Il voto per espellere il deputato della Knesset Cassif perché ha appoggiato la richiesta alla Corte Internazionale di Giustizia contro Israele è una persecuzione politica

Editoriale di Haaretz

30 gennaio 2024 – Haaretz

Con la decisione della Commissione parlamentare di espellere il deputato Ofer Cassif ([della lista di sinistra] Hadash-Ta’al) a causa del suo sostegno alla richiesta presentata dal Sudafrica contro Israele presso la Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia, la Knesset e lo Stato toccano il fondo in modo inaudito.

In quella denuncia il Sudafrica ha sostenuto che Israele è colpevole di genocidio nella Striscia di Gaza. La legge fondamentale della Knesset le consente di espellere un parlamentare sia per razzismo che per il sostegno alla lotta armata contro Israele. Ma niente di quello che Cassif ha affermato rientra in questa definizione.

La decisione della commissione di cacciare Cassif emana un puzzo di persecuzione politica. Se la Knesset fosse davvero decisa a espellere i razzisti al suo interno non ci sarebbero stati abbastanza parlamentari per formare l’attuale governo di Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich.

Il parlamentare Oded Forer ([del partito di estrema destra laica, ndt.] Yisrael Beiteinu), che ha guidato la corsa per espellere Cassif, ha messo in luce la logica contorta che lo ha spinto: “Si può considerare la denuncia all’Aia come se fosse stata presentata dallo stesso Cassif,” ha affermato. “E se ciò fosse stato ottenuto avrebbe minacciato la sicurezza di Israele.” Perché? Perché l’obiettivo di Cassif è stato “fermare i combattimenti,” ha continuato Forer, e poi “Hamas si sarebbe ripreso,” il che avrebbe dato come risultato “un danno per i nostri soldati.”

Dei 120 membri della Knesset 85 hanno firmato la richiesta di espellere Cassif, tutti meno i deputati del partito Laburista e dei partiti arabi. E martedì hanno votato per cacciarlo 14 dei 16 membri della commissione del parlamento.

Le anime illuminate che vogliono liberarsi di Cassif includono Moshe Saada (del Likud), che non molto tempo fa ha affermato: “E’ chiaro a chiunque che dobbiamo distruggere Gaza,” e Tzvika Foghel ([del partito di estrema destra religiosa] Otzma Yehudit), che un mese fa ha affermato che “prima sconfiggeremo Hamas ed Hezbollah, e per completare il tutto metteremo a posto la Corte Suprema.” Ma persino Matan Kahana e Zeev Elkin del centrista Partito dell’Unità Nazionale e Naor Shiri del partito di opposizione Yesh Atid hanno appoggiato l’espulsione.

Cassif ha tutto il diritto di pensare che Israele stia commettendo crimini di guerra. In effetti all’Aia i giudici più importanti del mondo hanno accettato di discutere di questa stessa questione. Ma la legge che consente l’estromissione [dei parlamentari, ndt.] è stata fin dall’inizio promulgata per liberarsi dei rappresentanti arabi alla Knesset, che intendono fare di Israele una vera democrazia e si identificano con la lotta dei palestinesi per liberarsi dall’occupazione. Questi deputati non appoggiano il terrorismo e sicuramente non l’attacco di Hamas del 7 ottobre, come ha ripetuto ancora una volta Cassif.

È piuttosto paradossale che la Knesset trovi qualcuno che a suo parere merita di essere cacciato solo qualche giorno dopo che a Israele è stato consegnato un ordine internazionale perché punisca gli istigatori e i razzisti che lo hanno portato davanti all’Aia e due giorni dopo una conferenza al Centro Congressi Internazionali di Gerusalemme in cui ministri e parlamentari hanno invocato il trasferimento di 2,3 milioni di gazawi.

L’approvazione dell’espulsione da parte della commissione non è la fine del percorso. Ci sono altre due fermate lungo il cammino: primo, l’approvazione da parte di tutta la Knesset, in cui 90 dei 120 deputati dovrebbero appoggiarla, e poi la Corte Suprema, se Cassif decidesse di presentare ricorso contro la pronuncia. Là presumibilmente i giudici rimedieranno al disastro della Knesset, come in genere fanno, e ribalteranno la decisione. Ma la macchia sulla democrazia israeliana non sarà cancellata facilmente.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Il primo ministro israeliano Netanyahu, la ragazza pompon della tifoseria antisemita

Editoriale di Haaretz

18 settembre 2023 – Haaretz

Nell’anno ebraico 5783, che è appena terminato, il governo Netanyahu ha portato Israele ancora più in basso anche riguardo all’antisemitismo. Mentre l’antico odio ha rialzato la testa in tutto il mondo, è stato il governo israeliano a concedere legittimità a chi lo diffonde.

Uno dei più significativi esempi di ciò è stata la legittimazione pubblica che il ministro degli Esteri Eli Cohen ha fornito alla rumena Alleanza per l’Unità dei Romeni, o AUR, di estrema destra, nonostante la lunga storia di antisemitismo e negazionismo dell’Olocausto dei dirigenti del partito. Si prevede che questa politica continuerà anche il prossimo anno, ora con il coinvolgimento diretto del primo ministro Benjamin Netanyahu. Il suo primo incontro del 5784 sarà con il miliardario Elon Musk, che l’anno scorso ha comprato la piattaforma di social media Twitter e ne ha cambiato il nome in X.

Negli Stati Uniti importanti organizzazioni ebraiche sostengono che dall’acquisizione della piattaforma da parte di Musk c’è stato un significativo incremento sia del volume dei contenuti antisemiti che vi vengono pubblicati sia delle dimensioni dell’esposizione ad essi. Questa tendenza ha portato l’Anti-Defamation League, la più importante organizzazione ebraica che lotta contro l’antisemitismo, a criticare duramente Musk. In risposta egli ha accusato l’ADL di danneggiare deliberatamente le sue attività economiche ed ha manifestato sostegno ai post di persone di estrema destra che chiedono di bandire le attività dell’organizzazione. Musk ha circa 160 milioni di seguaci su X.

Si suppone che Netanyahu, che sta volando verso la Costa occidentale [degli USA, ndt.] con l’esplicito intento di incontrare Musk prima di tornare a New York alla fine della settimana per l’Assemblea Generale delle Nazioni unite, parteciperà a questa accesa discussione lunedì. Non ci sono dubbi che Musk utilizzerà l’incontro con il primo ministro israeliano per respingere le affermazioni secondo cui appoggia l’antisemitismo.

Da parte sua Netanyahu userà l’incontro per smorzare le critiche riguardo al danno provocato lo scorso anno dal suo governo all’industria israeliana dell’alta tecnologia. L’incontro fornirà ad entrambi una migliore immagine, ma la lotta contro l’antisemitismo ne risentirà e la politica di far finta di niente in merito alla diffusione di contenuti antisemiti sulle reti sociali riceverà un certificato israeliano di conformità.

Il Consiglio dei Rapporti della Comunità Ebraica della Zona della Baia, un’organizzazione che unisce le comunità ebraiche della regione di San Francisco, prima di Rosh Hashanah [capodanno civile ebraico, ndt.] ha mandato una lettera a Netanyahu in cui gli chiedeva di incontrare i rappresentanti della comunità ed ascoltare le loro preoccupazioni riguardo a Musk. È molto incerto che Netanyahu accetti questa richiesta. Per anni ha condotto una politica di disprezzo verso l’ebraismo statunitense a favore della comunità cristiana evangelica, che è legata al partito Repubblicano, rispetto a quella ebraica, che tende a sostenere il partito Democratico.

Come in Europa, negli Stati Uniti Netanyahu non ha alcun problema a unire le forze con quanti rappresentano una minaccia alla sicurezza degli ebrei, finché ciò è utile ai suoi interessi politici.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




“Valori condivisi”: l’Israele di Netanyahu consolida un’altra fosca alleanza con l’estrema destra europea

Editoriale di Haaretz

29 agosto 2023 – Haaretz

Mentre il ministro degli Esteri Eli Cohen è sottoposto a critiche giustificatamente feroci per aver reso pubblico un incontro segreto con la sua omologa libica, provocando disordini a Tripoli, la sua fuga a Istanbul con timori per la sua incolumità, e un’ulteriore rottura nelle relazioni con gli USA, Israele ha rafforzato un’altra dubbia amicizia, questa volta a Bucarest.

Su indicazioni di Cohen, l’ambasciatore israeliano in Romania, accompagnato dal leader dei coloni Yossi Dagan, ha incontrato il segretario del partito Alleanza per l’Unità dei Rumeni, di estrema destra, violando il boicottaggio israeliano dei contatti con un partito ultranazionalista, espansionista territoriale e filorusso che esalta il leader rumeno fascista del periodo della Seconda Guerra Mondiale Ion Antonescu, sotto il cui regime collaborazionista con il nazismo vennero uccisi 400.000 ebrei rumeni. Lo scorso anno il partito ha affermato che l’Olocausto in Romania fu una “questione di poco conto”.

Gli israeliani hanno strappato al leader dell’AUR George Simion una scialba e incompleta condanna dell’antisemitismo e della negazione dell’Olocausto. Ma la vera vittoria per il governo del primo ministro Benjamin Netanyahu, per la quale era disposto a vendere l’anima di Israele, è stato il pieno sostegno di Simion alle colonie israeliane in Cisgiordania.

Questo incontro fa parte di una strategia a lungo termine dei successivi governi Netanyahu: uno scambio di favori con i partiti di estrema destra europei. Israele ha legittimato i nazionalisti autoritari con ignobili primati di antisemitismo, negazionismo e fanatismo antimusulmano in cambio di un impegno a favore delle politiche israeliane.

Non c’è scarsità di partner estremisti, di Ungheria, Polonia, Italia, Francia, Svezia e ora Romania, ansiosi di ottenere un certificato israeliano di conformità. Per il partito Likud di Netanyahu, che ha costruito rapporti con tutta l’estrema destra europea, e per i coloni questa è un’occasione unica.

I termini di questa contrattazione faustiana sono espliciti: appoggiate la nostra annessione, noi ignoreremo il vostro antisemitismo; appoggiate il furto di terra delle colonie, noi sosterremo il vostro irredentismo territoriale; appoggiate il nostro attacco alla democrazia liberale, noi sosterremo il vostro fascismo e revisionismo sull’Olocausto; sostenete la nostra supremazia ebraica, e noi faremo altrettanto con la vostra supremazia cristiana.

Con l’estrema destra che sta notevolmente crescendo nei sondaggi nel continente, con elezioni decisive per il parlamento europeo il prossimo anno, così come elezioni nazionali in Austria, non c’è da sorprendersi che le comunità ebraiche locali, che sono in prima linea nell’opposizione di principio all’estrema destra, si ritrovino a chiedersi se Israele stia con loro.

Mentre il fiasco di Eli Cohen con la Libia ha fatto scalpore, questo incontro in Romania, che fa presagire la reale direzione in cui Netanyahu intende portare Israele, è passato inosservato. Il suo attacco alla democrazia, a una magistratura indipendente e a ogni valore liberale normativo, rafforzando nel contempo l’occupazione, è accompagnato dalla formazione di un asse di alleati deleteri e illiberali ma “filo-israeliani”, che si legittimano e sostengono a vicenda.

Sono passati solo 5 anni da quando l’allora presidente [della repubblica] Reuven Rivlin denunciò l’accondiscendenza di Netanyahu nei confronti dei neofascisti europei in nome dell’opportunismo politico e diplomatico.

Rivlin criticò duramente tali alleanze come “assolutamente incompatibili” con i principi israeliani. Oggi l’Israele di Netanyahu abbraccia orgogliosamente i suoi “valori condivisi” con l’estrema destra europea, e nel contempo butta nella spazzatura le comunità ebraiche e ogni residuo di dignità morale.

Il presente articolo è l’editoriale del direttore di Haaretz come è stato pubblicato in Israele nei giornali in ebraico e in inglese.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




La mancanza di scrupoli israeliana a Gaza

Editoriale

10 maggio 2023 – Haaretz

Nel primo attacco dell’offensiva su Gaza denominata Operazione Scudo e Freccia, iniziata nella notte tra lunedì e martedì, sono state uccise 13 persone tra cui 10 civili, tre dei quali bambini. Ma senza batter ciglio è stato affermato che si trattava di un “danno collaterale” dovuto alla necessità di eliminare tre figure di spicco della Jihad islamica. In realtà, è vero il contrario. I tre comandanti dovrebbero essere visti come il “risultato collaterale” dell’uccisione mirata di civili a Gaza.

Il gran numero di civili uccisi solleva questioni spinose sugli aspetti morali e legali di tali operazioni militari, e dovrebbero essere rivolte a più persone. I primi a cui rivolgere queste domande sono i comandanti dell’esercito, che hanno deciso “giudiziosamente” (più precisamente, a sangue freddo) di effettuare un attacco in un momento in cui era molto probabile che intorno agli obiettivi ci fossero civili, compresi bambini. Il secondo è il governo, guidato dal primo ministro Benjamin Netanyahu, che ha autorizzato la missione. I decisori si sono assicurati che non ci fossero rischi per la vita dei civili o si sono affidati ai consigli dell’esercito? Hanno calcolato il prezzo omicida dell’azione – uccidere innocenti, compresi i bambini – e sono giunti alla contorta conclusione che il “prezzo” era giusto? Se la risposta è sì, allora questo non è solo un crimine morale, ma un crimine di guerra.

Il terzo è il procuratore generale Gali Baharav-Miara, che ha autorizzato l’operazione senza convocare il gabinetto di sicurezza. Ha accertato a fondo se ci fosse pericolo per la vita dei civili? E se è così, ha ritenuto opportuno approvare l’operazione nonostante il suo costo scellerato?

Ultimi a cui rivolgere le medesime domande sono i piloti che hanno effettuato la missione. Non sapevano, o valutavano, alla luce della situazione in atto e dell’esperienza passata che è molto probabile che il bombardamento di case invece che di siti militari porti all’uccisione di civili? La questione è critica poiché sono stati i membri dell’aeronautica, in particolare i riservisti, a invocare l’insubordinazione contro il golpe di regime [il tentativo di “riforma” giudiziaria del governo Netanyahu, ndt.] I piloti insubordinati vivono in pace uccidendo civili innocenti, bambini compresi? Trovano accettabile eseguire un ordine che ha una “bandiera pirata che ci sventola sopra?”

“Quando sgancio una bomba sento un leggero urto nell’ala”, disse Dan Halutz, ex comandante dell’aeronautica e poi capo di stato maggiore militare (e ora leader della protesta anti-golpe) nel 2002, dopo che 14 civili furono uccisi nel bombardamento della casa di Gaza dell’alto funzionario di Hamas Salah Shehadeh.

La sfacciata arroganza di Halutz riguardo all’omicidio all’ingrosso – per il quale è stato giustamente oggetto di feroci critiche pubbliche – è diventata routine. Non possiamo accettare che i crimini di guerra e la morte di innocenti diventino parte della routine israeliana. Una leadership con questa visione del mondo non può essere legittima in una democrazia.

L’articolo di cui sopra è l’editoriale principale di Haaretz, pubblicato sul giornale sia nell’edizione ebraico che inglese in Israele.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Una milizia kahanista per Netanyahu

Redazione di Haaretz

28 marzo 2023, Haaretz

Nel suo discorso di lunedì sera il primo ministro Benjamin Netanyahu ha ripetutamente evocato il pericolo di una guerra civile. Come si addice al nostro provocatore nazionale, lo ha fatto anche mentre insultava e calunniava i suoi oppositori. “C’è una minoranza estremista che è disposta a fare a pezzi il Paese e sta alimentando una guerra civile”, ha accusato, aggiungendo che questa minoranza “usa la violenza, è piromane, minaccia di fare del male ai funzionari eletti, sostiene la guerra civile e il rifiuto [di fare il servizio militare], che è un crimine orribile”.

Ma non ha detto una parola sul suo ruolo nel portare Israele sull’orlo della guerra civile. Al contrario, nel suo discorso Netanyahu ha insistito sul fatto che lui, a differenza di chi si oppone al colpo di stato contro il nostro sistema di governo, “non è disposto a fare a pezzi la Nazione”. Ma come al solito, le sue parole non hanno alcuna relazione con le sue azioni. Poco prima di rivolgersi alla Nazione per dire di essere disposto a congelare le leggi sulla revisione della giustizia fino alla sessione estiva del parlamento per amore del “dialogo”, ha firmato un impegno a istituire una guardia nazionale che sarà subordinata al Ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben- Gvir. O in parole povere, una forza di polizia privata di Ben-Gvir.

Ben-Gvir, discepolo di Meir Kahane [1932-1990, rabbino ultranazionalista e razzista imprigionato negli Stati Uniti e in Israele per atti di terrorismo, fondò la Lega per la Difesa Ebraica, ndt.], è un criminale aggressivo, estremista e già condannato. Formare una milizia subordinata a lui piuttosto che alla polizia è una mossa irresponsabile che metterà inevitabilmente in pericolo gli israeliani che non hanno commesso alcun crimine. Un leader politico che non ha intenzione di arrivare a una guerra civile non istituisce e finanzia una forza di polizia privata armata per il membro più estremista del suo gabinetto. Questa mossa dimostra chiaramente che Netanyahu si sta preparando alla guerra civile.

Netanyahu ha guadagnato tempo fino all’estate per sopprimere le proteste e impegnarsi in un “dialogo”. Ma a quanto pare intende utilizzare questo tempo principalmente per essere meglio preparato alla prossima ondata di proteste. E lui e il suo partner kahanista affronteranno l’ondata con una forza di polizia privata a loro disposizione direttamente subordinata al Ministro della Sicurezza Nazionale, non al commissario di polizia Kobi Shabtai. La sua bandiera non sarà la bandiera israeliana, ma la bandiera del movimento Kach di Kahane. A giudicare dalle sue azioni, Netanyahu non è indirizzato alla pace, ma alla guerra.

È facile indovinare chi si unirà ai ranghi della milizia. Lunedì, un manifestante di estrema destra ha picchiato con un bastone il giornalista televisivo di Channel 13 Yossi Eli che stava seguendo una manifestazione a Gerusalemme, e gli ha rotto una costola. “C’erano alcune decine di attivisti di La Familia [gruppo di ultras sostenitore del Beitar Jerusalem, ndt.] e dei suoi satelliti”, ha detto, riferendosi a un gruppo di ultra tifosi di calcio. “Stavamo da un lato per trasmettere e hanno iniziato ad attaccarci, a sputarci addosso, a lanciarci uova e altri oggetti. Il mio cameraman, Avi Cashman, è stato colpito alla testa con un bastone e io sono stato colpito alle costole. La polizia ha cercato di intervenire, ma non erano abbastanza”.

Le truppe d’assalto Netanyahu/Ben-Gvir presenti alla manifestazione di lunedì a sostegno della revisione del sistema di giustizia non erano altro che un provino di ciò che attende i manifestanti dopo la pausa primaverile del parlamento, una volta che la forza di polizia privata sarà istituita e tutta l’organizzazione sarà completata.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




L’opposizione in Israele è solo per gli ebrei

Editoriale Haaretz

14 marzo 2023 Haaretz

I capi dei partiti ebraici di opposizione non perdono mai l’opportunità di ripetere l’errore di aderire ad una politica separatista che potrebbe davvero tenerli per sempre all’opposizione.

Questa settimana hanno orgogliosamente annunciato che se le leggi del golpe giudiziario verranno portate in parlamento per la votazione finale essi boicotteranno il voto. Questa è certamente un’importante e meritevole dichiarazione. Ma nella dichiarazione congiunta emessa dal capo di Yesh Atid Yair Lapid, dal capo del National Unity Party Benny Gantz, dal capo di Yisrael Beiteinu Avigdor Lieberman e dalla capa del Labor Party Merav Michaeli, si notava l’assenza di due persone – i capi dei due partiti arabi dell’opposizione, Hadash-Ta-al e la Lista Araba Unita (UAL).

I quattro leader ebrei dell’opposizione hanno mostrato unità nel dichiarare che faranno ogni cosa in loro potere per bloccare ciò che definiscono “un insano insieme di leggi”. Hanno sottolineato che “l’unità nazionale inizia con un dialogo sincero e fin quando la legislazione non sia bloccata resta una mera illusione.”

Ma quanto vale questa unità se esiste solo tra gli ebrei? E che forma assume la battaglia contro questa “insana” legislazione se esclude dalle sue fila i rappresentanti eletti dei cittadini arabi israeliani – la minoranza contro la quale è diretto il golpe, la prima minoranza che ne subirà i danni e, in larga misura, la sua principale vittima?

Lapid, il capo dell’opposizione, purtroppo sceglie di incitare contro gli arabi, come è sua abitudine, piuttosto che porgere ad essi una mano per costruire un’alleanza civile abbastanza ampia perché ebrei e arabi marcino insieme.

Il golpe giudiziario di Israele

Interrogato sul perché i leader dell’opposizione araba fossero assenti dall’incontro dei capi dell’opposizione ebrei, ha risposto che il capo della UAL Mansour Abbas è stato invitato ma non si è presentato, mentre il capo di Hadash- Ta’al Ayman Odeh “collabora con il Likud”, il partito del Primo Ministro Benjamin Netanyahu.

Questa risposta non è che demagogica, del genere usato da Netanyahu. A differenza di Lapid, Lieberman e Gantz, Odeh non ha mai lavorato con Netanyahu e di sicuro non “lavora con il Likud.” E’ anche ragionevole ritenere che non abbia intenzione di lavorare con Netanyahu in futuro, sia a breve che a lungo termine.

Da uno che pensa di guidare l’opposizione, di opporsi ad una destra guidata da Netanyahu, Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir e di lottare in nome della democrazia liberale, non ci si aspetta che dica cose del genere.

Di fatto ha il dovere di creare un’alleanza con la minoranza araba, di impegnare tutta la sua forza politica per porre le fondamenta di una sincera e solida collaborazione tra ebrei e arabi, di abbattere i muri della paura e dell’odio e di superare gli ostacoli ad una simile collaborazione. Perché solo insieme ci può essere una motivazione o una possibilità di sostituire il governo.

Un’opposizione fatta da soli ebrei non ha diritto di esistere in un’alleanza per la democrazia. L’opposizione a questo governo “totalmente di destra” deve essere totalmente democratica. E non può esserlo senza i cittadini arabi di Israele.

Questo articolo è il principale editoriale di Haaretz, pubblicato sui giornali ebraici e inglesi in Israele.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Nel discorso di Lapid all’ONU l’unica notizia è che non c’è niente di nuovo

Editoriale

23 settembre 2022 – Haaretz

Il discorso del primo ministro Yair Lapid giovedì all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite non contiene nessuna novità. La sua affermazione più impegnativa è stata che un “accordo con i palestinesi basato sui due Stati per due popoli è la cosa giusta per la sicurezza di Israele, per la sua economia e per il futuro dei nostri figli.” Ciò è vero, e importante da ricordare. Ma non è la prima volta che è stato detto dal podio dell’ONU. Anche l’ex-primo ministro Benjamin Netanyahu l’ha detto, benché egli non abbia mosso un dito per raggiungere tale risultato.

Lapid è il primo ministro ad interim di un Paese di destra, che parla nel mezzo della quinta campagna elettorale in tre anni, nel contesto di una grave crisi politica e l’ascesa del kahanismo [suprematismo ebraico ispirato al pensiero del rabbino Meir Kahane, ndt.]. Di conseguenza non c’era alcuna ragione per aspettarsi niente di più che generiche dichiarazioni di intenti. Tuttavia, persino nelle circostanze che verosimilmente non gli hanno lasciato la possibilità di accompagnare le sue parole con un appello per avviare negoziati diplomatici, vale la pena soffermarsi sul fatto che il suo discorso non era rivolto a nessuno in particolare. Chi si aspettava di sentire Lapid tendere la mano al presidente palestinese Mahmoud Abbas è rimasto deluso.

Deponete le vostre armi e non ci saranno limiti,” ha affermato, come se l’Autorità Nazionale Palestinese non avesse mai abbandonato la lotta armata. “Deponete le armi, lasciate che i nostri figli che sono prigionieri – Hadar e Oron [due soldati israeliani uccisi durante l’operazione militare contro Gaza del 2014, ndt.], che la loro memoria sia benedetta; Avera e Hisham [due cittadini israeliani detenuti da Hamas a Gaza, ndt.], che sono ancora vivi – tornino a casa e costruiremo la vostra economia insieme. Possiamo costruire insieme il vostro futuro, sia a Gaza che in Cisgiordania.” Chiunque non sia esperto del conflitto potrebbe aver concluso da questi riferimenti che il conflitto sia incentrato solo sulla Striscia di Gaza – che non ci sia nessuna Autorità Nazionale Palestinese, che non ci sia nessun coordinamento per la sicurezza con essa e che i rappresentanti del popolo palestinese siano Hamas e la Jihad islamica.

Lapid non ha offerto qualcosa di diverso da Netanyahu neppure riguardo alla minaccia iraniana. “L’unico modo per evitare che l’Iran abbia un’arma nucleare è mettere sul tavolo una credibile minaccia militare,” ha affermato. “E dopo, solo dopo, negoziare un accordo più lungo e più forte con loro.” Oltretutto, ha aggiunto, “deve essere messo in chiaro all’Iran che, se prosegue con il suo programma nucleare, il mondo non risponderà con le parole, ma con la forza militare.”

Il primo ministro in alternanza [con Lapid, ndt.] Naftali Bennett ha rotto il suo lungo silenzio mercoledì per attaccare la presunta intenzione di Lapid di annunciare il proprio appoggio a portare avanti la soluzione a due Stati. Ma Bennett può stare tranquillo: Lapid non ha fatto niente per minacciare l’impegno del cosiddetto governo del cambiamento a non cambiare assolutamente niente.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Va tutto bene, tutti sono a favore dell’apartheid.

Hagai El-Ad

12 luglio 2022 – Haaretz

Non so perché il primo ministro Naftali Bennett abbia deciso di dare le dimissioni. Una cosa può e dev’essere subito chiara: la ragione che ha citato – l’impossibilità di far approvare il rinnovo delle disposizioni d’emergenza che estendono le leggi israeliane ai cittadini in Cisgiordania – è una narrazione di convenienza, ma non è nient’altro che questo. Non sono le disposizioni riguardanti Giudea e Samaria [definizione biblica della Cisgiordania, ndt.] che hanno fatto cadere il governo, non è riguardo ad esse che andremo a votare, e quello che è stato svelato è l’esatto contrario di quanto sostenuto: non è un dissidio che ha fatto sciogliere la Knesset [il parlamento israeliano, ndt.], ma un consenso generalizzato.

Secondo la narrazione che prende a pretesto le disposizioni il 1 luglio 2022 avrebbe dovuto essere il giorno d’inizio del collasso dell’ordine pubblico nell’“area di Giudea e Samaria” e la demolizione dei legami tra Israele e quelle terre. Il primo giorno della “giungla”, del “caos” e dell’“anarchia” – tutte citazioni dal ministro della Giustizia Gideon Sa’ar alla Knesset. Il procuratore generale Gali Baharav Miara, che, per dirla in modo cortese, fa frequenti dichiarazioni pubbliche, non ha lesinato sforzi per descrivere l’abisso che si avvicinava nel conto alla rovescia da giugno a luglio. Un abisso con da una parte il beato ordine pubblico e dall’altra il minaccioso caos.

Dobbiamo finire nell’abisso o saremo salvati all’ultimo momento? Mai prima d’ora così tanti hanno atteso con il fiato così sospeso la decisione riguardo alle disposizioni, di cui la maggioranza non aveva mai sentito parlare. In ogni caso, possiamo stare tutti tranquilli. Prima di mezzanotte la Knesset si è sciolta e le disposizioni sono state automaticamente prorogate. Ma eravamo davvero sull’orlo del disastro?

Innanzitutto, disposizioni o meno, non sarebbe cambiato niente. Migliaia di prigionieri palestinesi non sarebbero usciti marciando da un lato all’altro della Linea Verde [il confine tra Israele e i territori occupati, ndt.]. I coloni non sarebbero stati improvvisamente giudicati da tribunali militari e nessuna strenua muraglia dell’ordine pubblico si sarebbe sgretolata.

C’è un recente esempio di un’altra norma temporanea (certo, temporanea) che non si è riusciti a rinnovare: la legge razzista che vieta ai palestinesi di sposarsi a ovest della Linea Verde [cioè in Israele, ndt.] se uno di loro è residente a est di essa. La legge è scaduta nel luglio 2021. E poi cosa è successo?

Improvvisamente migliaia di coppie palestinesi hanno ottenuto uno status legale in Israele? Legge o non legge, la ministra degli Interni Ayelet Shaked ha continuato con la politica precedente. Dopo sei mesi l’Alta Corte di Giustizia ha detto qualcosa al riguardo, e due mesi dopo la legge è stata di nuovo approvata. Legge o non legge, i palestinesi non potrebbero, non possono e non potranno ottenere uno status legale qui. Disposizioni o non disposizioni, lo status degli ebrei nei territori non verrà declassato. In fin dei conti siamo i padroni della terra. Di tutta la terra.

Secondo, si noti la confusione concettuale che cerca di definire lo status quo (con le disposizioni) come “ordine” e opposto al disastro previsto (senza disposizioni) come “caos”. Com’è esattamente lo status quo, in cui milioni di sudditi vivono senza diritti da 55 anni: “ordine”? Perché un futuro non basato su disposizioni di apartheid è “caos”?

Una delle precondizioni fondamentali dello stato di diritto è l’uguaglianza davanti alla legge. Le disposizioni riguardanti Giudea e Samaria, come molti altri aspetti del regime di apartheid, sono l’esatto contrario dell’uguaglianza davanti alla legge. Pertanto sono una parte essenziale del caos, dell’anarchia morale, del disordine insito in un regime che privilegia un gruppo etnico-nazionale rispetto a un altro.

Terzo, tutto il teatrino riguardante le disposizioni su Giudea e Samaria non rivela alcun dissidio. Al contrario svela il consenso generalizzato tra l’opinione pubblica e il parlamento (eletto dalla parte dell’opinione pubblica titolare di diritti politici) riguardo al regime di supremazia ebraica sui palestinesi. Il consenso è così vasto e così solido che tutti sanno molto bene che non cambierà nulla. Questa è l’unica ragione per cui hanno voluto “giocare con il fuoco” con le disposizioni, in quanto il fuoco è ovviamente spento. Se fosse stata in gioco una questione fondamentale, non ci saremmo mai arrivati vicino.

Disposizioni o meno, quello che l’attuale vicenda (proprio come la legge sulla cittadinanza dell’anno scorso) rivela è che il regime è più potente di qualunque legge. E dato che ciò che conta sono i fatti fondamentali del regime, e non passeggere mosse politiche, non c’è niente di cui essere entusiasti.

Va tutto bene, tutti sono a favore dell’apartheid, tutti ne fanno parte (e grazie al governo del cambiamento per aver messo in chiaro questo punto). Se necessario gli aspetti formali prima o poi verranno risolti e i palestinesi continueranno a vivere secondo le leggi della giungla morale che abbiamo imposto loro. Quello che chiamiamo lo stato di diritto.

L’autore è il direttore generale di B’Tselem [principale ong israeliana per i diritti umani, ndt.]

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi]




Israele deve smettere di utilizzare città arabe come terreno di addestramento delle IDF

Israele deve smettere di utilizzare città arabe come terreno di addestramento delle IDF

Zehava Galon

15 novembre 2021 – Haaretz

 

La scorsa settimana il comando Nord delle Forze di Difesa Israeliane [IDF, l’esercito israeliano, ndtr.] ha condotto un’esercitazione utilizzando mezzi blindati nel Wadi Ara [regione di Israele abitata in prevalenza da arabo-israeliani, ndtr.] e nella città di Umm al-Fahm. La giustificazione ufficiale – perché non è esattamente di questo che si è trattato – dell’esercito è stata che lì i vicoli “ricordano il sud del Libano”.

L’esercitazione è avvenuta sei mesi dopo le ostilità contro Gaza e gli sporadici incidenti all’interno di Israele, e persino gli ufficiali delle IDF dovrebbero comprendere ciò che queste manovre rappresentano per gli abitanti di Umm al-Fahm: “Vi possiamo occupare in qualunque momento.” Il presidente della commissione di controllo di Umm al-Fahm, Ali Adnan, in seguito ha affermato alla radio pubblica Kan Bet che Israele sta trasformando i suoi abitanti arabi in nemici, come in Libano.

Se l’esercito voleva fare un’esercitazione in una città che assomigli al sud del Libano ha spazio e anche finanziamenti sufficienti per costruire un quartiere che sembri Marjayoun [cittadina del sud del Libano, ndtr.]. Le IDF non avrebbero progettato e realizzato manovre militari del genere a Safed [città quasi esclusivamente ebraica, ndtr.]. Non avrebbero terrorizzato gli abitanti ebrei in questo modo. Dopo gli avvenimenti di maggio, l’esercito israeliano ha sostenuto che gli autisti di autobus arabi non si sono fatti vedere per le sue esercitazioni. Circa una settimana dopo è risultato che lo stesso esercito aveva rifiutato di coinvolgerli.

Ed è proprio questo il punto. L’esercito si stava addestrando a Umm al-Fahm esattamente come fa regolarmente nelle comunità della Cisgiordania. Gli abitanti sono al massimo comparse. E, se viene sparato un proiettile o un colpo di mortaio vagante, ovviamente si tratterebbe di sfortuna, ma non sarebbe molto importante e in Israele non provocherebbe nessun commento negativo.

Il principale risultato, mai raggiunto in precedenza nella storia di Israele, di questo governo è la collaborazione con la Lista Araba Unita [gruppo politico islamista che fa parte dell’attuale coalizione di governo israeliana, ndtr.]. Ma com’è che anche questo governo continua a trattare come nemici i cittadini arabi di Israele, con la loro pluridecennale esperienza di discriminazione istituzionalizzata e l’altrettanto istituzionale incitamento all’odio?

È per questo che la delinquenza nella società araba viene definita “terrorismo” ed è così che la scorsa settimana è emersa un’altra notizia scioccante: il servizio di sicurezza interna [israeliano] Shin Bet ha estorto delle confessioni a tre abitanti di Giaffa riguardo alla loro presunta aggressione contro un soldato. Se l’avvocato dei sospettati non avesse trovato un video del luogo del delitto e non lo avesse usato per dimostrare che i tre sono arrivati dopo l’incidente, è praticamente certo che sarebbero stati condannati.

Questa è la situazione quando sei un cittadino arabo nello Stato ebraico: sei sempre colpevole. Gli arabi possono essere sottoposti a detenzione amministrativa [cioè senza prove né accuse, ndtr.] e le loro case possono essere perquisite senza un mandato, due procedure che lo Shin Bet e le IDF utilizzano quotidianamente in Cisgiordania.

E qui è il caso di menzionare una cosa che gli ebrei preferiscono dimenticare, ma che è per sempre impressa nella memoria degli arabi di Israele: questi metodi non sono stati inventati in Cisgiordania. Vennero utilizzati per la prima volta contro i cittadini arabi di Israele durante il periodo dello stato d’assedio, finché esso non finì nel 1966.

In pratica ci viene chiesto di scegliere tra due sistemi di governo. Uno, un regime basato sull’etnia, un regime di superiorità ebraica, l’altro, la cittadinanza: “Ci sarà una stessa legge e uno stesso rito per voi e per lo straniero che soggiorna presso di voi” (Numeri, 15:16). Quelli che protestano contro la definizione di Israele come Stato di apartheid dovrebbero opporsi fermamente contro l’idea perversa di due sistemi giuridici separati, all’interno dell’Israele propriamente detto: uno per gli ebrei e uno per gli altri israeliani. Ma sorprendentemente quelli che protestano sono esattamente gli stessi che stanno insistendo perché vengano ripristinati i metodi del governo militare.

I diritti umani non possono essere separati: se non ci sono diritti per gli arabi di Israele, i diritti degli ebrei verranno minacciati. I nuovi strumenti saranno troppo allettanti per la polizia e le altre forze di sicurezza. Meglio fermarsi qui prima che sia troppo tardi.

 

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)

 




Non è antisemita protestare contro l’ambasciatrice israeliana. Basta chiedere agli ebrei britannici

Non è antisemita protestare contro l’ambasciatrice israeliana. Basta chiedere agli ebrei britannici

La scorsa settimana le proteste durante il discorso a Londra dell’ambasciatrice israeliana nel Regno Unito, Tzipi Hotovely, sono state immediatamente definite antisemite e persino paragonate alla Notte dei Cristalli. Ma molti ebrei britannici hanno duramente criticato il razzismo di Hotovely e anche il suo sostegno all’occupazione.

Tommer Spence

15 novembre 2021 – Haaretz

 

Le proteste della scorsa settimana contro l’ambasciatrice israeliana nel Regno Unito, Tzipi Hotovely, durante il suo discorso alla London School of Economics (LSE), hanno innescato un’ondata di condanne nella politica britannica, con importanti esponenti conservatori e laburisti che le hanno etichettate come antisemitismo e un attacco alla libertà di parola.

In alcuni casi le istituzioni ebraiche britanniche sono andate oltre, e il Jewish Chronicle ha paragonato l’incidente alla Notte dei Cristalli, quando migliaia di ebrei furono mandati nei campi di concentramento dai paramilitari nazisti, le loro proprietà distrutte e le sinagoghe profanate.

In qualità di rappresentante eletto degli studenti ebrei nel Board of Deputies [la seconda maggiore organizzazione ebraica del Regno Unito, dopo la Initiation Society fondata nel 1745, ndtr.], il principale organo rappresentativo della comunità ebraica britannica, considero molto seriamente l’antisemitismo nei campus, anche perché è qualcosa che ho vissuto in prima persona.

L’antisemitismo è profondamente radicato nella società britannica, quindi non c’è dubbio che si annidi nelle università, e che i luoghi comuni sugli ebrei possano – inconsciamente o meno – influenzare il modo in cui le persone percepiscono e criticano lo Stato ebraico.

Ma se vogliamo sradicare l’antisemitismo da ogni tipo di discorso e di militanza relativi a Israele, allora dobbiamo essere molto chiari su cosa lo sia e cosa no.

Non si discute su eventuali minacce di violenza o intimidazioni rivolte a Hotovely: sono chiaramente inaccettabili.

Ma sono inaccettabili come atti individuali, riferibili solo a sé stessi. Suggerire che da soli rappresentino atti di antisemitismo semplicemente perché l’ambasciatrice è una funzionaria del governo israeliano è tanto inconsistente quanto dannoso, dato che uno dei messaggi fondamentali dell’educazione contro l’antisemitismo è che gli ebrei e lo Stato di Israele sono distinti e non intercambiabili.

Non ci sono testimonianze di canti antisemiti intonati durante la protesta quando Hotovely se n’è andata, e ha potuto parlare senza essere interrotta. L’idea che quanto accaduto sia paragonabile alla Notte dei Cristalli solo perché l’incidente è avvenuto nello stesso giorno è così grossolana che rasenta il revisionismo sull’Olocausto.

La realtà è che affermare che i manifestanti contro Hotovely potessero essere mossi solo da odio contro gli ebrei serve solo – inconsapevolmente o meno – a occultare il suo razzismo passato ed attuale. Implica che non vi sia alcuna ragione legittima che possa provocare espressioni di critica quando in realtà è vero il contrario.

Il curriculum di Hotovely in politica include l’invito alla Knesset [il parlamento israeliano] di un gruppo razzista e violento contrario ai matrimoni misti, e l’affermazione che fosse “importante prevedere delle procedure per prevenire i matrimoni misti”.

È sostenitrice dichiarata della soluzione discriminatoria di un unico Stato, avendo espresso esplicitamente la propria visione di come la Cisgiordania potrebbe essere portata sotto il permanente controllo israeliano senza dare la cittadinanza ai palestinesi che vi vivono. Da quando è diventata ambasciatrice ha chiarito che questo continua ad essere il suo punto di vista e ha continuato a fare commenti razzisti, descrivendo la Nakba come una “bugia araba” in uno dei suoi primi eventi pubblici lo scorso anno.

I politici e i commentatori che si sono precipitati ad accusare i manifestanti di antisemitismo pensavano senza dubbio di parlare in nome di, oppure a, una comunità concorde su questo punto. L’ironia è che, mentre si è registrata una condanna  unanime delle minacce di violenza contro Hotovely alla LSE, gli ebrei britannici non sono mai stati più divisi su Israele – in gran parte proprio grazie a Hotovely.

Dopo anni di latente scontento per l’occupazione, la nomina ad ambasciatrice di una nazionalista dichiarata ha provocato un’ondata di frustrazione nei confronti del governo israeliano. Quasi 2000 ebrei britannici hanno firmato una petizione chiedendo che la nomina di Hotovely fosse respinta ed è stata apertamente criticata da figure pubbliche di alto livello, tra cui il rabbino capo del Reform Movement [movimento religioso che vuole adattare l’ebraismo alle mutate condizioni del mondo moderno, ndtr.], la seconda comunità del Regno Unito.

Da quando è arrivata a Londra un anno fa, alcune istituzioni pubbliche hanno cercato di ignorare la frattura, ospitandola in numerose occasioni e rifiutandosi di contestare anche i suoi commenti più incendiari. Eppure all’interno della comunità ebraica ha continuato a crescere l’opposizione nei suoi confronti.

Dopo che la fazione progressista Liberal Judaism [seconda in Gran Bretagna dopo Reform Movement nella World Union for Progressive Judaism, ndtr.]  l’ha ospitata per un evento questa primavera, decine di membri di base sono intervenuti e uno dei membri del consiglio di amministrazione del movimento – il presidente del gruppo di azione antirazzista – si è dimesso per protesta. L’amministratore delegato di Liberal Judaism, il rabbino Charley Baginsky, ha in seguito espresso rammarico per come l’evento fosse stato strutturato in modo acritico e per come ai membri della comunità non fosse stata data l’opportunità di obiettare prima che esso fosse annunciato pubblicamente.

Il movimento giovanile sionista Noam, parte della corrente conservatrice di Masorti [movimento di ebrei tradizionali, non strettamente osservanti in Israele, che si identificano principalmente con l’ebraismo ortodosso, ndtr.], ha apertamente boicottato Liberal Judaism in merito ad un evento con Hotovely, un fatto senza precedenti nelle comunità ebraiche di tutto il mondo. La sua prima apparizione di persona nella comunità ebraica, meno di un mese fa, è stata accolta dall’uscita di attivisti ebrei.

Senza dubbio qualcuno – non ultima l’ambasciata israeliana – spera che gli eventi alla LSE della scorsa settimana mettano fine a questo malcontento all’interno della comunità ebraica, che la scena di Hotovely oggetto di feroci proteste evochi un senso di solidarietà che porti al fatto che futuri disaccordi vengano espressi a porte chiuse, come lo furono con i predecessori di Hotovely. Ma i fatti suggeriscono il contrario.

Le violenze di maggio in Israele-Palestina hanno mosso le proteste guidate da ebrei del Regno Unito più vaste mai avvenute a sostegno dei palestinesi, una tendenza che è molto probabile aumenti mentre continua l’occupazione. Le opinioni impudenti ed estremiste di Hotovely non faranno altro che esacerbare questa tendenza, e finché rimarrà in carica molti ebrei britannici con orgoglio la contesteranno sulla base dei loro principii.

Tommer Spence è uno dei fondatori di Na’amod [movimento di ebrei britannici contro l’occupazione, ndtr.], e rappresentante degli studenti ebrei nel Board of Deputies degli ebrei britannici.

 

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)