La rivolta dei giovani palestinesi – Quale ruolo per i partiti politici?

 Parte 2

 

di Jamil Hilal

Ma’an News (ma tratto da Al-Shabaka)

Al-Shabaka è un’organizzazione indipendente no profit che ha come obiettivo informare e stimolare il dibattito pubblico sui diritti umani e sull’autodeterminazione dei palestinesi nel contesto delle leggi internazionali.

Questa è la seconda parte di una pubblicazione divisa in otto segmenti sull’attuale assenza di un’autentica dirigenza nazionale palestinese e sulla rivolta dei giovani contro la prolungata occupazione militare da parte di Israele e la negazione dei diritti umani nei Territori Palestinesi Occupati (TPO).

Questo pezzo è stato scritto da Jamil Hilal, un sociologo e scrittore palestinese indipendente che ha pubblicato molti libri e articoli sulla società palestinese, il conflitto arabo-israeliano e i problemi del Medio Oriente.

I partiti politici democratici e progressisti hanno storicamente fornito i dirigenti nella lotta per la libertà dall’oppressione, soprattutto dal saccheggio e dal terrore provocato dall’ insediamento di coloni. Purtroppo qui ciò non è avvenuto fin dalla prima Intifada alla fine degli anni ’80. Non solo i partiti politici e i movimenti non si sono fatti carico delle loro responsabilità, ma hanno anche agito in un modo che ha frammentato il movimento di liberazione nazionale palestinese. Invece i partiti avrebbero dovuto rivedere in modo critico i progressi ed i fallimenti del passato in modo da ricostruire un movimento più consono alle nuove condizioni nazionali, regionali e internazionali. In breve, i partiti politici non sono nelle condizioni di fornire una dirigenza unificata e una strategia coerente con l’attuale lotta dei giovani contro l’oppressione dei coloni e il cupo futuro che attende i giovani.

Quanto alla riconciliazione tra Fatah e Hamas, tutto indica che non verrà raggiunta presto. Gli altri partiti politici hanno giocato il ruolo di mediatori invece di formare una leadership alternativa con un programma che affronti la frammentazione, colonizzazione e sottomissione sempre più pesanti imposte ai palestinesi. Non è stato formato un blocco storico per spingere i due maggiori movimenti in conflitto (Fatah e Hamas) a rinsavire o, in mancanza di ciò, che si prendesse la responsabilità di offrire una nuova prospettiva e una nuova dirigenza.

La maggioranza del popolo palestinese è disillusa e frustrata dai continui litigi e dai risultati di Fatah e Hamas, mentre sempre più terra viene occupata dai coloni e le case distrutte, i palestinesi vengono arrestati arbitrariamente, Gerusalemme viene “israelizzata”, i gazawi sottoposti a un lento genocidio, i palestinesi del 1948 [cioè con cittadinanza israeliana. Ndtr.] soffrono discriminazione e segregazione e i rifugiati sono condannati all’esilio. Ora giovani disarmati vengono assassinati a sangue freddo dall’esercito israeliano e dai coloni mentre la cooperazione sulla sicurezza vergognosamente continua.

La risposta dovrebbe essere che ogni comunità palestinese decida democraticamente la propria dirigenza alternativa e pensi collettivamente a come costruire un nuovo movimento nazionale, conservando al contempo i risultati positivi che la lotta palestinese ha raggiunto nei decenni scorsi. Ciò non sarà facile, ma i palestinesi del 1948 sembrano essere sulla via giusta [l’autore si riferisce alla costituzione alle ultime elezioni israeliane di una lista unitaria degli arabo-israeliani. Ndtr.], il loro esempio dovrebbe essere studiato e, dove possibile, seguito.

Ovviamente, ciò non sarà facile da mettere in pratica. Sembra che ci sia ancora bisogno, data la situazione estremamente vulnerabile della maggior parte delle comunità palestinesi, di costituire comitati locali nei villaggi, nei campi di rifugiati e nei quartieri urbani in modo da articolare i loro bisogni in base alle specificità della loro situazione, e poi formare aggregazioni più ampie. Per esempio, in Cisgiordania, per un gran numero di comunità il problema è come difendere se stessi, la propria terra e proprietà contro i mortali attacchi dei coloni; nella Striscia di Gaza, come affrontare i pressanti problemi causati dall’assedio israeliano e le continue guerre letali; e in Libano, come dare più potere ai comitati popolari nei campi di rifugiati in modo che formino un “quadro unificato” per affrontare i maggiori problemi comuni ai vari campi.

Il ruolo di simili comitati locali potrebbe estendersi in base alle circostanze, dai municipi,dai consigli di villaggio, dalle sezioni locali di partiti politici, dalla società civile e dallele istituzioni locali. Gli esempi delle continue lotte dell’Alto Comitato di Monitoraggio tra i palestinesi del 1948 [comitato che riunisce tutte organizzazioni dei palestinesi con cittadinanza israeliana. Ndtr.] e delle lotte del Movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) sono un esempio per tutti noi.

Ma nella vita reale, la gente riflette e trova le soluzioni concrete ai problemi che deve affrontare in una specifica situazione. Fortunatamente non stanno ad aspettare gente come me che gli dica cosa fare.

Questo pezzo è parte della pubblicazione di una tavola rotonda di Al-Shabaka. La versione completa è stata originariamente pubblicata sul sito di Al-Shabaka il 23 novembre 2015.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono agli autori e non riflettono necessariamente la politica editoriale dell’Agenzia Ma’an News.

(Traduzione di Amedeo Rossi)




La rivolta dei giovani palestinesi – Quale ruolo per i partiti politici?

Parte 1

Maannews

di Jamal Juma

Al-Shabaka è un’organizzazione indipendente no profit che ha come obiettivo informare e stimolare il dibattito pubblico sui diritti umani e sull’autodeterminazione dei palestinesi nel contesto delle leggi internazionali.

Questa è la prima parte di una pubblicazione divisa in otto segmenti sull’attuale assenza di un’autentica dirigenza nazionale palestinese e sulla rivolta dei giovani contro la prolungata occupazione militare da parte di Israele e la negazione dei diritti umani nei Territori Palestinesi Occupati (TPO).

Questa parte è stata scritta da Jamal Juma’, un membro fondatore dei Comitati di Soccorso Agricolo Palestinese, dell’Associazione Palestinese per gli Scambi Culturali e della Rete delle ONG Ambientaliste Palestinesi.

Per circa due mesi, i palestinesi hanno atteso che i partiti politici si facessero carico del loro ruolo di direzione e guida della rivolta. Evidentemente, costoro non sono in grado né vogliono farlo. Ci sono una serie di ragioni della loro inazione. Per un verso, i leader dei partiti sono riluttanti a pagare il prezzo di dirigere e strutturare la resistenza popolare, se questo prezzo è fatto pagare da Israele nella forma di arresti, persecuzioni e prendendo di mira le organizzazioni, soprattutto in quanto i partiti agiscono alla luce del sole e le loro strutture organizzative sono deboli. E non vogliono neppure perdere i privilegi di cui godono in quanto membri dell’OLP, sia in termini di vantaggi economici che di status politico.

Oltretutto i vari partiti non possono agire senza il consenso dell’apparato di sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) e di quello della sua fazione maggioritaria, Fatah: sono al momento troppo deboli per cambiare lo status quo. Il presidente Mahmoud Abbas, che detiene tutto il potere, crede che la rivolta abbia il compito di attirare l’attenzione sulla causa palestinese e di risvegliare la comunità internazionale, e sta scommettendo su nuove iniziative per riprendere i negoziati con Israele. Di conseguenza Abbas ha dichiarato in termini inequivocabili che non vuole una rivolta.

A causa della debolezza della loro attuale composizione e delle loro strutture organizzative, i partiti politici non possono fornire una cornice politica, organizzativa ed economica in grado di dirigere una rivolta di lungo termine che sia in grado di prosciugare le risorse e le energie dell’occupazione israeliana. Una ribellione vittoriosa richiederebbe una visione complessiva per raggiungere obiettivi chiari e perseguibili mobilitando opportunità e relazioni locali, regionali e internazionali.

Riguardo alle forze islamiche, Hamas e Jihad Islamica, hanno preso anche loro la stessa posizione di inattività. Neanche loro vogliono pagare il prezzo e fornire a Israele un’opportunità di lanciare un’offensiva contro la Striscia di Gaza. Essi temono anche che la ribellione possa essere sfruttata per migliorare i termini dei negoziati per l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) e l’ANP.

Ci sono una serie di fattori a favore della creazione di uno spazio per una nuova dirigenza nazionale o locale. Anche se si dovesse placare, l’attuale rivolta ha sollevato la questione dell’idoneità dell’attuale leadership e ha legittimato la ricerca di alternative. Ha inoltre unito il popolo palestinese all’interno della Linea Verde [in Israele. Ndtr.], in Cisgiordania, a Gerusalemme e a Gaza.

Ironicamente, sono le forze politiche a rimanere divise. Pur se in modo limitato, anche i palestinesi della Diaspora si sono mossi e hanno aiutato ad organizzare manifestazioni. Le azioni sul terreno stanno gettando i semi di una dirigenza emergente che può essere coltivata, anche se è dispersa e circoscritta in ambito locale.

Dal punto di vista negativo, tuttavia, è chiaro che l’ANP non permetterà che emerga una nuova leadership e non risparmierà gli sforzi per contrastarla, anche se ciò dovesse richiedere il coordinamento con l’occupazione israeliana, con cui in ogni caso collabora. Oltretutto gli attuali movimenti di base sono deboli, in quanto gli intellettuali giocano uno scarso ruolo nella vita politica palestinese e sono incapaci di appoggiare le forze popolari. Come per la Diaspora palestinese, hanno una ridotta influenza nei processi decisionali.

La sfida consiste nel costruire sui fattori positivi e minimizzare quelli negativi: da notare che per creare una dirigenza alternativa qualunque serio movimento dovrebbe lavorare in certa misura clandestinamente.

Per cominciare, è importante crearsi uno spazio protetto dalla dominazione politica, nel quale sia possibile appoggiare quelle forze popolari che hanno una visione politica e una capacità di mobilitazione, come i sindacati, le organizzazioni degli agricoltori, le federazioni delle donne e naturalmente i gruppi giovanili, in modo che possano agire a fianco della rivolta.

E’ anche importante sfruttare il potenziale della Diaspora palestinese, soprattutto tra i giovani, e organizzare gruppi di lavoro che possano comunicare e coordinarsi con figure nazionali di rilievo che credano nel ruolo importante che la Diaspora deve giocare sia nel processo decisionale che nell’appoggio alla resistenza del popolo palestinese.

Quindi è vitale investire nell’importante coordinamento tra la madre patria e la Diaspora. Dobbiamo ricostruire la fiducia tra noi e rinnovare la sicurezza in noi stessi e nella nostra capacità di provocare dei cambiamenti. In ultima analisi, dobbiamo avere una fede assoluta nel nostro popolo e nella sua capacità di sacrificio e di sviluppo [della lotta] e credere, al di là di ogni dubbio, che vinceremo.

Questo pezzo è parte della pubblicazione di una tavola rotonda di Al-Shabaka. La versione completa è stata originariamente pubblicata sul sito di Al-Shabaka il 23 novembre 2015.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono agli autori e non riflettono necessariamente la politica editoriale dell’Agenzia Ma’an News.

(Traduzione di Amedeo Rossi)




Israele potrebbe essere in procinto di intraprendere i primi passi per diventare uno Stato teocratico

Nella caotica situazione attuale riguardo alla sicurezza, si prevede che il Comitato ministeriale per la legislazione prenda in considerazione un disegno di legge che inserirebbe nella legislazione israeliana precetti religiosi ebraici.

Haaretz Editoriale

Nella caotica situazione attuale riguardo alla sicurezza, si prevede che il Comitato ministeriale per la legislazione analizzi domenica [18 ott.] un disegno di legge che potrebbe preannunciare il primo passo verso la trasformazione di Israele in un Paese regolato dalla legge ebraica (Halakha), inserendo precetti della religione ebraica nella legislazione israeliana.

Le origini della legislazione israeliana sono state codificate Legge Fondamentale [una sorta di Costituzione, ndt], approvata nel 1980.

In base a questa Legge Fondamentale, quando un giudice deve decidere su una questione legale che non trova risposta né nelle leggi né nelle sentenze precedenti, oppure nell’interpretazione, dovrebbe rivolgersi come fonte supplementare ai “principi di libertà, di giustizia, di integrità e pace della tradizione di Israele ( intendendo la tradizione ebraica)”.

Nel corso degli anni, la corte ha interpretato questo come un riferimento ai principi generali della tradizione ebraica e la maggior parte dei giudici non ha accettato il parere secondo cui ciò metterebbe in pratica i principi della legge ebraica come sono formulati. Inoltre, poiché è stato anche possibile trovare risposte a questioni legali mediante ragionamenti deduttivi, i tribunali non hanno fatto ricorso spesso alla Legge del 1980.

I promotori del nuovo disegno di legge, guidati da Nissan Slomiansky membro alla Knesset del gruppo Habayit Hayehudi [Casa Ebraica, un partito politico sionista religioso di estrema destra, il cui leader è Naftali Bennet, ndt] sono in disaccordo con il fatto che la legge in vigore non obblighi i giudici ad applicare i principi religiosi della legge ebraica, per cui cercano di emendarla. Il disegno di legge proposto imporrebbe ai giudici di considerare i precetti della religione ebraica (e ciò viene affermato esplicitamente, al contrario di quanto fa l’attuale legge), come anche i principi di giustizia, di onestà, di pace, ecc., prima di cercare risposte attraverso l’interpretazione delle norme di legge.

Nella procedura , il disegno di legge renderebbe la legge ebraica , in cui sono incluse le regole del Mishna [insieme della Torah orale e del suo studio, ndt], del Talmud[raccolta di discussioni sulla legge mosaica, ndt] e dell’ halakha é la pratica religiosa ebraica, ndt], parte integrante della legge israeliana senza il filtro dell’attuale legge. La [nuova] legislazione obbligherebbe i magistrati ad applicare una simile legge senza avere la possibilità di trovare risposte con le regole della deduzione.

È difficile capire perché i promotori del disegno di legge lo considerino corretto per un paese democratico introdurre i precetti di un’antica religione. Perché l’intera popolazione israeliana, una larga parte della quale non è religiosa e alcuni non sono neanche ebrei, dovrebbe essere soggetta a una legge religiosa ebraica? E questo in relazione con un diritto religioso  che discrimina sistematicamente gruppi di popolazione quali le donne e coloro che non sono ebrei. I magistrati laici e quelli non ebrei saranno obbligati, in base alla proposta di legge, a promulgare sentenze secondo i precetti della legge religiosa. Per “facilitare di più le cose” per loro, il disegno di legge prevede che un istituto ufficiale ”traduca” la legge ebraica in un linguaggio moderno  e lo renda accessibile a tutti i giudici.

Al di là del messaggio estremistico e coercitivo che il disegno di legge trasmette, esso rafforzerebbe i dubbi sulla legittimità di Israele quale Stato democratico. L’argomentazione che Israele è un Paese che rispetta i diritti dei suoi cittadini risulta sostanzialmente indebolito, evidenziandone maggiormente gli aspetti di Stato ebraico religioso, in particolare quelli che impongono leggi religiose a abitanti che non sono religiosi o che non sono ebrei.

(Traduzione di Carlo Tagliacozzo)




In Israele, ci muoviamo in mezzo agli assassini e ai torturatori

L’atto di censura nei confronti del Teatro Al-Midan [cfr. A.Hass su Internazionale ]scaturisce dall’invidia della capacità dei nostri assoggettati di vincere l’oppressione, di pensare e creare, sfidando la nostra immagine di loro come inferiori.

di Amira Hass | 22 giugno 2015 |

Haaretz

 

 

Nelle nostre case, nelle nostre strade e nei nostri luoghi di lavoro e divertimento ci sono migliaia di persone che hanno ucciso e torturato migliaia di altre persone o hanno diretto la loro uccisione e la loro tortura. Scrivo “migliaia” invece del più vago “innumerevoli” – un’espressione relativa a qualcosa che non si può misurare.

La grande maggioranza di coloro che uccidono e torturano (anche adesso) vanno fieri delle proprie gesta e la loro società e le loro famiglie sono orgogliose delle loro gesta – benché normalmente sia impossibile trovare un collegamento diretto tra i nomi dei morti e torturati ed i nomi di coloro che uccidono e torturano, e anche quando è possibile,[ciò] è proibito. E’ proibito anche dire “assassini”. Ed è proibito scrivere “malviventi” o “persone crudeli”.

Io, crudele? Dopo tutto, le nostre mani non sono coperte di sangue quando schiacciamo il bottone che sgancia una bomba su un edificio che ospita 30 membri di una famiglia. Malvivente? Come potremmo usare questo termine per designare un soldato di 19 anni che uccide un ragazzo di 14 anni che è uscito per raccogliere piante commestibili?

I killer e i torturatori ebrei e i loro diretti superiori agiscono come se avessero un’autorizzazione ufficiale. I palestinesi morti e torturati che si sono lasciati alle spalle negli scorsi 67 anni hanno anche dei nipoti e delle famiglie in lutto per i quali la perdita è una costante presenza. Nei corridoi universitari, nei centri commerciali, negli autobus, nei distributori di carburante e nei ministeri governativi, i palestinesi non sanno chi, tra la gente che incrociano, ha ucciso, o quali e quanti membri delle loro famiglie e del loro popolo ha ucciso.

Ma ciò che è certo è che i loro assassini e torturatori vanno in giro liberamente. Come eroi.

In questa malsana situazione in cui i palestinesi soffrono lutto e angoscia, noi, gli ebrei israeliani, non possiamo vincere. Con la nostra aviazione e le nostre forze armate e la nostra Brigata Givati e le nostre celebri unità di commando d’elite, siamo dei perdenti in questo contesto. Ma poiché siamo i dominatori indiscussi, falsifichiamo il contesto e ci appropriamo del lutto.

Non ci accontentiamo dei terreni, delle case e delle vie di comunicazione dirette che abbiamo rubato loro e di cui ci siamo impadroniti ed abbiamo distrutto, e che continuiamo a distruggere e a rubare. No. Noi in più neghiamo ogni ragione, ogni contesto storico e sociale delle espulsioni, spossessamenti e discriminazioni che hanno costretto un piccolissimo manipolo di quei palestinesi che sono cittadini di Israele a cercare di imitarci prendendo le armi. Si sono ingannati pensando che le armi fossero lo strumento giusto di resistenza, o hanno raggiunto il colmo della rabbia e dell’impotenza e deciso di uccidere.

Che se ne pentano o no, la loro delusione non cancella il fatto che avevano ed hanno tutte le ragioni di resistere all’oppressione e alla discriminazione e malvagità che sono parte del dominio di Israele su di loro. Condannarli come assassini non ci trasforma in vittima collettiva in questa equazione. Invece di indebolire le ragioni della resistenza, noi stiamo soltanto intensificando e migliorando gli strumenti di oppressione. E un mezzo di oppressione è l’insaziabile desiderio di vendetta.

L’attacco al Teatro Al-Midan e lo spettacolo “Un tempo parallelo” sono parte di questa sete di vendetta. E comprende anche tantissima invidia. Invidia per la capacità di coloro che opprimiamo di vincere l’oppressione e il dolore, di pensare, di creare e di agire, sfidando la nostra immagine che li dipinge inferiori. Loro non ballano la nostra musica come poveri smidollati.

Come in una caricatura antisemita, per noi tutto si concentra nelle finanze, nel denaro. Noi non stiamo zitti, noi ci vantiamo. Siamo felici se solo togliamo loro i finanziamenti. Li abbiamo trasformati in una minoranza nella nostra terra quando li abbiamo espulsi e non abbiamo concesso loro il ritorno, ed ora il 20% che è rimasto qui dovrebbe dirci grazie e pagare con le tasse degli spettacoli che esaltano lo Stato e la sua politica. Questa è democrazia.

Non è una guerra culturale, o una guerra sulla cultura. E’ un’altra battaglia – probabilmente una causa persa, come quelle precedenti – per un futuro sano per questo paese. I cittadini palestinesi di Israele erano una forma di assicurazione per la possibilità di un futuro sano: si può dire un ponte, bilingue, pragmatico, anche se contrario alla loro volontà. Ma dobbiamo attuare dei cambiamenti, dobbiamo imparare come ascoltarli, perché questa assicurazione sia valida. Ma noi, gli indiscussi dominatori, non prevediamo di ascoltarli e non conosciamo il significato di cambiamento.

Una nota finale: I rapporti sull’omicidio di un residente di Lod, Danny Gonen, alla sorgente di Ein Bubin vicino al villaggio di Dir Ibzi’a erano accompagnati da collegamenti a recenti precedenti attacchi: la persona ferita in un attacco terroristico vicino alla colonia di Alon Shvut, il poliziotto di frontiera accoltellato vicino alla Tomba dei Patriarchi a Hebron. E che cosa si ometteva di menzionare? Ovviamente, due giovani palestinesi recentemente uccisi dai soldati israeliani: Izz al-Din Gharra, di 21 anni, colpito a morte il 10 giugno nel campo profughi di Jenin e Abdullah Ghneimat, 22 anni, schiacciato il 14 giugno a Kafr Malik da una jeep dell’esercito israeliano.

In media ogni notte l’esercito israeliano compie 12 raid di routine. Per i palestinesi, ogni raid notturno, che spesso comporta l’uso di granate stordenti e di gas e sparatorie, è un mini attacco terroristico.

( Traduzione di Cristiana Cavagna)




Bruciate chiese e moschee in Israele

Fino a quando Israele permetterà che vengano bruciate le sue chiese e le sue moschee?

Israele deve trattare i mandanti dei crimini motivati d’odio, come quello commesso vicino a Tiberiade, con la stessa severità riservata a coloro che mandano le auto bomba nel centro delle città.

Editoriale di Haaretz 21 giugno 2015

L’incendio doloso di giovedì [18 giugno] della chiesa “Della Moltiplicazione dei Pani e dei Pesci” a Tabgha, vicino a Tiberiade, è il diciottesimo attacco incendiario a una chiesa o a una moschea negli ultimi quattro anni. Nessuno di questi casi è stato risolto, nessun responsabile è stato individuato e, naturalmente, nessun colpevole è stato accusato per gli attacchi, che sono parte di un’ampia serie di azioni, comprendenti scritte con lo spray sulle chiese e sulle moschee incitanti all’odio, sputi ai sacerdoti cristiani a Gerusalemme e la pubblicazione di editti di vari rabbini contro i “gentili”.

Danneggiare luoghi sacri non è solo un atto criminale o un o un crimine qualunque motivato dall’odio. Proteggere la libertà di culto è uno dei principi fondamentali universali previsti da tutti i trattati e dalle costituzioni di tutti i Paesi, in quanto costituisce l’aspetto principale dell’identità culturale. Persino nazioni che si costituiscono in base alla religione prevalente, come alcuni Stati islamici, considerano le istituzioni religiose di altre fedi come luoghi sacri, perseguendo e punendo coloro che le profanano.

Le leggi israeliane contro il danneggiamento dei luoghi sacri sono di una chiarezza cristallina, così come il discorso ufficiale apparentemente portato avanti dal governo. Se si considera la fedeltà nei confronti della definizione di Israele come Stato ebraico, il governo condanna vigorosamente tutti i casi in cui un luogo di culto non ebraico viene deturpato. Tuttavia è difficile prendere in seria considerazione le condanne espresse dal primo ministro, dai ministri e dagli esponenti della Knesset quando, nello stesso momento, fanno l’occhiolino a quelli che infrangono la sovranità dello Stato e intraprendono personali campagne religiose e culturali contro i cristiani e i musulmani.

Quale messaggio ha realmente trasmesso al pubblico il primo ministro Benjamin Netanyahu dopo l’ultimo attacco incendiario? Ha dato istruzioni al capo dei servizi di sicurezza Shin Bet [il servizio segreto interno n.d.t.] di accelerare l’inchiesta per trovare i colpevoli. Significa che deturpare le istituzioni religiose fino ad ora non era tra i compiti dello Shin Bet? Possiamo trarre la conclusione che individuare i colpevoli dei crimini motivati dall’odio contro gli arabi non è un fatto degno della loro attenzione?

È giusto dire che profanare luoghi di culto non è percepito come un atto “classico” di terrorismo che mette in pericolo la sicurezza nazionale. Tale interpretazione vale anche ovviamente per i colpevoli di delitti motivati dall’odio e per i fanatici religiosi. La loro continua libertà gli da un senso di impunità che gli permette di continuare nei loro crimini.

Il governo di Israele, giustamente, non avrebbe ignorato l’incendio di sinagoghe, la distruzione di tombe nei cimiteri ebraici o l’aggressione contro ebrei in altri Paesi se i governi [di questi Paesi] si fossero scarsamente impegnati nell’indagare simili crimini. Ora deve dimostrare determinazione nello sradicare analoghi crimini di incitamento all’odio dall’area sotto la sua giurisdizione, definendo i colpevoli come terroristi che minano la sicurezza d’Israele, né più né meno di quelli che mandano le auto bomba nel centro delle città.

 

(Traduzione di Carlo Tagliacozzo)