia politico, ma che una danzatrice del ventre possa ballarla.’”

Il figlio di Murkus, Firas, compositore e suonatore di qanun che vive negli Stati Uniti, è l’autore del nuovo arrangiamento e della nuova produzione di “Dola”. “Ho la sensazione che questa canzone sarà molto amata”, dice Murkus. “È molto orecchiabile. Mentre realizzavamo il video c’erano persone e bambini del villaggio accanto a noi. Ho notato che dopo un po’ tutti la stavano cantando, la conoscevano già a memoria. Il ritornello si basa su un’unica parola che si ripete – dola-dola-dola. Forse gli israeliani penseranno che sto cantando qualcosa che riguarda una levatrice (doula)”, dice ridendo.

Non è che gli israeliani di lingua ebraica avranno molte opportunità di ascoltare “Dola”. Le canzoni di Murkus, sia politiche che non, sono trasmesse raramente, per non dire mai, dalle stazioni radio ebraiche.

Sei stupida’

Alla fine degli anni ’90, mentre lavorava al suo primo album, “Amal”, il produttore Alon Olearchik le suggerì di registrare una cover in arabo di una canzone popolare ebraica. “Ho detto ‘Non voglio farlo. Voglio fare una registrazione che sia la mia carta d’identità’. Lui disse ‘Sei stupida’”, dice Murkus ridendo. “Non lo rimpiango. Non ho trasformato la mia arte in un prodotto. Non sono un’esca per le regole del mercato. Quando penso a cosa devo cantare non faccio nessun calcolo. Sono una persona libera ed ho pagato un prezzo per questo, sia nella società araba che in quella israeliana.”

Poco dopo la sua uscita, “Dola” è stata trasmessa qualche volta su Makan, la stazione radio di lingua araba dell’emittente pubblica Kan. Makan ha trasmesso anche una canzone politica esplosiva da lei prodotta, “Shiye Fil Harav”, ma in versione depurata. È una canzone contro la guerra scritta da Tawfik Zayyad, che termina con queste parole: “Dedico la mia voce ad una sola guerra – la guerra di liberazione.”

Si riferiva alla liberazione della Palestina, la liberazione dei territori occupati”, dice Murkus. Dice che Kan ha messo in dissolvenza la canzone prima del verso esplosivo. Lei non ha protestato contro la censura. “Non ho alzato la voce”, ricorda. “A volte dico che è meglio di niente. Va bene, l’hanno trasmessa. Capisco.”

Dola”, nonostante la sua connotazione politica, è meno dura e molto meno esplicita.

Non viene citato Israele. Non viene citata la Palestina”, dice. “Ognuno dovrebbe chiedersi ‘qual è il Paese che ha espropriato terre? Quale Paese ha calpestato la dignità umana? È forse la Turchia? O il Mandato britannico? Quali altri Stati sono occupanti? Forse gli Stati Uniti? La canzone non lo dice. È una canzone divertente, gradevole, allegra, leggera, ma con un messaggio. È una canzone da cabaret, come quelle di Brecht. Una canzone satirica. Chi più del popolo ebraico può capire l’importanza della satira?”

Il video si apre con Murkus e sua madre, l’attivista Nabiha Murkus, che si aggirano tra vecchi quadri nello studio di suo padre, morto otto anni fa. C’è appeso un ritratto di Lenin. “Questo è pericoloso, vero?”, dice Murkus.

Non credo. Però sembra anacronistico.

Okay. Questo è ciò che c’è in casa. È così che sono cresciuta. La nostra casa era piena di simboli marxisti. Lo studio di mio padre è rimasto quasi così com’era. Ci sono ancora persino le sue ultime sigarette.”

Sua madre ha 81 anni e non è più in grado di partecipare alle manifestazioni come ha fatto per tutta la sua vita. Continua ad essere attiva su Facebook.

Nel video si vedono Murkus e sua madre con in mano una vecchia foto di Samih al-Qasim che parla in piazza. Poi Murkus esce con un gruppo di uomini, donne e bambini nelle strade di Kafr Yasif, dove distribuisce volantini dal titolo “Libertà per le nazioni”.

È un scorcio della storia della mia vita”, dice Murkus. “Sono cresciuta in una casa di attivisti. La mia arte è sgorgata dalla combinazione di due fattori: la musica e l’arte per puro amore, ma anche il portato di ciò che sta avvenendo al mio popolo, di ciò che desidero in quanto donna araba-palestinese ed anche di ciò che avviene nel mondo.

Da ragazza distribuivo volantini, andavo all’associazione per la pace a Kafr Yasif, impaginavo il giornale “Al-Ittihad” e lo distribuivo, andavo nel villaggio arabo Arab al-Aramshe con la rivista culturale “Al-Rad”. Israele non ci prestava attenzione. A scuola non insegnavano la nostra storia. Noi, come minoranza, abbiamo creato letteratura, giornalismo, cultura.”

La narrazione che Murkus esprime nella sua arte è sempre in contrasto con quella israeliana, ma questa non è la sola lotta che lei conduce. Per anni ha combattuto le forze islamiche nella società araba ed in anni recenti si è anche scontrata con il movimento palestinese di boicottaggio.

Successe cinque anni fa, quando il gruppo musicale “Not Standards”, che interpreta in jazz canzoni di musicisti israeliani di primo piano, contattò Murkus offrendole di fare uno spettacolo incentrato sulle sue canzoni. Lei era gratificata dal riconoscimento del suo lavoro da parte dei giovani musicisti jazz ebrei. Ma poche settimane prima dello spettacolo un rappresentante del movimento di boicottaggio la contattò dicendo che se non avesse annullato l’esibizione il movimento l’avrebbe denunciata.

Gli dissi che avrei deciso da sola se cantare o no”, dice. “Gli ho anche detto ‘Non mi avete mai chiamata per congratularvi con me. Perché mi chiamate adesso?’ Capisco questa trappola. Il movimento di boicottaggio dice agli artisti occidentali ‘Non venite in Israele’ e io lo giustifico. È uno Stato di apartheid, uno Stato di occupazione. Ma l’artista palestinese è in difficoltà. Vuole esibirsi, vuole guadagnarsi da vivere. Arriva questo grande gruppo musicale e dice ‘Prendiamo le tue canzoni, con le loro strofe di protesta, comprese le canzoni che parlano del ritorno dei rifugiati.’ Come potrei rifiutare una cosa del genere?” E ha fatto lo spettacolo.

A causa delle circostanze, l’ultima esibizione di Murkus è stata a febbraio.

Da luglio non ho più guadagnato un soldo”, dice. “Sono preoccupata perché non ho la pensione. Ora questo mi addolora”, dice. Dopo pochi istanti si riprende ed aggiunge: “C’è disperazione, ma penso che disperarsi sia un privilegio. Ci sono donne assassinate per strada, persone che vivono in villaggi non riconosciuti, rifugiati che combattono per la sopravvivenza. Ovviamente capisco perché la gente si deprime, ma non vi ci si può crogiolare.”

Quest’estate ha organizzato un gruppo di artisti palestinesi di Israele specificamente per aiutare gli artisti durante la crisi del coronavirus, e più in generale per ‘svegliare’ i loro simili, unirli e promuovere la consapevolezza pubblica delle difficoltà che attraversano, indipendentemente dalla pandemia. Poiché le canzoni dei musicisti palestinesi non sono trasmesse dalle radio israeliane, dice Murkus, bravissimi cantanti sono costretti ad esibirsi durante i matrimoni. Non è questo il modo di creare una cultura musicale.

Una notte in cui ero a casa e in preda alla frustrazione per la situazione della cultura e delle arti ho iniziato a scrivere slogan. Uno dopo l’altro”, dice. “Ho scritto: ‘L’arte è anche un cesto di cibo’. Ho scritto: ‘L’arte rafforza il sistema immunitario’. Ho scritto: ‘L’arte non è una pandemia’. Ho lanciato un gruppo WhatsApp. In due giorni avevo 300 persone nel gruppo. Ho lanciato un altro gruppo e l’ho chiamato Movimento di protesta delle arti.”

Non è la mia protesta

Quando degli artisti ebrei hanno protestato contro il piano del governo di cancellare i sussidi alla cultura, Murkus si è unita alla protesta davanti alla casa del ministro della Cultura. “Ma poi hanno cantato (l’inno israeliano) ‘Hatikva’ e prima di ciò uno dei direttori culturali si è messo a parlare di suo figlio che fa il militare nella Brigata Golani. Me ne sono andata. Sentivo che non era la mia protesta”, dice.

Lei ed altri hanno programmato una manifestazione ad Haifa, ma quattro giorni prima della manifestazione c’è stata l’esplosione al porto di Beirut che ha ucciso più di 200 persone. “Ho cominciato a fare telefonate: ‘Annullate la manifestazione, fate invece una commemorazione’, ricorda Murkus. Si è rifiutata di partecipare ed ha aggiunto uno slogan: ‘Da Haifa a Beirut – Amore’.

Abbiamo aperto la serata con un minuto di silenzio ed una canzone di Fairuz. Poi ci sono stati interventi ed alla fine la gente si è lanciata in una debka (danza popolare). Quando le persone hanno incominciato a tenersi per mano un poliziotto ha detto: ‘Questo non va bene’. Gli ho detto: ‘Lasciateli fare, è da febbraio che non cantano’.”

Murkus dice che la protesta è stata “un momento importante”, ma quando ha cercato di farlo durare ha riscontrato indifferenza tra i suoi colleghi artisti. “Non erano disponibili, improvvisamente tutti erano concentrati su se stessi”, dice amaramente.

Dal punto di vista creativo, Murkus dice che sta evolvendo e si sente molto ispirata. “Ringrazio dio”, dice e poi ride. “Sono atea. Ringrazio la vita”. Ha otto nuove canzoni già pronte e farà presto uscire un nuovo album. “Invece di cucinare faccio canzoni. Sono pazza. La mia cucina è un disastro.”

Dola” è il secondo singolo del suo album in uscita. Il primo, “Nas” (Popolo), scritto e composto da suo figlio Firas, ha uno spirito vicino al jazz. È una canzone complessa, coontorta, contemplativa. “A volte sento come se dentro di me ci fosse una cantante rock che non è ancora emersa. A volte una cantante jazz. Un milione di cose”, dice. Sostiene che un documentario su di lei adesso la fa sentire vecchia. Così si è sentita anche quando Firas ha composto “Nas” su note basse. “Gli ho detto: ‘Che cosa stai insinuando, che sono diventata vecchia? Posso cantare con lo stesso timbro con cui cantavo nel 1995.’ Ma la verità è che a volte mi sembra che la mia voce non abbia la stessa brillantezza. E allora? È come avere qualche capello grigio o qualche chilo in più. Non c’è problema.”

Nas” non ha una valenza politica. È una canzone sull’osservare la gente. “L’ha scritta Firas, non io, ma quando canto immagino qualcuno seduto in un bar ad Haifa, che guarda i bambini che giocano e si accorge che qualcosa non va. È così che mi sento in questo periodo. C’è una disunione tra la gente. Le coppie non vogliono impegnarsi. Tutto è precario. La gente investe nel farsi i muscoli della pancia, gli addominali, nel Botox, nelle camminate, nell’alimentazione, nell’arte culinaria. Non investe nei rapporti. Ed io penso che dobbiamo investire nei rapporti. Parlare, abbracciare: ciò produce resilienza.”

E pensi che sia diverso da come era in passato?

Sì. Questa non è un’epoca di amore”.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Un sonoro messaggio da Betlemme: Porre fine all’occupazione

Sami Abu Shehadeh

26 dicembre 2020 – Middle East Eye

I palestinesi hanno il diritto di godere di un futuro di pace fondato sulla giustizia, la tolleranza e il rispetto

Gli sviluppi politici che hanno avuto luogo nel 2020 dovrebbero essere attentamente compresi e colti al fine di rendere il 2021 un anno migliore per tutti.

L’amministrazione Trump sta lasciando dietro di sé un’eredità di incitamento all’odio e all’uso della religione come arma contro i diritti del popolo palestinese.

Il governo israeliano sarà presto sciolto e in primavera si terranno le quarte elezioni in meno di due anni, ma non vi è alcuna indicazione che le sue politiche di annessione nei territori occupati, la sua istigazione all’odio e alla discriminazione istituzionalizzata contro i cittadini palestinesi di Israele siano destinate a cessare tanto presto.

Questo è il contesto in cui dovremmo intendere il Natale di quest’anno nella Terra Santa occupata: Betlemme, città natale di Gesù, a causa del Covid-19 ha trascorso unBianco Natal” con pochissimi pellegrini e quasi nessuna attività turistica. La città è assediata da migliaia di nuove unità di insediamenti coloniali israeliani illegali in costruzione sulla sua terra.

Soffocare Betlemme

Qualche settimana fa mi sono unito a un gruppo di diplomatici europei per una visita in loco alla colonia illegale di Giv’at Hamatos, che consoliderà la separazione artificiale tra le città bibliche di Betlemme e Gerusalemme. Recentemente il sindaco di Betlemme ha inviato una lettera disperata alle missioni europee chiedendo un’azione urgente per fermare l’insediamento della colonia: “Betlemme merita di essere riportata al suo antico splendore di città aperta alla pace”, ha scritto.

Queste parole significano poco per il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, che sembra intenzionato a soffocare Betlemme, sia espandendo colonie come Har Homa, Gilo o Efrat, tutte illegali secondo il diritto internazionale, o attraverso il muro di annessione, ritenuto illegale dalla Corte Internazionale di Giustizia circa 16 anni fa.

Allo stesso modo, un gruppo di religiosi di Betlemme ha implorato la comunità internazionale di intervenire per fermare il processo di annessione in corso: “I nostri parrocchiani non credono più che qualcuno si schiererà coraggiosamente per la giustizia e la pace e fermerà questa tremenda ingiustizia che si sta verificando davanti a vostri occhi.” Qualcuno dimostrerà che si sbagliano?

Il governo israeliano e la sua macchina propagandistica, tuttavia, faranno ancora una volta un uso cinico del Natale.

Lo stesso Netanyahu ha consegnato un “messaggio natalizio” in cui tratta i cristiani come “stranieri”, eppure stiamo celebrando la nascita di Cristo proprio nella terra che oggi Israele sta occupando.

La propaganda israeliana si dipinge come la “protettrice” dei cristiani in Medio Oriente. Ma niente potrebbe essere più lontano dalla verità.

Questo approccio ipocrita è stato chiaramente rappresentato dall’ ambasciatore israeliano all’Onu Gilad Erdan in un “messaggio di Natale” in cui ha detto: “Spero che trascorriate serene festività e un nuovo anno felice ed in salute”.

Erdan ha sostenuto tutte le politiche che minacciano la presenza cristiana in Israele e Palestina, dagli insediamenti coloniali e dall’annessione alle leggi razziste. E’ stato anche responsabile dell’inserimento dei quaccheri nella lista nera del rifiuto di ingresso nel Paese a un funzionario del Consiglio ecumenico delle Chiese, oltre che ad altre organizzazioni cristiane che sostengono i diritti dei palestinesi e si oppongono alle colonie illegali.

Ne abbiamo viste tante. Dalla Nakba del 1948, che ha avuto un impatto immenso sui cristiani palestinesi – con quasi 50.000 cristiani su 135.000 sfollati – alle realtà attuali del moltiplicarsi delle colonie e delle leggi atte ad impedire l’unificazione delle famiglie palestinesi, Israele ha adottato una politica sistematica contro i suoi cittadini non-ebrei.

Prendiamo come esempio i casi emblematici dei villaggi di Iqrith e Kufr Bir’im.

Miracolo di giustizia

Durante la Nakba [la Catastrofe, cioè la pulizia etnica a danno dei palestinesi nel 1947-48, ndtr.] l’esercito israeliano chiese agli abitanti del villaggio di Iqrith e Kufr Bir’im di lasciare le loro case solo per due settimane. Settantadue anni dopo, tuttavia, essi non possono ancora farvi ritorno. Hanno chiesto giustizia attraverso il sistema giudiziario israeliano solo per ritrovarsi con il governo israeliano che ha bloccato l’attuazione di una risoluzione che avrebbe consentito il loro ritorno.

Il caso è stato sollevato da eminenti vescovi cattolici ed è arrivato persino alla Santa Sede, ma nessun governo israeliano è stato disposto a ripristinare i diritti di quei cittadini palestinesi di Israele che, questo Natale, sono tornati negli unici edifici rimasti in piedi nei rispettivi villaggi, la Chiesa cattolica di Iqrith e la Chiesa maronita di Kufr Bir’im, per celebrarvi il Natale in attesa di un miracolo di giustizia su questa terra.

Questi non sono casi isolati. Quasi il 25% dei cittadini palestinesi di Israele sono sfollati interni. I loro diritti non sono stati onorati semplicemente perché l’uguaglianza tra tutti i cittadini israeliani è qualcosa che non esiste. Decine di leggi consolidano un sistema di discriminazione istituzionalizzato che è stato incoraggiato negli ultimi anni dall’amministrazione Trump.

Sarebbe stato difficile immaginare una legge come la legge sullo “Stato – Nazione ebraico” senza persone come David Friedman [ambasciatore USA in Israele, ndtr.], Jared Kushner [genero e consigliere di Trump per il Medio Oriente, ndtr.] e Jason Greenblatt [consigliere di Trump per Israele, ndtr.].

Realtà dolorose

Oggi possiamo valutare le conseguenze di tali politiche. L’attacco terroristico incendiario che ha preso di mira la chiesa di Getsemani all’inizio di questo mese è stato sventato grazie all’azione efficace dei giovani palestinesi cristiani e musulmani della Gerusalemme est occupata. Questo attacco non deve essere considerato un evento isolato.

Quando i funzionari israeliani sottolineano costantemente che questa è “terra ebraica”, negando i diritti dei cristiani e dei musulmani palestinesi, le persone non dovrebbero sorprendersi per tali eventi. Sembra che l’incendio della Chiesa della Moltiplicazione dei Pani e dei Pesci a Tiberiade nel 2015 non sia stato un monito sufficiente per comprendere le minacce che stiamo affrontando.

La vigilia di Natale il patriarca latino di Gerusalemme ha percorso lo storico tragitto tra la Porta di Jaffa della città e la Chiesa della Natività a Betlemme. Questa processione natalizia potrebbe, paradossalmente, essere chiamata la nuova “Via Dolorosa” [percorso che Cristo avrebbe seguito a Gerusalemme prima della crocifissione, ndtr.] in quanto riflette il dolore e le ingiustizie subite dal popolo palestinese.

Il corteo attraversa la proprietà di centinaia di famiglie di rifugiati cristiani palestinesi a Qatamon [quartiere della zona centro-meridionale della Città Vecchia a Gerusalemme, ndtr.] e Baqaa [quartiere meridionale di Gerusalemme, ndtr.], per poi rientrare nei territori occupati che testimoniano dell’ espansione delle colonie illegali di Giv’at Hamatos e Har Homa, che presto trasformeranno lo storico monastero di Mar Elias [uno dei più antichi monasteri cristiani tuttora attivi sin dalla fondazione, ndtr.], la prima sosta del patriarca, in un’isola dentro un oceano di insediamenti coloniali.

Da lì dovrebbe varcare il muro di annessione attraverso il famigerato Checkpoint 300 di Betlemme. Sono tutte realtà quotidiane che Netanyahu e i suoi amici populisti di destra, sia a livello locale che internazionale, hanno continuato a perpetuare.

Auguri di Buon Anno Nuovo

Sono nato a Giaffa da una famiglia musulmana e sono andato a scuola al Collegio Terra Sancta, una storica istituzione cristiana. Il Natale fa parte della nostra identità nazionale palestinese da generazioni e della convivenza tra fedi diverse.

Mentre l’amministrazione Trump si avvicina al termine e mentre ci stiamo preparando per le nuove elezioni in Israele, il mio sincero augurio per questo nuovo anno è che il messaggio d’amore generato da questa ricorrenza venga esaudito.

Ciò può prendere l’avvio solo con il riconoscimento dei principi di base dell’uguaglianza tra tutti i cittadini israeliani, ponendo contemporaneamente fine all’occupazione che perpetua l’ingiustizia inflitta al popolo della Palestina.

Possano i bambini che celebrano il Natale nella “Terra Santa occupata” godere di un futuro di pace basato su giustizia, tolleranza e rispetto.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Sami Abu Shehadeh

Sami Abu Shehadeh è un membro della Knesset [parlamento, ndtr.] israeliana e fa parte della Lista Unita [coalizione politica israeliana formata da partiti che rappresentano in prevalenza gli arabo-israeliani, ndtr.]

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta )




Cambio del guardiano dei due Stati

Maureen Clare Murphy

24 dicembre 2020 – The Electronic Intifada

Questa settimana il diplomatico bulgaro Nickolay Mladenov ha presentato al Consiglio di Sicurezza dell’ONU la sua ultima relazione in qualità di inviato di pace per il Medio Oriente.

Mladenov ha concluso il suo mandato di sei anni con un desolante aggiornamento sull’implementazione della risoluzione 2334 adottata dal Consiglio di Sicurezza nel 2016, che ribadisce l’illegalità delle colonie israeliane sui territori occupati.

Essa inoltre “sottolinea che la cessazione di ogni attività di colonizzazione da parte di Israele è requisito essenziale per la salvaguardia della soluzione dei due Stati.” La risoluzione richiede agli Stati di distinguere fra Israele e i territori che occupa dal 1967.

Il Consiglio di Sicurezza viene aggiornato ogni tre mesi sull’implementazione della risoluzione.

Lunedì, allo scadere del mandato, Mladenov non aveva buone notizie per l’ONU.

Nella sua ultima relazione, molto simile alle quindici precedenti, elencava casi di espansione delle colonie israeliane e esprimeva diligentemente dispiacere e preoccupazione.

“Nell’ultimo anno le autorità israeliane hanno presentato controversi progetti di colonie che erano rimasti congelati da anni,” ha detto.

“Dopo un rinvio di 8 anni sono stati presentati progetti per circa 3500 unità nell’area strategica E1 [un’area di circa 12 km2 di terra confiscata ai palestinesi che attraversa trasversalmente la Cisgiordania, n.d.t.]. Se tale progetto venisse attuato la Cisgiordania sarebbe tagliata in due parti separate, nord e sud.”

Mladenov ha dichiarato che “il proseguimento di tutte le attività di colonizzazione devono cessare immediatamente.”

Ma come tutte le altre relazioni precedenti neanche questa contiene un appello ad agire per costringere Israele a rispettare le leggi internazionali.

Da inviato speciale Mladenov non ha mai espresso il proprio appoggio per un’inchiesta del Tribunale Penale Internazionale sui crimini di guerra commessi da Israele nelle colonie, né si è mai avvalso della sua posizione per sostenere il database dell’ONU delle aziende che operano nelle colonie.

Anziché richiamare Israele alle proprie responsabilità, il lavoro di Mladenov, sacrificando il concetto di giustizia che impone di sanzionare Israele per le sue violazioni delle leggi internazionali, ha scelto invece di lanciare un appello ipocrita alla “pace”.

Lo ha fatto promuovendo il “coordinamento per la sicurezza” fra Israele e l’Autorità Nazionale Palestinese e ha letteralmente abbracciato i leader israeliani che rendono la vita dei palestinesi un vero e proprio inferno.

Ultimamente Mladenov è arrivato a considerare i diritti dei palestinesi come oggetto di negoziato con Israele, a cui invece non ha chiesto nulla.

Si è riconosciuto al diplomatico il merito di avere impedito un altro massacro su larga scala a Gaza come quello del 2014, ma scegliendo di aderire rigidamente alla dottrina della soluzione negoziale dei due Stati invece di richiamare Israele alle sue responsabilità, Mladenov e il segretario generale dell’ONU permettono che la colonizzazione israeliana delle terre rubate ai palestinesi continui indisturbata.

Mladenov ha accolto con favore – se non addirittura propugnato, come ha fatto di fronte ad una lobby israeliana – gli accordi di normalizzazione fra Israele e monarchie del Golfo, quali gli Emirati Arabi Uniti, ma questi accordi non sono altro che contratti di forniture d’armi che non hanno niente a che vedere con la pace o con l’autodeterminazione dei palestinesi.

Nella sua relazione finale al Consiglio di Sicurezza Mladenov ha tracciato una falsa uguaglianza fra i colonizzatori israeliani e gli abitanti storici della Palestina espropriati, senza Stato e soggetti al dominio coloniale:

“Israeliani e palestinesi, arabi ed ebrei vivono nel conflitto da troppo tempo. La dolorosa realtà della loro lotta si ripercuote su ogni singola famiglia da generazioni,” ha detto Mladenov.

“Perdita e sradicamento fanno parte della storia personale di ogni singola unità familiare.”

In questo modo Mladenov ha distorto quella che è una lotta di liberazione nazionale facendola diventare “un conflitto sul diritto stesso alla coesistenza fra due nazioni.”

Il ruolo della Norvegia

A Mladenov subentrerà Tor Wennesland, l’inviato norvegese per il Medio oriente.

Che cosa possono aspettarsi i sostenitori della giustizia e dei diritti dei palestinesi dal successore di Mladenov?

La Norvegia è presidente permanente dell’Ad Hoc Liaison Committee – Commissione Speciale di Collegamento (AHLC), che coordina i donatori internazionali alla Autorità Nazionale Palestinese, fra cui UE, ONU e USA.

Questo comitato nacque in seguito ai negoziati fra Israele e OLP promossi dalla Norvegia negli anni ‘90 del Novecento che portarono agli accordi di Oslo, funzionali esclusivamente agli interessi della parte più forte.

“Le due parti non erano alla pari in nessun senso del termine né vennero trattate come pari dai norvegesi,” furono le conclusioni di una ricerca dello studioso Hilde Henriksen Waage per l’Istituto di Ricerca della Pace di Oslo.

Il compianto studioso palestinese Edward Said, che si dimise dal comitato esecutivo dell’OLP per protestare contro l’iniziativa, descrisse gli accordi di Oslo come “strumento della capitolazione palestinese.”

I negoziati di Oslo furono fondamentalmente asimmetrici ed imposero una falsa parità fra occupanti e occupati, colonizzatori e colonizzati, paradigma fondamentalmente disonesto e viziato che è stato utilizzato dall’ONU come quadro di riferimento politico.

Durante l’iniziativa di Oslo la Norvegia agì di fatto come agente di Israele, richiedendo concessioni ai palestinesi senza mettere mai in discussione i punti fermi di Israele. Dopo quegli accordi ottenne l’ambita nomina alla presidenza permanente di AHLC.

“Avendo un’influenza marginale sui donatori,” la Norvegia fu vista da USA e UE, che aspiravano entrambi a quella carica, come la candidata di compromesso.

Ma, come osserva Waage, nella sua veste di presidente del Comitato la Norvegia ha agito su delega USA: “Gli USA gestivano l’attività, la Norvegia fungeva da suo collaboratore e messaggero.”

Il lato grottesco del percorso di Oslo si riflette nelle pratiche correnti del Comitato.

L’AHLC ha incluso nelle proprie conferenze dei donatori alti rappresentanti delle forze armate israeliane responsabili di creare proprio le tragiche condizioni che rendono necessari gli aiuti internazionali ai palestinesi. Così dei criminali di guerra sono diventati parti in causa nel determinare quali aiuti ricevano i palestinesi e come li ricevano.

Mentre si atteggia a mediatore per gli aiuti ai palestinesi, la Norvegia vende armi a Israele e tratta gli aguzzini di Gaza come controparti con cui aspira a cooperare.

Lo Stato scandinavo si oppone al movimento BDS, che sostiene i diritti dei palestinesi, e l’attuale governo ha perseguito un ulteriore allineamento con Israele.

Non vi è motivo di ritenere che il successore di Mladenov si discosti dalla prassi di non fare alcuna richiesta ad Israele pretendendo invece di tutto dai palestinesi.

Per quanto ci possano essere differenze nello stile e nel curriculum dei vari inviati speciali dell’ONU, alla fine della fiera questi diplomatici vengono nominati per implementare un assetto che favorisce intrinsecamente Israele a discapito dei diritti più basilari dei palestinesi.

(traduzione dall’inglese di Stefania Fusero)




Se fosse palestinese, persino Babbo Natale avrebbe bisogno di un visto e di un permesso di viaggio

Eman Abusidu

24 dicembre 2020 – Middle East Monitor

Mentre in tutto il mondo i cristiani celebrano il periodo natalizio come momento di gioia e rinascita spirituale, l’occupazione israeliana rende le cose difficili per i cristiani palestinesi. Anche se la Palestina, non dimentichiamolo, è il luogo natale di Gesù (la pace sia con Lui), i cristiani locali sono perseguitati dalle forze di sicurezza israeliane. Israele, tramite politiche discriminatorie, arresti arbitrari, prendendo di mira le chiese e con i checkpoint militari, applica intenzionalmente una politica che mira a espellere i cristiani dalla Cisgiordania occupata e dalla Striscia di Gaza, così come da Gerusalemme. I requisiti per ottenere i permessi per andare a visitare luoghi o persone e viaggiare fanno semplicemente parte della più ampia politica israeliana volta a negare ai palestinesi la libertà di movimento e di accesso ai loro luoghi religiosi.

Secondo un rapporto del 2019 dell’Ufficio centrale di statistica palestinese, in Cisgiordania vivono oltre 40.000 cristiani palestinesi, che due anni prima erano 47.000. Nella Striscia di Gaza, la popolazione cristiana si è ridotta dai circa 3.000 di 10 anni fa ai circa 1.000 di oggi, sui 2 milioni di abitanti del piccolo territorio. Prima degli accordi di Oslo c’erano circa 5.000 cristiani a Gaza. Sia i musulmani che i cristiani sanno che il calo è dovuto all’occupazione israeliana.

L’arcivescovo Atallah Hanna, capo della diocesi di Sebastia della Chiesa greco-ortodossa a Gerusalemme, ha condannato gli abusi dell’occupazione israeliana. “Ci sono gravi violazioni dei diritti umani del popolo palestinese, persino in occasione dei loro eventi religiosi,” ha detto l’arcivescovo Hanna. “L’occupazione israeliana ha costruito barriere razziste e militari per impedire a musulmani e cristiani di visitare i loro luoghi sacri e di preghiera.”

Il muro dell’apartheid e altri ostacoli degli israeliani rendono impossibile ai palestinesi di viaggiare facilmente, per esempio, dalla chiesa della Natività a Betlemme al Santo Sepolcro senza un permesso speciale delle autorità di occupazione. In molte occasioni si impedisce ai palestinesi di andare alla chiesa del Santo Sepolcro a Gerusalemme e in altri luoghi sacri, inclusa la moschea di Al-Aqsa.

“Noi respingiamo il sistema di permessi che le autorità di occupazione israeliane danno e tolgono a chi vogliono loro,” ha detto il leader ortodosso. “Gerusalemme è la nostra città e la nostra capitale per tutti, cristiani e musulmani.”

L’occupazione rappresenta una minaccia sia per i musulmani che per i cristiani palestinesi. Le stesse crudeli punizioni collettive sono imposte su tutti durante le rispettive feste religiose. Come la loro controparte cristiana in Cisgiordania, i musulmani non possono entrare a Gerusalemme senza un permesso speciale delle autorità israeliane.

E non sono solo le persone religiose a essere prese di mira. Israele vuole cacciare dalla propria terra tutti i palestinesi di ogni religione o atei. Secondo la Legge dello Stato-Nazione ebraico del 2018 è chiaro che, nella Palestina occupata, solo gli ebrei hanno diritto all’autodeterminazione.

“Quando si tratta di ingiustizia e tirannia le autorità di occupazione non fanno distinzione fra un musulmano e un cristiano,” spiega Hanna. “Siamo tutti presi di mira, i nostri luoghi santi, istituzioni, vite, feste. Ma nonostante tutte queste difficoltà, noi celebreremo il Natale.”

Nonostante sia sotto assedio e separata dal resto della Palestina occupata, la Striscia di Gaza non è immune a tali arbitrarie misure israeliane. I cristiani di Gaza hanno bisogno di un permesso di viaggio per andare a Gerusalemme. Israele di solito respinge tutte le domande per motivi di “sicurezza”.

Comunque, ad alcune centinaia di cristiani palestinesi potrebbe essere permesso di andare da Gaza a Betlemme e Gerusalemme per unirsi ad altri cristiani e celebrare il Natale. L’anno scorso, Israele non l’ha permesso a nessuno. Quest’anno, a causa dell’epidemia di coronavirus, non è stata presentata nessuna domanda. Ci sono stati oltre133.000 casi di Covid-19 nei territori palestinesi occupati, incluse Cisgiordania, Gerusalemme Est e Striscia di Gaza.

Kamel Ayyad, il capo dell’ufficio di pubbliche relazioni della chiesa ortodossa di Gaza, mi ha detto che normalmente ogni anno la chiesa fa domanda per i permessi tramite l’Associazione Civile palestinese a Gaza City. “Gli israeliani respingono la maggior parte delle richieste, per ragioni di ‘sicurezza’,” ci conferma. Ayyad ha reiterato il diritto dei cristiani di Gaza a visitare i loro luoghi sacri. “Non è un’ironia che sia permesso ai cristiani di tutto il mondo e non ai palestinesi?”

L’arcivescovo Hanna fa notare che la pandemia finirà. “È solo questione di tempo, ma cosa ne sarà della catastrofe dell’occupazione israeliana che prende di mira i nostri giovani e ragazzi nella loro fede, nella loro libertà e nelle loro vite? Quando finirà tutto questo?”

Questa è una domanda importante che gli Stati arabi che hanno normalizzato le relazioni con Israele stanno totalmente ignorando. Israele invita turisti da tutto il mondo a visitare la Terrasanta, ma vieta alla popolazione indigena il diritto di viaggiare e vivere liberalmente. Sono sicuro che persino Babbo Natale, se fosse un palestinese, avrebbe bisogno di un visto e di un permesso di viaggio.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale del Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Con la legge dello Stato-Nazione la destra religiosa israeliana decide chi è ebreo

Etan Nechin

20 dicembre 2020 – +972

La legge israeliana sullo Stato-Nazione non vede l’ebraismo come una religione differenziata, ma come un’identità che garantisce la supremazia su altre persone, anche su altri ebrei.

Questa settimana la Corte Suprema israeliana dovrebbe tenere la prima udienza riguardo a 15 ricorsi contro la legge sullo Stato-Nazione ebraico. Approvata nel luglio 2018, la Legge Fondamentale, che ufficialmente definisce Israele come patria nazionale esclusivamente del popolo ebraico, è sempre più utilizzata per spogliare i cittadini palestinesi ed escludere la loro lingua e cultura dalla società israeliana.

In quanto autodefinitosi “Stato Ebraico”, fin dall’inizio ampie parti delle leggi israeliane, comprese quelle sulle proprietà degli assenti (1950), sul ritorno (1950) e sulla cittadinanza e l’ingresso in Israele (2003), si sono basate sull’esclusivismo di un determinato popolo. In questo senso la legge non è uno snaturamento, ma la continuazione delle politiche dello Stato nei confronti dei palestinesi negli ultimi settant’anni.

Eppure questa legge rappresenta nondimeno una svolta preoccupante. Mentre le ingiustizie del 1948 e dell’occupazione del 1967 erano verosimilmente dovute a circostanze storiche complesse e altre leggi discriminatorie sono state scritte in modo meno esplicito, la legge dello Stato-Nazione è un documento giuridico che evidenzia l’inequivocabile desiderio di Israele di sancire la supremazia razziale e religiosa.

Tuttavia la legge non solo rafforza la diseguaglianza sistematica, intende anche ridefinire radicalmente cosa significhi essere ebreo. Essa cementa la gerarchia razziale all’interno delle comunità ebraiche in Israele cancellando l’eredità culturale degli ebrei [originari] dei Paesi del Medio Oriente e favorendo la definizione nazionale di ebraismo rispetto ai suoi significati religiosi. Pertanto l’imminente udienza della Corte non solo sarà una lotta per l’anima di Israele come Nazione, ma per ciò che significano ebraismo ed ebraicità.

Da quando nel 1947 il primo capo del governo israeliano David Ben Gurion inviò la sua cosiddetta lettera dello “status quo” ai capi religiosi ebrei ortodossi, in Israele c’è stato un patto di lungo termine tra gruppi laici e religiosi per evitare di modificare la definizione corrente di ebraismo.

Secondo questo accordo, la società secolare avrebbe adottato restrizioni riguardo a trasporti di sabato [i precetti religiosi ortodossi vietano gli spostamenti di sabato, ndtr.], leggi relative al matrimonio e alla morte ed altre. In cambio le comunità religiose avrebbero ignorato certe deviazioni dalle norme religiose imposte dal Gran Rabbinato, la più alta autorità religiosa ebraica di Israele, come l’immigrazione di centinaia di migliaia di ebrei dall’ex-Unione Sovietica che non sono stati riconosciuti come ebrei dal rabbinato.

La definizione giuridica di chi è ebreo attraverso la legge dello Stato-Nazione porrà fine a questa situazione. Approvata dal governo più di destra e nazional-religioso nella storia del Paese, la legge mette in evidenza l’ipocrisia della destra religiosa in Israele: l’unica definizione che può proporre del fatto di essere ebreo è “non arabo”. L’ebraismo non viene definito come una religione dinamica con espressioni in tutto il mondo, ma un’identità statale che garantisce la superiorità su un popolo con fedi diverse sotto il suo potere, così come sugli ebrei che vivono fuori da Israele. In altre parole in Israele ebraismo è sinonimo di potere.

Definizione ristretta di ebraismo

Se la Corte Suprema conferma la Legge Fondamentale, Israele raggiungerà un punto di non ritorno. Non solo sancirà dal punto di vista costituzionale la supremazia razziale e religiosa, ma la legge potrebbe tagliare i legami di Israele con le comunità ebraiche nel resto del mondo, su cui per decenni lo Stato si è basato per far propendere a proprio favore l’opinione pubblica internazionale.

Per la società israeliana la “diaspora” non esiste. È significativo che in Israele l’unico viaggio all’estero approvato dallo Stato per gli studenti ebrei non sia per incontrare altri ebrei di New York o Parigi, ma ad Auschwitz. Israele vede se stesso come l’unico luogo in cui gli ebrei possono esistere e la sua ristretta definizione di ebraismo come l’unica legittima.

Allo stesso modo il rabbinato israeliano ha sempre escluso la maggior parte delle comunità ebraiche degli Stati Uniti e non riconosce l’ebraismo riformato e conservatore. Come se fosse per una coincidenza divina, lo stesso giorno in cui è stata approvata la legge dello Stato-Nazione, la polizia israeliana ha arrestato un rabbino conservatore per aver celebrato un matrimonio non riconosciuto dal rabbinato.

Il disprezzo è ripreso dai principali politici israeliani. In riferimento agli ebrei riformati e conservatori, il ministro degli Interni, l’ultraortodosso Aryeh Deri, ha affermato che “se quello è ebraismo, non ci voglio avere a che fare,” aggiungendo che gli ebrei non-ortodossi stanno portando alla fine dell’ebraismo. Il politico di estrema destra Naftali Bennett ha sostenuto che la vera minaccia che gli ebrei della diaspora devono affrontare non sono il terrorismo interno o l’Iran, ma l’assimilazione. Persino dopo il massacro della Tree of Life [sinagoga attaccata da un estremista di destra a Pittsburgh, negli USA, ndtr.] nel 2018, molti politici, pur porgendo le condoglianze, non hanno definito la Tree of Life una sinagoga.

I politici israeliani si scagliano contro l’Iran per il suo potere teocratico, ma lo stesso Israele è uno dei 22 Paesi più restrittivi al mondo dal punto di vista religioso. Quando la religione viene utilizzata come una clava politica, inevitabilmente ciò riguarda quelli che non condividono la fede; quando diventa un’ideologia di Stato, esclude le persone che non condividono tutti i suoi dogmi.

Di conseguenza, anche se cittadini ebrei e palestinesi di Israele sono in teoria liberi di seguire la propria sorte religiosa e civile, in realtà qualunque scostamento dall’ideologia dello Stato significa correre il rischio di essere privati dei propri diritti.

In Israele e all’estero spetta ad ogni ebreo opporsi a questa legge e a queste misure per fare in modo che l’ebraismo continui ad essere una religione vitale e differenziata. Se i termini “ebreo e democratico” sono sempre stati sul filo del rasoio, allora questa decisione potrebbe fare la differenza che li separerà per sempre.

Etan Nechin, che vive a New York, è uno scrittore e giornalista israeliano della The Bare Life Review, un giornale letterario di immigrati e rifugiati. I suoi testi e commenti sono comparsi su Boston Review, The Independent, Washington Post, The New York Times, Jewish Currents, Haaretz e altri.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




I palestinesi lasciati in attesa mentre Israele è pronto a partire con la vaccinazione anti-COVID

17 dicembre 2020 – Al Jazeera

Israele ha raggiunto un accordo con Pfizer per la fornitura di otto milioni di dosi di vaccino, sufficienti per coprire circa metà della sua popolazione

Dopo che il primo ministro Benjamin Netanyahu si è messo personalmente in contatto con il capo del gigante farmaceutico statunitense Pfizer, la prossima settimana Israele inizierà a lanciare una vasta campagna di vaccinazione anti-coronavirus.

Ma i milioni di palestinesi che vivono sotto il controllo israeliano dovranno attendere molto di più.

Gli israeliani potrebbero tornare presto alla vita normale e alla ripresa economica, anche se il virus continua a minacciare città e villaggi palestinesi a pochi chilometri di distanza.

Israele ha raggiunto un accordo con Pfizer per la fornitura di otto milioni di dosi del vaccino da poco approvato, sufficienti a coprire quasi metà della popolazione israeliana di circa nove milioni, in quanto ogni persona ha bisogno di due dosi.

Israele possiede unità mobili per la vaccinazione con refrigeratori che come richiesto possono tenere a meno 70 gradi le dosi [di vaccino] della Pfizer, sviluppate con l’impresa tedesca BioNTech. Prevede di iniziare le vaccinazioni la prossima settimana, con un massimo di oltre 60.000 iniezioni al giorno.

All’inizio del mese Israele ha raggiunto un accordo separato con Moderna [altra industria farmaceutica, ndtr.] per comprare sei milioni di dosi del suo vaccino, sufficienti per altri tre milioni di israeliani.

La campagna di vaccinazione israeliana includerà i coloni ebrei, che sono cittadini israeliani e che vivono nella Cisgiordania illegalmente occupata, ma non i 2,5 milioni di palestinesi del territorio.

Essi dovranno aspettare l’Autorità Nazionale Palestinese, a corto di fondi, che in base ad accordi di pace provvisori raggiunti negli anni ’90 amministra parti della Cisgiordania occupata.

Nella guerra del 1967 in Medio Oriente Israele ha conquistato la Cisgiordania, la Striscia di Gaza e Gerusalemme est, territori che i palestinesi vogliono per il loro futuro Stato.

L’ANP spera di avere i vaccini attraverso una collaborazione dell’OMS con l’organizzazione umanitaria nota come COVAX, che intende fornire vaccini gratis fino a un massimo del 20% della popolazione di Paesi poveri, molti dei quali sono stati particolarmente colpiti dalla pandemia.

Ma il programma ha garantito solo una parte delle due milioni di dosi che l’ANP spera di comprare nel prossimo anno, deve ancora confermare un qualche accordo concreto e scarseggia di fondi.

I Paesi ricchi hanno già prenotato circa nove miliardi dei 12 miliardi di dosi che si stima l’industria farmaceutica sia in grado di produrre il prossimo anno.

A complicare la questione, i palestinesi hanno solo un’unità di refrigerazione in grado di stoccare il vaccino Pfizer-BioNTech, nella città-oasi di Gerico.

Ali Abed Rabbo, importante dirigente del ministero della Salute palestinese, ha affermato che l’ANP è in trattative con Pfizer, Moderna, AstraZeneca e i fabbricanti del vaccino russo, per lo più non testato, ma deve ancora firmare accordi, oltre a quello con COVAX.

Secondo Rabbo, l’ANP spera di vaccinare il 20% della popolazione con COVAX, iniziando dai lavoratori della sanità.

“Gli altri dipenderanno dalle forniture che la Palestina riuscirà ad ottenere sul mercato mondiale, e stiamo lavorando con varie imprese,” afferma.

Sia Israele che l’Autorità Nazionale Palestinese hanno lottato per contenere i propri focolai, che si sono alimentati a vicenda in quanto la gente viaggiava avanti e indietro, soprattutto le decine di migliaia di lavoratori palestinesi che hanno un impiego in Israele.

Israele ha registrato più di 366.000 casi tra cui almeno 3.000 morti.

L’Autorità Nazionale Palestinese ha denunciato più di 85.000 casi nella Cisgiordania occupata, tra cui 800 morti, e nelle ultime settimane l’epidemia si è intensificata.

La situazione è ancora più grave a Gaza, che ospita due milioni di palestinesi e che da quando Hamas è stato eletto nel 2007 è sottoposta a un blocco israeliano ed egiziano.

Lì le autorità hanno comunicato più di 30.000 casi, tra cui 220 morti.

Con i governanti di Hamas a Gaza ignorati dalla comunità internazionale, anche il territorio dovrà fare affidamento sull’Autorità Nazionale Palestinese.

Ciò significa che potrebbero passare parecchi mesi prima che nell’impoverita striscia costiera venga effettuata una vaccinazione su vasta scala.

Il vice-ministro della Salute israeliano Yoav Kisch ha detto a Kan Radio [rete radiofonica pubblica, ndtr.] che Israele sta lavorando per ottenere un surplus per gli israeliani e che “se dovessimo constatare che le esigenze di Israele sono state soddisfatte e avessimo un’ulteriore disponibilità [di vaccini], sicuramente prenderemmo in considerazione di aiutare l’Autorità Nazionale Palestinese.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




La guerra di Israele agli aiuti europei per i palestinesi.  

Asa Winstanley

 

18 dicembre 2020 – Middle East Monitor

 

Chiunque visiti la Cisgiordania, come ho fatto io in diverse occasioni, avrà notato qualcosa di piuttosto comune, specie nelle comunità rurali: insegne, cartelloni, targhe che pubblicizzano l’Unione Europea e altri donatori nei confronti delle comunità palestinesi.

L’esempio più insidioso di questo fenomeno neocoloniale è l’Agenzia USA per lo Sviluppo Internazionale (USAID) che, essendo in realtà controllata dal Dipartimento di Stato, è una ramificazione del “soft power” dell’impero americano.

USAID promuove in ogni parte del mondo dei cambi di regime e gli “interessi nazionali” americani – un eufemismo che sta in realtà per gli interessi delle maggiori corporazioni statunitensi – sotto la parvenza di aiuti umanitari. Una volta fotografai un manifesto USAID a Ramallah che era stato deturpato dalla scritta in inglese: “Non vogliamo il vostro aiuto”. Questo legittimo scetticismo palestinese nei confronti degli “aiuti” occidentali è motivato da un semplice fatto fondamentale: la causa palestinese non è assolutamente una mera questione umanitaria: è una questione politica.

Gli aiuti di USA e Europa ai palestinesi hanno un vizio di fondo, ritengo intenzionalmente, in quanto si pongono come se i palestinesi fossero stati sradicati da un uragano, dalla siccità o da altra calamità naturale. Sappiamo bene invece che i profughi palestinesi furono cacciati dalle proprie terre in seguito alla pulizia etnica perpetrata dal braccio armato di un movimento politico razzista, il sionismo. Prima e dopo la fondazione di Israele nel 1948, circa 800.000 palestinesi furono cacciati dalle proprie case sotto la minaccia delle armi. Questo non fu una calamità naturale; fu una decisione deliberata presa a freddo dai sionisti.

In quel contesto molti palestinesi vennero uccisi, e le loro case e villaggi furono cancellati dalle carte geografiche dal nascente Stato di Israele. Da allora Israele ha impedito sistematicamente a loro e ai loro discendenti di tornare nelle loro terre – che è loro diritto legittimo – semplicemente perché non sono ebrei. 

Gli aiuti destinati dall’Europa ai palestinesi sembrano più tesi a placare la coscienza dei progressisti europei che ad aiutare davvero i palestinesi nel lungo termine. La UE ostenta quanto “aiuti” e finanzi progetti palestinesi nella Cisgiordania occupata, ma questi progetti ignorano sia il fondamentale problema dell’occupazione israeliana sia la politica coloniale israeliana che costringe costantemente gli abitanti originari fuori dalle loro terre.

Di fatto, sia le scuole palestinesi sia altri progetti finanziati con gli aiuti della UE vengono abitualmente demoliti, danneggiati o rubati da Israele, che provvede quindi a sostituirli con insediamenti illegali. Questa settimana il mio collega David Cronin, che lavora a The Electronic Intifada, appellandosi alla libertà di informazione, è riuscito a quantificare la portata di questa distruzione degli aiuti della UE, rivelando che i danni e i furti perpetrati da Israele solo negli ultimi cinque anni ammontano complessivamente a più di 2 milioni di dollari. Dio solo ne conosce la cifra totale.

Cronin sostiene inoltre che quasi 20 anni fa i ministri degli Esteri della UE dichiararono pubblicamente che “si riservavano il diritto di richiedere il risarcimento” ad Israele per tali demolizioni “nelle sedi appropriate”. Tuttavia quella debole contestazione non si è tradotta in nulla di fatto.

Eppure, nonostante tali distruzioni vadano avanti da decenni, la UE continua a finanziare progetti in Cisgiordania, sapendo bene che probabilmente essi verranno prima o poi distrutti dall’esercito israeliano. E nel frattempo la UE non fa nulla per affrontare la causa che è alla radice di questa devastazione, vale a dire l’occupazione israeliana.

A dire il vero, la UE fa esattamente il contrario. L’Europa continua a premiare Israele con generose donazioni, sovvenzioni e investimenti scientifici e militari, per non parlare del sostegno politico e diplomatico. Tutto ciò mentre Israele, a tutti gli effetti, porta avanti una guerra contro i progetti UE che dovrebbero in teoria aiutare le comunità palestinesi.

 La nuova ambasciatrice israeliana in Gran Bretagna, l’oltranzista di destra Tzipi Hotovely, invoca abitualmente la distruzione delle comunità palestinesi per far largo alle colonie e ad altre infrastrutture funzionali alla occupazione israeliana in Cisgiordania. Inoltre, come altri politici israeliani, attacca e demonizza frequentemente sia la UE sia associazioni per i diritti umani guidate da dissidenti israeliani, questi ultimi perché, sostiene lei, sono il prodotto di un efferato complotto finanziato con fondi europei. L’anno scorso, in un video particolarmente scioccante, Hotovely è arrivata addirittura ad usare termini esplicitamente antisemiti per attaccare uno di questi gruppi ebraici israeliani per i diritti umani.  

 Ma badate bene, la UE non è la vittima innocente di questa guerra che Israele conduce contro gli aiuti finanziati dall’Europa. I politici e i burocrati europei sono anzi parte della farsa.

La priorità deve essere la fine dell’occupazione e del sistema di apartheid imposto ai palestinesi. Il minimo che Bruxelles può e deve fare è smettere immediatamente di sostenere Israele.

 Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale del Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Stefania Fusero)

 

 




Una lobby del partito democratico americano difende la demolizione israeliana di un villaggio palestinese

Alex Kane

16 dicembre 2020 – +972

 Un rapporto svela che Democratic Majority for Israel [Maggioranza Democratica Per Israele] respingendo le critiche del proprio partito alla maggiore demolizione in Cisgiordania negli ultimi dieci anni ne incolpa i palestinesi.

Quando il 3 novembre i bulldozer israeliani hanno preso d’assalto e demolito il paesino di Humsa al-Fuqa (Khirbet Humsa), in Cisgiordania, 11 famiglie palestinesi sono rimaste senza casa, ma hanno anche attirato l’attenzione di alcuni Democratici a Washington.

Due settimane dopo le demolizioni, avvenute approfittando del giorno delle elezioni USA, Mark Pocan, parlamentare del Wisconsin, e 39 dei suoi colleghi del Congresso hanno inviato una lettera al Segretario di Stato, Mike Pompeo, criticando le azioni di Israele che costituiscono “una grave violazione del diritto internazionale” e un esempio di “annessione strisciante.” Nella lettera Pocan chiedeva anche che Pompeo verificasse se Israele aveva usato macchinari di fabbricazione americana.

La demolizione di Humsa al-Fuqa ha attirato grande attenzione nelle ultime settimane. Nella Cisgiordania occupata, l’esercito rade al suolo regolarmente edifici palestinesi senza permessi israeliani, che sono comunque praticamente impossibili da ottenere. Ma questa demolizione in particolare, approvata dalla Corte Suprema, ha causato la distruzione di 76 strutture, il numero più grande in una singola operazione negli ultimi dieci anni.

Non ci sono scuse per l’annessione de facto di territori palestinesi e l’America non può più restare in silenzio davanti a questi abusi dei diritti umani,” ha detto Pocan in una dichiarazione dopo la pubblicazione della lettera.

Ora il gruppo di pressione Democratic Majority for Israel [Maggioranza Democratica Per Israele] (DMFI) sta cercando di sminuirne il contenuto. In una nota mandata a dipendenti Democratici del Congresso e in possesso di +972 Magazine, il gruppo dice che i membri che avevano firmato la lettera di Pocan erano “male informati,” e continua dando la colpa ai palestinesi che abitavano nel villaggio perché “sapevano di essere in pericolo,” giustificando in effetti l’operazione.

Il documento ci dà l’occasione di dare un’occhiata al dibattito sulla Palestina che si fa sempre più acceso fra i membri progressisti e quelli conservatori del partito Democratico e di vedere come DMFI stia tentando di intralciare i tentativi di criticare l’occupazione israeliana a Washington.

DMFI è l’ultima lobby filoisraeliana ad aprir bottega a Washington, ma i suoi membri non sono degli sconosciuti in parlamento. Guidati dal consigliere democratico di lungo corso Mark Mellman, la leadership e il consiglio di amministrazione sono affollati di affiliati con stretti legami con l’American Israel Public Affairs Committee (AIPAC)  [Comitato per gli Affari Pubblici Americani e Israeliani], l’influente gruppo lobbistico israeliano a Washington.

È assolutamente ingiustificabile trovare scuse a chi butta la gente fuori casa nel mezzo di una pandemia globale,” dice Emily Mayer, responsabile politico di IfNotNow, gruppo ebraico anti-occupazione che ha esaminato la nota di DMFI. “Ma non è una sorpresa perché il documento sintetizza perfettamente la natura di DMFI: dietro la facciata progressista ripete argomenti pericolosi che giustificano lo status quo.”

Giustificare le demolizioni israeliane

Le due pagine di DMFI a commento della lettera di Pocan sono state diffuse il primo dicembre. Nel documento si sottolinea che la demolizione di Humsa al-Fuqa è avvenuta nell’Area C della Cisgiordania che, secondo gli accordi di Oslo, si trova “sotto il pieno controllo israeliano”. Non si fa nessun riferimento al fatto che, secondo il diritto internazionale, la zona, come il resto della Cisgiordania, è sotto occupazione militare.

Facendo eco alla giustificazione fornita dall’esercito israeliano, il documento continua dicendo che la comunità era stata “illegalmente collocata nel centro di un’area che dal 1972 è usata dall’esercito israeliano per esercitazioni militari operative,” e che per questo motivo, “coloro che vivono nell’accampamento si sono consapevolmente messi in pericolo.”

Inclusa nel documento c’è una foto aerea dove è segnata la zona di fuoco dell’esercito israeliano, che include Humsa, presa dal sito di Regavim, un gruppo di coloni di destra il cui logo appare nell’immagine nell’angolo in alto a sinistra.

Forse sarebbe stato meglio se il governo israeliano si fosse astenuto da un simile passo o lo avesse fatto diversamente,” scrive DMFI, “ma cercare di etichettare la rimozione di queste 7 tende e 8 recinti per animali come ‘illegale’ o ‘annessione strisciante’ o (come hanno fatto alcuni) ‘pulizia etnica’ riflette ignoranza dei fatti o l’intenzione di creare ostilità contro Israele malgrado i fatti.”

Il testo conclude che una “soluzione negoziata dei due Stati” porrebbe fine alle demolizioni e invita l’Autorità Nazionale Palestinese a “ritornare al tavolo dei negoziati.”

In risposta alle domande di +972, Mark Mellman, il direttore di DMFI, ha detto che la sua organizzazione “è fortemente schierata a favore di una soluzione negoziata dei due Stati, il che include critiche pubbliche e private alla proposta di annessione del governo israeliano, allo sviluppo di colonie nel corridoio “E-1” (Gerusalemme est) e al cambiamento delle politiche USA del Segretario Pompeo a favore di un’espansione delle colonie.”

Mellman continua: “Il documento di DMFI chiarisce che noi non prendiamo posizione sulla distruzione dell’accampamento, ma segnaliamo invece i problemi nel contenuto della lettera al Congresso e l’intento dei suoi autori che non hanno interpretato correttamente i fatti, usando un linguaggio esagerato. Nel sottolineare che gli abitanti non hanno diritti legali e che hanno montato il loro accampamento in una zona destinata da 48 anni per esercitazioni militari, noi seguivamo le sentenze della Corte Suprema Israeliana dell’anno scorso che abbiamo citato e che, in altri casi, aveva giustamente impedito ai coloni ebrei di sfrattare dei palestinesi da terre di loro proprietà.”

Democratici che si mascherano a favore dell’impunità”

Dagli anni ‘70, l’esercito israeliano ha dichiarato che il 18% della Cisgiordania occupata è una zona per esercitazioni militari. Secondo Al-Haq, associazione palestinese per i diritti umani, lì vivono circa 6200 palestinesi con un grave rischio di demolizioni ed evacuazioni. Al-Haq dice che le minacce israeliane di sfratti e le restrizioni all’accesso alle risorse “creano un’atmosfera oppressiva con cui si fa pressione sui palestinesi perché abbandonino queste aree e si trasferiscano altrove.” Nel frattempo, la Corte Suprema ha come al solito approvato lo sfratto di queste comunità, legalizzando in pratica l’uso di queste zone da parte dell’esercito quale pretesto per espellere i palestinesi.

Debra Shushan, direttrice del gruppo progressista per gli affari governativi, in un documento di risposta di J Street [gruppo ebraico statunitense sionista ma contrario all’occupazione, ndtr.] fatto circolare fra i parlamentari democratici e ottenuto da +972 Magazine, respinge le affermazioni di DMFI. Lei asserisce che le tesi di DMFI “rispecchiano quelle di Regavim” e che “Israele ha destinato molte zone per esercitazioni per cacciare comunità palestinesi e mantenere il controllo da parte di Israele.”

DMFI sta cercando di proteggere Israele dalle critiche sulle sue politiche che mettono a repentaglio la prospettiva di uno Stato palestinese e di una fine negoziata al conflitto israelo-palestinese,” conclude Shushan. “Minando la soluzione dei due Stati usando fonti e argomenti di destra pro-annessione, la difesa di DMF delle demolizioni ed espulsioni forzate non solo va contro i valori democratici, ma danneggia il futuro di Israele.”

Le attività di DMFI, fondato nel gennaio 2019, vogliono zittire le critiche del partito Democratico verso Israele. Nei quasi due anni di esistenza ha speso milioni di dollari per difendere i Democratici da fondamentali accuse da parte di progressisti che difendevano i diritti dei palestinesi. Secondo The Intercept [sito di controinformazione statunitense, ndt.] DMFI, con l’aiuto di donatori dell’AIPAC [American Israel Public Affairs Committee, Comitato per gli Affari Pubblici Americano-Israeliano, principale organizzazione della lobby filoisraeliana, ndtr.] ha anche speso molto in annunci che attaccavano Bernie Sanders durante le primarie presidenziali 2020; sebbene essi non citassero Israele, Sanders nella sua campagna elettorale ha ripetutamente criticato il governo israeliano.

Nel frattempo in Campidoglio DMFI ha duramente attaccato parlamentari democratiche progressiste come Betty McCollum [che ha presentato un disegno di legge per subordinare gli aiuti militari USA a Israele al rispetto dei diritti dei minori palestinesi, ndtr.] e Rashida Tlaib [parlamentare di origine palestinese appartenente al gruppo progressista “The Squad”, ndtr.], per la loro difesa dei diritti dei palestinesi mentre proclamava di sostenere “un progetto di politiche progressiste.”

L’AIPAC è diventata così dannosa per i Democratici dopo l’instancabile lavorio per sabotare il primo presidente afroamericano che sono saltati fuori altri gruppi che sperano di portare avanti un progetto simile con un altro nome,” secondo Yousef Munayyer, un dottorando presso l’Arab Center Washington DC. “Questi personaggi [del DMFI] si nascondono dietro la maschera democratica per smerciare la stessa vecchia storia, facendo credere che le incessanti violazioni dei diritti umani da parte di Israele siano incredibilmente complicate e che, alla fin fine, siano i palestinesi a essere colpevoli per le proprie sofferenze.”

Alex Kane è un giornalista di New York i cui articoli su Israele/Palestina, libertà civili e politica estera USA sono stati pubblicati, tra gli altri, da Vice News, The Intercept, The Nation, In These Times.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Palestina a colori

Mohamed Shurrab

10 dicembre 2020 – We are not numbers

Gaza

La bandiera del mio Paese racconta la nostra storia attraverso i colori. Verde, nero, rosso e bianco: ognuno rappresenta miriadi di storie palestinesi, esperienze che hanno fatto di noi quelli che siamo e che potremmo diventare.

Verde

Il verde era il colore dominante dovunque nel mio amatissimo Paese. È il colore preferito degli agricoltori, il colore del raccolto. Significa duro lavoro, ma anche soddisfazioni e riposo. Purtroppo il verde è stato rubato dalla nostra terra. L’occupazione israeliana ha sradicato le distese di ulivi, sostituendole con colonie – i nostri bei ricordi verdi sono diventati grigio cemento.

Avevo solo 5 anni quando Israele nel 2008 scatenò la prima delle sue tre principali guerre contro Gaza, oggi comunemente chiamata il Massacro di Gaza (“Operazione Piombo Fuso” per gli israeliani). Durò tre settimane e causò la morte di 1.417 palestinesi.

Il terzo giorno ero intento a giocare con le figure del mio supereroe quando il silenzio sembrò avvolgere l’intero quartiere. Era la calma prima della tempesta. Improvvisamente un suono acuto squarciò l’aria, scuotendo la nostra casa come un budino. Il mio giocattolo a forma del verde e muscoloso Hulk cadde a terra. Era un attacco aereo israeliano. Le mie sorelle corsero sul balcone a vedere dove fosse caduto il missile questa volta. Non era il primo, ma era il più vicino. Io saltai in braccio a mia madre, chiedendole che cosa fosse successo, anche se ora mi rendo conto che nulla potrebbe davvero spiegare le nostre vite. Un fiume di lacrime scorreva sul suo viso ed aveva la paura negli occhi.

Persone cattive hanno bombardato la casa dei nostri vicini”, rispose piangendo. “Che razza di persone può uccidere e bombardare?”

Pensai tra me: “Se Hulk esistesse davvero non lo permetterebbe mai.”

Fuori dalla nostra finestra si levò il fumo, tracciando una scia di fumo dalle macerie che lo avevano prodotto. Odio le macerie che seppelliscono la nostra infanzia. Le nostre conversazioni quotidiane riguardano la guerra, il blocco e le sanzioni. Abbiamo visto i nostri amici uccisi, portati via prima della loro ora.

Nella guerra del 2008 le forze di occupazione hanno ucciso 400 bambini in meno di un mese. Mi addolora ogni singola vita persa, ma credo che quelli tra noi che sono ancora vivi hanno qualcosa per cui lottare: il nostro futuro.

Nero

Il nero è simbolo di eleganza – e anche di oppressione, distruzione e cenere. Le forze israeliane ci colpirono nuovamente nel 2012, la più breve delle guerre, ma a suo modo non meno distruttiva.

Avevo 10 anni. Ero andato a comprare il pane per il pranzo e stavo tornando a casa. Giravano voci che stesse per iniziare una nuova guerra, perciò cercavo di camminare in fretta. All’improvviso un aereo sganciò un missile di avvertimento – che esplodeva dai 5 ai 10 minuti prima del colpo “vero”, e doveva servire come gentile avviso di abbandonare la propria casa. Non vedevo distintamente l’aereo, ma il razzo si vedeva abbastanza chiaramente. Sono impallidito, con gli occhi sbarrati. L’adrenalina che avevo in corpo fu più forte del mio spavento e mi permise di correre velocemente a casa, come un lampo. Aprii la porta e vidi la mia famiglia che mi aspettava, pregando che la pace del Signore mi proteggesse. Mi abbracciarono forte.

Rimasi a casa per tutta la durata della guerra, ma ero comunque traumatizzato. Per due settimane persi ogni interesse per qualunque cosa, anche per il disegno, il mio passatempo preferito. Ero triste, depresso e inerte. La guerra durò una settimana, ma la sofferenza durò molto più a lungo. Però avevamo qualcosa per cui lottare: il nostro futuro.  

Rosso

Il rosso è il colore del sangue, noto anche come il sangue degli shaheeds (i martiri). La nostra storia è intrisa di esso. Ma se dobbiamo morire perché altri vivano, che la nostra morte sia un atto di preghiera. Potete indovinare che cosa successe in seguito, vero? Il 2014 con un’altra nuova guerra, più memorabile e devastante delle precedenti.

La mia città perse tutti i suoi colori, tranne il rosso. Furono distrutti edifici, abbattuti alberi. Tutto era cenere nera e grigia, tranne il sangue rosso di oltre 2.700 gazawi uccisi. Durante quella guerra altri 100.000 rimasero senza casa.

Trascorsero 51 giorni in cui vedemmo madri piangere la perdita dei figli, edifici crollare qua e là come gocce d’acqua, persone vivere per strada mangiando rifiuti, ragazzi perdere braccia e gambe.

Ancora oggi l’immagine dei carri armati e aerei da guerra israeliani che invadono la mia città occupa la mia mente, comparendo negli incubi. A volte attraversa la mia mente la domanda: “Perché noi?”. Mentre la maggior parte dei bambini del mondo gioca a calcio e sogna di diventare pompiere, i bambini di Gaza vengono uccisi e molti vivono per strada.

Mi deprime vedere ragazzini che hanno fatto esperienza di guerra e politica.

Bianco

Il bianco rappresenta la sacralità dei nostri luoghi santi. Ma il ricorrente sacrilegio di Israele ha profanato ciò che restava di bianco nel nostro Paese. Gli israeliani costruiscono colonie accanto ai nostri luoghi santi e ci impediscono di pregarvi.

Ciononostante voglio seminare speranza. Perciò mi attengo al fatto che il bianco è anche il colore dell’ottimismo:

Bianco è il mio sogno che un giorno saremo liberi.

Bianco è il mio sogno che un giorno la mia città fiorirà come Singapore.

Bianco è il mio sogno che un giorno vivremo in pace.

Bianco è il mio sogno che coloro che sono ancora vivi conquisteranno il futuro che si meritano.

Tutor: Ben Gass

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




La verità che sta dietro la propaganda israeliana sull’ “espulsione’ degli ebrei arabi

Joseph Massad

15 dicembre 2020 – Middle East Eye

La vergognosa montatura di Israele riguardo all’immigrazione degli ebrei arabi in Israele negli anni ’40 e ’50 è un tentativo di mascherare le ingiustizie inflitte ai palestinesi

La propaganda israeliana riguardo all’“espulsione” di ebrei arabi da Paesi arabi alla fine degli anni ’40 e all’inizio dei ’50 prosegue senza sosta. Secondo un articolo di Ynet [sito di notizie del quotidiano israeliano Yedioth Ahronot, ndtr.] all’inizio di questo mese l’ambasciatore israeliano all’ONU Gilad Erdan ha informato il segretario generale dell’ONU Antonio Gutterres di aver intenzione di “sottoporre una bozza di risoluzione in cui si chiede all’istituzione internazionale di tenere ogni anno una commemorazione delle decine di migliaia di ebrei esiliati da Paesi arabi a causa della creazione dello Stato di Israele.”

Le falsificazioni israeliane riguardo all’immigrazione di ebrei arabi in Israele sono talmente vergognose che ogni anno il 30 novembre il Paese tiene una commemorazione. Questa data, guarda caso, coincide con la pulizia etnica della Palestina da parte delle bande sioniste, iniziata il 30 novembre 1947, il giorno dopo che l’Assemblea generale dell’ONU adottò il piano di partizione [della Palestina, ndtr.]. La scelta della data intende coinvolgere gli ebrei arabi nella conquista della Palestina, mentre la maggioranza di loro non ebbe nessun ruolo in essa.

Erdan sostiene che, dopo la fondazione della colonia di insediamento israeliana, i Paesi arabi “lanciarono un attacco generalizzato contro lo Stato di Israele e contro le fiorenti comunità ebraiche che vivevano nel mondo arabo.” Le falsità israeliane, con cui Israele spera sempre di obbligare gli Stati arabi a pagare a Israele miliardi di dollari, hanno un altro importante obiettivo: assolvere Israele dal suo peccato originale per aver espulso i palestinesi nel 1948 e aver rubato le loro terre e proprietà.

Tranelli ideologici

Nel dicembre 1948 l’Assemblea generale dell’ONU ordinò che ai rifugiati palestinesi venisse consentito di tornare alle loro case e che venissero compensati per la distruzione e il furto delle loro proprietà da parte di Israele. Israele non solo vuole tenersi tutte quelle terre, ma anche estorcere ad alcuni Paesi arabi il pagamento di altri miliardi.

È un’ulteriore ironia degli intrighi israeliani: Israele ha sempre insistito che la Palestina, e in seguito Israele, sono la patria dell’ebraismo mondiale, sostenendo nel contempo che gli ebrei arabi che immigrarono in Israele siano “rifugiati”. La definizione giuridica e universalmente accettata di rifugiato, tuttavia, è una persona che è stata espulsa o è scappata dalla propria patria, non che vi è “tornata”.

A parte questo sotterfugio ideologico, la storia dell’emigrazione degli ebrei arabi in Israele non  riguarda l’espulsione da parte dei regimi arabi, ma piuttosto le azioni criminali israeliane che obbligarono gli ebrei di Yemen, Iraq, Marocco, Egitto e di altri Paesi ad andarsene in Israele.

Nel 1949 il governo israeliano stava lavorando assiduamente con le autorità coloniali britanniche ad Aden e con funzionari yemeniti per organizzare un ponte aereo verso Israele. Secondo il libro dell’illustre storico israeliano Tom Segev “1949: i primi israeliani”, mentre la Lega degli Stati arabi aveva deciso di vietare l’emigrazione degli ebrei arabi in Israele fin dal febbraio 1949, con l’aiuto degli emissari sionisti e di mazzette israeliane per i governanti provinciali yemeniti l’imam dello Yemen consentì agli ebrei di andarsene.

Alcuni dei governatori provinciali chiesero che almeno 2.000 ebrei rimanessero, in quanto era un dovere religioso dei musulmani proteggerli, ma l’emissario sionista insistette che per loro era un “comandamento” religioso ebraico andare nella “Terra di Israele”. Secondo Segev ed altre fonti, il fatto che il primo ministro israeliano dell’epoca fosse David Ben Gurion suggerì anche a molti che Israele “fosse il regno di David”. Decine di migliaia di ebrei vennero spinti ad abbandonare le proprie case e ad andare in Israele.

Discriminazione istituzionalizzata

Riguardo agli ebrei che scelsero di rimanere, l’emissario ebreo ad Aden, Shlomo Schmidt, chiese il permesso di proporre che le autorità yemenite li espellessero, ma esse non lo fecero.

Secondo Segev ed altre fonti, alcuni dei bagagli degli ebrei che partirono, compresi antichi rotoli della Torah, gioielli e indumenti ricamati, che erano stati incoraggiati a portare con sé, sparirono lungo il tragitto e misteriosamente “finirono nei negozi di antichità e souvenir in Israele.”

Dal 1949 e il 1950 circa 50.000 ebrei yemeniti vennero sostanzialmente portati via dallo Yemen dagli israeliani e in Israele dovettero affrontare la discriminazione istituzionalizzata da parte degli ashkenaziti [ebrei di origine europea e classe dirigente in Israele, ndtr.]. Ciò incluse la sottrazione di centinaia di bambini yemeniti ai loro genitori, a cui venne detto che erano morti. A quanto pare i bambini furono poi affidati in adozione a coppie ashkenazite.

I sionisti si attivarono anche per mettere in atto l’emigrazione degli ebrei marocchini in Israele. All’epoca il Marocco era sotto occupazione militare francese, per cui l’Agenzia Ebraica dovette trovare un accordo con il governatore francese del Marocco per organizzare l’emigrazione degli ebrei marocchini, che secondo Segev e altre fonti dovettero affrontare terribili condizioni sulle navi israeliane. Secondo l’inviato dell’Agenzia Ebraica, alcuni dei 100.000 ebrei che se ne andarono dovettero essere di fatto “presi a bordo delle navi con la forza.”

Nel contempo il governo irakeno di Nuri al-Said, uomo forte dei britannici nel Medio oriente arabo, venne ingiustamente accusato dalla propaganda israeliana di perseguitare gli ebrei, mentre in realtà si trattava di invenzioni israeliane. Agenti sionisti iniziarono a svolgere attività in Iraq, facendo passare clandestinamente ebrei in Israele attraverso l’Iran, il che portò a procedimenti giudiziari contro un pugno di sionisti.

Poi iniziarono gli attacchi contro gli ebrei iracheni, compreso quello presso la sinagoga Masuda Shemtov di Baghdad, in cui vennero uccisi 4 ebrei e un’altra decina venne ferita. Alcuni ebrei iracheni credettero che questo fosse il lavoro di agenti del Mossad, inteso a spaventare gli ebrei fino a fargli lasciare il Paese. Le autorità irachene accusarono e giustiziarono attivisti dei gruppi clandestini sionisti.

Tra la campagna globale di Israele per fare pressione sull’Iraq perché consentisse agli ebrei di andarsene, che portò ai tentativi israeliani di bloccare i crediti della Banca Mondiale all’Iraq, e le pressioni americane e britanniche, il parlamento iracheno cedette ed emanò una legge che consentiva agli ebrei di andarsene. Agenti sionisti in Iraq telegrafarono al loro responsabile a Tel Aviv: “Stiamo portando avanti la nostra solita attività per far passare la legge più rapidamente.” I 120.000 ebrei iracheni vennero quindi rapidamente trasferiti in Israele.

Prendere di mira interessi europei

Nella relativamente ridotta comunità ebraica egiziana un numero ancora più esiguo era composto da ashkenaziti (per lo più alsaziani e russi), arrivati fin dagli anni ’80 dell’Ottocento. Ma la comunità più numerosa era composta da ebrei sefarditi che erano arrivati nello stesso periodo da Turchia, Iraq e Siria, oltre ad una piccola comunità di ebrei karaiti [originari della Crimea, ndtr.]. In tutto erano meno di 70.000, metà dei quali non aveva la nazionalità egiziana.

L’attivismo sionista tra la piccola comunità di ebrei ashkenaziti in Egitto portò alcuni ad andare in Palestina prima del 1948, tuttavia fu dopo la fondazione di Israele che molti ebrei della classe alta egiziana iniziarono a andarsene verso la Francia, non in Israele. Ciononostante la comunità rimase essenzialmente intatta fino a quando nel 1954 Israele intervenne, reclutando ebrei egiziani per una cellula terroristica che piazzò bombe in cinema egiziani, nella stazione ferroviaria del Cairo e in strutture educative e biblioteche americane e britanniche.

Gli israeliani speravano che, prendendo di mira interessi occidentali in Egitto, avrebbero potuto guastare gli allora amichevoli rapporti tra il presidente egiziano e gli americani.

L’intelligence egiziana scoprì la cellula terroristica israeliana e processò gli imputati in un’udienza pubblica. Secondo il libro di David Hirst The Gun and the Olive Branch [Il fucile e il ramo d’ulivo] ed altre fonti, gli israeliani montarono una campagna internazionale contro l’Egitto e il presidente Gamal Abdel Nasser, che venne definito l’“Hitler del Nilo” dalla stampa israeliana ed internazionale, mentre agenti israeliani spararono contro il consolato egiziano a New York.

Unita alla nuova campagna socialista e nazionalista di egittizzazione degli investimenti nel Paese, molti ricchi uomini d’affari iniziarono a vendere le proprie attività economiche e ad andarsene.

Nel momento in cui, alla fine degli anni ’50 e all’inizio dei ’60 iniziò la nazionalizzazione, la maggior parte delle attività nazionalizzate era di fatto di proprietà di egiziani musulmani e cristiani, non ebrei. Fu in questo contesto e in quello dell’ira dell’opinione pubblica contro Israele che molti ebrei egiziani ebbero paura e se ne andarono dopo il 1954 negli USA e in Francia, mentre i poveri finirono in Israele (come raccontato nel libro di Joel Beinin Dispersion of Egyptian Jewry [La dispersione degli ebrei egiziani]).

Quando Israele si unì alla cospirazione franco-britannica per invadere l’Egitto nel 1956 [la guerra per il canale di Suez, ndtr.] e dopo la sua occupazione militare della penisola del Sinai, ne seguì un’ondata di rabbia contro la colonia di insediamento. Secondo Beinin, il governo egiziano arrestò circa 1.000 ebrei, metà dei quali cittadini egiziani, e la piccola comunità ebraica egiziana iniziò ad andarsene in massa. Nel 1967, all’epoca della seconda invasione dell’Egitto, nel Paese rimanevano solo 7.000 ebrei.

Inviti formali

Nonostante la responsabilità israeliana nel provocare l’esodo degli ebrei arabi dai loro Paesi, il governo israeliano continua ad accusare i governi arabi. Riguardo alle loro proprietà, in effetti, essi devono tornarne in possesso e/o essere indennizzati, non in conseguenza di una qualche narrazione di espulsioni inventate che serve agli interessi dello Stato di Israele, ma a causa del loro reale diritto di proprietà.

Contrariamente alla propaganda israeliana secondo cui si trattò di uno scambio di popolazione, è significativo che, mentre agli ebrei europei ed arabi che emigrarono in Israele vennero date gratis terre e proprietà di palestinesi espulsi, secondo lo storico israeliano Benny Morris e altre fonti, i palestinesi non ottennero le proprietà degli ebrei arabi che emigrarono in Israele.

Certamente l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, che nel 1947 venne riconosciuta dalla Lega Araba e dall’ONU come “l’unica legittima rappresentante del popolo palestinese”, era ben consapevole di questa strategia israeliana. Conscia del fatto che l’emigrazione degli ebrei arabi in Israele era stato un vantaggio per il colonialismo di insediamento israeliano, in un memorandum del 1975 molto pubblicizzato dai governi arabi la cui popolazione ebraica era andata in Israele, l’OLP chiese che essi emettessero inviti formali e pubblici perché gli ebrei arabi tornassero alle loro case.

Cosa rilevante, nessuno dei governi e regimi del 1975 lo era al potere quando gli ebrei se ne erano andati, tra il 1949 e il 1967. Inviti pubblici ed espliciti vennero puntualmente emanati dai governi di Marocco, Yemen, Libia, Sudan, Iraq ed Egitto perché gli ebrei arabi tornassero, soprattutto alla luce delle discriminazioni razziste istituzionalizzate degli ashkenaziti che avevano subito in Israele. Né Israele né le comunità ebraiche arabe risposero a questi inviti.

Crimini ricompensati

A parte tutto ciò, c’è la questione degli incessanti tentativi di Israele di equiparare le perdite finanziarie degli ebrei arabi con quelle dei rifugiati palestinesi. Una prudente stima ufficiale israeliana che confronta le perdite di proprietà palestinesi con quelle degli ebrei arabi dà una differenza di 22 a 1 a favore dei palestinesi, nonostante la notevole sovrastima delle perdite degli ebrei arabi e una sottostima persino superiore delle perdite palestinesi.

Stime prudenti delle perdite dei rifugiati palestinesi ammontano a più di 300 miliardi di dollari [245 miliardi di euro, ndtr.] in prezzi del 2008, escludendo i danni per pene e sofferenze psicologiche, che incrementerebbero in modo notevole la somma totale. Ciò esclude le perdite in terre e proprietà subite dai cittadini palestinesi di Israele dal 1948 e quelle dei palestinesi nella Cisgiordania, a Gaza e a Gerusalemme est, occupate dal 1967.

Mentre nessuno dei regimi arabi del periodo in cui gli ebrei arabi emigrarono in Israele è attualmente al potere, lo stesso regime israeliano di colonialismo di insediamento che espulse il popolo palestinese e architettò l’esodo degli ebrei arabi dai loro Paesi lo è ancora.

Eppure nella sua lettera Erdan lamenta che “fa rabbia vedere che l’ONU celebra un giorno speciale e dedica molte risorse alla questione dei ‘rifugiati palestinesi’, mentre abbandona ed ignora centinaia di migliaia di famiglie ebraiche deportate da Paesi arabi e dall’Iran.” L’ironia della lettera di Erdan è che chiede che il regime israeliano venga economicamente e moralmente risarcito per i crimini che ha commesso negli ultimi 70 anni.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)