“Quarantadue ginocchia in un giorno”: cecchini israeliani parlano apertamente del fatto di aver sparato contro i manifestanti a Gaza

Nota della redazione di Chronicle de Palestine

Non è senza esitazione che abbiamo deciso di tradurre e pubblicare questo documento. Per parafrasare Annah Arendt, “la banalità del male” dimostrata da questi racconti è terribilmente scioccante e prova una volta di più a che punto i palestinesi siano disumanizzati dai loro oppressori israeliani. Ma il paradosso è che siano quei “tiratori scelti” israeliani ad essere  quasi sempre privi di sentimenti umani, e la realtà che si impone è che il loro comportamento è apprezzato, è la “norma”, e che non c’è alcun contrappeso da parte della società israeliana, anch’essa profondamente corrotta da un’ideologia colonialista, razzista e segregazionista.

Neppure il lavoro giornalistico realizzato in questo documento va al fondo delle cose ed evita allo stesso modo di fare il possibile per evocare la moltitudine di uccisioni deliberate tra i manifestanti di Gaza. È la ragione per la quale abbiamo inserito una serie di foto [ nella traduzione ne abbiamo inserite solo alcune, ndtr.] che ricordano in modo molto diretto che le truppe d’occupazione hanno come missione uccidere, mutilare, terrorizzare, e che qualsiasi compiacimento a questo riguardo equivarrebbe ad esserne complici.

Bisogna tuttavia riconoscere che l’autore mette il dito su un sintomo che illustra la gravità del male: i soldati israeliani di una volta potevano ogni tanto avere ed esprimere delle remore di fronte al lavoro sporco che gli veniva richiesto, mentre oggi si lamentano di non aver potuto uccidere o mutilare quanto avrebbero voluto…Un segno dei tempi.

Hilo Glazer

6 marzo 2020 – Chronique de Palestine [traduzione di un articolo di Haaretz Magazine]

Oltre 200 palestinesi sono stati uccisi e circa 8.000 sono rimasti feriti durante quasi due anni di proteste settimanali sul confine tra Gaza e Israele. I cecchini dell’esercito israeliano raccontano le loro storie

So esattamente quante ginocchia ho colpito, dice Eden, che ha finito sei mesi fa il servizio militare nelle Forze di Difesa israeliane [l’esercito israeliano, ndtr.] come cecchino nella brigata di fanteria “Golani”. Per la maggior parte del tempo è stato schierato lungo il confine della Striscia di Gaza. Il suo compito: respingere manifestanti palestinesi che si avvicinavano alla barriera [tra Gaza e Israele, ndtr.].

Ho tenuto i bossoli di tutti i colpi che ho sparato,” dice. “Ce li ho nella mia stanza. Così non devo fare un calcolo approssimativo, lo so: 52 colpi precisi.”

Ma ci sono anche colpi “non precisi”, vero?

Ci sono stati episodi in cui il proiettile non si è fermato ed ha colpito anche il ginocchio di qualcuno che stava dietro (quello a cui ho mirato). Sono errori che capitano.”

Cinquantadue sono molti?

Non ci ho per niente pensato. Non sono centinaia di eliminazioni come nel film “American Sniper” [“Cecchino americano”, film USA di Clint Eastwood ambientato in Iraq, ndtr.]: stiamo parlando di ginocchia. Non la prendo alla leggera, ho sparato ad esseri umani, eppure…”

Come sei messo in graduatoria rispetto ad altri che hanno fatto il servizio militare nel tuo battaglione?

Dal punto di vista dei tiri, sono quello che ne ha di più. Nel mio battaglione direbbero: ‘Guarda, arriva il killer.’ Quando tornavo dal campo mi chiedevano: ‘Beh, quanti oggi?’ Devi capire che prima che arrivassimo noi le ginocchia erano la cosa più difficile da accumulare. C’è una storiella su un cecchino che in totale aveva [sparato a] 11 ginocchia, e la gente pensava che nessuno potesse superarlo. E allora io sono arrivato a sette-otto ginocchia in un giorno. In poche ore ho quasi demolito il suo record.”

Vedere per credere

Le dimostrazioni di massa sul confine tra Israele e la Striscia sono iniziate nel marzo del 2018 in occasione del Giorno della Terra [in cui i palestinesi ricordano una manifestazione di palestinesi cittadini israeliani contro l’esproprio delle loro terre nel 1976 che venne repressa nel sangue dalle forze israeliane, ndtr.], e sono continuate ogni settimana fino allo scorso gennaio. Secondo l’ufficio dell’ONU per il Coordinamento degli Affari Umanitari questi continui scontri per protestare contro l’assedio israeliano a Gaza sono costati la vita a 215 dimostranti, mentre 7.996 sono stati feriti da proiettili veri. Nonostante il grande numero di vittime, le tristi manifestazioni e la repressione lungo il confine sono continuate senza sosta per circa due anni, finché si è deciso di ridurne la frequenza a una volta al mese. Eppure anche nell’immediato il violento rituale del venerdì pomeriggio ha provocato scarso interesse nell’opinione pubblica israeliana. Allo stesso modo le condanne internazionali – dalle denunce per l’uso di una forza sproporzionata alle accuse che Israele stava perpetrando un massacro – sono svanite come neve al sole.

Fare luce su questo recentissimo pezzo di storia implica parlare con i cecchini. Dopo tutto sono stati la forza prevalente e più significativa nella repressione delle manifestazioni nei pressi della barriera. I loro obiettivi sono andati dai giovani palestinesi che cercavano di infiltrarsi in Israele o che lanciavano bottiglie molotov contro i soldati a manifestanti disarmati considerati i principali istigatori [delle proteste]. Ad entrambe le categorie si è risposto allo stesso modo: proiettili veri sparati alle gambe.

Delle decine di cecchini che abbiamo avvicinato, sei (tutti congedati dalle IDF) hanno accettato di essere intervistati e di descrivere quale sembrasse loro la situazione attraverso il mirino dei fucili.

Cinque sono di due brigate di fanteria – due a testa della Golani e della Givati, uno della Kfir – più uno dell’unità antiterrorismo Duvdevan. I loro nomi sono stati modificati. Non parlano per “rompere il silenzio” [riferimento al gruppo di militari ed ex-militari israeliani “Breaking the silence” che denuncia i crimini dell’esercito nei territori palestinesi occupati, ndtr.] o per fare ammenda delle proprie azioni, ma solo per raccontare quello che è successo dal loro punto di vista. Nel caso di Eden, persino il fatto che abbia anche ucciso un manifestante per errore non lo sconvolge: “Penso che ero dalla parte giusta e che ho fatto la cosa giusta,” insiste, “perché se non fosse stato per noi i terroristi avrebbero cercato di attraversare la barriera. Per te è ovvio che sei là per un motivo.”

Eden afferma di aver battuto il “record di ginocchia” nella manifestazione avvenuta il giorno in cui è stata inaugurata la nuova ambasciata USA a Gerusalemme, il 14 maggio 2018. Lo ha fatto in compagnia: in genere i cecchini lavorano in coppia, insieme a un localizzatore, che è anch’egli per formazione un cecchino, il cui compito è di fornire ai suoi colleghi dati precisi (distanza dal bersaglio, direzione del vento, etc.).

Eden: “Quel giorno il nostro collega ha raggiunto il maggior numero di colpi, 42 in totale. Il mio localizzatore non avrebbe dovuto sparare, ma gli ho concesso una pausa, perché stavamo arrivando alla fine del nostro turno e non aveva ancora colpito neanche un ginocchio. Alla fine te ne vuoi andare con la sensazione che hai fatto qualcosa, che non sei un cecchino solo durante l’addestramento. Così, dopo che ho sparato qualche colpo, gli ho suggerito di darci il cambio. Direi che ha colpito circa 28 ginocchia.”

Eden ricorda chiaramente il suo primo ginocchio. Il suo bersaglio era un manifestante sulle spire di filo spinato a circa 20 metri di distanza. “In quel periodo (all’inizio delle proteste) eri autorizzato a sparare a uno dei principali incitatori delle proteste solo se stava in piedi immobile, “afferma. “Ciò significa che, anche se stava andando in giro tranquillamente, era proibito sparargli, quindi non avremmo mancato il bersaglio e sprecato munizioni. Comunque, questo incitatore è sul filo spinato, io ho l’arma rivolta verso la barriera e non c’è ancora l’autorizzazione ad aprire il fuoco. Ad un certo momento lui sta di fronte a me, mi guarda, mi provoca, mi dà un’occhiata come dire ‘vediamo se ci provi’. Allora arriva l’autorizzazione. In piedi sopra di me c’è il comandante del battaglione, alla mia sinistra c’è il suo vice, a destra il comandante della compagnia – dei soldati tutti attorno a me, insieme alle loro mogli il mondo intero sta osservando il mio primo tiro. Molto stressante. Ricordo la vista del ginocchio nel mirino, scoppiato.

Razan Al-Najjar di 21 anni uccisa il 1 giugno 2018 da un cecchino mentre prestava soccorso ad un ferito
(Oumma)

Roy”, che ha fatto il servizio militare come cecchino nella brigata Givati fino al suo congedo un anno e mezzo fa, dice che il colpo che ricorda più vividamente è quello che ha attirato la maggior attenzione degli spettatori. “C’era pressione perché il comandante di battaglione era sul posto e tutti si occupavano di noi. C’era un palestinese che sembrava avere circa 20 anni, che non smetteva di andare in giro. Maglietta rosa, pantaloni grigi. Quello che fanno è correre continuamente e poi arrivare sul filo spinato. Era veramente bravo a farlo. In quella situazione puoi ucciderlo o colpire qualcuno dietro di lui. Ricordo chiaramente di aver temuto di mancare la sua gamba e poi di essermi sentito sollevato per aver centrato il bersaglio.”

Sollievo è anche quello che [ha provato] Itay, un ex-haredi [ebreo ultraortodosso, ndtr.] che era un cecchino del battaglione Netzah Yehuda (composto da ultraortodossi, l’equivalente della brigata Nahal): “Ho visto un giovane che stava per dar fuoco a una bottiglia molotov. In un caso simile non fai calcoli. Ho parlato alla radio, ho descritto il bersaglio e ho avuto l’autorizzazione. La pressione è assurda. Tutto quello che hai imparato e per cui sei stato addestrato è riassunto in un momento. Ti concentri, ti ricordi di prendere il respiro e poi, boom. Ho sparato al ginocchio ed è caduto. Mi sono accertato che tutto fosse a posto, di aver sparato nel posto giusto.”

Questa specie di verifica è parte delle regole d’ingaggio?

Itay: “L’ordine è di continuare a guardare dopo lo sparo per vedere se l’obiettivo è stato raggiunto. Fai rapporto su un colpo dopo un ulteriore controllo. Guardare dopo è la parte più facile, o, più correttamente, è la parte che ti dà sollievo. Perché in questo caso specifico il terrorista era a meno di 100 metri dai miei compagni e avrebbe potuto finire male.”

E dopo che hai guardato una seconda volta e vedi la ferita, anche quello è facile?

Non devi vedere una grande perdita di sangue, perché nella zona del ginocchio e delle ossa non ci sono molti capillari. Se vedi sangue non è un buon segno, perché probabilmente hai sparato troppo in alto. La scena normale dovrebbe essere che tu colpisci, rompi un osso – nel migliore dei casi rompi la rotula –, nel giro di un minuto arriva un’ambulanza per portarlo via e dopo una settimana ha una pensione di invalidità.”

Ma Shlomi, un cecchino della Duvdevan, dice che neppure colpire la rotula è raccomandabile: “L’obiettivo è provocare all’agitatore il minimo danno, in modo che smetta di fare quello che sta facendo. Così, quanto meno io, cerco di colpire in un punto più grasso, nella regione muscolare.

Puoi essere più preciso?

Shomi: “Sì, perché il Ruger (un tipo di fucile utilizzato per lo più durante le manifestazioni) è pensato per un uso a 100, 150 metri. Da quella distanza vedi la gamba persino a occhio nudo e con il mirino che aumenta la visuale di 10 volte puoi davvero vedere i tendini.”

Giovani con i megafoni

Chi viene considerato come un principale istigatore durante queste manifestazioni? I criteri sono piuttosto vaghi.

Un principale agitatore è un principale agitatore,” taglia corto Amir. Comandante di una squadra di cecchini della Golani che è entrato in azione durante la prima ondata di disordini lungo la barriera, spiega che “non è così complicato capire chi stia organizzando e incitando (gli altri manifestanti). Lo identifichi per esempio dal fatto che sta di schiena rispetto a te e guarda verso la folla. In molti casi ha anche un megafono.”

L’impressione di Itay è che “i principali agitatori siano per esempio persone che vanno in giro nelle retrovie, organizzando le cose. Non sono necessariamente un bersaglio, ma, per far loro sapere che vediamo quello che stanno facendo, potrei sparare in aria attorno a loro. Sai, quello che incita gli altri non rappresenta un pericolo immediato per me, almeno non direttamente, ma fa in modo che le cose accadano. Per cui colpirlo è un problema, ma lo è anche non colpirlo. Questa è la ragione per cui nel momento in cui si stanca di attivare gli altri e inizia a partecipare al caos è il primo che colpiamo, perché è il più importante rispetto al gruppo attorno a lui. È fondamentale per bloccare la fase acuta.”

Aggiunge: “Non colpisci quelli che incitano la folla per quello che stanno facendo. Non deriva da uno stato emotivo del tipo ‘È quello che sta provocando la rivolta, quindi abbattiamolo.’ Questa non è una guerra, sono disordini del venerdì pomeriggio. L’obiettivo non è di abbatterne il più possibile, ma di far cessare questa cosa al più presto.”

Secondo le regole d’ingaggio delle IDF un minorenne non è classificato come un agitatore importante. Secondo Eden, “ci sono età limite, e quindi tu non le colpisci.”

È veramente possibile definire la differenza tra un uomo smilzo e un adolescente ben piantato nel bel mezzo di una manifestazione? “Cerchi di capirlo in base al linguaggio del corpo,” afferma Amir. “Il modo in cui tiene una pietra, se sembra che sia stato trascinato nella situazione o che la stia dirigendo. Quelle manifestazioni assomigliano un po’ a un movimento giovanile, dal loro punto di vista. Anche se tu non conosci il loro ‘grado’ preciso, puoi dire in base al carisma chi sia il leader del gruppo.”

Roy sostiene che “nel 99,9% dei casi, l’identificazione è esatta. Ci sono un sacco di immagini del bersaglio e di mirini concentrati su di lui. Un drone sopra, vedette, il cecchino, i suoi comandanti. Non sono solo una, due o tre persone che lo stanno guardando, per cui non ci sono dubbi.”

Shlomi è un po’meno sicuro: “A volte è veramente difficile dire la differenza (tra minori e adulti). Guardi i tratti del volto, il peso, la massa corporea. Anche il vestito è un indicatore certo. I più giovani sono in genere vestiti con una maglietta. Ma senti, anche un sedicenne ti può causare un danno. Se rappresenta una minaccia il parametro dell’età non è necessariamente rilevante.”

Itay è d’accordo: “L’obiettivo è non colpire minorenni, ma una bottiglia molotov è una bottiglia molotov e non sa se la persona che la tiene in mano è un uomo di 20, un adolescente di 14 o un bambino di 8.”

Amir ricorda di aver affrontato un dilemma simile: “Per esempio, c’era un ragazzino il cui comportamento giustificava il fatto di sparargli, ma abbiamo valutato che avesse 12 anni e deliberatamente non lo abbiamo fatto – non solo per come sarebbe apparso sui media, ma per delle nostre considerazioni personali. Abbiamo deciso che lo avremmo veramente spaventato ed abbiamo colpito la persona vicino a lui. Per noi non era una cosa urgente. Sarebbe stato lì anche la settimana successiva.”

Niente “prima sparare e poi piangere”

Sono passati 53 anni dalla pubblicazione di “Il Settimo giorno”, una raccolta di testimonianze di soldati provenienti da kibbutz che esprimevano il proprio disagio emotivo dopo aver assistito ai combattimenti durante la guerra dei Sei Giorni [guerra preventiva di Israele contro i Paesi arabi nel 1967, ndtr.]. È un testo fondamentale per il modo in cui descrive Israele come una società che “prima spara e poi piange”. Più di mezzo secolo dopo il lamento dei soldati tornati dal campo di battaglia si può ancora sentire, ma, almeno secondo le voci qui citate, le loro basi ideologiche ed etiche sono state rovesciate. L’introspezione sul prezzo di sangue è stato sostituito dalle critiche per la debolezza dell’esercito e dalla sensazione che stia legando le mani ai suoi combattenti.

Ho visto sobillatori che attraversavano la barriera e non ho potuto fare niente, “dice Roy. “L’hanno saltata e ci hanno provocati, e poi sono tornati indietro. Ovviamente non hai l’autorizzazione a sparargli. Perché? Perché una volta che sono in territorio israeliano non sono considerati ostili se non hanno con sé un coltello o un fucile. Le limitazioni nei nostri confronti sono vergognose. Devi capire: anche se c’è un ventenne davanti a me che incita altri e dà fuoco a un copertone, prima devo informare il comandante di compagnia, che informa il comandante di battaglione, che parla con il comandante di brigata, che comunica con il comandante di divisione. Ci sono stati alcuni casi ridicoli. Durante quel lasso di tempo il bersaglio si è già spostato o si è nascosto.”

Amir descrive la catena di comando in questo modo: “Per ogni cecchino c’era un comandante a livello inferiore (un sottufficiale) come me, e anche un comandante superiore – un comandante o un vice comandante di compagnia. L’ufficiale superiore chiede l’autorizzazione a sparare al comandante della brigata di settore. Lo chiama alla radio e chiede: ‘Posso aggiungere un altro ginocchio per questo pomeriggio?’”

L’impressione che ne ha ricavato Daniel, un soldato solitario [“lone soldier”, sono ebrei stranieri che vanno in Israele da volontari per fare il servizio militare, ndtr.] immigrato dagli Stati Uniti e arruolato nella brigata Givati, è che le procedure fossero più flessibili di così: “Come ogni cosa nelle IDF, non era del tutto chiaro, almeno non quando ci sono stato io. Ma in generale per sparare devi chiedere l’autorizzazione al tuo ufficiale superiore e lui chiede l’autorizzazione al comandante di compagnia o di battaglione. Se funzionasse come si suppone, ci vorrebbero meno di 10 secondi. I comandanti non erano particolarmente restrittivi nelle autorizzazioni a sparare. Si fidavano di te quando dicevi di aver identificato un obiettivo giustificato.”

Secondo Eden con il passar del tempo il filo della catena di comando si è allentato: “Se tu guardi indietro alle prime manifestazioni, quattro o cinque anni fa, prima dell’ondata degli ultimi due anni, scoprirai che era molto difficile avere un’autorizzazione. Allora dicevano che ogni ginocchio era una questione veramente importante. Nel periodo in cui le proteste si sono fatte molto più accese è diventato più facile avere il permesso. Nel mio periodo veniva dal livello del comandante di battaglione o di compagnia, a seconda della situazione.”

La richiesta di avere l’autorizzazione per ogni sparo di cecchino da parte del comandante di brigata ha avuto un peso sul numero di vittime palestinesi? I dati indicano che il numero degli uccisi è sceso drasticamente solo dopo il passaggio al Ruger, circa un anno dopo che sono scoppiati i disordini settimanali. Il Ruger è considerato meno letale di altri fucili. Eden, un veterano della zona di Gaza, dice di aver usato un fucile M24 e un Barak (HTR-2000): “Con il Barak, se tu spari a qualcuno al ginocchio, non lo rendi disabile, gli stacchi la gamba. Potrebbe morire dissanguato.”

Lo scorso luglio, dopo 16 mesi di scontri presso la barriera con Gaza, le IDF hanno cambiato le regole d’ingaggio per i cecchini nel tentativo di ridurre il numero di vittime. Un importante ufficiale ha spiegato le modifiche in un articolo della corrispondente militare della Kan Broadcasting Corporation [rete informativa pubblica israeliana, ndtr.] Carmela Menashe: “All’inizio abbiamo detto loro di sparare alle gambe. Abbiamo visto che in quel modo puoi rimanere ucciso, per cui abbiamo detto di sparare sotto il ginocchio. In seguito abbiamo diramato un ordine più preciso e abbiamo dato istruzioni di sparare alle caviglie.”

Eden lo conferma: “C’è stata una fase in cui l’ordine è stato proprio di mirare alle caviglie,” nota. “Non mi è piaciuto quel cambiamento. Devi avere fiducia nei tuoi cecchini. Mi è sembrato che stessero cercando di renderci la vita più difficile senza ragione.”

In che senso?

Eden: “Perché è chiaro che la superficie del corpo tra il ginocchio e la pianta del piede è molto più larga che tra la caviglia e il piede. È la differenza tra colpire 40 cm e colpirne 10.”

Roy, che ha finito il servizio militare prima che venissero aggiornate le regole d’ingaggio, afferma che in genere mirava in ogni caso più in basso: “Durante il tempo in cui sono stato in servizio era consentito sparare ovunque dal ginocchio in giù, ma io miravo alle caviglie, per non colpire più in alto, dio non voglia, o si sarebbe scatenato l’inferno. Preferivo così. Non avevo pietà per i sobillatori, ma sapevo che non sarei stato appoggiato dall’esercito. Non voglio essere un secondo Elor Azaria (il cosiddetto sparatore di Hebron, che è stato detenuto dopo essere stato condannato per aver ucciso un aggressore palestinese non più in grado di nuocere). Ho pensato meno al bersaglio e più a me stesso e alla mia famiglia, in modo che non dovesse subire la stessa sorte della famiglia di Elor.”

Saif al-Din Abou Zayd di 15 anni ucciso da una pallottola alla testa
(MaanImages)

Amir aggiunge: “Se tu per sbaglio compisci un’arteria principale della coscia invece della caviglia, allora o avevi intenzione di sbagliare o non avresti dovuto essere un cecchino. Ci sono cecchini, non molti, che ‘scelgono’ di sbagliare (e mirano più in su). Però il numero non è alto. (Per fare un confronto) ci sono giorni in cui conti 40 ginocchia nell’intero settore. Queste sono le proporzioni.”

Secondo Amir, la discussione su dove sparare – coscia, ginocchio o caviglia – è fuori tema: “Fammi raccontare una storia. Un giorno c’era molto lavoro da fare, un vero caos. Uno dei miei soldati voleva abbattere uno dei principali agitatori che rispondeva a tutti i criteri. Ha chiesto l’autorizzazione, ma il comandante di compagnia l’ha rifiutata, perché il tizio era troppo vicino a un’ambulanza.”

Una minima deviazione, anche se avesse solo colpito un fanale, e ci sarebbero stati articoli di giornale secondo cui le IDF avevano sparato a un’ambulanza. Il mio soldato ha sentito il rifiuto dell’autorizzazione, ma ha comunque sparato. Ha colpito la caviglia, come era previsto, un colpo preciso, chirurgico. Per cui da un lato ha disubbidito a un ordine, ma dall’altro ha portato a termine la sua missione.” (In seguito il soldato è stato punito e assegnato a un lavoro di pulizia).

E tu hai capito il suo ragionamento?

Amir: “Ovviamente. Per un soldato come quello, quel colpo è il suo obiettivo, la sua autodefinizione. Sono ragazzi di 18 anni, per lo più di un contesto socioeconomico molto povero. Il fatto che tu li metta in un corso per cecchini non significa che li trasformi in persone sensibili e mature. Al contrario li hai trasformati in macchine, hai fatto sì che pensino in modo limitato, hai ridotto le loro possibilità di scelta, hai sminuito la loro umanità e personalità. Nel momento in cui trasformi uno in un cecchino, questa è la sua essenza. Quindi ora vuoi anche portargliela via? Può sembrare radicale, perché sono un comandante, ma c’è un posto dentro di me che dice: ‘Ehi, mi hai disubbidito, è vero, ma ne sei uscito da uomo, hai dimostrato che il tuo ruolo (di cecchino) funziona.’”

Amir, che alle superiori si è diplomato in teatro e si definisce un “boyscout del nord”, descrive un altro caso di violazione delle norme avvenuto nella sua compagnia. “Anche quando non ci sono manifestazioni e tutto sembra calmo, ti fanno andare di corsa alla barriera con la pattuglia quando vi si avvicinano i pastori. Devi capire che non si tratta di pastori innocenti, lavorano per Hamas e per la Jihad Islamica per farti impazzire. Superano la linea perché tu risponda. Prendi un veicolo e vai a minacciarlo? Prima che tu arrivi lì se n’è già andato. Spari in aria? Non gliene può importare di meno. E a causa di questa insensatezza non dormi e tutta la compagnia diventa il burattino del pastore,” dice Amir.

Un giorno uno dei sottufficiali mi ha detto: ‘Ne ho abbastanza, non possiamo continuare così, abbattiamo una delle pecore, vale qualche centinaio [di euro, ndtr.].’ Pensa cosa porta un soldato, un musicista di una buona scuola superiore, l’ultimo ragazzo che diresti essere assetato di sangue, a dire via radio alla vedetta: ‘Vedi una pecora, a nord? Stai per vederla cadere.’ Dopodiché il pastore non è tornato. Qual è la conclusione? La deterrenza ha funzionato.”

Amir dice che questi due episodi devono essere compresi alla luce della natura dell’attività del suo battaglione sul confine con Gaza: “Anche prima che iniziassero le manifestazioni, eravamo in agguato da due mesi interi,” racconta. “Abbiamo osservato una squadra che cercava di improvvisare una bomba e di attaccarla alla barriera. C’era qualcosa che non andava in tutto ciò, l’ordigno non era esploso e ci siamo resi conto che stavano venendo a prenderla. Ma è andato avanti per un bel po’. Ogni giorno si avvicinavano e neppure quando il capo del gruppo era proprio sopra la bomba abbiamo avuto l’autorizzazione a sparare. Perché? Solo a causa della sensibilità dei media. Finché non avesse realmente preso l’ordigno era impossibile dimostrare al di là di ogni dubbio che avesse a che fare qualcosa, quindi vai poi a capire che tipo di narrazione Hamas avrebbe ricavato da ciò. Pensa quanto sia frustrante per i soldati. Siamo stati là nella pioggia per due mesi e non abbiamo fatto niente.”

E la frustrazione giustifica l’insubordinazione in base ad altre circostanze?

Amir: “No, ma quel caso illustra il paradosso delle regole d’ingaggio. Un terrorista che merita di morire sta davanti a me ma, poiché dobbiamo giustificarci con Haaretz o con la BBC, se la cava senza un graffio. Si crea una vigliaccheria che scende verso il basso. Così invece tu vai e fai fuori le ginocchia durante le manifestazioni. Non solo questo non è efficace, ma questa gente non merita neppure di perdere le proprie ginocchia. Mi identifico realmente con quello che una volta ha detto (l’ex-capo di stato maggiore delle IDF) Ehud Barak, che se fosse un palestinese sarebbe diventato un terrorista. Ciò mi ha colpito solo quando sono stato nei territori. Vedi bambinetti piangere quando prendi a pugni il loro padre, e ti dici: ‘Non mi posso aspettare nient’altro da loro.’”

Rapporto con lo sport

Ci sono cecchini che hanno avuto difficoltà a riprendere la loro vita dopo essere stati congedati?

Tuly Flint, un ufficiale dei servizi per la salute mentale della riserva e operatore sociale clinico specializzato in traumi, ha curato cecchini che hanno partecipato alla repressione di manifestazioni a Gaza durante gli ultimi due anni. I cecchini, dice, manifestano singolari caratteristiche quando si tratta di stress post-traumatico.

Se fossi uno dei trenta soldati che sono nella zona e sparassi una raffica, non saprei necessariamente se ho ucciso qualcuno,” dice, mentre il cecchino sa quando colpisce il suo bersaglio. “Il secondo tratto distintivo deriva dal fatto che al cecchino viene richiesto di non girare lo sguardo. Attraverso il mirino vede la persona a cui sta sparando e l’impatto del colpo, e ciò può fissare l’immagine nella sua memoria.”

Flint descrive un cecchino di un’unità d’élite che ha mirato al ginocchio di un manifestante ma ha colpito troppo in alto, e il dimostrante è morto dissanguato. “Quel soldato, un cecchino molto impegnato nella sua missione, descrive l’immagine del manifestante che muore dissanguato. Non può dimenticare l’uomo che grida di non lasciarlo solo. Ricorda anche in modo vivido quando hanno portato via il corpo e le donne che piangevano su di lui. Da allora non pensa ad altro e non sogna altro. Dice: ‘Non sono stato mandato per difendere lo Stato, sono stato mandato per uccidere.’ Anche il pensiero della fidanzata della persona che ha ucciso continua a perseguitarlo. Il risultato è che ha rotto con la propria fidanzata con cui stava da due anni. ‘Non merito di averne una’, dice.”

Daniel ha un vivido ricordo dei suoi colleghi dopo un colpo perfetto. “Le persone sembrano malate o scioccate. Il significato di ciò, sul momento, non li colpisce sul vivo. Un secondo dopo, un minuto dopo che ho sparato a qualcuno, mi metto a mangiare matza [pane azzimo, ndtr.] con cioccolato? Cosa cavolo sta succedendo qui?”

Aggiunge: “Ci sono storie orribili, tremende di soldati che hanno preso di mira un manifestante e colpito qualcun altro. Conosco uno che ha preso di mira uno dei leader delle manifestazioni, che stava su una cassa e incitava la gente ad avanzare. Il soldato ha mirato alla sua gamba, ma all’ultimo momento l’uomo si è spostato e la pallottola lo ha mancato. Ha colpito invece una ragazzina, uccisa sul colpo. Quel soldato oggi è un rudere. È continuamente sorvegliato perché non si suicidi.”

Cecchini con il peso di esperienze come questa sono la minoranza. Da parte sua Amir dice che il tipo di sensazione che molti cecchini hanno è totalmente diversa, e richiama il mondo dello sport: “La zona dei disordini è come un’arena sportiva, una situazione in cui puoi vendere i biglietti,” dice. “Gruppo contro gruppo, con una linea nel mezzo e un pubblico di tifosi da entrambi i lati. Puoi assolutamente raccontare la storia di un incontro sportivo.”

In prima linea, continua, “ci sono i sobillatori: segnano la linea di partenza da cui le persone partono di corsa, da sole o in gruppo. Tutto è coordinato e pianificato in anticipo. Ci sono quei buchi nel terreno (per nascondersi) e ciò permette loro di giocare con noi. Possono correre 100 metri senza che io sia in grado di colpire i loro piedi. Sono anche abili a zizzagare. Due di loro saltano fuori, si nascondono, uno lancia una pietra in modo che l’altro possa andare avanti. Usano con te tattiche diversive. Sai, è una specie di gioco.”

Qual è lo scopo di questo gioco?

Amir: “Guadagnare punti. Se riescono a mettere la bandiera sulla barriera, vale un punto. Una bandiera piena di esplosivo è un punto. Lanciare indietro lacrimogeni è un punto. Persino anche solo toccare il muro, intendo la barriera, è un punto. C’è una battaglia in corso qui, ma non si sa quando verrà decisa, nessuno ha idea di come vincere la coppa, ma nel frattempo entrambe le parti continuano a giocare la partita.”

Un gioco per la cronaca. Le forze non sono esattamente equamente ripartite.

Vero. E non stiamo usando neppure un quarto della forza che potremmo esercitare.”

In altre parole, potremmo colpirli con un ko, ma preferiamo vincere ai punti?

Non stiamo neppure vincendo ai punti. Dopo un po’ di tempo là, in un rapporto ho detto: ‘Lasciatemi solo per una volta abbattere un ragazzino di 16, anche 14 anni, ma non con un proiettile alle gambe, lasciate che gli spari alla testa di fronte a tutta la sua famiglia e a tutto il suo villaggio. Lasciatemi spargere sangue. E allora forse per un mese non dovrò prendermi altre 20 ginocchia.’ Questo è un calcolo scioccante al limite dell’inimmaginabile, ma quando non usi le tue potenzialità non è chiaro che cosa stiamo cercando di fare là. Mi chiedi quale fosse il compito? Mi risulta difficile risponderti. Cosa ho considerato un successo dal mio punto di vista? Persino il numero di ginocchia che ho preso non è dipeso da me, ma dal numero di ‘anatre’ che hanno scelto di attraversare la linea.”

Ma uccidere un ragazzino a caso, pensi davvero che questa sia la soluzione?

Ovviamente non dovremmo far fuori ragazzini. Lo stavo dicendo per fare il punto della situazione: se tu ne uccidi uno ne devi risparmiare altri 20. Se tu mi riportassi a quegli appostamenti di due mesi e mi lasciassi agire, avrei fatto fuori quel figlio di puttana che stava sulla bomba, anche se ciò avrebbe significato che sarebbe tornato in seguito nei miei sogni. Anche oggi la situazione per cui ci sono da 5 a 10 persone che rimarranno invalide per il resto della loro vita, alle quali il mio nome è in qualche modo collegato, è una merda. E non solo nel senso che ciò mi pesa o meno sul cuore. Pensaci: là c’è un’intera generazione di minorenni che non sarà in grado di giocare a pallone.”

Solo ragazzi

Sembra che la presenza di minorenni alle manifestazioni desti le risposte più fortemente emotive tra i cecchini.

Un giorno c’era una bambina, penso che avesse probabilmente 7 anni, che portava una bandiera di Hamas ed è corsa verso di noi,” dice Shlomi di Duvdevan. “Mi sono accertato attraverso il mirino che non ci fosse niente di sospetto in lei, che la sua camicetta non avesse sporgenze, che non ci fossero segni di fili o bombe, e abbiamo gridato per fermarla. Fortunatamente si è spaventata ed è corsa via. Mi era chiaro che non le avrei sparato neppure se avesse attraversato il confine, ma mi ricordo di aver pensato: spero proprio che non continui ad avanzare.”

Abdullah al-Anqar colpito  da una pallottola esplosiva che gli ha causato l’amputazione dell’arto sinistro
(Hosam Salem/Al Jazeera)

Daniel: “Dal posto di guardia vedi un militante di Hamas, la sua faccia è di fronte a te e tu pensi tra te e te: spero davvero che faccia qualcosa in modo che gli possa sparare. Ma con i manifestanti il quadro diventa complicato, perché molti di loro sono solo adolescenti. Sono esili, piccoli, non ti senti minacciato da loro. Devi ricordare a te stesso che quello che stanno facendo è pericoloso.”

Come alcuni degli altri intervistati, Daniel sottolinea la rabbia dei soldati nei confronti dei genitori: “Una madre che porta il proprio figlio a una manifestazione come quella è una madre terribile,” dice. Amir afferma che può capire quei bambini: “Si guadagnano la vita in quel modo e non devo dirti io quanto sia difficile la situazione economica a Gaza. Ma i loro genitori non li capisco. Perché li trascini lì? Mandali a sgattaiolare (in Israele) di nascosto e a lavorare nell’edilizia, rovescia il governo di Hamas, qualunque altra cosa, solo non questo.”

Roy, che si identifica come di destra, è d’accordo che “non sono loro che dobbiamo combattere, ma Hamas, i terroristi, quelli che organizzano gli autobus per portare la gente e gli gettano qualche dollaro in modo che brucino pneumatici. Ho pietà di loro (i minori), sono veramente sfortunati. Mi ricordano dei bambini del quartiere che giocano con i mortaretti. Ero anch’io come quei ragazzini, per cui in questo senso mi identifico con loro.”

Ma, pur manifestando obiezioni contro il fuoco indiscriminato, Itay, del [battaglione di ultraortodossi, ndtr.] Netzah Yehudah pensa ancora che il numero di palestinesi feriti da proiettili veri sul confine durante oltre due anni in realtà dimostri che i soldati non hanno avuto il grilletto facile. “Ogni venerdì ci sono migliaia di manifestanti,” nota, “e se moltiplichi quel numero per 52 e poi lo raddoppi, hai centinaia di migliaia di persone. Rispetto a questi, 8.000 sono una piccola percentuale.”

Tuttavia aggiunge che “il potere che hai quando qualcuno entra nel tuo mirino, la consapevolezza che dipende da te se sarà in grado di camminare o meno, è terribile. Dal mio punto di vista, non è un potere che mi eccita. Non mi piace, ma è impossibile ignorarlo. È lì tutto il tempo. Dopo che sono stato congedato ho capito che è una cosa che non voglio provare mai più. Sono andato subito direttamente all’università e non a fare qualche lavoro nella sicurezza, cosa che avrei potuto ottenere per i miei trascorsi in combattimento.”

È il tuo destino”

Non tutti riescono a contenere la sensazione di esaltazione. Un video che ha circolato nel 2018 mostrava un palestinese che si avvicinava alla barriera e veniva colpito da un cecchino, mentre i soldati festeggiavano il colpo diretto con grida di “Bel colpo!” e “Che video favoloso!” Roy dice che la risposta dei soldati attesta una mancanza di professionalità e troppo entusiasmo, benché egli non abbia visto niente del genere nella sua squadra.

D’altra parte penso sia umano,” dice. “Quando hai un certo obiettivo, persino se stai sparando frecce a un bersaglio, ovviamente sei contento di aver fatto centro. L’errore dei soldati è stato nel loro comportamento. Che ridano un po’ di nascosto, ma non farci un video. È anche una questione di immagine.”

Anche Amir distingue tra la soddisfazione personale e le manifestazioni pubbliche che non stanno bene in un video: “I cecchini nella squadra che abbiamo sostituito erano una leggenda. Erano campioni delle IDF e avevano due o tre fighissime X (sui loro fucili) per essersi occupati della frontiera a Gaza. Abbiamo sentito la storia delle X e anche noi le volevamo. È la tua professione, il tuo destino, il significato del tuo esistere dal momento in cui ti alzi a quando vai a letto. Ovviamente vuoi mostrare le tue capacità.”

Devi festeggiare? Non c’è nessun altro modo?

Amir: “No. Prendi il tizio più scimmiesco che conosci, ed è quello che le IDF fanno, trasformano i ragazzi in babbuini, e cerca di farlo smettere di raccontare della sua prima volta. C’è il caos là, tutti sparano, ottengono grandi successi – ti aspetti che non aprano una bottiglia di champagne? Lui si è realizzato proprio in quel momento, è un attimo particolare. In realtà più lo fa e più diventa indifferente. Non sarà più particolarmente felice, o triste. Sarà normale.

I commenti dell’esercito

L’ufficio del portavoce delle IDF ha inviato questo comunicato ad Haaretz: “La risposta operativa ai violenti disordini e all’attività terroristica ostile che le IDF hanno dovuto affrontare dal marzo 2018, così come l’uso di proiettili veri, è adeguata in modo appropriato alla minaccia rappresentata da questi incidenti, in un tentativo di ridurre per quanto possibile il ferimento di quanti hanno provocato i disordini. Negli ultimi due anni la risposta operativa è stata influenzata dall’intensità degli eventi, dai cambiamenti nell’uso della violenza da parte di quanti hanno disturbato l’ordine pubblico, dal fumo che hanno diffuso e via di seguito.

Alla luce del cambiamento che è avvenuto nella natura dei disordini si è deciso di dotare le forze anche di proiettili Ruger, che provocano meno danni. Riguardo all’uso di fucili M24, facciamo notare che è un fucile usualmente in uso dei cecchini. In generale, nel quadro degli eventi in questione, non sono stati utilizzati fucili da cecchino Barak. Siamo stati informati di un uso eccezionale e specifico di questi ultimi, che è stato riportato e indagato. I risultati sono stati inviati all’unità dell’avvocatura di Stato militare per un ulteriore esame.

Le affermazioni attribuite a un ufficiale superiore riguardo alle regole d’ingaggio non riflettono la politica operativa delle IDF. L’ufficiale intendeva spiegare che, quando ci sono state informazioni di ferite non intenzionali da arma da fuoco che non erano al di sotto del ginocchio, in alcune circostanze il comandante di settore ha deciso di rendere più vincolanti le regole d’ingaggio e di dare istruzioni ai cecchini di mirare alle caviglie.

E nel caso in cui un combattente ha sparato a un capo-agitatore, benché non abbia ricevuto l’autorizzazione dal suo ufficiale superiore, lo sparo è avvenuto in accordo con le regole d’ingaggio con l’eccezione di questa trasgressione. Il caso è stato preso in considerazione a livello di comando e non è stato presentato all’unità dell’avvocatura di Stato militare perché se ne occupi. Allo stesso modo il caso in cui una pecora è stata indebitamente colpita, questo incidente è stato gestito a livello di comando e non è stato inviato all’unità dell’avvocatura di Stato militare perché se ne occupasse. Il vice-comandante di compagnia aveva cercato di infrangere la disciplina militare ed è stato condannato a sette giorni di detenzione.”

(traduzione dall’inglese e dal francese di Amedeo Rossi)




Israele. Il “centrismo” della lista Bianco Blu:”la cultura araba è la giungla”

 Jonathan Ofir

17 febbraio 2020 – Mondoweiss

E’ ciò che pensa e ha affermato senza esitazioni in una intervista il deputato Yoaz Hendel, un alto dirigente del partito, presunto centrista, guidato dall’ex capo di stato maggiore Benny Gantz che il 2 marzo potrebbe superare il Likud di Netanyahu e vincere le elezioni israeliane

 Nena News – “Penso che la cultura araba intorno a noi sia la giungla.” Questo è ciò che sostiene Yoaz Hendel in un’intervista rilasciata venerdì al giornalista di Haaretz Ravit Hecht. Hendel è tra i primi dieci leader del partito Blu-Bianco di Benny Gantz, che ha 33 seggi nel parlamento israeliano. Il partito dovrebbe fungere da opposizione di centro al Likud di Netanyahu, e secondo molti sondaggi potrebbe superare il Likud di un paio di seggi alle prossime elezioni di marzo.

L’intervista è sconvolgente. Hendel commenta generalmente in modo derisorio la cultura araba:“C’è gente venuta qui da Paesi di ogni tipo: alcuni arrivano con la mentalità da concerto a Vienna, altri con la mentalità da darbuka”, ha dichiarato a Hecht, facendo riferimento a un tipo di tamburo molto popolare in Medio Oriente.

Non è la prima volta che Hendel fa propaganda razzista. Nel 2017, la sua rubrica settimanale su Yediot Aharonot ha descritto un immaginario di vendetta in cui i Palestinesi avevano il ruolo dei nazisti. In una “manifestazione per la democrazia” orientalista, organizzata dal partito Blu-Bianco l’anno scorso, Hendel ha boicottato l’evento perché, all’ultimo momento, era stato annunciato un intervento di Ayman Odeh, leader della Lista unita dei partiti palestinesi in Israele.

Hendel è passato al partito Blu-Bianco dal Likud, come membro della fazione Telem, insieme a Moshe Ya’alon, che è il numero tre nella lista Blu-Bianca. Anche Ya’alon è un ex membro del Likud, è stato Ministro della Difesa e ha anche lui precedenti di razzismo anti-palestinese, avendo paragonato la “minaccia palestinese” a un “cancro”, contro il quale applica la “chemioterapia” (era il 2002, e lui era Capo di Stato Maggiore dell’esercito). Hendel era il Responsabile della Comunicazione e dell’Hasbara (‘diplomazia pubblica’) di Netanyahu nel 2011-2012.

La dichiarazione secondo cui “la cultura araba intorno a noi è la giungla” non nasce dal nulla. L’idea di Israele come “villa in mezzo alla giungla” viene, infatti, attribuita al leader “di sinistra” Ehud Barak, che la pronunciò in un discorso ufficiale nel 1996. Barak si è anche congratulato con Trump per il suo monito razzista secondo cui “Mohammed” potrebbe diventare Primo Ministro, e reputa che “loro (i palestinesi, e soprattutto Arafat) sono il prodotto di una cultura in cui mentire… non crea dissenso… Per loro dire bugie non è un problema, come invece è nella cultura giudaico-cristiana”.

Ecco qualche altro passo dell’intervista:

Hecht: “Lei ha detto in passato che Israele è una villa nella giungla. Oggi, qui, ribadisce che il nostro vantaggio sui palestinesi è la moralità. Pensa che la cultura araba sia la giungla?”

Hendel: “Sì, certo, penso che la cultura araba che ci circonda sia la giungla. C‘è una palese violazione di ogni singolo diritto umano che noi, nel mondo occidentale, riconosciamo. Lì questi diritti devono ancora vedere la luce del sole. Loro non hanno raggiunto lo stadio evolutivo in cui si hanno dei diritti umani. Non esistono i diritti delle donne, né i diritti LGBT, né quelli delle minoranze, e non c’è educazione. Molti Stati arabi sono dittature mancate, il che spiega perché i trattati di pace che sigliamo qui sono limitati alla leadership. Non esiste la pace tra popoli perché non esiste educazione alla pace e alla tolleranza.”

Hecht contesta Hendel:

Hecht: “Anche in Israele l’odio verso gli arabi è la norma.”

Hendel: “C’è il razzismo e bisogna occuparsene, ma ogni volta che vedo, in ‘A Star is Born’ o a ‘Masterchef’, che gli israeliani votano per un concorrente arabo, o quando giro per gli ospedali per via di mia moglie (è una ginecologa, ndr), ho l’impressione che, finalmente, la vita qui sia priva di razzismo.”

Questa è un’osservazione veramente terribile e paradossale. Hendel cerca di applicare la classica Hasbara quando fa riferimento agli “arabi israeliani” come prova della presunta fiorente democrazia. Ma l’osservazione sugli ospedali! Hendel forse non ha seguito la questione della dilagante e sistematica segregazione razziale delle madri nei reparti maternità israeliani? Non ricorda le parole del parlamentare di estrema destra Bezalel Smotrich, che ha twittato “Subito dopo il parto, mia moglie voleva riposare e non fare una festa come fanno le donne arabe”, e che “È naturale che mia moglie non voglia stendersi vicino a qualcuno che ha appena partorito un bambino che, tra 20 anni, potrebbe voler uccidere il suo”?

Hecht contesta di nuovo le espressioni razziste di Hendel: “Potrai anche votare per un concorrente arabo a ‘Masterchef’, ma dichiari senza esitazione che ‘La mia cultura è superiore e non voglio assomigliare a un arabo’. Anche questa è una forma di razzismo.”

Hendel: “Per come la vedo io, non ho nulla di razzista (sic). Da un punto di vista cognitivo, prima di tutto mi prendo cura della mia gente, delle mie tradizioni e della mia storia. E questo è quanto. Non provo odio verso nessuno e ho legami personali con palestinesi, perché vivo vicino a Gush Etzion (blocco di insediamenti coloniali, ndr).”

Queste espressioni del “colonialista illuminato” che dice “alcuni dei miei amici sono palestinesi” hanno indotto il presidente di B’tselem Hagai El-Ad a paragonare Hendel al Primo Ministro dell’Apartheid sudafricana Hendrik Verwoerd, che dichiarò: “La nostra politica è quella che viene chiamata…‘apartheid’, e io temo che venga spesso fraintesa. Potrebbe essere più semplicemente, e forse meglio, descritta come una politica di buon vicinato.”

Anche Ahmed Tibi, parlamentare della Lista unita araba, è stato particolarmente drastico nel criticare il razzismo di Hendel, sottolineando come gli accenni alla musica araba colpiscano anche gli ebrei arabi: “Un razzista bianco contro arabi e Mizrahim allo stesso modo. Hendel non è Tarzan: Hendel è la giungla. Io amo [il cantante libanese] Fairuz e la darbuka nelle canzoni di Umm Kulthum [compianta cantante egiziana], e quasi sicuramente Hendel ascolta Wagner ogni volta che lo stivale dell’occupazione calpesta i palestinesi privi di diritti umani a causa di quella cultura occidentale che incoraggia gli insediamenti, l‘espropriazione e l’annessione. Detesto la sua visione del mondo e quella di alcuni amici suoi che credono nella supremazia ebraica.”

Il leader della Lista unita araba Ayman Odeh ha detto che “la teoria di Hendel sulla supremazia europea” è stata smentita dall’ “ignoranza e dalla mancanza di cultura che ha dimostrato nella sua intervista a Haaretz”.

Il palese razzismo di Hendel è troppo anche per molti membri del partito Blu-Bianco. Ofer Shelah (anche lui tra i primi 10 leader del Blu-Bianco, più in alto di Hendel), ha dichiarato che “le affermazioni di Yoaz Hendel sono esternazioni infelici che sarebbe stato meglio evitare, e che non rispecchiano lo spirito del partito Blu-Bianco”. La parlamentare Orna Barbivai (posizionata appena dopo Hendel) è stata più leggera nella sua critica: “Penso che tutti nasciamo uguali e non siamo qui per giudicare”. Definendo “superflui” i commenti di Hendel, ha detto “Io sono favorevole alle darbukas. Ma dedurre da questo che Hendel è un razzista sarebbe esagerato”.

Il fatto che Hendel abbia, in un certo senso, equiparato i Mizrahim ad una presunta degenerazione araba l’ha portato ad essere criticato anche dall’estrema destra. Il Primo Ministro Benjamin Netanyahu ha ritwittato una dichiarazione del Likud secondo cui Hendel dovrebbe vergognarsi di se stesso. Dimenticatevi tutte le dichiarazioni razziste di Netanyahu sugli arabi, adesso ci sono facili consensi da raccogliere contro il suo rivale.

 Perfino il Ministro dell’Educazione Rafi Peretz, del partito di estrema destra Yamina, ha detto di essere “orgoglioso di far parte della cultura delle dabukas”. Il parlamentare di Shas (partito ultraortodosso Mizrahi) Ya’akov Margi ha condannato la “boria” di Hendel e ha detto che gli ebrei Mizrahi vengono da una grande tradizione che include ‘Maimonide, scienza e medicina’. I sionisti cercano, per lo più, di barcamenarsi per non inimicarsi i Mizrahim. Quando però il razzismo è così plateale e disgustoso come nel caso di Hendel, si scivola.

H/t Ronit Lentin, Edith Breslauer

Jonathan Ofir è un musicista israeliano, direttore d’orchestra e blogger/giornalista. Vive in Danimarca.

(Traduzione di Elena Bellini)
Nena news




La criminalizzazione della resistenza palestinese: le nuove condizioni dell’UE per gli aiuti alla Palestina

Tariq Dana 

2 febbraio 2020 – Al-Shabaka

Recentemente l’UE ha comunicato alla rete delle Organizzazioni Non Governative Palestinesi (ONGP) le nuove condizioni per i finanziamenti, cioè che le organizzazioni della società civile palestinese sono obbligate a non avere rapporti con individui o gruppi definiti “terroristi” dalla UE. Ciò comprende il personale, gli appaltatori, i beneficiari e i destinatari degli aiuti. La misura non solo riduce ulteriormente la libertà della società civile palestinese, ma inoltre criminalizza la resistenza palestinese persino nelle sue forme più pacifiche. (1)

Che cosa ha causato il cambiamento, quali effetti avrà sulla società civile palestinese e che cosa possono fare i palestinesi al riguardo? Al-Shabaka ha parlato di queste questioni e più in generale dei problemi degli aiuti internazionali alla Palestina con l’analista politico Tariq Dana, professore associato presso il ‘Centro per i Conflitti e gli Studi Umanitari’ dell’Istituto di Studi Universitari di Doha,

L’UE sostiene che la nuova clausola non è nuova, in quanto è coerente con la politica dell’UE dal 2001 tesa ad evitare il finanziamento di gruppi classificati come “organizzazioni terroristiche”. È così?

È importante distinguere tra la politica dell’UE e le politiche dei diversi Stati membri che non riflettono necessariamente gli accordi UE riguardo ad una particolare questione. All’inizio degli anni 2000, quando l’USAID [ente governativo USA per la cooperazione internazionale e gli aiuti umanitari, ndtr.] ha incominciato ad imporre la clausola “antiterrorismo” nei confronti delle ONG palestinesi, pochi Stati europei hanno seguito la strada americana e imposto requisiti più severi alle organizzazioni della società civile palestinese. Però l’Unione Europea all’epoca non era coinvolta direttamente in questa controversia ed ha preferito porre l’accento sulla professionalità, la trasparenza e l’efficacia dei programmi delle ONG come principali criteri per ricevere fondi e attuare progetti, piuttosto che focalizzarsi sull’identità politica delle organizzazioni e del loro personale. La tempistica della recente iniziativa dell’UE sulle condizioni di finanziamento e dell’attacco politico alla società civile palestinese è molto sospetta, poiché giunge in un momento molto difficile per i palestinesi.

Allora che cosa ha portato a questo cambiamento?

Il cambiamento va collocato nel contesto della continua colonizzazione israeliana e dell’abilità della sua impresa coloniale di inventare nuovi meccanismi di controllo. L’ultima mossa dell’UE è il risultato della costante pressione israeliana su di essa per impedirle di finanziare molte organizzazioni palestinesi, soprattutto quelle impegnate nel rivelare e rendere note le pratiche coloniali, le violazioni dei diritti umani e i crimini israeliani.

Israele ha infatti adottato un’ampia gamma di misure aggressive per limitare il campo d’azione della società civile nei Territori Palestinesi Occupati, incluse le detenzioni arbitrarie e gli arresti di attivisti della società civile, giustificazioni in base alla “sicurezza” per ostacolare il lavoro delle organizzazioni locali, il finanziamento di campagne di diffamazione per delegittimare l’attività di queste organizzazioni e la pressione sulle organizzazioni e i donatori internazionali perché sospendano i finanziamenti alle ONG palestinesi. Questo è particolarmente evidente riguardo alle organizzazioni legali che utilizzano le leggi internazionali per riferire sulle violazioni dei diritti umani, come Al-Haq e Addameer, e le organizzazioni per lo sviluppo che realizzano progetti nell’area C [sotto il totale ma temporaneo controllo israeliano, in base agli Accordi di Oslo, ndtr.] per sostenere la tenacia delle comunità locali che soffrono a causa dell’esercito e dei coloni, quali il ‘Centro Bisian per la Ricerca e lo Sviluppo’ il cui direttore, Ubai Aboudi, è stato recentemente arrestato da Israele ed è sottoposto a detenzione amministrativa senza capi d’accusa.

Anche alcune influenti organizzazioni di destra in Israele, come ‘NGO Monitor’, che attacca le organizzazioni palestinesi non-profit e i loro partner internazionali con false accuse, per esempio, di “terrorismo” e “antisemitismo” e che ha il sostegno del governo israeliano, hanno fatto pressione e creato mobilitazione contro il finanziamento delle tendenze, anche quelle più moderate, all’interno della società civile palestinese. Purtroppo la definizione dell’UE di “terrorismo” ricalca la prospettiva israeliana e perciò giova ampiamente a questi interessi tesi a sopprimere le voci critiche palestinesi.

Inoltre, mentre la mossa dell’UE rappresenta un’altra vittoria per la propaganda israeliana, è anche l’ennesima di un’infinita serie di sconfitte dell’ANP [Autorità Nazionale Palestinese, ndtr.]. L’ANP per anni ha escluso la resistenza e ha represso diverse forme di lotta popolare, mentre al contempo sosteneva di appoggiare la “lotta diplomatica” per fare pressione su Israele perché rispettasse il diritto internazionale. Quello che in realtà abbiamo visto è un vergognoso numero di ripetute sconfitte e la scarsa propensione a perseguire un’efficace politica e diplomazia. Quindi non c’è dubbio che il cambio di politica dell’UE nell’intensificare le limitazioni dei finanziamenti alla società civile palestinese è stato in parte il risultato delle politiche insensate dell’ANP.

Come hanno risposto l’ANP e la società civile palestinese alla mossa dell’UE?

Al momento, la società civile palestinese ha mobilitato i propri sostenitori e le proprie reti per respingere questa mossa. La ‘Campagna Nazionale Palestinese per Respingere i Finanziamenti Condizionati’ ha emesso una dichiarazione che critica aspramente la politica dell’UE, affermando la propria totale opposizione al condizionamento politico dei finanziamenti. La dichiarazione afferma l’impegno dell’organizzazione su questa posizione fino al punto che rimarrà ferma anche se “portasse al collasso della nostra organizzazione e all’impossibilità di svolgere il nostro vitale lavoro.” Da parte sua, l’ANP ha denunciato solo verbalmente la misura e non ha formulato alcun piano per trasformare la propria posizione in un passo concreto per fermare l’UE.

Che impatto avrà la politica dell’UE sui palestinesi e sulla società civile palestinese?

La mossa dell’UE giunge in un momento molto difficile per i palestinesi: Israele si sta preparando ad annettere la maggior parte dell’area C e la Valle del Giordano; i palestinesi sono deboli, frammentati e divisi; l’ANP è diventata de facto un esecutore della sicurezza israeliana; la causa palestinese negli ultimi anni ha subito una marginalizzazione e non è più una priorità regionale. Le limitazioni dell’UE si aggiungono a questi elementi, criminalizzando molte organizzazioni palestinesi impegnate in forme moderate di resistenza attraverso il diritto internazionale e la difesa e il sostegno alla sopravvivenza delle comunità. Queste restrizioni quindi non solo contribuiranno ad un’ulteriore emarginazione della causa palestinese, ma favoriranno anche l’istituzionalizzazione dell’espansione coloniale israeliana, poiché, se non riusciranno a trovare alternative ai finanziamenti UE, molte organizzazioni non saranno in grado di sostenere il proprio lavoro di monitoraggio e denuncia dei crimini israeliani.  

Più precisamente, mentre l’elenco dei bersagli dell’UE include molti movimenti di resistenza palestinesi, numerose persone e famiglie subiranno le conseguenze del nuovo cambio di politica. Per esempio, persone che sono state arrestate in passato, compresi coloro che sono stati reclusi in detenzione amministrativa, condannata a livello internazionale, e che ora sono impegnate nell’attivismo della società civile, possono essere classificati “terroristi” e perciò escluse dal ricevere finanziamenti. In più, organizzazioni e gruppi che appoggiano il movimento BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni) e le sue attività sono chiaramente visti come una minaccia agli interessi israeliani e probabilmente le campagne per delegittimare le loro attività, non solo in Palestina, ma anche in parecchi Stati dell’UE, aumenteranno.

È importante sottolineare anche la contraddizione tra la retorica dell’UE e le sue politiche. Per esempio, l’UE afferma che non riconoscerà l’annessione israeliana dell’area C o della Valle del Giordano, ma tagliando gli aiuti essa ostacola il lavoro delle ONG palestinesi che sostengono le comunità minacciate dall’espulsione israeliana in quelle aree. Di fatto l’UE sarà complice del processo di espulsione, anche se afferma di non riconoscere alcuna possibile annessione.   

Quale è lo stato della società civile palestinese in questo momento cruciale?

Attivisti e studiosi hanno ripetutamente messo in guardia rispetto alla costante dipendenza delle ONG palestinesi dagli aiuti condizionati dell’occidente per finanziare le organizzazioni e i progetti locali. Pur riconoscendo gli sforzi delle iniziative di base per riorganizzarsi attraverso risorse locali e attività volontaria per avviare e sostenere alcuni importanti progetti, queste iniziative non si sono trasformate in una tendenza collettiva e strategica. Il più grande e influente segmento della società civile continua a dipendere dagli aiuti internazionali, che sono ampiamente condizionati a livello politico e ideologico e quindi impongono parecchie limitazioni al lavoro dei soggetti della società civile.

Il predominio di queste ONG ha creato una società stagnante, ha depoliticizzato gli attivisti locali, ha prodotto una nuova elite separata ed ha sprecato milioni in progetti insensati. Per esempio, il ruolo della società civile nella divisione tra Fatah e Hamas è stato chiaramente assente e le organizzazioni non sono riuscite a lanciare iniziative strategiche per contrastare le conseguenze delle divisioni. Il risultato è che la società civile palestinese è molto più frammentata di dieci anni fa, mentre le organizzazioni attive in Cisgiordania hanno priorità e programmi diversi dalle loro controparti nella Striscia di Gaza. Quindi, mentre la società civile dovrebbe essere un ambito di resistenza e di mobilitazione contro la frammentazione, essa ne è diventata parte.

Che cosa occorrerebbe fare per rafforzare la società civile palestinese e contrastare la frammentazione?

Le restrizioni dell’UE potrebbero essere dannose per molte organizzazioni locali, ma dovrebbero essere viste come un’opportunità per creare strategie collettive al di là dell’aiuto ufficiale convenzionale dell’occidente e delle sue limitazioni. La pressione creata dai sistematici tagli ai finanziamenti per gli aiuti da parte dei donatori internazionali potrebbe auspicabilmente spingere molte organizzazioni a cercare risorse alternative all’interno della società palestinese in Palestina e nella diaspora e a collegarsi con gli autentici movimenti della società civile e coi gruppi della solidarietà in tutto il mondo, cosa che offrirebbe piattaforme internazionali per l’attivismo dei difensori e possibili risorse finanziarie per contribuire a ricostruire la società civile su nuovi binari.

E’ vitale per le organizzazioni della società civile dare priorità a quei tipi di azioni che valorizzino le strutture popolari, partecipative e democratiche e l’organizzazione sociale di base. Ci dovrebbe essere uno sforzo organizzato a favore del dialogo interno incentrato su una concezione della società civile che privilegi il programma di liberazione nazionale, la mobilitazione popolare, l’impegno, la resistenza e le politiche e la conoscenza anticolonialiste. Questo dovrebbe essere affiancato da una prospettiva di alternative all’attuale sistema di aiuti, reinventando nuove fonti di solidarietà per finanziare le attività della società civile. Ciò potrebbe comprendere progetti di auto-finanziamento che coinvolgano più palestinesi della diaspora, gruppi della solidarietà internazionale e movimenti per la giustizia sociale che aiuterebbero a ridurre la dipendenza dai finanziamenti condizionati.

Note:

  1. Al-Shabaka è grata per gli sforzi dei difensori dei diritti umani di tradurre i suoi articoli, ma non è responsabile per qualunque modifica del loro significato.

Tariq Dana

Il consulente politico di Al-Shabaka Tariq Dana è professore associato presso il ‘Centro per i Conflitti e gli Studi Umanitari’ dell’Istituto di Studi post-universitari di Doha. Ha lavorato come direttore del ‘Centro per gli Studi sullo Sviluppo’ all’università di Birzeit (2015-2017) ed è stato ricercatore presso l’‘Istituto di Studi Internazionali Ibrahim Abu-Lughod’. Ha conseguito la laurea presso la Scuola Sant’Anna di Studi Avanzati, in Italia. Gli interessi di Tariq nel campo della ricerca comprendono l’economia politica, la società civile, i movimenti sociali e le ONG, la costruzione dello Stato e i rapporti società-Stato, con focus particolare sulla Palestina e più in generale sul Medio Oriente arabo.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




La diplomazia di Trump / Netanyahu: Orientalismo con un altro nome [intervista a Richard Falk]

Javad Heiran-Nia

1 febbraio 2020 – wordpress.com

Articolo basato sull’intervista di Javad Heiran-Nia a Richard Falk [professore emerito di diritto internazionale presso la Princeton University, ex relatore delle Nazioni Unite per i diritti umani nei territori occupati e autore di numerosi libri, tra cui Chaos e Counterrevolution: After the Arab Spring, ndtr.] sull’ “accordo del secolo”.

1-Trump l’ha dichiarato alla presentazione dell’ “accordo del secolo” e ha insistito sul fatto che queste proposte siano un equo piano per la pace. Pensa che il piano soddisfi gli interessi dei palestinesi?

Questo cosiddetto contributo alla “pace” richiede che la Palestina rinunci ai suoi diritti fondamentali e accetti una condizione permanente di sottomissione e vittimizzazione. È talmente a favore di Israele da far pensare che sia stato ideato per garantirne il rifiuto immediato e definitivo da parte dei rappresentanti del governo e dell’opinione pubblica palestinesi. Il piano non è altro che un gioco di potere geopolitico sotto mentite spoglie, orchestrato da Netanyahu e Trump per promuovere i propri programmi politici e salvaguardare le proprie posizioni di governo, attualmente sotto attacco sia in Israele che negli Stati Uniti.

Il piano di Trump perpetua, istituzionalizza, acuisce e cerca di legittimare l’attuale stato di apartheid israeliano, e pretende anche di estenderne la protezione legale conferendo la sovranità israeliana alle terre rubate, quei territori palestinesi che hanno languito sotto l’occupazione e una continua serie di usurpazioni israeliane dal 1967. Il piano riduce la legittima presenza palestinese dal 22% sotto occupazione dopo la guerra del 1967 a un residuo 15%, essenzialmente le comunità palestinesi nelle città della Cisgiordania e alcune terre inabitabili nel Negev occidentale. 

2-Uno degli obiettivi di Trump nel proporre il piano è di aiutare Netanyahu a risolvere i propri problemi interni. Può aiutare Netanyahu a mantenere il potere in Israele, visto che potrebbe essere processato?

Sembra esprimere l’opinione, probabilmente popolare presso alcuni elettori in Israele, che Netanyahu è stato in grado di forzare la mano a Trump come nessun altro politico israeliano avrebbe potuto fare, abbastanza da raggiungere quasi tutto ciò che il movimento sionista avrebbe mai sognato di realizzare: una soluzione di fatto con uno Stato unico che sottopone permanentemente tutta la Palestina al controllo diretto e indiretto di Israele, dichiarato dalla Legge Fondamentale israeliana del 2018 Stato-Nazione esclusivamente del popolo ebraico, cancellando i diritti e la parità per le minoranze non ebree. Quello che viene chiamato “uno Stato” nel testo del piano non è uno Stato come previsto dalla diplomazia, in quanto vi vengono negati i diritti elementari di uno Stato sovrano ai sensi del diritto internazionale, costringendo i palestinesi che vivono sotto l’occupazione a condizioni permanenti come quelle di Gaza ed escludendo cinque milioni di rifugiati palestinesi, negando loro il diritto al ritorno ovunque abitassero prima di diventare profughi. 

3-Cosa dovrebbero fare i palestinesi per opporsi a questo piano?

Alzare la voce alle Nazioni Unite e altrove per chiarire che il piano è una farsa e una frode e, peggio ancora, un crimine internazionale; manifestare con risolutezza e con slogan efficaci, anche sulla vergogna dei Paesi arabi che hanno mostrato sostegno all’accordo; incoraggiare la campagna BDS a esercitare la massima pressione; chiedere ai governi e alle Nazioni Unite di imporre sanzioni; chiedere la conferma legale dei diritti dei palestinesi presso la Corte Penale Internazionale dell’Aia; insistere su un nuovo quadro diplomatico per affrontare il conflitto israelo-palestinese senza la guida distorta e assurdamente di parte fornita dagli Stati Uniti per molti anni, compreso il periodo pre-Trump. È più che mai chiaro che i diritti dei palestinesi saranno ottenuti solo attraverso una lotta risoluta, isolando Israele, con le pressioni della solidarietà globale e accusando il governo israeliano e i suoi leader di avere imposto politiche criminali.

4-Perché Paesi arabi come Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Oman, Bahrein, Egitto hanno accettato il piano? 

Per due ragioni principali: 1) quei governi arabi sono minacciati dai movimenti per la democrazia, in particolare tra gli arabi, e temono che il raggiungimento dell’autodeterminazione palestinese destabilizzi i loro oppressivi sistemi di governo; 2) per assicurarsi il sostegno continuo alle priorità regionali sunnite e anti-iraniane da parte della presidenza Trump.

Tale accordo tra le élite al governo non riflette affatto i sentimenti popolari in quei Paesi, i cui popoli continuano a sostenere fortemente la lotta palestinese, ma non sono in grado di influenzare i loro governi autocratici. 

5. Questo piano è in contraddizione con le risoluzioni delle Nazioni Unite e non vi è stata alcuna consultazione con la parte palestinese. In che modo gli Stati Uniti e Israele lo faranno accettare alla Palestina?

 Il piano Trump non solo ignora il diritto internazionale, ma contempla proposte che violano in modo flagrante e sprezzante disposizioni fondamentali come il divieto di acquisizione di territorio con la forza, ribadito nella risoluzione 242 del Consiglio di sicurezza. Inoltre, istituzionalizzando un regime di governo oppressivo che si basa sulla discriminazione razziale, il piano istituzionalizza l’apartheid, definito come “un crimine contro l’umanità” nell’articolo 7 (j) dello Statuto di Roma che regola le attività della Corte Penale Internazionale.

Israele e gli Stati Uniti dovranno prima accettare di smantellare le caratteristiche di apartheid dello Stato israeliano come presupposto essenziale del processo diplomatico verso una pace sostenibile e giusta, che rifletta un impegno per la parità di ebrei e arabi, di israeliani ebrei e palestinesi. Senza soddisfare questa condizione preliminare ad un processo di pace, è illusorio aspettarsi la fine di un conflitto su terra e diritti che dura da più di un secolo. 

 6. Trump definisce giusto il piano, anche se viola i diritti del popolo palestinese. Questo piano è concretizzabile?

Il piano è così evidentemente ingiusto che si potrebbe pensare sia stato progettato per fallire, un risultato già prefigurato dal rifiuto quasi unanime dei palestinesi. Pertanto, l’approccio di Trump / Netanyahu si basa apparentemente sulla capacità di imporre una soluzione al popolo palestinese e di etichettarla come “pace”. Visto più realisticamente, il piano è un mero tentativo di dichiarare unilateralmente la vittoria israeliana e di far credere al mondo che la lotta palestinese sia una causa persa, sperando che una specie di provvedimento truffaldino faccia sì che se i palestinesi ammetteranno la sconfitta e faranno una dichiarazione formale di resa politica, la loro vita migliorerà se misurata in base alla situazione economica. Le misure offerte ai palestinesi nel loro complesso assomigliano a ciò che il popolo di Gaza ha sopportato dal 2007 e a ciò che è stato tentato dall’apartheid sudafricano nelle sue ultime fasi attraverso l’istituzione di bantustan assediati e impotenti in aree remote del Paese in cui alla popolazione africana era richiesto di vivere nella miseria e nell’umiliazione. Nel mondo post-coloniale un tale progetto è la ricetta per una lotta violenta e non deve essere confuso con autentici tentativi di passare di comune accordo dalla guerra alla pace o dall’oppressione alla democrazia costituzionale. L’” accordo del secolo” si rivela essere orientalismo coi muscoli!

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




“Stiamo vivendo con la spada in mano”: i rimorsi del figlio di un fondatore di Israele

Sarah Helm

3 gennaio 2020 – Middle East Eye

In un’intervista approfondita Yaakov Sharett, figlio di uno dei padri fondatori di Israele, dice di pentirsi di essersi insediato nel Negev negli anni ’40 – e di tutto il progetto sionista

Il mio nome è Yaakov Sharett. Ho 92 anni. Si dà il caso che io sia figlio di mio padre, cosa della quale non sono responsabile. Le cose stanno così.”

Yaakov ridacchia e guarda da sotto un cappello di lana verso una foto di suo padre – orgoglioso con colletto e cravatta – sul muro del suo studio a Tel Aviv. Moshe Sharett è stato un padre fondatore di Israele, il suo primo ministro degli Esteri e il suo secondo primo ministro tra il 1954 e il 1955. Ma non sono venuta a parlare del padre di Yaakov. Sono venuta con alcune fotografie di un pozzo che una volta si trovava in un villaggio arabo chiamato Abu Yahiya, nella regione del Negev, in quello che ora è il sud di Israele.

Facendo ricerche per un mio libro ho trovato di recente il pozzo e appreso alcune cose della storia del villaggio di Abu Yahiya. Ho sentito di come i palestinesi che una volta vi vivevano furono espulsi durante la guerra del 1948 che portò alla creazione di Israele.

Ho anche sentito dire che i pionieri sionisti, che avevano piazzato un avamposto nei pressi del villaggio prima della guerra del 1948, erano soliti prendere l’acqua dal pozzo arabo. Tra loro c’era un giovane soldato ebreo chiamato Yaakov Sharett. Perciò sono andata a trovare Yaakov nella speranza che potesse condividere i suoi ricordi sul pozzo, sui contadini e sugli avvenimenti del 1948.

Nel 1946, due anni prima della guerra arabo-israeliana, Yaakov e un gruppo di commilitoni si spostarono nella zona di Abu Yahiya per contribuire a condurre uno dei più spettacolari furti di terra dei sionisti.

Da giovane soldato, Sharett venne nominato mukhtar – o capo – di uno degli 11 avamposti ebraici fondati di nascosto nel Negev. L’obiettivo era garantirsi una roccaforte per assicurare che Israele potesse impossessarsi di quell’area strategica quando fosse iniziata la guerra.

Le bozze dei piani di partizione avevano destinato il Negev, in cui gli arabi erano in numero estremamente superiore rispetto agli ebrei, come parte di uno Stato arabo, ma gli strateghi ebrei erano determinati a prenderselo.

La cosiddetta operazione “11 punti” fu un grande successo, e durante la guerra gli arabi vennero di fatto tutti cacciati e il Negev fu dichiarato parte di Israele.

Per gli audaci pionieri coinvolti fu un titolo d’onore avervi preso parte e Yaakov Sharett in un primo tempo è sembrato esaltarsi dei suoi ricordi: “Ci mettemmo in azione con fil di ferro e pali e facemmo un recinto attraverso Wadi Beersheva,” dice. Ho aperto un computer per mostragli le foto del pozzo arabo, ora una località turistica israeliana. “Sì,” dice Yaakov, sorpreso. “Lo conosco. Ho conosciuto Abu Yahiya. Un tipo gentile. Un beduino alto e magro con la faccia simpatica. Mi vendeva l’acqua. Era deliziosa.”

Gli chiedo cosa fosse successo agli abitanti del villaggio. Fa una pausa: “Quando è iniziata la guerra, gli arabi scapparono – espulsi. Non ricordo bene,” dice, facendo di nuovo una pausa.

In seguito tornai e la zona era completamente vuota. Vuota! Tranne..” e scruta di nuovo la foto del pozzo.

Sai, quell’uomo gentile dopo chissà come era ancora lì. Mi chiese aiuto. Era messo molto male – molto malato, a malapena in grado di camminare, tutto solo. Tutti gli altri se n’erano andati.”

Ma Yaakov non lo aiutò. “Non dissi niente. Mi sento molto male per questo. Perchè era mio amico,” dice.

Yaakov alza lo sguardo chiaramente addolorato. “Mi dispiace moltissimo. Cosa posso dire?”

E mentre quella che doveva essere una breve intervista prosegue, è diventato chiaro che Yaakov Sharett non era pentito solo dell’impresa del Negev, ma anche di tutto il progetto sionista.

Dall’Ucarina alla Palestina

Proseguendo nel racconto, Yaakov è sembrato a volte più un uomo che si stesse confessando che uno che stesse rilasciando un’intervista.

Dopo la guerra del 1948 e la fondazione di Israele, Yaakov studiò russo negli USA e poi venne nominato diplomatico all’ambasciata israeliana a Mosca, per essere poi espulso dalla Russia con l’accusa di essere un “propagandista sionista e una spia della CIA.”

Di ritorno in Israele lavorò come giornalista e da pensionato ha dedicato i suoi ultimi anni alla fondazione della Moshe Sharett Heritage Society [Società in Memoria di Moshe Sharett], che si dedica a pubblicare documenti e diari di Sharett – una sezione in inglese. I diari di Sharett sono stati molto apprezzati, descritti da un critico come “tra i migliori diari politici mai pubblicati.”

Durante la nostra intervista, facendo spesso riferimento al ruolo fondamentale di suo padre nella fondazione di Israele, i pensieri di Yaakov si sono chiaramente focalizzati sugli anni passati a pubblicare gli scritti di Moshe Sharett. Haaretz, il giornale israeliano di centro-sinistra, commentando l’edizione ebraica in otto volumi dei diari, ha affermato che è “difficile sopravvalutare la loro importanza per lo studio della storia israeliana.”

Questa settimana la pubblicazione dell’edizione ridotta in inglese, anch’essa tradotta da Yaakov – “My Struggle for Peace [La mia lotta per la pace] (1953-1956) – sarà festeggiata negli archivi centrali sionisti a Gerusalemme. “Questo è il culmine del lavoro della mia vita,” dice Yaakov.

Questo lavoro ha anche reso più profondo il dolore delle sue conclusioni, in quanto ora lui ha ripudiato la validità di buona parte del “lavoro di una vita” di suo padre – e, apprendo, anche di suo nonno.

Suo nonno, Jacob Shertok – il cognome originario della famiglia – fu uno dei primi sionisti a mettere piede in Palestina, lasciando la sua casa a Kherson, in Ucraina, nel 1882 dopo i pogrom russi [ondata di massacri contro le comunità ebraiche nell’impero zarista, ndtr.].

Aveva il sogno di coltivare la terra. La grande idea sionista era di tornare alla terra e abbandonare le attività superficiali degli ebrei che si erano allontanati dalla terra,” dice.

Pensavano che, poco alla volta, più ebrei sarebbero immigrati fino a diventare una maggioranza, e avrebbero potuto chiedere uno Stato, che allora chiamarono un ‘focolare’ [termine utilizzato nella dichiarazione Balfour del 1917 in cui la GB si impegnava a favorirne la fondazione in Palestina, ndtr.] per evitare discussioni.”

Chiedo cosa il nonno di Yaakov pensasse che ne sarebbe stato degli arabi, che allora rappresentavano circa il 97% della popolazione, con gli ebrei attorno al 2 o 3%. “Credo che pensasse che più ebrei sarebbero arrivati, più prosperità avrebbero portato e che gli arabi ne sarebbero stati contenti. Non compresero che la gente non vive solo di soldi. Saremmo stati il potere dominante, ma gli arabi si sarebbero abituati a questo,” afferma, aggiungendo con un sorriso triste: “Bene, o lo credevano o volevano crederlo. La generazione di mio nonno era composta di sognatori. Se fossero stati realisti, in primo luogo non sarebbero venuti in Palestina. Non fu mai possibile per una minoranza sostituire una maggioranza che aveva vissuto su questa terra per centinaia di anni. Non avrebbe mai potuto funzionare,” sostiene.

Quattro anni dopo Jacob avrebbe voluto non essere mai venuto e ritornò in Russia, non a causa dell’ostilità dei palestinesi – il numero degli ebrei era ancora ridottissimo – ma perché non era riuscito a guadagnarsi la vita qui.”

Molti dei primissimi coloni in Palestina scoprirono che lavorare la terra era molto più duro di quanto avessero mai immaginato e spesso tornarono in Russia disperati. Ma nel 1902, dopo altri pogrom, Jacob Sharett ritornò, stavolta con una famiglia, tra cui Moshe, di otto anni.

La maggior parte dei palestinesi fu ancora accogliente con gli ebrei, in quanto la minaccia sionista non era ancora chiara. Un membro della ricca famiglia Husseini, che era diretto all’estero, offrì persino in affitto al nonno di Yaakov la sua casa nel villaggio di Ein Siniya, ora nella Cisgiordania occupata.

Per due anni nonno Shertok visse là come un importante personaggio arabo, mentre i suoi figli andavano a un asilo palestinese. “Mio padre allevava pecore, imparò l’arabo e in generale visse come un arabo,” dice Yaakov.

Psicologia della minoranza

Ma il progetto sionista era di vivere come ebrei, per cui poco dopo la famiglia dovette spostarsi nel centro abitato ebraico di Tel Aviv in rapida crescita, e Moshe presto affinò tutte le sue capacità – compreso lo studio delle leggi ottomane a Istanbul – per portare avanti il progetto sionista.

Grazie alla dichiarazione Balfour del 1917, che promise un focolare ebraico in Palestina e inaugurò il dominio coloniale inglese, sembrarono ora realizzabili progetti per un vero e proprio Stato ebraico, e nei successivi vent’anni Moshe Sharett contribuì a disegnarlo, diventando una figura fondamentale dell’Agenzia Ebraica, il governo in fieri dello Stato.

Fondamentale per il progetto era la creazione di una maggioranza ebraica e la proprietà di più terra possibile, al cui fine Sharett lavorò in stretto contatto con il suo alleato David Ben-Gurion. L’immigrazione crebbe rapidamente, e venne comprata terra, in genere da proprietari terrieri assenteisti arabi. Le dimensioni del cambiamento provocarono la rivolta palestinese del 1936, brutalmente repressa dai britannici. Alla luce di quella rivolta, il futuro primo ministro mise mai in dubbio che lo Stato ebraico potesse funzionare?

No”, dice Yaakov. La dirigenza era “ancora unanime nel giustificare la propria idea di sionismo. Si deve ricordare che tutti loro pensavano nei termini di essere ebrei e di come erano stati assoggettati dalle maggioranze nei Paesi in cui avevano vissuto.

Mio padre diceva questo: ‘Ovunque ci sia una minoranza, ogni suo membro ha un bastone e uno zaino nell’armadio.’ Psicologicamente si rendeva conto che sarebbe arrivato un brutto giorno e che avrebbe dovuto andarsene, per cui la priorità fu sempre di creare una maggioranza e scrollarsi di dosso per sempre la psicologia della minoranza.

Mio padre e gli altri pensavano ancora che la maggioranza degli arabi avrebbe venduto il proprio onore nazionale per il cibo che avremmo dato loro. Era un bel sogno, ma a spese di altri. E chiunque non fosse d’accordo era un traditore.”

Diventare mukhtar

Da giovane adolescente all’inizio degli anni ’40 Yaakov non metteva in discussione la visione di suo padre. Al contrario.

Devo dire,” continua, “che quando ero nel movimento giovanile sionista andavamo in giro per i villaggi arabi a piedi, vedevi un villaggio arabo, imparavi il suo nome in ebraico come era nella Bibbia e sentivi che il tempo non ti aveva separato da esso. Non sono mai stato religioso, ma questo era ciò che sentivi.”

Nel 1939 scoppiò la Seconda Guerra Mondiale e molti giovani israeliani si unirono alla Brigata Ebraica dell’esercito britannico, combattendo in Europa. La Brigata Ebraica fu un’idea del padre di Yaakov, e appena fu abbastanza grande Yaakov si presentò volontario, arruolato nel 1944 all’età di 17 anni. Ma pochi mesi dopo, nell’aprile 1945, la guerra finì e Yaakov era troppo in ritardo per prestare servizio.

Di ritorno in Palestina, questi giovani soldati ebrei che avevano fatto il militare in Europa erano tra quanti ora venivano reclutati per combattere in ciò che molti sapevano sarebbe accaduto dopo: una nuova guerra in Palestina per fondare lo Stato di Israele. Yaakov – che non aveva ancora chiaramente iniziato a vedere che il sionismo “era a spese di altri” – rapidamente accettò di fare la sua parte.

Ora diciannovenne, Yaakov fu scelto per ricoprire il ruolo di mukhtar, o capo villaggio, ebreo in un avamposto quasi militare nel Negev, un territorio desolato a malapena abitato da ebrei. “All’epoca non pensavo molto alla politica. Costruire questo insediamento era letteralmente il nostro sogno,” afferma.

Sua moglie, Rena, si unisce a noi, appollaiata su uno sgabello, e annuisce. Rena Sharett era un’altra accesa sionista che rivendicò il Negev nel 1946.

Prima del 1948 il Negev costituiva i distretti amministrativi britannici di Beersheva e di Gaza, che insieme rappresentavano metà della terra di Palestina. Arrivando fino al Mar Morto e al golfo di Aqaba, il territorio aveva un accesso vitale all’acqua.

Quindi non è sorprendente che i sionisti, che all’epoca erano riusciti ad impossessarsi solo del 6% della terra palestinese, fossero determinati a conquistarlo.

Tuttavia, dato che circa 250.000 arabi vivevano nel Negev, in 247 villaggi, rispetto a 500 ebrei in tre piccoli avamposti, un recente piano di partizione anglo-americano aveva diviso la Palestina mandataria tra ebrei e arabi, attribuendo la regione del Negev a un futuro Stato palestinese.

Anche un divieto britannico contro nuove colonie aveva ostacolato i tentativi sionisti di modificare lo status quo. Gli arabi si erano sempre opposti a qualunque progetto che prevedesse i palestinesi come “una maggioranza indigena che viveva sul proprio suolo ancestrale, trasformata improvvisamente in una minoranza sotto un potere straniero,” come ha riassunto lo storico palestinese Walid Khalidi.

Tuttavia alla fine del 1946, con un nuovo piano di partizione delle Nazioni Unite in via di definizione, i dirigenti sionisti ritenevano che per il Negev fosse l’ultima occasione.

Ora o mai più

Quindi venne lanciato il piano degli “11 punti”. Non solo i nuovi insediamenti rafforzarono la presenza ebraica là, ma quando scoppiò l’inevitabile guerra servirono come basi militari.

A causa del divieto britannico ogni cosa doveva essere fatta in segreto e venne deciso di erigere gli avamposti nella notte del 5 ottobre, appena dopo la festa di Yom Kippur [una delle più importanti feste ebraiche, ndtr.]. “Gli inglesi non si sarebbero mai aspettati che gli ebrei facessero una cosa simile la notte dopo lo Yom Kippur,” dice Yaakov. 

Ricordo quando trovammo il nostro pezzo di terra sulla cima di una collina arida. Era ancora buio, ma riuscimmo a piantare i pali e presto eravamo all’interno della nostra recinzione. Alle prime luci del giorno arrivarono camion con baracche prefabbricate. Fu una bella impresa. Lavorammo come matti. Ah! Non lo dimenticherò mai.”

Guardando all’esterno da dentro la loro barriera, i coloni in un primo tempo non scorsero nessun arabo, ma poi intravidero le tende del villaggio di Abu Yahiya e qualche “sudicia capanna”, come le descrive Yaakov.

In breve chiesero acqua agli arabi: “Ogni giorno con il mio camion andavo a prendere l’acqua per il nostro insediamento da quel pozzo. É così che diventai amico di Abu Yahiya,” racconta. Con la sua infarinatura di arabo chiacchierava anche con altri: “A loro piaceva parlare. E accadeva quando avevo del lavoro da fare,” ride. “Non penso che fossero esattamente contenti di averci lì, ma erano in pace con noi. Non c’era ostilità.”

Un altro capo locale arabo in cambio di una piccola somma vegliava sulla loro sicurezza. “Era una specie di accordo che avevamo con lui. Faceva la guardia e ogni mese saliva alla nostra palizzata e si sedeva lì tutto tranquillo – sembrava solo un fagottino di vestiti,” dice Yaakov con un grande sorriso.

Stava ad aspettare di essere pagato e io gli stringevo la mano e mi firmava con l’impronta del pollice una specie di ricevuta che io davo alle autorità di Tel Aviv e loro mi davano del denaro per la volta successiva. Questa era la mia vera e unica responsabilità come mukhtar,” afferma Yaakov, aggiungendo che tutti sapevano che aveva ottenuto quel ruolo di capo in quanto figlio di suo padre. Moshe Sharett, all’epoca una importante figura politica, era noto come un moderato, e come tale era visto con sospetto da alcuni sostenitori della linea dura militare.

I nuovi avamposti nel deserto del Negev erano progettati principalmente come centri per raccogliere informazioni sugli arabi, e Yaakov crede che fosse probabilmente a causa di suo padre che anch’egli era visto con sospetto ed escluso da quelli mandati negli avamposti per studiare piani militari. “Io invece in realtà venivo utilizzato come tuttofare” – guidare, raccogliere acqua, comprare carburante a Gaza o a Beersheva.” Sembra avere nostalgia della libertà di quel paesaggio arido, anche se di notte i coloni tornavano sempre dentro la loro barriera.

Conobbe anche altri villaggi arabi, come Burayr “che era sempre ostile, non so perché,” ma la maggior parte era amichevole, soprattutto un villaggio chiamato Huj. “Spesso andavo a Huj e lo conoscevo bene.”

Durante la guerra del 1948 gli abitanti di Huj raggiunsero un accordo scritto con le autorità ebraiche perché gli venisse consentito di rimanere, ma vennero cacciati come tutti gli altri 247 villaggi di questa zona, per lo più a Gaza. I palestinesi chiamarono le espulsioni la loro Nakba – o catastrofe.

Chiedo a Yaacov cosa ricordi dell’esodo degli arabi nel maggio 1948, ma in quel periodo non era lì, in quanto il fratello di Rena era stato ucciso in combattimento più ad est, per cui la coppia se n’era andata per unirsi alla sua famiglia.

Dico a Yaacov di aver incontrato sopravvissuti del clan di Abu Yahiya, che ricordavano di essere stati portati da soldati ebrei a Wadi Beersheva, dove gli uomini vennero separati dalle donne, alcuni vennero uccisi e poi gli altri furono espulsi.

Comunque non lo ricordo,” dice Yaakov. Ma sondando nella memoria improvvisamente rievoca altre atrocità, compresi avvenimenti a Burayr, il villaggio ostile, dove nel maggio 1948 ci fu un massacro, secondo i sopravvissuti e gli storici palestinesi furono uccisi tra i 70 e i 100 abitanti.

Uno dei nostri ragazzi partecipò alla presa di Burayr. Ricordo che disse che quando arrivò là gli arabi erano già in gran parte scappati, aprì la porta di una casa, vide un vecchio là e gli sparò. Si era divertito a sparargli,” dice.

Quando nell’ottobre 1948 Beersheba venne presa, Yaakov era tornato nel suo avamposto lì nei pressi, che aveva ora un nome ebraico, Hatzerim.

Appresi che i nostri ragazzi avevano guidato l’esercito nella città,” afferma. “Conoscevamo molto bene la zona e potevamo condurli attraverso i wadi (letti dei fiumi).”

Dopo la caduta di Beersheva, Yaakov condusse i suoi commilitoni in un camion giù per dare un’occhiata: “Era vuota, totalmente vuota.” L’intera popolazione di circa 5.000 abitanti era stata espulsa e portata in camion a Gaza.

Ho sentito dire che c’erano stati molti saccheggi. “Sì,” afferma. “Prendemmo oggetti da molte case vuote. Prendemmo quello che potevamo – mobili, radio, utensili. Non per noi, ma per aiutare il kibbutz. Dopotutto ora Beersheva era vuota e non era di nessuno.”

Cosa ne pensa? “Di nuovo, devo confessare che all’epoca non pensavo molto a tutto ciò. Eravamo orgogliosi di aver occupato Beersheva. Anche se devo dire che prima avevamo avuto molti amici lì.”

Yaakov dice di non poter ricordare se anche lui avesse partecipato al saccheggio: “Probabilmente lo feci. Ero uno di loro. Eravamo molto contenti. Se non lo prendi tu, lo prenderà qualcun altro. Non avevi la sensazione di doverlo restituire. Loro non sarebbero tornati.”

Che cosa ne pensa? Riflette: “Allora non ci pensavamo. Mio padre, di fatto, disse che non sarebbero tornati. Mio padre era un uomo con un’etica. Non penso che condividesse gli ordini di espellere gli arabi. Ben-Gurion sì, Sharett no. Ma lo accettò come un dato di fatto. Penso che sapesse che stava avvenendo qualcosa di sbagliato, ma non vi si oppose,” sostiene.

Dopo la guerra mio padre tenne una conferenza e disse: ‘Non so perché un uomo debba vivere per due anni isolato in un villaggio (un riferimento al tempo in cui era cresciuto a Ein Siniya) per scoprire che gli arabi sono esseri umani’. Questo tipo di discorsi non lo avresti sentito da nessun altro leader ebreo… questo era mio padre.”

Poi, come se confessasse anche a nome di suo padre, Yaakov aggiunge: “Ma devo essere franco, mio padre aveva un’opinione crudele riguardo ai rifugiati. Era contrario al loro ritorno, su questo era d’accordo con Ben-Gurion.”

Molto più crudele di Sharett era Moshe Dayan. Nominato dopo la guerra capo di stato maggiore da David Ben-Gurion, il primo presidente del consiglio israeliano, Dayan ebbe il compito di tenere i rifugiati del Negev e molti altri “recintati” dietro le linee di armistizio con Gaza.

Nel 1956 un rifugiato di Gaza uccise un colono israeliano, Roi Rotberg, e al suo funerale Dayan fece un famoso discorso funebre, invitando gli israeliani ad accettare una volta per tutte che gli arabi non avrebbero mai vissuto in pace vicino a loro, e precisò il perché: gli arabi erano stati espulsi dalle loro case in cui ora vivevano gli ebrei.

Ma Dayan invitò gli ebrei a rispondere, non cercando un compromesso ma “guardando in faccia l’odio che consuma e riempie le vite degli arabi che vivono attorno a noi e ad essere per sempre pronti e armati, forti e duri.”

Questo discorso fece una profonda impressione a Yaakov Sharett. “Dissi che era un discorso fascista. Stava dicendo alla gente di vivere con la spada in mano,” afferma. Moshe Sharett, che all’epoca era ministro degli Esteri, stava cercando di raggiungere un compromesso attraverso la diplomazia, per cui era definito un “debole”.

Ma non fu che nel 1967, quando iniziò a lavorare come giornalista per il giornale israeliano di centro Maariv, che Yaakov perse la sua fede nel sionismo.

Erano la maggioranza”

Nella guerra arabo-israeliana del 1967 Israele si impossessò di più terre, questa volta in Cisgiordania, a Gerusalemme est e nella Striscia di Gaza, dove l’occupazione militare venne imposta ai palestinesi, che questa volta non scapparono.

Girando per la Cisgiordania, Sharett osservò i volti attoniti ma spavaldi degli arabi e si sentì ancora una volta “a disagio”, soprattutto quando visitò Ein Siniya, il villaggio della sua famiglia, di cui suo padre, ormai morto, parlava in termini così affettuosi. Fu lì che da bambino Moshe aveva portato al pascolo le pecore e “imparato che gli arabi erano umani”, come Moshe Sharett avrebbe detto in un successivo discorso.

Gli abitanti erano sottoposti al primo shock dell’occupazione. Sapevano che ora gli ebrei erano il potere dominante, ma non mostravano alcun sentimento di odio. Erano persone semplici. E ricordo che molti abitanti arrivarono, ci circondarono e sorridevano e mi dissero che si ricordavano della mia famiglia e della casa in cui la nostra famiglia aveva vissuto. Per cui ci sorridemmo a vicenda e me ne andai. Non sono più ritornato. Non mi piaceva questa occupazione, non volevo andare lì come un padrone,” dice.

Avete sentito parlare di sparare e piangere?”, chiede, con un altro sorriso amaro, spiegando che questo era un modo di dire per descrivere gli israeliani che, dopo aver combattuto in Cisgiordania nel 1967, si vergognavano ma ne accettavano i risultati.

Ma non volevo avere nient’altro a che vedere con l’occupazione. Era il mio modo per non identificarmi con essa. Ne ero depresso e me ne vergognavo.”

I volti degli abitanti di Ein Sinya rivelavano qualcos’altro: “Vidi in questa spavalderia che loro avevano ancora la psicologia della maggioranza. Mio padre soleva dire che la guerra provoca sempre ondate di rifugiati. Ma non si rese conto che in genere quelli che scappano sono la minoranza. Nel 1948 erano la maggioranza, per cui non si arrenderanno mai. Questo è il nostro problema.”

Ma mi ci sono voluti anni per capire quello che è stata la Nakba e che la Nakba non è iniziata nel 1967, ma nel 1948. Dobbiamo comprenderlo.”

Rena aggiunge: “Nel 1948 era una questione di noi o loro. Di vita o di morte. Questa era la differenza,” dice.

Noi due su questo non siamo d’accordo,” afferma Yaakov. “Mia moglie ha perso suo fratello nel 1948. La vede in modo diverso.”

Me ne andrei domani”

In età avanzata Yaakov è tornato ancora più indietro nel tempo, valutando i problemi con il sionismo fin dall’inizio.

Adesso, a 92 anni, capisco che la storia iniziò con l’idea stessa di sionismo, che era un’idea utopistica. Era stato pensato per salvare le vite degli ebrei, ma a spese della Nazione di chi all’epoca abitava in Palestina. Il conflitto era inevitabile fin dall’inizio.”

Gli chiedo se si definisce un antisionista. “Non sono un antisionista, ma neppure un sionista,” dice, dando un’occhiata a Rena, forse nel caso disapprovi – sua moglie ha opinioni meno radicali.

Sul muro, accanto all’immagine di suo padre, ci sono foto dei loro figli e nipoti; due delle nipoti di Yaakov sono emigrate negli Stati Uniti: “Non ho timore a dire di essere contento che siano là e non qui,” dice.

Gli chiedo se ha uno “zaino e un bastone” preparati, pronto ad andarsene da loro. Dopotutto, con le sue idee, lo stesso Yaakov ora è una minoranza – una piccola minoranza – che qui in Israele vive in mezzo ad una maggioranza di ebrei di destra.

E non è “chiuso dentro” solo ideologicamente, ma anche fisicamente. Parla di come oggigiorno possa spostarsi solo in giro per Israele. Si rifiuta di andare a Gerusalemme, che, dice, è stata occupata da ebrei religiosi ultraortodossi.

Questo è uno dei disastri più terribili. Quando eravamo giovani pensavamo che la religione sarebbe sparita.” Sostiene di non aver mai desiderato di tornare al suo amato Negev, perché è stato da molto tempo colonizzato da una nuova generazione di ebrei “che non hanno nessuna empatia con gli arabi.”

Può ancora “respirare” a Tel Aviv e si diverte ad andare in giro in motorino, ma anche qui sente di vivere in una “bolla”. Ridacchia di nuovo.

La definisco la bolla di Haaretz,” e spiega di far riferimento a un gruppo di persone di sinistra che leggono il giornale progressista Haaretz. “Ma questo clan non ha rapporti al suo interno che non sia questo quotidiano che esprime più o meno la nostra opinione. È l’ultima roccaforte, e mi sento molto male per questo…È vero che non mi sento a mio agio qui.”

Yaakov dice che sta sempre pensando di andarsene. Se altri membri della sua famiglia lo facessero, lo farebbe anche lui.

Guarda. Quando mi ci fai pensare, me ne andrei domani. Se ne sono già andati in migliaia, la maggioranza ha un doppio passaporto. Con Bibi Netanyahu abbiamo il peggior governo di sempre,” dice.

Stiamo vivendo con la spada in mano, come Dayan disse che avremmo dovuto…Come se dovessimo essere obbligati a fare di Israele una specie di cittadella contro gli invasori, ma non credo sia possibile vivere per sempre con la spada in mano.”

Gli chiedo come vede il futuro dei palestinesi.

Cosa posso dire? Mi sento molto male a questo proposito. E non ho paura di dire che il modo in cui vengono trattati oggi i palestinesi è da nazisti. Non abbiamo camere a gas, ovviamente, ma la mentalità è la stessa. È un odio razziale. Vengono trattati come subumani,” dice.

Yaakov è ben consapevole che lui, un ebreo, sarà accusato di “antisemitismo” per aver detto simili cose, ma afferma di credere che Israele sia “uno Stato criminale”.

So che mi chiameranno un ebreo che odia se stesso per aver detto questo. Ma non posso appoggiare automaticamente il mio Paese, giusto o sbagliato. E Israele non deve essere immune dalle critiche. Vedere la differenza tra antisemitismo e le critiche a Israele è fondamentale. Sinceramente sono stupito di come nel 2019 il mondo esterno accetti la propaganda israeliana. Non so perché lo faccia,” sostiene.

E si ricordi che il vero obiettivo del sionismo era liberare gli ebrei dalla maledizione dell’antisemitismo, fornendo loro un proprio Stato. Ma oggi lo Stato ebraico, con il suo comportamento criminale, è una delle più gravi cause di questa maledizione.”

Cosa prevede per lo Stato ebraico? “Le dirò qual è la mia previsione. Non ho paura di dirlo. Quando arriverà il momento, potrebbe avvenire domani, ci sarà una conflagrazione, forse con Hezbollah…una grande catastrofe di un qualche tipo che distruggerà migliaia di case ebraiche.

E bombarderemo Beirut, ma avere i libanesi con la loro casa distrutta non aiuterà gli ebrei che hanno perso la casa e la famiglia, per cui la gente non vedrà motivo per rimanere più qui. Ogni israeliano sensato allora dovrà andarsene.

Non deve essere per forza Hezbollah. La catastrofe potrebbe essere un forte dominio della nostra stessa destra. Tutte le leggi approvate ora dalla Knesset [il parlamento israeliano, ndtr.] sono leggi fasciste. Non ho una soluzione. Israele diventerà uno Stato paria,” dice.

Sicuramente l’America e gli europei non tratteranno mai Israele come uno Stato paria, insinuo, ma Yakov non è d’accordo: “Il loro appoggio è per lo più dovuto alla vergogna per l’Olocausto. Ma questi sensi di colpa si ridurranno nelle prossime generazioni,” afferma.

Chiedo a Yaakov cosa direbbe suo padre se ascoltasse tutto ciò. Rena dice di non aver mai sentito Yaakov parlare così prima d’ora. I suoi occhi saettano sotto il suo berretto di lana.

Penso che in qualche modo mio padre sarebbe d’accordo con me. Rimase un sionista fino alla fine, ma penso che si sia reso conto che c’era qualcosa di sbagliato. A volte dico che era una persona troppo etica per essere in pace con quello che sta succedendo qui,” sostiene.

Ma è sconfortante che egli non sia arrivato alla conclusione a cui è arrivato suo figlio. Non lo condanno per questo. Ha assimilato il sionismo con il latte di sua madre. Se avesse vissuto fino alla mia età – ho 92 anni, lui è morto a 71 – forse avrebbe visto le cose come me. Non so.”

Mi alzo per andarmene e prendo il mio computer, illuminando così di nuovo la foto del pozzo di Abu Yahiya. La nostra intervista è stata tormentata non solo da Moshe Sharett, ma anche dall’immagine di quel “beduino alto e magro con una faccia simpatica” visto da Yaakov l’ultima volta affranto e solo. “Devo dire che l’immagine di quella brava persona a volte mi torna in mente,” dice Yaakov, che poi mi accompagna in strada. Preso il motorino, mi saluta allegramente con la mano e si lancia nel traffico di Tel Aviv.

My Struggle for Peace, the Diary of Moshe Sharett 1953-1956” [La mia lotta per la pace, il diario di Moshe Sharett, 1953-1956, parzialmente tradotto in italiano nel libro “Vivere con la spada”, di Livia Rokach, Zambon, 2014, ndtr.], è stato pubblicato da Indiana University Press. Sarah Helm è un’ex corrispondente e redattrice diplomatica dal Medio Oriente per “The Independent” [giornale inglese di centro-sinistra, ndtr.]. I suoi libri includono “A Life in Secrets: Vera Atkins and the Lost Agents of SOE” [una vita nel segreto: Vera Atkins e gli agenti perduti del SOE, il servizio segreto britannico, ndtr.] e “If This Is a Woman, Inside Ravensbrück: Hitler’s Concentration Camp for Women” [Se questa è una donna, dentro Ravensbrück: il campo di concentramento per donne di Hitler].

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Quando l’esercito israeliano inizia ad attaccare lo fa anche la sua armata di troll in rete

Michael Arria

15 novembre 2019 – Mondoweiss

Act.IL [applicazione per telefonini rivolta a sostenitori di Israele, ndtr.] è una campagna internazionale filo-israeliana finanziata almeno in parte dal governo del Paese. Il progetto include un’applicazione che consente agli utenti di guadagnarsi punti e premi per la promozione dello Stato di Israele in rete, attaccando il BDS e altri movimenti filo-palestinesi. Secondo un reportage di Electronic Intifada [sito palestinese di notizie e commenti, ndtr.] dell’inizio dell’anno, opera con un bilancio di oltre un milione di dollari.

Michael Bueckert è uno studente di dottorato in sociologia ed economia politica alla Carleton University [università canadese con sede a Ottawa, ndtr.] e dall’aprile 2018 ha curato un account twitter che segue le “missioni” dell’applicazione. Bueckert ha parlato con Michael Arria di Mondoweiss della storia del progetto, del suo uso durante i recenti attacchi contro Gaza e della sua effettiva influenza o meno.

Arria: Solo per cominciare, penso che molte persone che stanno dalla nostra parte siano probabilmente a conoscenza del tuo lavoro. Ma per gente che non ne sa niente, puoi descrivere brevemente l’applicazione ACT:IL e spiegare chi la finanzia?

Bueckert: Sì. Ormai da un paio d’anni seguo le attività di propaganda dell’applicazione semiufficiale di Israele. Si chiama ACT.IL ed è stata creata con una sorta di collaborazione tra il governo israeliano e un certo numero di gruppi della lobby filoisraeliana negli USA finanziati da Sheldon Adelson [miliardario USA che finanzia Netanyahu e i coloni, ndtr.]. Forse c’è una mancanza di chiarezza riguardo all’esatta natura di quel rapporto. L’applicazione è stata finanziata in parte dal governo israeliano… Penso che il governo abbia pagato per lo sviluppo del sito web su cui è stata ospitata e per parecchie pubblicità, compresi contenuti sponsorizzati, come articoli sponsorizzati su giornali israeliani che sembrano proprio normali articoli ma sono stati pagati essenzialmente dal governo israeliano. All’epoca gli sviluppatori dell’applicazione stavano parlando con lo Shin Bet (il servizio di sicurezza interna di Israele) e con i funzionari della difesa israeliana di come avrebbero lavorato per identificare obiettivi in rete e per avere una sorta di compito per elaborare le reazioni. Ma su questo hanno fatto una parziale marcia indietro.

Ma fondamentalmente è un’applicazione che chiunque al mondo può scaricare sul proprio telefonino e identifica obiettivi in rete, le chiamano “missioni”, in cui singoli individui filoisraeliani possono molto facilmente partecipare a una discussione in rete. Quindi identificherà un tweet che loro devono leggere o un commento su Facebook riguardo a un articolo di notizie che gli può piacere. Essenzialmente, è un modo per coordinare in rete un comportamento in modo che sembri naturale, ma in realtà è assolutamente architettato da questa specie di organismo centralizzato con il sostegno del governo israeliano. Però l’obiettivo è condizionare molto rapidamente il discorso in rete in modo che sia a favore di Israele.

Arria: Hai una qualche idea di quante persone stanno usando l’applicazione e portando avanti queste “missioni”?

Bueckert: È difficile dirlo in ogni momento. Non sembra che ci siano molte persone. Sicuramente ci sono migliaia di persone che hanno scaricato l’applicazione, forse decine di migliaia. Ma è difficile valutare esattamente quanta gente sia attiva in modo continuativo. Molte missioni non sembrano avere molta diffusione, non tanti utenti hanno partecipato a molte di esse. Per cui è molto, molto difficile dirlo.

Arria: Ci sono momenti particolari in cui l’applicazione è più attiva che in altri?

Bueckert: Di nuovo, è difficile dirlo in termini di utilizzo, ma sicuramente lo si può dire magari in base alla quantità di missioni che l’applicazione sta producendo. Ci sono un sacco di argomenti diversi. Direi che le missioni sono più frequenti ogni volta che un musicista o un artista sta per andare in Israele. In genere c’è un numero di missioni per l’applicazione che danno indicazione agli utenti di fare commenti sui loro post di Instagram o dare loro il benvenuto in Israele, questo tipo di cose, per una sorta di lotta contro qualunque pressione che possano ricevere a favore del boicottaggio [contro Israele].

Poi c’è un’intera categoria di missioni più serie e importanti, dove viene veramente presa di mira una specifica questione locale, di solito in università dove devono colpire una specifica conferenza o gruppo di studenti in modo che sembri che ci sia una reazione spontanea contro un’organizzazione filo-palestinese, quando in realtà è tutto preordinato. E in qualche caso, intendo dire, l’applicazione si è vantata di aver fatto licenziare persone o di aver fatto annullare eventi. Per cui quando prende di mira una questione locale può realmente avere una grande impatto.

E poi penso che i momenti in cui si vede la maggiore attività sia come ora, quando c’è un’escalation di violenza, soprattutto con attacchi aerei contro Gaza e il lancio di razzi in risposta. È quando hai una risposta assai massiccia, con tutta una serie di missioni tutte in una volta. E forse c’è un’impennata negli utenti reali che sfruttano queste missioni, non so. Ma sicuramente l’applicazione è molto più attiva in questi momenti.

Arria: Su questo punto puoi parlare del tipo di missioni che hai visto di recente? È appena stato annunciato un cessate il fuoco, ma negli ultimi due giorni Israele ha lanciato missili contro Gaza. Com’è una tipica missione quando succede qualcosa del genere?

Bueckert: Certo. Quindi adesso ci sono circa 40 missioni relative a questo problema. La maggior parte di queste missioni sta prendendo di mira articoli di notizie, su Facebook o Twitter, in cui ti si chiede di lasciare un commento che metta in discussione la terminologia utilizzata. Se il titolo dell’articolo dice che è stato ucciso un miliziano della Jihad Islamica, ti viene chiesto di commentare: “Hai omesso un’informazione importante” o “È una prospettiva di parte.” Questo tipo di cose, E penso che il punto principale di questo tipo di missioni (soprattutto su Facebook) sia fare in modo che gli utenti normali scoprano le notizie e si imbattano in quegli articoli informativi, perché quello che stanno cercando di fare (e in questo caso, hanno molto successo) è ottenere questi commenti a sostegno per mettere in cima alla lista un commento proprio sotto all’articolo su Facebook. Così se sei un utente casuale di Facebook e ti imbatti in questi articoli di notizie, la prima cosa che vedi appena sotto il titolo sono questi commenti critici da parte di persone qualsiasi in rete e quella che sembra una normale reazione spontanea a quell’articolo è in realtà coordinata. Quindi direi che così è la maggioranza delle missioni.

E molte di loro intendono distogliere l’attenzione delle notizie dal fatto che sono state le uccisioni mirate di dirigenti della Jihad Islamica da parte di Israele che hanno deliberatamente scatenato quest’ultima serie di violenze. E così molti articoli stanno cercando di contrastare ciò dicendo che ci sono razzi tutto il tempo, Israele non ha colpito per primo. Ci sono anche parecchie missioni in cui, per esempio, condividono su Facebook video di razzi lanciati su Israele per dire che così è la vita sotto il terrorismo da Gaza, questo genere di cose.

Alcune missioni sono un po’ offensive. Una di loro riguarda la condivisione del video di un uomo in Israele e di come il suo cane sia stato emotivamente scioccato dal lancio di razzi, favorendo così il benessere dei cani in Israele. Nel frattempo penso che in quel preciso momento erano stati uccisi 36 palestinesi. Quattro di loro erano minorenni. E quindi (le missioni riguardano il fatto di) evitare qualunque domanda sulle vittime palestinesi e cercare di dare tutta la colpa a Gaza. E questo è il tipo di missioni che in questo momento stanno inondando l’applicazione.

Arria: So che è impossibile quantificare quale impatto cose del genere stiano avendo, ma personalmente hai la sensazione che stia in qualche modo facendo la differenza in termini di opinioni a favore di Israele?

Bueckert: È veramente impossibile dirlo. Ci sono stati una serie di tentativi di verificarlo. (Uno studio) ha suggerito che molto del traffico per la pagina di destinazione che hanno creato sia arrivato effettivamente dal mio account Twitter, mettendolo in evidenza, piuttosto che dall’applicazione stessa. E quindi ciò suggerisce che ci sia molto poco da ricavarne, almeno ciò è avvenuto in precedenti occasioni.

Anche Electronic Intifada ha fatto su ciò qualche articolo, che suscita qualche domanda sulla sua efficacia, considerando soprattutto la quantità di denaro e di risorse che sono stati impiegati. Penso sia veramente impossibile dire se commenti di “mi piace” su Facebook e Twitter facciano una qualche differenza o meno, ma sospetto che sia tutt’al più molto ridotta.

Tuttavia direi che quando si tratta di missioni più mirate, che attaccano determinati individui e riguardano la situazione lavorativa di persone o cercano di far annullare conferenze, queste sembrano essere piuttosto efficaci. C’è stato un caso all’inizio dell’anno, quando l’applicazione ha avuto molte missioni da perseguire (il Comitato Consultivo per il Modello di Programma di Studi Etnici della California) per la proposta di un programma di studi etnici che parlava in termini positivi dei palestinesi e del BDS come movimento sociale. E ci sono stati molte missioni che hanno preso di mira specifici consigli di amministrazione scolastici, mandando mail ai singoli individui sul comitato di programma. Quindi quando si tratta di questi specifici esempi, penso che l’applicazione possa essere piuttosto efficace. Ma quando si tratta solo di cercare di condizionare la reazione generale a un avvenimento come gli attuali raid aerei e razzi, non lo so proprio.

Arria: Il monitoraggio dell’applicazione ti ha dato la sensazione di quanto Israele stia prendendo seriamente il movimento BDS? Da una parte si sentono costantemente gruppi filo-israeliani prendersi gioco del movimento perché avrebbe un impatto insignificante, ma poi ci sono anche molte risorse che vengono utilizzate per combatterlo, come vediamo in questo caso.

Bueckert: È un dibattito che c’è anche in Israele e tra diversi ministeri, persino riguardo a se (il BDS) sia realmente una minaccia o qualcosa su cui valga la pena di impiegare risorse. Il ministero degli Affari Strategici, ovviamente, è quello che si occupa di tutta la faccenda. Ma al ministero degli Affari Esteri penso che la concezione sia che dovrebbero piuttosto semplicemente ignorarlo e lasciarlo perdere, per cui è difficile dire cosa effettivamente pensino.

Cosa suggerisce la quantità di risorse che mettono in questo tipo di campagne? Beh, non penso che suggerisca necessariamente che (credano che il BDS sia una reale minaccia), ma piuttosto che non hanno intenzione di lasciare che una qualunque opinione a favore dei palestinesi venga accolta all’interno dell’attuale discorso pubblico. La mia impressione è che tutto ciò riguardi meno la minaccia concreta del BDS e più l’assoluta intolleranza relativa a qualunque cosa positiva nei confronti dei palestinesi.

Michael Arria è il corrispondente dagli USA di Mondoweiss.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Le proteste contro la violenza armata provocano un risveglio politico nei palestinesi residenti in Israele

Henriette Chacar

23 ottobre 2019 – +972

Secondo la nota attivista Fida Tabony, un’ondata di manifestazioni contro la violenza armata e la negligenza della polizia ha suscitato un rinnovato senso di solidarietà tra i cittadini palestinesi residenti in Israele. Dopo anni di divisioni, afferma, “ci stiamo comportando come un popolo”.

Fida Tabony ricorda che un giorno, circa due mesi fa, intorno alle 14, mentre lasciava il suo ufficio a Nazareth, una motocicletta le è sfrecciata davanti. Non ci sarebbe stato nulla di insolito in quel consueto viaggio verso casa se quello stesso motociclista non si fosse poi fermato soltanto due auto più avanti e non avesse aperto il fuoco.

Tabony ricorda al telefono che l’incidente è avvenuto in pieno giorno mentre i bambini stavano tornando a casa dalla scuola. “Ci sono i primi cinque secondi – dice – in cui ti chiedi come poter reagire, non sapendo cosa fare. Ricordo di essermi sentita spaventata e nervosa, ma anche arrabbiata.”

Tabony accenna ad un altro fatto, lo scorso maggio, quando Tufiq Zaher è stato ucciso a colpi di arma da fuoco semplicemente per essersi trovato nel posto sbagliato nel momento sbagliato. Cittadino rispettoso della legge, Zaher stava camminando a Nazaret con sua nipote quando è stato colpito da un proiettile vagante.

All’epoca ero via e le mie figlie dovevano prendere l’autobus da casa a scuola. L’autobus attraversa quella stessa area in cui [Zaher] è stato ucciso. Sono entrata nel panico – dice Tabony – e ho pensato: “Questo potrebbe accadere a chiunque di noi”.

Almeno 74 cittadini palestinesi cittadini di Israele sono stati uccisi dall’inizio dell’anno a causa della violenza armata o di attività criminali all’interno della comunità palestinese. Nel 2018 il numero di vittime nel corso dell’anno è stato di 71. Queste cifre sono solo la punta dell’iceberg, poiché non tengono conto del ripetersi quotidiano di sparatorie o del crimine organizzato che sono arrivati a caratterizzare la realtà giornaliera di così tanti cittadini palestinesi.

Nel corso delle ultime settimane, decine di migliaia di palestinesi cittadini di Israele sono scesi in piazza per protestare contro la violenza armata e l’insufficiente controllo da parte della polizia nelle loro comunità. Sembra che le manifestazioni siano state scatenate dall’uccisione di due fratelli nella città di Majd al-Krum, nella Galilea settentrionale, con le autorità locali che dopo l’episodio hanno abbastanza rapidamente mobilitato la gente, in coordinamento con l’ Higher Arab Monitoring Committee (Comitato superiore arabo per il monitoraggio) – un’organizzazione ombrello che rappresenta 1.9 milioni di cittadini palestinesi cittadini del Paese.

Tabony, co-direttrice della fondazione Mahpach-Taghir e membro del Comitato per la Lotta contro la Violenza di Nazareth, è una nota attivista sociale e politica che è stata coinvolta nell’organizzazione della recente ondata di proteste. Le ho posto domande sulle dimostrazioni, su cosa rivelano dei rapporti della comunità palestinese con le autorità israeliane e su cosa gli organizzatori sperano di ottenere.

Questa intervista è stata riveduta e ridotta per [ragioni di] chiarezza.

Perché queste proteste avvengono ora? Cosa c’è di diverso in questo momento?

Questo è il segno di quanto insopportabile sia diventato il dolore. È così, abbiamo esaurito la pazienza. Le persone non lo accetteranno più. A mio avviso, il fatto che noi, come comunità, decidiamo di nuovo di organizzarci è un segnale positivo. Ci stiamo comportando come un popolo, il che è positivo dopo un lungo periodo di divisioni “.

Che cosa vuoi dire con questo?

Come comunità palestinese che vive all’interno di Israele – afferma Tabony – sappiamo che dal 1948 fino ad oggi lo Stato ha cercato in tanti modi di indebolirci, di distruggere la nostra identità di palestinesi e la nostra unità come popolo. Penso che non siano riusciti a farlo, ma negli ultimi 20 anni, specialmente dall’ottobre 2000 e, ancora di più, nell’ultimo decennio, sotto il governo di Netanyahu, è stato intrapreso un cammino verso leggi estremamente razziste. Stiamo subendo tanto razzismo “.

Nell’ottobre 2000, poco dopo l’inizio della Seconda Intifada, la polizia israeliana ha ucciso 13 palestinesi, di cui 12 civili, mentre protestavano in solidarietà con i manifestanti in Cisgiordania e Gaza. Alla fine il governo ha nominato una commissione d’inchiesta per indagare sulle uccisioni, ma non è stato incriminato un solo ufficiale. La violenza ha segnato una svolta per i cittadini palestinesi di Israele, erodendo ulteriormente la scarsa fiducia che avevano nelle istituzioni statali e nelle forze dell’ordine.

Questa grave violazione della fiducia, tuttavia, è stata accompagnata da politiche economiche che hanno integrato meglio i cittadini palestinesi nella forza lavoro israeliana, spiega Tabony, creando un singolare equilibrio: “Da un lato, il razzismo è costante”, dice, e dall’altro , “ci vengono presentate nuove opportunità di lavoro”, come la risoluzione 922, con la quale il governo nel dicembre 2015 ha promesso 3,3 – 3,8 miliardi di euro per la promozione dello sviluppo economico nella società araba nei successivi cinque anni. Ciò ha dato origine all’individualismo, spronato dalla frenetica competitività della vita moderna, “che spesso ci allontana dal nostro senso di identità e dalla nostra principale battaglia – rivolta a porre fine all’occupazione.

“A tal proposito – aggiunge Tabony – le donne hanno assunto un ruolo chiaramente centrale in questa lotta”.

In che modo?

“Quando abbiamo bloccato la strada n°6 [una delle autostrade a pagamento nel centro di Israele], era notevole il numero di donne che guidavano le auto da sole. C’era un gruppo impressionante di donne che protestavano anche in testa [al corteo], dirigendo gli slogan e assumendo un ruolo attivo. Il numero di donne e ragazze alla protesta di Majd al-Krum è stato sorprendente. In entrambe le proteste di Nazareth che ho contribuito a organizzare, le donne hanno fatto parte della pianificazione e hanno costituito una parte significativa dei partecipanti. Ciò dimostra una partnership più autentica nella nostra comunità – afferma Tabony. – Lo spazio per le donne si è ampliato.”

Secondo Tabony, un altro motivo per cui queste manifestazioni stanno prendendo piede ora è la sensazione tra i cittadini palestinesi di essere uniti sotto un’unica guida “di fronte a un governo e a un regime fortemente razzisti” – in particolare con il ritorno, alle elezioni nazionali di settembre, della Lista Unita, che riunisce candidati palestinesi ed ebrei non sionisti. “In occasione di ogni protesta partecipano sempre più persone e spero che i nostri numeri continueranno a crescere”, afferma.

Ma sono le stesse persone, la leadership non è cambiata. Cosa c’è di diverso ora?

Sono tutti stufi. Da quando io ricordi ho sempre partecipato alle proteste. Ora vedo in queste dimostrazioni persone che non avrei mai immaginato di vedere. C’è una ventata di entusiasmo, unito a una maggiore consapevolezza sociale e politica – spiega Tabony. – C’è un più forte senso di responsabilità tra le persone”.

Tabony ritiene che la sparatoria di Majd al-Krum sia ciò che ha scatenato le proteste in parte a causa del classismo nella società palestinese. “Quando la violenza si manifestava nell’area del “Triangolo ” [una concentrazione di città e villaggi arabi israeliani adiacenti alla Linea Verde, situata nella pianura orientale di Sharon tra le colline del Samarian, n.d.tr.] o a Ramleh, Lyd e Yaffa, quante persone abbiamo mobilitato? Ci siamo davvero comportati come un solo popolo? No.”

Intendi a causa della disuguaglianza socio-economica?

C’è sicuramente del classismo nella nostra comunità. – afferma Tabony – Il nord è diverso dal sud”.

La maggior parte dei cittadini palestinesi israeliani vive nelle regioni “periferiche”, lontano dal centro economico e culturale del paese. Circa il 57% degli arabi vive nel nord, tra cui Haifa e la Galilea. Il “Triangolo” si riferisce a un gruppo di città e cittadine palestinesi più vicine al centro geografico di Israele, dove, insieme alle “città miste” [tra ebrei e arabi, n.d.tr.] di Jaffa, Ramleh e Lyd, vive circa il 10,7% della popolazione palestinese israeliana.

I palestinesi [che vivono] nei piccoli comuni e nelle città esclusivamente arabe del nord sono orgogliosi del loro parziale senso di autonomia dallo Stato, irraggiungibile per i palestinesi delle “città miste”. Mentre il governo esercita ancora un controllo significativo sulle località esclusivamente arabe in termini di stanziamenti di bilancio e pianificazione, ad esempio, c’è un senso condiviso dell’agire politico che ispira l’azione collettiva.

La povertà svolge un ruolo significativo nel perpetuare la violenza. Voglio dire, questi due ragazzi che mi sono passati davanti in moto, sono sicari; sono pagati per uccidere. Con la prospettiva di guadagnare grandi somme di denaro in breve tempo, quando non si riesce a trovare lavoro altrove – hanno intravisto questo lavoro “.

In base alle statistiche del 2014, il tasso di povertà tra i palestinesi cittadini di Israele è circa tre volte quello degli ebrei. Secondo i dati del 2011, una media del 47% dei diplomati presso le scuole superiori delle località arabe ha accesso all’iscrizione universitaria, rispetto al 61% delle aree ebraiche.

Ci sono molti altri mali da cui i cittadini palestinesi sono affetti in quanto comunità emarginata e con pochi servizi a disposizione, tra cui le disparità nello stanziamento di fondi pubblici, la segregazione e la confisca delle terre. Perché le proteste si concentrano sulla violenza armata?

“È collegato alla nostra gerarchia dei bisogni. Dopo la garanzia del cibo e di un riparo, viene la necessità del sentirsi al sicuro. La sicurezza personale è un’esigenza fondamentale “.

Secondo Tabony, si ha la sensazione che le autorità abbiano “perso il controllo”. La polizia israeliana e le istituzioni statali, afferma, sono arrivate alla conclusione che questa situazione non sia più sostenibile.

Il rapporto tra la comunità palestinese e le forze dell’ordine israeliane è stato storicamente difficile e complicato. Da un lato, al fine di sentirci più sicuri, chiediamo alla polizia di recarsi nelle città arabe e di svolgere correttamente il proprio lavoro. Dall’altro, non ci fidiamo di loro.

Tabony cita i risultati di un sondaggio del 2019 dell’Abraham Fund [organizzazione che intende promuovere la coesistenza in Palestina tra i tre popoli abramitici: ebrei, cristiani e musulmani, n.d.tr.], secondo il quale solo il 26,1% degli intervistati palestinesi dichiara di fidarsi della polizia israeliana e il 24% esprime soddisfazione per il funzionamento della polizia. Tuttavia, in base a quello stesso rapporto, il 58% di questi intervistati ha affermato che si rivolgerebbe alla polizia se essi stessi o qualcuno nella loro famiglia subisse una violenza.

“Questo dimostra che vogliamo che la polizia faccia il suo lavoro” – afferma Tabony. – “Ma quando non lo fa, ognuno perde fiducia in quell’istituzione.

La polizia stessa – l’intero sistema – è razzista nei nostri confronti e si comporta con noi alla stregua di una minaccia nazionale, non come cittadini con diritto agli stessi diritti e servizi che ottengono i cittadini ebrei. Il punto di partenza per la polizia è che noi siamo dei nemici dello Stato col proposito di uccidere. Solo dopo aver dimostrato che non rappresentiamo alcuna minaccia, iniziano ad aiutarci.”

Ma l’altro lato di tale equazione è che, poiché non ci fidiamo della polizia, non ci relazioniamo con loro in quanto organo legittimo.

Quando un giovane sparò dei colpi di arma da fuoco nel mezzo di Tel Aviv, il Paese si fermò fino a quando non venne trovato e non furono confiscate le sue armi da fuoco. Quando i colpi vengono sparati in una città araba e la polizia non fa nulla, cosa significa? Che la polizia approva [il fatto] che gli arabi si uccidano a vicenda. Approva la diffusione delle armi. Quello che vogliamo è che la polizia faccia effettivamente il proprio lavoro, e non che si rechi nei nostri villaggi e città solo per comminare più sanzioni o mostrarci chi è che comanda durante le proteste politiche”.

L’occupazione salta fuori durante queste proteste? Ne discutete come organizzatori?

Innanzitutto, facciamo sventolare la bandiera palestinese in quasi tutte le nostre manifestazioni, e questo è essenziale. Anche gli slogan; alcuni riguardano i nostri prigionieri, altri riguardano la fine dell’occupazione. Ci sono state persone che lo hanno criticato, che hanno detto: ‘Che cosa c’entra la bandiera palestinese con questo? La violenza armata è un problema interno’. Ma ovviamente sono [problemi] interconnessi.”

Come spiegheresti questo a qualcuno che non vede alcun legame tra il modo in cui le autorità israeliane trattano i cittadini palestinesi e il modo in cui controllano i palestinesi sotto occupazione?

In primo luogo, [farei presente] che la maggior parte delle armi da fuoco proviene dalla polizia e che l’esercito è la prova più chiara del fatto che [le autorità] sono coinvolte in questo, che è loro interesse sostenere questa violenza. Perché sono interessati a perpetuare questa situazione? Dovremmo chiedercelo. La violenza ci rende più deboli. Perché? Perché ci allontana dalle questioni centrali mentre siamo impantanati a causa delle minacce quotidiane alla nostra esistenza, cercando di sopravvivere.

Anche la modernizzazione e il capitalismo, qual è il loro obiettivo, alla fine? Darci la sensazione di possedere il controllo sulla nostra vita, [del fatto] che possiamo uscire e prendere un caffè in un bel locale, che la vita è bella. Le persone possono incontrare difficoltà ai posti di blocco, ma succede lì, qui va tutto bene. [Credere] che tutto ciò per cui dobbiamo impegnarci è il nostro benessere personale ci fa sentire padroni del nostro destino.

“Sai quante persone sulla mia pagina Facebook dicono cose come ‘la soluzione per noi è partire?’ Non è strettamente connesso? Sai quanti [cittadini palestinesi] sono già emigrati a causa di questa realtà?”

Intendi dire che questo è un altro modo attraverso cui Israele sta buttando fuori i palestinesi?

Indirettamente, sì. Spingendoci ad emigrare, interrompendo il nostro legame con questa terra, facendoci sentire come se dovessimo esistere solo come individui e prendere le distanze dagli altri. Questo ci rende più deboli. Riduce il nostro senso di solidarietà, la nostra identità di gruppo.

Questo è l’ideale per lo Stato, non solo perché siamo arabi, ma perché è così che impedisce a tutti i gruppi emarginati di formare alleanze. Se durante la protesta etiope [in Israele, nel luglio 2019, da parte degli ebrei etiopi, n.d.tr.], dopo l’uccisione del giovane, ci fossimo ritrovati tutti insieme, immagina le proteste che avremmo potuto organizzare. È la chiara strategia del ‘divide et impera’.

“Ma dico anche che abbiamo una responsabilità in quanto comunità. Supponiamo che il 70% della soluzione del problema spetti al governo: infondere un senso di sicurezza, sequestrare tutte le armi e elaborare un chiaro piano economico che offra opportunità alla comunità araba, compreso un coerente piano sociale per i nostri giovani. Dell’altro 30% del problema è responsabile la nostra comunità. Dobbiamo riconoscervi anche la nostra parte.”

Ultimamente, i cittadini palestinesi hanno anche organizzato importanti manifestazioni sulla violenza contro le donne e le molestie verso i LGBTQ. Queste questioni si sovrappongono nell’attuale ondata di proteste?

“Più del 50% delle donne uccise in Israele sono palestinesi e noi rappresentiamo solo il 20% della popolazione israeliana. Lo stesso vale per le uccisioni in generale: circa il 60% delle vittime di omicidio in Israele sono arabi. Questo in parte perché stiamo passando da una società tradizionale alla modernizzazione. Gli altri aspetti riguardano la consapevolezza riguardo il genere e i diritti delle donne.

La violenza domestica è [un tema] importante da discutere, ma differisce dalla più estesa ondata di violenza nella nostra comunità. Dobbiamo parlare dei diritti delle donne e dei diritti LGBTQ sempre all’interno della nostra più ampia lotta nazionale.

Le minacce che le persone affrontano a causa del loro genere sono un segno del dominio patriarcale e del controllo su di noi come donne. Il crimine dilagante nella nostra comunità, tuttavia, è una conseguenza di fattori economici e politici, oltre che patriarcali. Ciò significa che le donne vengono uccise a causa del desiderio della società di controllare le nostre decisioni e i nostri corpi, semplicemente per [il fatto di] essere donne. Quando si tratta di violenza ed episodi criminali, tuttavia, i soggetti che si scontrano tra di loro hanno lo stesso potere. Quindi, le dinamiche di potere sono diverse.”

Ci sono degli obiettivi specifici che state cercando di raggiungere con queste proteste?

Chiediamo un piano globale per combattere la violenza e il crimine nella società araba. Sembra che i ministeri si stiano finalmente svegliando rispetto a questa realtà. Il ministero dell’Interno ha inviato una lettera ai vari comuni affermando di avere l’interesse a procedere con dei progetti su questo tema. È chiaro che questo non è un problema che possiamo risolvere da soli e le autorità devono fare la loro parte.

“Stiamo presentando questi piani al governo, tenendo presente che non esiste ancora un governo e che potremmo avvicinarci alle terze elezioni politiche [in meno di un anno, n.d.tr]. Ma le nostre richieste sono chiare: innanzitutto, porre fine alla violenza arrestando gli autori e sequestrando tutte le armi da fuoco. Questo è essenziale. Tuttavia, ciò non avrà successo senza un programma più esteso che affronti anche i fattori sociali ed economici in gioco”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Traumatiche esperienze dei bambini di Gaza

Infanzia perduta: a Gaza, la generazione dei più giovani cerca di affrontare i traumi a cinque anni dalla fine dell’ultima guerra

Sarah Algherbawi

11 settembre 2019 Mondoweiss

 

Ho visto di recente un documentario spagnolo di 45 minuti intitolato “Nacido en Gaza” (“Nato a Gaza”) che tratta l’impatto della guerra sui bambini e guardandolo la mia attenzione si è concentrata sul fatto che, anche molto tempo dopo che i carri armati se ne erano andati, i bambini provavano ancora lo stress e l’ansia della guerra. Un genitore non vorrebbe mai nemmeno immaginare che il proprio figlio o la propria figlia debbano provare dolori, perdite o paura, eppure a Gaza la generazione dei più piccoli deve affrontare il trauma dell’aver vissuto tre guerre negli ultimi dieci anni.

Negli anni 2008-09, 2012 e 2014, Gaza è stata in guerra contro Israele in un’escalation di violenza nella striscia costiera che ha raggiunto nuovi picchi dalla guerra del 1967 quando iniziò l’occupazione israeliana del territorio palestinese. Nell’ultima guerra del 2014 tra gli oltre 2200 civili palestinesi uccisi ci sono stati 551 bambini e oltre 3.000 sono stati i feriti. Sei civili israeliani sono stati uccisi e 270 bambini sono stati feriti.

Essere mamma di un piccolo di dieci mesi mi ha portato a riflettere sulle conseguenze della guerra per i bambini.

Nell’inchiesta pubblicata da Save the Children all’inizio di quest’anno, i ricercatori hanno rilevato che, nel 2018, il 62% dei bambini di Gaza riferisce sintomi di depressione e il 55% di angoscia. Oltre la metà dei bambini ha detto di sentirsi ansiosa e impaurita quando si trova lontano dai propri genitori. Molti hanno incubi notturni, il 53% bagna il letto. Sono stati intervistati anche i genitori e gli operatori sanitari che si occupano di loro e il 42% ha detto che i loro bambini hanno perso la capacità di parlare in seguito al trauma.

È allarmante che, nel 2010, uno studio condotto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità e dal CDC [Centri per il controllo e la prevenzione delle malattie, negli USA, ndtr.] abbia rilevato che a Gaza un quarto degli adolescenti fra i 13 e i 15 anni abbia detto di avere pensieri suicidi e di aver progettato di farlo nei 12 mesi precedenti. Nel Medio Oriente i giovani palestinesi hanno le percentuali più elevate di pensieri suicidi e, anche se i ricercatori non hanno analizzato il rapporto fra guerra e suicidio, i risultati riflettono il profondo senso di disperazione fra i bambini di Gaza.

Volevo intervistare dei bambini per avere un’idea più precisa di quello che ricordano della guerra e di come quei ricordi abbiano ancora un impatto sulla loro vita di oggi.

Sharif al-Namla, un bambino amputato

Un episodio della guerra del 2014 che gli abitanti di Gaza probabilmente non dimenticheranno mai è la storia della famiglia al-Namla, della cittadina di Rafah, nel sud di Gaza.

La mattina del primo agosto 2014, Israele avrebbe fatto ricorso alla direttiva Annibale, una procedura militare per rispondere con la forza alla cattura di un soldato [colpendo in modo indiscriminato il luogo in cui si presume sia presente il militare rapito, anche a rischio di ucciderlo, ndtr.]. All’epoca le forze israeliane stavano cercando Hadar Goldin, un soldato che si riteneva fosse stato fatto prigioniero da Hamas. Hadar e oltre 121 palestinesi, di cui almeno 72 civili [era in corso una tregua, ndtr.], furono uccisi durante i violenti scontri di quel giorno, il più sanguinoso della guerra, talvolta chiamato il “venerdì nero”.

Gruppi per i diritti umani hanno in seguito accusato Israele di aver commesso crimini di guerra, citando l’uso di cannoneggiamento con carri armati, sparatorie e attacchi aerei su civili.

Quel giorno Wael al-Namla, 27 anni, sua moglie Asraa e il piccolo Sharif di 3 anni stavano per lasciare la loro casa quando questa fu colpita da un missile. Nella distruzione tre parenti rimasero uccisi, Wael e il figlio persero una gamba, ad Asraa furono amputate entrambe le gambe e Sharif perse anche l’occhio destro.

Oggi Sharif ha otto anni.

“A Sharif non piace uscire di casa, si vergogna delle sue lesioni, a differenza dei suoi coetanei non parla molto e preferisce stare sempre da solo” mi ha detto il padre Wael.

Recentemente Wael ha convinto il figlio ad andare per un mese a un campo estivo a luglio. Il programma includeva 55 bambini che avevano perso gli arti a causa di malformazioni congenite o ferite.

Wael ha detto che il figlio ha bisogno di vari interventi chirurgici, sia all’occhio destro che alla gamba, per prepararla all’uso di un arto artificiale.

Wael ha detto che “Sharif era diventato più attivo dopo il campo, ma non è sufficiente perché avrebbe bisogno di molta assistenza e molto tempo per reinserirsi nella comunità.”

Zidan Qarmout

Il primo agosto 2014, il ventisettesimo giorno della guerra del 2014 fra Israele e Gaza, Zidan Qarmout aveva dieci anni e stava mangiando dei dolci, in piedi vicino a una finestra di casa. La guerra del 2014 durò 50 giorni ed è diventato comune riferirsi agli eventi aggiungendo anche il giorno in cui sono avvenuti, invece che solo con la data.

Durante la guerra, la mamma di Zidan, Monira, 50 anni, non permetteva ai suoi bambini di uscire di casa, neppure nelle lunghe ore di cessate il fuoco, quando gli altri bambini andavano fuori a giocare. Spiega che lo faceva per proteggerli dai proiettili vaganti nel loro quartiere. La famiglia vive nel campo profughi di Jabalia, a nord di Gaza, dove le forze israeliane attuarono un’invasione via terra.

Tre giorni prima, una scuola nel vicinato che fungeva da rifugio delle Nazioni Unite era stata colpita, gli abitanti della zona non si sentivano al sicuro. Improvvisamente fu sganciata una bomba vicino alla casa di Zidan mentre lui stava vicino alla finestra. Lo spostamento d’aria lo gettò a terra.

Si scoprì poi che l’esplosivo aveva colpito una casa che apparteneva alla famiglia Abu al-Qomsan, affittata alla famiglia Wahdan che era sfollata da Beit Hanoun dopo che dodici dei suoi membri erano stati uccisi in vari attacchi aerei israeliani. Questa esplosione uccise tre persone, fra cui due donne, e ne ferì dieci, incluso Zidan. In totale, 12.000 case furono distrutte durante la guerra del 2014.

Zidan fu ferito in modo lieve da schegge di proiettile che lo avevano colpito al volto e alle spalle. Fu portato in ospedale lo stesso giorno e rimandato a casa dopo essere stato medicato. Una vicina, un’infermiera, lo aiutava con le medicazioni a casa.

“Adesso sono passati cinque anni, ma non dimenticherò mai la palla di fuoco che è esplosa davanti ai miei occhi. Qualche volta, mentre dormo, mi sembra che mi stia inseguendo.” dice Zidan con voce esitante.

In seguito mi dice: “Da grande sarò un chirurgo o un dottore specializzato in trapianti del cuore. Guardo sempre documentari sui dottori e leggo molto, penso che ce la farò.”

Quella non era la prima guerra per Zidan. Quando aveva otto anni, nell’autunno del 2012, alle sei del mattino, lui e la sua famiglia si svegliarono, fra colonne di polvere, al suono di pietre che bersagliavano la loro casa appena costruita. La casa dei vicini, quella della famiglia Salah, era stata colpita da tre missili lanciati da un caccia F-16.

“Durante la seconda guerra avevo otto anni, ogni notte di solito andavo a letto accanto a mia mamma. Quella notte improvvisamente lei mi ha afferrato per la mano e trascinato fuori dalla stanza, io non vedevo niente per la polvere e la puzza di polvere da sparo che riempiva la casa”. Con difficoltà siamo riusciti a trovare la via d’uscita, siamo andati giù per le scale, quasi completamente distrutte, finché siamo arrivati a pianterreno. Ancora oggi non riesco a credere di essere vivo” mi ha detto Zidan.

Oggi Zidan ha quindici anni, è il più giovane di sei tra fratelli e sorelle. La mamma, Monira, lo descrive come “un bambino molto intelligente, prende sempre i voti più alti della classe. Ma ha un carattere nervoso che si aggrava con ogni escalation e ad ogni violenza israeliana.”

Ma l’evento più traumatico che Zidan abbia mai subito durante la sua giovane vita non è stato in tempo di guerra. Il 4 febbraio 2008 il padre fu ucciso in un raid aereo israeliano perché era un membro del braccio armato dei Comitati Popolari di Resistenza a Gaza, che gli Usa e Israele considerano un gruppo terroristico.

“Io non ricordo molte cose di me e papà, ero molto piccolo, ma lo ricordo quando mi portava sulle spalle e io gli tiravo i capelli e poi ci mettevamo tutti e due a ridere.” ha aggiunto Zidan.

Ahmad Abu Dahrouj e sua cugina, la piccola Jana

La storia di Zidan non è un caso unico. Molti bambini a Gaza sono sopravvissuti ai bombardamenti e sono stati costretti a lasciare le loro case durante le guerre. Nel 2014 oltre 500.000 palestinesi, circa un terzo della popolazione, sono sfollati.

Nello stesso studio di Save the Children si segnala che il 78% degli adulti che si prendono cura di loro hanno riportato che i bambini erano spaventati dai rumori di bombardamenti, aerei e droni, mentre il 60% di bambini e genitori ha detto che si sentono in uno stato di “insicurezza costante” in attesa di bombardamenti o della ripresa della guerra.

Durante la guerra del 2014, Ahmad Abu Dahrouj, di dieci anni, aveva lasciato casa sua con i genitori e gli altri due fratelli per rifugiarsi in quella del nonno, nel centro di Gaza City.

All’inizio della guerra tutte le zie di Ahmad con le loro famiglie si erano trasferite dal nonno. Ahmad era molto affezionato alla zia più giovane, Susan, che allora aveva ventidue anni ed era sfollata da casa sua nel campo di al-Buraij, specialmente perché sua figlia, la piccola Jana di un anno, era la compagna di giochi preferita da Ahmad.

“Ovunque andassi Jana mi seguiva, mia zia ci teneva insieme quasi tutto il tempo passato dal nonno, appena lasciavo Jana per pochi minuti si metteva subito a piangere.” dice Ahmad.

Il 29 luglio 2014, durante un cessate il fuoco temporaneo, Susan decise di tornare a casa sua ad al-Buraij, portando con sé Jana. Più tardi quella sera, lo zio di Ahmad, Ramadan, di 35 anni, decise di andare a trovare Susan per vedere come stava e portò con sé Ahmad in moto. Nell’istante in cui Ahmad e Ramdan arrivarono, un’enorme esplosione colpì il posto. “Io sono caduto a terra, ricordo solo il buio e le pietre che volavano in aria.” ricorda Ahmad.

Quando la polvere si diradò, Ahmad vide che il punto di impatto era la casa di Susan, da dietro la moto vide arrivare le ambulanze e i primi soccorritori con in braccio Susan che era viva, ma ferita. Trenta minuti dopo trovarono Jana senza vita, sotto le macerie.

“Ricordo ancora il corpo bruciato di Jana, rivedo il suo corpo ogni volta che vado a casa del nonno. In effetti, odio andarci dopo quello che è successo.”

Ahmad non ha detto molto altro su quel giorno, ma è sicuro che non ci sono parole per descrivere quello che ha visto. Spera un giorno di rendere onore alla memoria di Jana. Adesso si allena con una squadra di parkour, uno sport acrobatico urbano.

“Quando diventerò un allenatore di questo sport formerò una squadra e la chiamerò Jana, per rendere immortale la mia piccola amica di infanzia.” afferma.

Sarah Abu el-Tarabesh, un’attrice e una pittrice promettente

Fra i bambini che ho intervistato per questo articolo c’è Sarah, la sorella di mio marito, che adesso ha tredici anni. La sua storia è un po’ diversa da quella degli altri bambini.

Sarah aveva solo otto anni durante l’ultima guerra, non è stata ferita, non ha perso né la casa né qualche parente. Tuttavia aveva preso parte a una locale produzione televisiva, “Diari di un bambino innocente”, in cui c’era la scena della visita di una bambina ai siti bombardati durante la guerra del 2014.

Di questa esperienza Sarah dice: “Non mi aspettavo che la guerra potesse causare tutta questa distruzione, la prima volta che ho visto i posti distrutti sono rimasta sconvolta. Da allora, ogni volta che sapevo di dover girare un nuovo video, non potevo dormire la notte immaginando i posti che avrei visto il giorno dopo.”

“Quando hanno trasmesso i film non li ho guardati, non volevo rivedere la distruzione, continuavo a guardare solo l’episodio in cui io distribuisco dei fiori” aggiunge Sarah, descrivendo la scena dei fiori, un simbolo di rinascita. Oggi la mano sinistra di Sarah trema ogni volta che viene sorpresa da un forte rumore.

“Odio la nostra casa durante le guerre e le escalation” dice. Il tetto di asbesto, come molti a Gaza, “fa un rumore molto forte che mi terrorizza, mi sembra che ogni missile che cade piomberà sulla nostra casa.”

Anche se Sarah è ancora sconvolta dalla guerra, c’è stato un risvolto positivo, perché ha imparato a esprimere i suoi sentimenti dipingendo.

“Non mi aspettavo di diventare una pittrice, ho sempre sognato di essere una corrispondente per un giornale, ma sembra che le mie aspirazioni siano cambiate da quando ho cominciato a disegnare dopo la guerra del 2014” sostiene.

 

Sarah Algherbawi è una scrittrice e traduttrice freelance di Gaza.

 

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)

 




Una banca tedesca ha chiuso il conto di “Jewish Voice for Peace” per il suo sostegno al BDS

Shir Hever

2 giugno 2019 – The Real News Network

Nota redazionale: l’articolo che segue è in realtà la sbobinatura di un programma televisivo di RLNN, quindi ha una modalità comunicativa inusuale per un testo scritto. Tuttavia, data la rilevanza della questione affrontata, cioè una delle conseguenze pratiche della mozione votata dal parlamento tedesco che definisce il movimento BDS antisemita, abbiamo deciso di tradurre ugualmente questa intervista.

Shir Hever discute la decisione della banca di chiudere il conto di “Jewish Voices for a Just Peace in the Middle East” [Voce ebraica per una Giusta Pace in Medio Oriente]. È la seconda volta dai tempi di Hitler che un conto bancario ebraico viene chiuso, questa volta a causa delle pressioni di Israele per bloccare il movimento per il boicottaggio e il disinvestimento [contro Israele, ndtr.].

MARC STEINER Benvenuti su Real News Network [rete indipendente di notizie su internet, ndtr]. Sono Marc Steiner. Per due volte da quando i nazisti governarono in Germania una banca tedesca ha chiuso il conto di un’organizzazione ebraica. È successo nel 2016 – la stessa banca e di nuovo la stessa organizzazione ebraica. La banca si chiama “Banca per l’Economia Sociale”, che gestisce conti per molte organizzazioni della società civile ed è considerata un’istituzione bancaria progressista. Tuttavia ha chiuso il conto di “Jewish Voice for a Just Peace in the Middle East”. Jewish Voice – com’è nota – è un’organizzazione tedesca che promuove la solidarietà con i diritti dei palestinesi. Abbiamo già informato qui a “The Real News” in merito, descrivendo come ciò fosse parte di una campagna internazionale per chiedere che la “Banca per l’Economia Sociale” non discriminasse questi clienti ebrei. La banca ha ceduto e ha riaperto il conto. Quest’anno la situazione si è di nuovo surriscaldata. La banca allora ha incaricato un esperto esterno di indagare se Jewish Voice sia un gruppo antisemita. Tuttavia alla fine l’esperto si è rifiutato di condurre una simile accertamento. Poi Jewish Voice è riuscito a vincere il Göttingen Prize. Poco dopo la banca ha imposto un ultimatum: rinnegate il BDS o chiuderemo il vostro conto.

E ora ci raggiunge un membro del direttivo di Jewish Voice che guarda caso è anche un inviato di the Real News, per discutere del perché Jewish Voice abbia rifiutato di collaborare con un’inchiesta, se siano o meno antisemiti, o perché abbiano rifiutato di abbandonare il BDS. Shir Hever è un membro del direttivo di Jewish Voice for a Just Peace in the Middle East e collaboratore di Real News Network che vive ad Heidelberg, in Germania. Il suo libro più recente è “Privatization of Israeli Security” [Privatizzazione della Sicurezza Israeliana]. Bentornato, Shir. È sempre un piacere parlare con te.

SHIR HEVER Grazie per avermi invitato, Marc.

MARC STEINER  Questo è un argomento per alcuni versi veramente complicato, quindi, cos’è successo nel frattempo? Ho letto la dichiarazione della banca e tra breve vi dirò la mia opinione in merito, ma dimmi quello che è successo qui.

SHIR HEVER  Beh, la banca ha condotto una trattativa con noi, con Jewish Voice for a Just Peace in the Middle East, e …MARC STEINER Ne hai fatto parte? Hai partecipato alla trattativa?

SHIR HEVER  No, no. Altri membri del direttivo hanno partecipato al processo negoziale e fondamentalmente eravamo piuttosto ottimisti su questa trattativa. Siamo andati con una prospettiva molto positiva e abbiamo pensato che la banca volesse realmente scusarsi per averci accusati di antisemitismo e di aver disposto questa indagine contro di noi. La banca era anche comprensibilmente sottoposta a molte pressioni internazionali e dall’interno della Germania perché chiudesse il nostro conto in quanto era chiaro a tutti che se un’organizzazione ebraica avesse perso il proprio conto per aver appoggiato il movimento BDS, allora a ogni organizzazione in Germania sarebbe successo altrettanto. Tutte le altre organizzazioni avrebbero dovuto annunciare di rifiutare il BDS, altrimenti anche i loro conti sarebbero stati chiusi in modo veramente maccartista.

Perciò era molto importante per noi in quel contesto dire alla banca che volevamo conservare il nostro conto con loro come una questione simbolica e che volevamo garantire che la nostra esistenza in questa banca fosse prova della libertà di parola in Germania. Ma a un certo punto la banca ci ha semplicemente detto: “O rendete pubblico un comunicato, o ne firmate uno che scriveremo per voi, in cui prendete le distanze dal movimento BDS e fondamentalmente dite che voi lo rifiutate, o noi chiuderemo il vostro conto.” Ovviamente non accetteremo questo tipo di controllo delle opinioni o di controllo politico. C’è, in base alla Costituzione tedesca, il diritto di libertà di parola e la libera espressione politica è protetta. La banca non sembra capirlo, e ci ha solo detto che avrebbe chiuso il nostro conto.

MARC STEINER  Beh, lasciami dire, quando ho letto la dichiarazione della banca e stavo più o meno pensando dove potesse accadere, ma questa mi sembra una questione molto complessa. Da una parte c’è una banca che rifiuta di conservare il conto di Jewish Voice in un Paese che è ipersensibile riguardo a questioni ebraiche a causa dell’Olocausto, quello che è successo durante la Seconda Guerra Mondiale e prima. D’altra parte, ci sono tutte – a quanto pare in base a quello che ho letto – ci sono tutte queste organizzazioni sioniste di destra che stanno insistendo che il vostro conto sia chiuso e che voi siate, di fatto, benché ebrei, antisemiti. O, alcuni amano dire, ebrei che odiano se stessi. (Risate) E allora parliamo dunque di ciò, di queste due specie di contraddizioni e situazioni che esistono e come hanno giocato in tutto questo, e la tua analisi in merito.

SHIR HEVER Penso che l’analisi migliore sia utilizzare una storia biblica e sono sicuro che la conosci, ma forse non la conoscono tutti i nostri spettatori – il giudizio di re Salomone, che si trova nella Bibbia. In quella storia due donne che sostengono di essere la madre dello stesso bambino vanno dal re, e la soluzione del re è di tagliarlo a metà. Una madre dice di essere d’accordo, ma ognuna avrebbe avuto una metà e fondamentalmente nessuna avrebbe avuto un bambino. E l’altra dice: “No, datelo all’altra, ma non uccidete il bambino.” E allora re Salomone dice: “Oh, lei dev’essere la vera madre, date a lei il bambino.” Credo che questa sia una situazione molto simile. Sfortunatamente, la banca non sembra conoscere molto bene la cultura e la storia ebraiche, perché ci troviamo in una situazione in cui il bambino è la presenza ebraica in Germania. La domanda è: possono gli ebrei vivere in Germania sicuri e liberi, avere le proprie opinioni politiche e fare le proprie scelte su quali opinioni politiche avere?

E in quella banca c’era un’altra organizzazione, un’altra associazione ebraica chiamata Keren Hayesod, che è filoisraeliana. In realtà Keren Hayesod è registrata in Israele. E’ un’associazione sionista. Invia denaro alle colonie illegali in Cisgiordania. Compra terreni su cui possono vivere solo gli ebrei, quindi è un’organizzazione razzista molto di destra. E noi di Jewish Voice for a Just Peace non abbiamo mai chiesto alla banca di chiudere il loro conto. Crediamo che, anche se quell’associazione è razzista, ha diritto alle sue opinioni. Noi le combattiamo, ma non abbiamo intenzione di farle tacere. Noi cerchiamo di garantire che anche le nostre opinioni vengano ascoltate. Per cui in questo senso vogliamo avere una presenza ebraica in Germania in cui chiunque possa avere un’opinione. Tuttavia la banca…ora, quello che è successo è in realtà che Keren Hayesod ha detto che se la banca non ci caccia, se ne andranno dalla banca.

MARC STEINER  E loro hanno più soldi di voi.

SHIR HEVER (Risate) Hanno molti più soldi di noi. Sono appoggiati dal governo israeliano, per cui hanno molti più soldi. Ma comunque, quando lo scorso anno la banca ha riaperto il nostro conto, se ne sono andati per protesta e hanno detto che avrebbero chiuso il loro conto con questa banca. Ora, guarda cosa sta per succedere a questa banca dato che ci hanno cacciati. Dopo che siamo stati buttati fuori cosa succede se Keren Hayesod dice che vuole riaprire il proprio conto nella Banca per l’Economia Sociale? Se la banca dice di non essere un luogo di dibattito politico – come fanno nella loro dichiarazione – di non essere il luogo giusto per tenere discussioni politiche tra gruppi ebraici?

Quindi fondamentalmente stanno dicendo che i gruppi politici ebraici non devono avere conti nella banca, che è un’affermazione assolutamente razzista. La loro altra possibilità è di dire: sì, vogliamo avere Keren Hayesod, l’organizzazione di destra apre il proprio conto, ma non Jewish Voice for a Just Peace. Ciò significa che la banca dice: sì, siamo a favore dell’occupazione, a favore del razzismo, a favore degli ebrei di destra, ma siamo contro gli ebrei che difendono i diritti umani. E quindi ciò significa che questa non è realmente tanto una banca, quanto un’organizzazione politica – mentre a sua volta la banca nella sua dichiarazione afferma di non essere un’organizzazione politica. Quindi decidetevi. O siete un’organizzazione politica o siete un’organizzazione che non consente agli ebrei di essere clienti.

MARC STEINER  Cosa pensi che abbia veramente spinto, abbia obbligato a prendere questa decisione? Voglio dire, per quanto ho letto a proposito della banca, la Banca per l’Economia Sociale l’ho definita all’inizio una specie di istituzione progressista, per quanto possa esserlo una banca. Cioè, se fosse qui negli Stati Uniti, sarebbe considerata una banca progressista che accetta tutti questi gruppi, prende il loro denaro e sembra sostenere un certo numero di cause progressiste nella stessa Germania. Quindi, cos’è successo? Cosa c’è veramente dietro tutto questo?

SHIR HEVER  Quello che c’è dietro è che la lobby israeliana sta lavorando in modo estremamente pesante in Germania per cercare di rendere illegittimo il BDS e persino di criminalizzarlo. Sono decisi ad utilizzare fino all’ultima carta a disposizione, ricorrendo ai sensi di colpa dei tedeschi sull’Olocausto. Tuttavia questa non è veramente una questione così importante per quei tedeschi di destra che sono filoisraeliani e che hanno portato avanti questa decisione che il parlamento tedesco…Stanno utilizzando in Germania organizzazioni che sostengono di essere associazioni che rappresentano tutti gli ebrei in Germania, ma ovviamente gli ebrei sono un gruppo molto diversificato, hanno molte opinioni diverse e nessuna organizzazione da sola li può rappresentare.

MARC STEINER Sempre. Sempre, direi.

SHIR HEVER

Sempre. Sì, sì. Ovviamente, ovviamente. E quindi, ci sono le organizzazioni che sostengono continuamente che il BDS è antisemita, e si tratta naturalmente di una menzogna. Ma la nostra organizzazione, Jewish Voice for a Just Peace, e molti dei nostri membri appoggiano il BDS. È un grande problema per loro perché dimostra che il BDS non è antisemita. Continuiamo a pubblicare informazioni sui diritti dei palestinesi, sulle leggi internazionali e su come la politica tedesca verso Israele sia costellata di contraddizioni interne, perché sta appoggiando ciecamente Israele e continua a sostenere di appoggiare le leggi internazionali e le posizioni dell’Unione Europea, e semplicemente ciò non è compatibile. Questa è la ragione per cui queste organizzazioni sono così impegnate nel togliere di mezzo Jewish Voice for a Just Peace. È un obiettivo molto problematico per loro. E il fatto che quest’anno abbiamo vinto il Göttingen Peace Prize è una cosa che da un lato mostra proprio quanto sia diffuso l’appoggio, il sostegno di base per la nostra organizzazione in Germania, ma è anche come una chiamata alle armi per le organizzazioni di destra filo-israeliane, che ora devono raddoppiare i loro sforzi e i loro finanziamenti per cercare di delegittimare la nostra organizzazione.

MARC STEINER  Quindi, con il poco tempo che ci è rimasto qui, solo due domande molto veloci. Una: quanto è divisa la comunità ebraica, che, ovviamente, è piccolissima paragonata a quanto era negli anni ’20 e ’30, ma è divisa su questa questione quanto sembra essere sempre più divisa qui negli Stati Uniti? E secondo: quali sono i prossimi passi?

SHIR HEVER  Penso che in Germania quello che veramente non c’è molto, come invece negli Stati Uniti, è una ben radicata comunità ebraica molto grande e da molto tempo che non si preoccupa ogni giorno di questioni riguardanti Israele-Palestina, più interessata alla vita ebraica in sé. Quello che c’è in Germania è una generazione di ebrei che sono venuti soprattutto dall’Unione sovietica e qui è piuttosto una generazione più anziana, che tende ad essere più conservatrice. Ovviamente le loro opinioni politiche sono differenziate come in qualunque altro gruppo, ma questa è la principale base d’appoggio per l’organizzazione chiamata “Central “ (Council of Jews in Germany [Consiglio degli Ebrei in Germania]), che è un’organizzazione di destra filo-israeliana, e il suo presidente, il dottor Josef Schuster, sta costantemente attaccando la nostra organizzazione definendoci antisemiti. Ma poi c’è una nuova generazione di ebrei tedeschi, molti dei quali arrivano da Israele e sanno di persona cosa siano l’occupazione e l’apartheid.

MARC STEINER Come te.

SHIR HEVER  Come me. Sì. E ci sono decine di migliaia come me che arrivano da Israele in Germania perché la Germania è considerata un Paese liberale e democratico, in cui la gente può esprimere la propria opinione. Solo che siamo venuti in questo Paese per scoprire che sì, questo è un Paese liberale e democratico su qualunque argomento meno Israele. Su questo problema sfortunatamente la politica tedesca è molto indietro. Ma in questo gruppo di ebrei immigrati in Germania l’opinione è molto più a sinistra. Di nuovo, naturalmente, è un gruppo molto diversificato. Nel gruppo ci sono anche i filo-israeliani, ma sono una piccola minoranza. E una grande percentuale di questo gruppo appoggia il movimento BDS.

MARC STEINER Quindi, molto rapidamente perché siamo in chiusura, quali sono i vostri prossimi passi?

SHIR HEVER  Bene, stiamo prendendo in considerazione di presentare un ricorso al tribunale e di presentare una denuncia contro la banca perché, in base alla Costituzione tedesca, l’articolo 5 sancisce il diritto alla libertà di parola e di organizzazione. Cosa interessante, c’è un altro articolo della Costituzione tedesca, l’articolo 18, che non è mai stato veramente applicato prima. Ma questo articolo afferma che un’organizzazione che abusa del diritto di parola e di organizzazione per prevaricare i diritti di altre organizzazioni di esprimersi liberamente, perderà questi diritti. E penso che la Banca per l’Economia Sociale non abbia fatto il suo dovere e non abbia raccolto accuratamente informazioni prima di prendere la sua decisione davvero avventata. Il fatto che abbiano preso una posizione politica come banca è qualcosa che mette a rischio la loro stessa esistenza.

MARC STEINER Bene, Shir Hever, è sempre un grande piacere parlare con te. Molte grazie per questo reportage e siamo ovviamente ansiosi di parlare di nuovo con te molto presto.

SHIR HEVER  Molte grazie, Marc.

MARC STEINER Grazie a te. Sono Marc Steiner per The Real News Network. Grazie per essere stati con noi. Statemi bene.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Un Stato democratico e laico

Ofra Yeshua-Lyth: “La sola soluzione in Medio Oriente è uno Stato democratico e laico”

La giornalista rilascia a MEE le sue riflessioni sul sionismo e sulla società israeliana, che secondo lei non troverà la propria salvezza che in uno Stato unico ed egualitario per tutti i suoi cittadini

 

Di Hassina Mechaï

Martedì 7 maggio 2019 – Middle East Eye

 

Perché uno Stato ebraico non è una buona idea? La tesi sottesa al libro di Ofra Yeshua-Lyth, giornalista e scrittrice israeliana, è semplice: la situazione attuale in Israele – occupazione, militarizzazione della società, mescolanza di nazionalismo e religione – non è affatto una rottura con il sionismo o una deviazione dalla sua dinamica.

Nel suo libro, con prefazione dello storico israeliano Ilan Pappé, l’autrice, che è stata corrispondente a Washington e in Germania di “Maariv”, uno dei principali quotidiani israeliani, ne deduce che la sola soluzione a quello che viene definito (in modo errato, secondo lei) il “conflitto israelo-palestinese” è uno Stato unico laico e democratico. Un incontro.

 

Deviazione dal sionismo o logica intrinseca

Durante gli anni di militanza in “Shalom Arshav” (Pace Ora [movimento pacifista israeliano contrario all’occupazione, ndtr.]), Ofra Yeshua-Lyth ha osservato una sinistra invischiata in illusioni pericolose. Questa sinistra, al potere dal 1948 al 1977, ha potuto credere e far credere che sionismo, ebraismo e democrazia potessero stare insieme in un vero Stato di diritto. E che il solo ostacolo fosse l’occupazione.

La soluzione sarebbe dunque stata la pace in cambio della restituzione di questi territori occupati. Un’equazione semplice, ovvero semplicistica per l’autrice, che pensa che l’occupazione sia la conseguenza e non la causa della situazione.

“La sinistra israeliana crede che il solo problema sia l’occupazione, che sia sufficiente mettervi fine e che tutto si sistemerà. Che Israele diventerà un “buon piccolo Israele”, un piccolo Stato per gli ebrei. Ma il problema è più profondo e riguarda l’idea stessa di sionismo.” Il fallimento di quello che è comunemente chiamato “il campo della pace” sarebbe dunque ineluttabile. “La sinistra illuminata vorrebbe togliere gli ebrei dalle zone abitate in maggioranza da non ebrei, mentre la destra nazionalista spera di cacciare i non ebrei dai territori che brama”, riassume l’autrice.

Per lei e per molti israeliani la vera rottura c’è stata con la seconda Intifada. “Confesso di aver creduto ad Oslo. Anche degli amici palestinesi. Ma altri, molto pochi, hanno visto che quegli accordi non erano che menzogne. Tuttavia la seconda Intifada ha scosso le due società. Israele è diventato antipalestinese in misura senza precedenti.

Gli israeliani rifiutavano di vedere e di capire la collera dei palestinesi. Per loro ciò significava che non avevano interlocutori. Per altri, ciò ha giustificato sempre più l’idea di uno Stato ebraico da una riva all’altra [dal Mediterraneo al Giordano, ndtr.]”, aggiunge.

Secondo Ofra Yeshua-Lyth la soluzione dei due Stati ha lasciato la società israeliana indifesa davanti alle proprie contraddizioni, alle sue linee di frattura. Gli strati di immigrazioni successive coesistono più di quanto non vivano insieme. Il sionismo non sarebbe dunque riuscito a unire la società?

“Ciò che minaccia il sionismo non è l’esplosione, ma l’implosione. Il sionismo non è riuscito a costruire una società unificata. La sola cosa che la rende coesa è la paura, l’idea che Israele sia sempre minacciato e che lo Stato e l’esercito debbano essere forti. L’odio e la paura sono delle emozioni molto forti che fanno da collante.”

Ofra Yeshua-Lyth, lei che è nata da quella che potrebbe essere definita una “coppia mista”, lo può testimoniare. Sua madre era un’ebrea russa e suo padre un ebreo yemenita. Se “gli ebrei askenaziti [dell’Europa centro- orientale, ndtr.] hanno imparato a dissimulare – ed alcuni sono realmente riusciti a superare – la ripugnanza per l’atmosfera araba e medio-orientale”, la realtà del razzismo subito dagli ebrei arabi emigrati in Israele rimane concreta.

“Questa cultura doppia mi ha resa sensibile alla questione dei diritti dei palestinesi. Negli anni ’80 il molto influente movimento “Shalom Archav” sosteneva che la democrazia israeliana non potesse essere perfetta perché gli ebrei mizrahim (orientali) lo impedivano. Si diceva di loro che non capissero la democrazia. Anche se tutti erano ebrei, le classi sociali continuavano a essere divise tra ashkenaziti e mizrahi,” spiega a MEE.

 

La società israeliana tra religione e nazionalismo

Il movimento sionista si iscrive nella dinamica nazionalista laica del diritto dei popoli a disporre di se stessi. Theodore Herzl voleva lasciare i rabbini nelle sinagoghe e confinare i militari nelle caserme.

“Herzl non era credente. Ben Gurion, Sharon e Netanyahu non mangiano kosher [cibo ammesso dalla religione ebraica, ndtr.]. Si ignora che Ben Gurion ha potuto sostenere l’idea che i palestinesi attuali discendano dagli ebrei convertiti al cristianesimo o all’islam”, sottolinea Ofra Yeshua-Lyth, che non è cresciuta in una famiglia religiosa e ha sposato un non ebreo.

Eppure l’attuale situazione israeliana è l’esatto contrario: i militari e i religiosi fanno parte del potere e plasmano la vita degli israeliani fin nell’intimità. “La società cosiddetta laica nella quale sono cresciuta non si è mai separata davvero dal passato religioso tradizionale,” nota Ofra Yeshua-Lyth. Fin dalle origini del sionismo si sono dovute tenere insieme le diverse stratificazioni d’immigrazione. La soluzione è stata trovata in questa religione che è servita, secondo l’autrice, da “collante” nazionale.

Così in Israele i problemi familiari sono discussi davanti ai tribunali rabbinici. “La religione ha generato un groviglio ideologico, civico e teologico a spese del buon senso. Milioni di israeliani vi sono rimasti intrappolati e non osano liberarsene”, osserva la scrittrice. Secondo lei aver fatto della religione il criterio dell’identità nazionale fa naufragare “qualunque possibilità di creare una vera nuova Nazione.”

 

Un uomo, una voce, una cittadinanza

Ofra Yeshua-Lyth se la prende anche con il mito della ‘sola democrazia del Medio Oriente’. “Quando i principi della democrazia entrano in conflitto con quanto prescrive l’ebraismo, questa democrazia cede il passo alla religione”, deplora. “L’unità nazionale” e “gli imperativi securitari” sono le “scuse abituali”, scrive.

È esattamente in nome di questa mescolanza di religione e nazionalismo che “gli arabi devono essere descritti soprattutto come crudeli, dei nemici che non transigono sulla messa in discussione dello Stato ebraico”, analizza Ofra Yeshua Lyth. “Che gli arabi possano essere non violenti e privi di qualunque forma di odio ‘innato’ verso gli ebrei è così poco accettabile che qualunque fiero nazionalista israeliano lo nega quasi in preda al panico.”

L’occupazione è quindi sia quello che paralizza la società israeliana che ciò che la fa stare insieme, in una volontà di vivere che si costruisce “contro”. Perché, come dice giustamente la giornalista, “nel registro dei media israeliani, solo i ragazzini che lanciano pietre sono dei ribelli violenti. I criminali che li picchiano sono i nostri cari ragazzi.”

Partendo da questa cruda realtà Ofra Yeshua-Lyth osserva con distacco la dichiarazione di Emmanuel Macron che mette in relazione antisemitismo e antisionismo. “Trovo molto sorprendente che la critica alle politiche, alle azioni e alle leggi israeliane sia definita come ‘antisemitismo’”. Bisogna parlare della discriminazione a danno della popolazione autoctona non ebraica della Palestina in virtù delle leggi israeliane e dell’occupazione militare di vaste zone popolate.

I sionisti farebbero bene a prendere in considerazione la situazione del nostro regime invece di mascherarla con false grida, con la pretesa di essere vittime perseguitate. È vero che l’antisemitismo è vivo e vegeto. Deve essere condannato – così come tutte le altre forme di razzismo, compresa la retorica antiaraba e antimusulmana che è molto presente e aggressiva, nello spazio pubblico israeliano come altrove.”

Ofra Yeshua-Lyth propone uno Stato laico e democratico per tutti quelli che vivono tra il Giordano e il Mediterraneo, per il 20% di popolazione israeliana che è palestinese come per i palestinesi di Gaza e della Cisgiordania.

“Ciò che mi lega ai palestinesi laici è più importante dell’affinità che potrei avere con gli israeliani religiosi o di destra. Si parla della dimensione patriarcale dell’islam, ma l’ebraismo lo è altrettanto. Sono per uno Stato laico. Non sono ottimista, tuttavia è la sola soluzione, o meglio la sola soluzione logica: uno Stato democratico e laico. Sono per il principio di una persona un voto”, dichiara a MEE.

L’altra rivoluzione da compiere sarebbe accettare che la popolazione ebraica non sia maggioritaria nello Stato così creato. Allora si prospetta lo spettro della questione demografica che tormenta tanti dirigenti israeliani: “La politica deve essere definita dall’ideologia, dalla religione. Gli israeliani hanno paura di essere controllati dai palestinesi. I palestinesi sono persone moderne e laiche. Penso che siano alcuni israeliani che non vorrei veder arrivare al potere.”

Infine, questa ipotesi di uno Stato laico presuppone anche un diritto al ritorno per i palestinesi rifugiati in altri Paesi. “Bisogna ammettere la realtà della Nakba. Non tutti i palestinesi della diaspora vogliono necessariamente tornare. Ma bisogna riconoscere loro questo diritto al ritorno.”

La creazione di una cittadinanza sui generis nello Stato unico sarebbe dunque la panacea? “Non sono ottimista. Il fanatismo religioso è talmente grande, il nazionalismo è così forte che persino i palestinesi di cittadinanza israeliana sono minacciati. Ormai in Israele addirittura le parole ‘sinistra’ e ‘diritti dell’uomo’ sono diventate dei dispregiativi, delle parole estranee,” conclude Ofra Yeshua-Lyth.

 

 

(traduzione di Amedeo Rossi)