Comitato: “Un’enorme maggioranza” di minori palestinesi detenuti da Israele viene “torturata”

Ma’an Agency 18 ottobre 2016

Ramallah.(Ma’an).

Martedì il Comitato Palestinese per le Questioni dei Prigionieri, oltre a denunciare un deciso aumento della carcerazione e dei maltrattamenti da parte di Israele dei ragazzi palestinesi, ha dichiarato che nella “stragrande maggioranza” dei casi i minori palestinesi chiusi nelle carceri israeliane di Megiddo e Ofer sono stati torturati durante la detenzione e gli interrogatori.

L’avvocato del comitato Luay Ukka ha dichiarato che, durante una visita al carcere di Ofer, ha constatato che il numero dei giovani prigionieri era notevolmente aumentato nello scorso mese. A metà ottobre, ha detto, il numero dei prigionieri palestinesi sotto i 18 anni ad Ofer è salito a 28, di cui 14 minori di 14 anni.

Secondo l’associazione per i diritti umani Defense for Children International – Palestine (DCIP) [Difesa dei Minori Internationale – Palestina (DCIP)] , Israele ha anche drasticamente incrementato l’uso della detenzione amministrativa – incarcerazione senza accusa né processo – contro i minori.

Secondo la DCIP, nello scorso anno sono stati sottoposti a detenzione amministrativa 19 minori palestinesi. Prima dell’ ottobre 2015 Israele, a quanto risulta, non aveva trattenuto in detenzione amministrativa nessun minore palestinese della Cisgiordania occupata dal dicembre 2011.

Secondo Ukka, “la stragrande maggioranza” dei minori prigionieri detenuti a Ofer ha subito “torture, pestaggi, umiliazioni” durante le incursioni da parte dei militari israeliani per arrestarli e anche durante gli interrogatori.

Ukka ha anche detto che la maggioranza dei minori prigionieri proveniva dal campo profughi di Aida e dalla città di al-Ubeidiya, che si trovano nel distretto di Betlemme, nella parte meridionale della Cisgiordania occupata. Proprio la settimana scorsa militari israeliani in borghese hanno arrestato otto minori palestinesi nel campo profughi di Aida, mentre i residenti del campo – in particolare minori – hanno recentemente subito un’intensificazione di violente incursioni militari.

Il quattordicenne Tamir Abu Salem, arrestato circa un anno fa ad Aida, ha detto a Ukka che le incursioni hanno scatenato scontri tra i giovani del luogo ed i soldati israeliani e che lui è stato colpito alla testa da una pallottola d’acciaio rivestita di gomma prima di essere portato in carcere, dove gli hanno anche dato un pugno in faccia. Tamir ha aggiunto che la pallottola gli ha fratturato un osso della testa e che “quando respiro una parte del mio cuoio capelluto si muove su e giù.”

Il quattordicenne ha raccontato che le uniche cure che ha ricevuto dal servizio carcerario israeliano (IPS) sono state alcuni antidolorifici – lamentela comune tra i prigionieri palestinesi malati e feriti, parte di una deliberata politica di negligenza sanitaria da parte delle autorità carcerarie israeliane.

Lunedì, in una sede diversa, Hiba Masalha, un altro avvocato che lavora con il comitato, ha dichiarato che il numero di minori prigionieri nel carcere di Megiddo è anch’esso recentemente aumentato. “Per la maggior parte i minori prigionieri vengono torturati ed umiliati durante l’arresto”, ha detto, aggiungendo che i minori palestinesi vengono anche perquisiti fisicamente all’arrivo nei centri di detenzione israeliani.

La pubblicazione delle testimonianze è avvenuta un giorno dopo che la DCIP ha pubblicato un rapporto in cui afferma che almeno cinque minori palestinesi sono stati arrestati da Israele senza accuse negli ultimi mesi, in merito a post su Facebook che le autorità israeliane hanno considerato “istigazione”.

Intanto il Comitato Palestinese per le questioni carcerarie in un rapporto di settembre ha segnalato che almeno 1000 minori palestinesi tra gli 11 e i 18 anni sono stati imprigionati da Israele a partire da gennaio, parecchi dei quali hanno riferito di aver subito violenza ed essere stati torturati durante la detenzione.

Secondo l’associazione per i diritti dei prigionieri Addameer, sono attualmente detenuti da Israele come prigionieri politici in totale 340 minori palestinesi.

Gli interrogatori dei minori palestinesi, secondo Addameer, possono durare fino a 90 giorni e, oltre ai pestaggi e alle minacce, sono stati riferiti anche casi di violenza sessuale e reclusione in isolamento per ottenere confessioni, mentre le confessioni che sono costretti a firmare sono in ebraico, lingua che la maggior parte dei minori palestinesi non conosce.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Il direttore di B’Tselem: perché ho parlato contro l’occupazione all’ONU

di Hagai El-Ad

Haaretz16 ottobre 2016

Non ci sono possibilità che la società israeliana, di sua spontanea volontà e senza alcun aiuto, metta fine all’incubo. Troppi meccanismi nascondono la violenza che mettiamo in atto per controllare i palestinesi.

Ho parlato alle Nazioni Unite contro l’occupazione perché mi sforzo di essere umano. E gli esseri umani, quando si assumono la responsabilità di un’ingiustizia contro altri esseri umani, hanno l’obbligo morale di fare qualcosa.

Ho parlato alle Nazioni Unite contro l’occupazione perché sono israeliano. Non ho un altro Paese. Non ho un’altra cittadinanza né un altro futuro. Sono nato e cresciuto qui e qui sarò sepolto: mi sta a cuore il destino di questo luogo, il destino del suo popolo e il suo destino politico, che è anche il mio. E alla luce di tutti questi legami, l’occupazione è un disastro.

Ho parlato alle Nazioni Unite contro l’occupazione perché i miei colleghi di B’Tselem ed io, dopo così tanti anni di lavoro, siamo arrivati ad una serie di conclusioni. Eccone una: la situazione non cambierà se il mondo non interviene. Sospetto che anche il nostro arrogante governo lo sappia, per cui è impegnato a seminare la paura contro un simile intervento.

L’intervento del resto del mondo contro l’occupazione sarebbe semplicemente legittimo come per qualunque questione di diritti umani. Lo è ancora di più quando ciò coinvolge un problema come il fatto che governiamo su un altro popolo. Non è una questione interna israeliana. E’ palesemente una questione internazionale.

C’è un’altra conclusione: non ci sono possibilità che la società israeliana, di sua spontanea volontà e senza alcun aiuto, metta fine all’incubo. Troppi meccanismi nascondono la violenza che mettiamo in atto per controllarli. Si sono accumulate troppe giustificazioni. Ci sono state troppe paure e troppo odio – da entrambe le parti – nel corso degli ultimi 50 anni. Alla fine, ne sono sicuro, israeliani e palestinesi porranno fine all’occupazione, ma non lo possiamo fare senza l’aiuto del resto del mondo.

Le Nazioni Unite sono molte cose. Molte di queste sono problematiche, altre sono realmente stupide. Con queste non sono d’accordo. Ma le Nazioni Unite sono anche l’organizzazione che ci ha dato uno Stato nel 1947, e questa decisione è la base della legittimità internazionale del nostro Paese, l’unico di cui sono cittadino. E ogni giorno di occupazione che passa, non solo ci mangiamo con diletto la Palestina, distruggiamo anche la legittimità del nostro Paese.

Non capisco cosa il governo voglia che facciano i palestinesi. Abbiamo dominato la loro vita per circa 50 anni, abbiamo fatto a pezzi la loro terra. Noi esercitiamo il potere militare e burocratico con grande successo e stiamo bene con noi stessi e con il mondo.

Cosa dovrebbero fare i palestinesi? Se osano fare manifestazioni, è terrorismo di massa. Se chiedono sanzioni, è terrorismo economico. Se usano mezzi legali, è terrorismo giudiziario. Se si rivolgono alle Nazioni Unite, è terrorismo diplomatico.

Risulta che qualunque cosa faccia un palestinese, a parte alzarsi la mattina e dire “Grazie, Raiss”- “Grazie, padrone” – è terrorismo. Cosa vuole il governo, una lettera di resa o che i palestinesi spariscano? Non possono sparire.

Neanche noi possiamo sparire, né staremo in silenzio. Dobbiamo ripeterlo ovunque: l’occupazione non è il risultato di un voto democratico. La nostra decisione di controllare le loro vite, per quanto ci possa stare bene, è un’espressione di violenza, non di democrazia. Israele non ha un’alternativa legittima per continuare in questo modo.

E il resto del mondo non può continuare a trattarci come è accaduto finora – tutte parole e niente fatti.

Ho parlato alle Nazioni Unite contro l’occupazione perché sono ottimista, perché sono israeliano, perché sono nato ad Haifa e vivo a Gerusalemme [due città in cui vivono molti palestinesi. Ndtr.], e perché non sono più giovane e ogni giorno della mia vita è stato accompagnato dal nostro controllo su di loro. E perché è impossibile andare avanti così.

Non dobbiamo continuare in questo modo. Ho parlato al Consiglio di Sicurezza dell’ONU contro l’occupazione perché mi sforzo di essere umano.

Hagai El-Ad è il direttore esecutivo del gruppo per i diritti umani di B’Tselem.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Testo integrale della risoluzione UNESCO sulla Palestina occupata

Traduzione da http://www.globalist.it/world/articolo/207146/unesco-ecco-il-testo-integrale-della-risoluzione-quot-palestina-occupata-quot.html [con alcune modifiche e correzione dei refusi da parte dei redattori di Zeitun].

Testo originale : http://unesdoc.unesco.org/images/0024/002462/246215e.pdf

Di seguito il testo della risoluzione “Palestina Occupata”, approvata dalla commissione dell’Unesco con 24 voti favorevoli, 6 contrari e 26 astensioni

Voti a favore: Algeria, Bangladesh, Brasile, Chad, Cina, Repubblica Domenicana, Egitto, Iran, Libano, Malesia, Marocco, Mauritius, Messico, Mozambico, Nicaragua, Nigeria, Oman, Pakistan, Qatar, Russia, Senegal, Sud Africa, Sudan e Vietnam.

Voti contrari: Estonia, Germania, Lituania, Paesi Bassi, Regno Unito e Stati Uniti.

Astenuti: Albania, Argentina, Cameron, El Salvador, Francia, Ghana, Grecia, Guinea, Haiti, India, Italia, Costa d’Avorio, Giappone, Kenya, Nepal, Paraguay, Saint Vincent e Nevis, Slovenia, Korea del Sud, Spagna, Sri Lanka, Svezia, Togo, Trinidad e Tobago, Uganda e Ucraina.

Assenti: Serbia e Turkmenistan.

Comitato Esecutivo

Sessione n. 200

Commissione programma e relazioni esterne (PX)

Oggetto 25: PALESTINA OCCUPATA

Discussione

Proposta da: Algeria, Egitto, Libano, Marocco, Oman, Qatar e Sudan

IA Gerusalemme

Il comitato esecutivo,

  1. 1. Avendo esaminato il documento 200EX/25,

  1. 2. Richiamandosi alle quattro disposizioni della convenzione di Ginevra (1949) ed ai relativi protocolli (1977), alle regolamentazioni del Tribunale dell’Aia in territori di guerra, alla convenzione dell’Aia per la protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato (1954) ed ai relativi protocolli, alla Convenzione sui mezzi per proibire ed impedire l’importazione, l’esportazione ed il trasferimento illegale di beni culturali (1970) e alla Convenzione per la protezione del Patrimonio Culturale e Naturale Mondiale (1972), all’inserimento della Città Vecchia di Gerusalemme e delle sue mura tra i siti Patrimonio Culturale dell’Umanità (1972) e tra i siti del Patrimonio a Rischio (1982), oltre che alle raccomandazioni, risoluzioni e decisioni dell’UNESCO sulla protezione del patrimonio culturale, così come alle risoluzioni e decisioni dell’UNESCO in riferimento a Gerusalemme, richiamandosi anche alle precedenti risoluzioni UNESCO in materia di ricostruzione e sviluppo di Gaza ed alle risoluzioni UNESCO relative ai siti palestinesi di Al-Kahlil/Hebron e Betlemme,

  1. 3, Affermando l’importanza che Gerusalemme e le sue mura rappresentano per le tre religioni monoteiste, affermando anche che in nessun modo la presente risoluzione, che intende salvaguardare il patrimonio culturale della Palestina e di Gerusalemme Est, riguarderà le risoluzioni prese in considerazione dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e le risoluzioni relative allo status legale di Palestina e Gerusalemme,

  1. 4, Condanna fermamente il rifiuto di Israele di implementare le precedenti decisioni UNESCO riguardanti Gerusalemme, in particolare il punto 185 EX/Ris. 14, sottolineando come non sia stata rispettata la propria richiesta al Direttore Generale di nominare, il prima possibile, un rappresentate permanente di stanza a Gerusalemme Est per riferire regolarmente quanto riguarda ogni aspetto di competenza UNESCO, né lo siano state le reiterate richieste successive in tal senso;

  1. 5. Condanna fortemente il mancato rispetto da parte di Israele, potenza occupante, della cessazione dei continui scavi e lavori a Gerusalemme Est ed in particolare all’interno e nei dintorni della Città Vecchia, e rinnova la richiesta ad Israele, la potenza occupante, di proibire tutti questi lavori in base ai propri obblighi disposti da precedenti convenzioni e risoluzioni UNESCO;

  1. 6. Ringrazia il Direttore Generale per gli sforzi compiuti nel cercare di rendere effettive le precedenti risoluzioni UNESCO per Gerusalemme e nel cercare di mantenere e rinnovare tali sforzi;

IB Al-Aqsa Mosque/Al-Ḥaram Al-Sharif e dintorni

IB1 Al-Aqsa Mosque/Al-Ḥaram Al-Sharif

  1. 7. Chiede ad Israele, la potenza occupante, di ripristinare lo status quo precedente al settembre 2000, in base al quale il dipartimento giordano “Awqaf ” (Fondazione religiosa) esercitava senza impedimenti autorità esclusiva sulla moschea Al-Aqsa/Al-Haram Al-Sharif ed il cui mandato si estendeva a tutte le questioni riguardanti l’amministrazione della moschea Al- Aqsa/Al-Haram Al-Sharif, inclusi il mantenimento, il restauro e la regolamentazione degli accessi;

  1. 8. Condanna fortemente le sempre maggiori aggresioni israeliane e le misure illegali nei confronti dell’ Awqaf e del suo personale, e nei confronti della libertà di culto e dell’accesso dei musulmani alla loro moschea santa Al-Aqsa/Al-Haram Al-Sharif, e chiede ad Israele, la potenza occupante, di rispettare lo status quo storico e di porre fine immediatamente a dette misure;

  1. 9. Deplora fermamente le continue irruzioni di estremisti israeliani di destra e delle forze armate alla moschea Al-Aqsa/Al-Haram Al-Sharif, e sollecita Israele, la potenza occupante, a mettere in atto le misure necessarie a prevenire violazioni provocatorie che non rispettino la santità e l’integrità della Moschea Al-Aqsa/Al-Haram Al-Sharif;

  1. 10. Denuncia fermamente le continue aggressioni israeliane nei confronti dei civili, tra cui figure religiose e sacerdoti islamici, denuncia l’ingresso con la forza nelle varie moschee ed edifici storici del complesso Al-Aqsa/Al-Haram Al-Sharif da parte di funzionari israeliani, compresi quelli delle cosiddette “Antichità Israeliane” [IAA, l’autorità israeliana delle antichità, che dipende dal ministero della Cultura. Ndtr], l’arresto ed il ferimento di musulmani in preghiera e di guardie dell’Awqaf, e chiede ad Israele, la potenza occupante, di porre fine a queste aggressioni ed agli abusi che alimentano le tensioni sul terreno e tra le religioni;

  1. 11. Disapprova le limitazioni imposte da Israele all’accesso alla Moschea Al-Aqsa/Al-Ḥaram Al-Sharif durante l’Eid Al-Adha del 2015 e le conseguenti violenze, e chiede ad Israele, la potenza occupante, di cessare ogni sorta di abusi contro la Moschea Al-Aqsa/Al-Ḥaram Al-Sharif;

  1. 12. Condanna fermamente il rifiuto di Israele di concedere visti agli esperti UNESCO incaricati del progetto UNESCO presso il “Centro per i Manoscritti Islamici” di Al-Aqsa /Al-Ḥaram Al-Sharif, e chiede ad Israele di concedere il visto agli esperti UNESCO senza alcuna restrizione;

  1. 13. Condanna i danni provocati dalle forze di sicurezza israeliane, specialmente a partire dall’agosto 2015, alle porte e finestre della Moschea al-Qibli all’interno del complesso Al-Aqsa/Al-Ḥaram Al-Sharif, e a tale proposito riafferma l’obbligo da parte di Israele di rispettare l’integrità, l’autenticità ed il patrimonio culturale della moschea Al-Aqsa/Al-Ḥaram Al-Sharif, come stabilito dallo status quo tradizionale, in quanto sito islamico di preghiera e parte del patrimonio culturale mondiale;

  1. 14. Esprime la propria profonda preoccupazione per il blocco israeliano ed il divieto di ristrutturare l’edificio della porta di “Al-Rahma”, una delle porte della moschea Al-Aqsa/Al-Ḥaram Al-Sharif, e sollecita Israele, la potenza occupante, a riaprire tale porta e porre fine agli ostacoli posti per la realizzazione dei necessari lavori di restauro, per poter riparare i danni apportati dalle condizioni meteorologiche, specialmente dalle infiltrazioni d’acqua all’interno delle stanze dell’edificio.

  1. 15. Chiede inoltre ad Israele, la potenza occupante, di consentire la messa in opera immediata di tutti i 18 progetti hashemiti [del re di Giordania. Ndtr.] di ristrutturazione di Al-Aqsa/Al-Ḥaram Al-Sharif;

  1. 16. Deplora la decisione israeliana di costruire una funivia a doppio cavo a Gerusalemme Est ed il cosiddetto progetto “Liba House” nella Città Vecchia, cosi come la costruzione del cosiddetto “Kedem Center”, un centro per visitatori nei pressi del lato sud della moschea Al-Aqsa/Al-Ḥaram Al-Sharif, la costruzione dell’edificio “Strauss” ed il progetto di un ascensore nella Piazza Al-Buraq “Plaza del Muro occidentale”, e invita Israele, la potenza occupante, a rinunciare ai progetti sopra citati e a fermare i lavori in conformità con i propri obblighi in base alle convenzioni, risoluzioni e decisioni dell’UNESCO;

IB2 La salita alla scalinata “Mughrabi” nella moschea Al-Aqsa/Al-Ḥaram Al-Sharif

  1. 17. Ribadisce che la scalinata “Mughrabi” è parte integrante ed inseparabile del complesso Al-Aqsa/Al-Ḥaram Al-Sharif;

  1. 18. Prende atto del sedicesimo verbale di monitoraggio e di tutti i verbali precedenti, insieme alle relative aggiunte preparate dal World Heritage Center, e dei verbali sullo stato di conservazione inoltrati al World Heritage Center dal regno di Giordania e dallo Stato di Palestina;

1. 19. Deplora le continue misure e decisioni unilaterali da parte israeliana in merito alla scalinata, inclusi gli ultimi lavori realizzati alla porta “Mughrabi” nel febbraio 2015, l’installazione di una copertura all’entrata e la creazione di una tribuna di preghiera ebraica a sud della scalinata nella piazza “Al-Buraq, o “piazza del Muro occidentale”, e la rimozione dei resti islamici del sito, e riafferma che nessuna misura unilaterale israeliana dovrà essere presa, conformemente al proprio status e agli obblighi derivanti dalla convenzione dell’Aia del 1954 per la protezione dei beni culturali in presenza di conflitti armati.

  1. 20. Esprime inoltre la propria forte preoccupazione riguardo alla demolizione illegale di resti omayyadi, ottomani e mamelucchi, così come per altri lavori e scavi intrusivi attorno al percorso della porta “Mughrabi” e inoltre chiede ad Israele, la potenza occupante, di fermare tali demolizioni, scavi e lavori e di attenersi ai propri obblighi in base alle disposizioni dell’UNESCO menzionate nel paragrafo precedente;

  1. 21. Rinnova i propri ringraziamenti alla Giordania per la sua cooperazione e sollecita Israele, la potenza occupante, a cooperare con il servizio giordano dell'”Awqaf”, in conformità con gli obblighi imposti dalla convenzione dell’Aia del 1954 per la protezione dei beni culturali in presenza di conflitti armati, e di agevolare l’accesso al sito da parte degli esperti giordani con i propri strumenti e materiali per permettere l’esecuzione del progetto giordano per la scalinata della porta “Mughrabi” in base alle disposizioni dell’UNESCO e del “Comitato per il Patrimonio Mondiale”, in particolare del 37 COM/7A.26, 38 COM/7A.4 and 39 COM/7A.27;

  1. 22. Ringrazia il direttore generale per l’attenzione riservata alla delicata situazione in oggetto, e le chiede di intraprendere le adeguate misure per permettere la messa in pratica del progetto giordano;

IC Missione di monitoraggio attivo dell’UNESCO nella Città Vecchia di Gerusalemme e delle sue mura ed incontro degli esperti UNESCO in merito alla scalinata “Mughrabi” 

  1. 23. Sottolinea ancora una volta l’urgenza della messa in pratica della missione di monitoraggio attivo nella Città Vecchia di Gerusalemme e delle sue mura;

  1. 24. A questo proposito ricorda la disposizione 196 EX/Dec. 26 che ha deciso, in caso di mancata realizzazione, di prendere in considerazione altri mezzi per garantirne la messa in pratica in conformità con le leggi internazionali;

  1. 25. Sottolinea con forte preoccupazione che Israele, la potenza occupante, non ha rispettato nessuna delle 12 risoluzioni del comitato esecutivo né le 6 del “Comitato per il Patrimonio Mondiale” , che richiedono la realizzazione della missione di monitoraggio nella Città Vecchia di Gerusalemme e delle sue mura.

  1. 26. Segnala il continuo rifiuto da parte di Israele di agire in accordo con le decisioni dell’UNESCO e del “Comitato per il Patrimonio Mondiale” che chiedono un incontro con gli esperti UNESCO in merito alla missione di monitoraggio della Città Vecchia di Gerusalemme e delle sue mura;

  1. 27. Invita il Direttore Generale ad intraprendere le misure necessarie per mettere in pratica il succitato monitoraggio in base alla disposizione 34 COM/7A.20 del “Comitato per il Patrimonio Mondiale” , prima della prossima riunione del comitato esecutivo, ed invita tutte le parti in causa ad adoperarsi per agevolare la missione e l’incontro con gli esperti;

  1. 28. Chiede che il verbale e le raccomandazioni evidenziate dalla missione di monitoraggio ed il verbale dell’incontro tecnico riguardante la scalintata “Mughrabi” siano presentati a tutte le parti coinvolte;

  1. 29. Ringrazia il direttore generale per i continui sforzi a sostegno della succitata missione di monitoraggio congiunto dell’UNESCO e delle decisioni e risoluzioni dell’UNESCO in merito;

II RICOSTRUZIONE E SVILUPPO DI GAZA

  1. 30. Condanna gli scontri militari all’interno ed intorno alla Striscia di Gaza e le vittime civili da essi provocati, compresi l’uccisione ed il ferimento di migliaia di civili palestinesi, tra cui bambini, ed il continuo impatto negativo nel campo di competenza dell’ UNESCO, gli attacchi contro scuole ed altri edifici culturali ed educativi, incluse le trasgressioni all’inviolabilità delle scuole dell’ “United Nations Relief” [UNRRA, organizzazione ONU per il soccorso alle popolazioni vittime di conflitti. Ndtr.] e della “Works Agency for Palestine Refugees” in Medio Oriente (UNRWA) [organizzazione dell’ONU che si occupa dei profughi palestinesi. Ndtr.];

  1. 31. Condanna fortemente il continuo blocco israeliano della Striscia di Gaza, che condiziona pesantemente il libero flusso di personale e degli aiuti umanitari, così come l’intollerabile numero di vittime tra i bambini palestinesi, gli attacchi alle scuole e ad altri edifici educativi e culturali, e la negazione del diritto all’istruzione, e chiede ad Israele, la potenza occupante, di porre immediatamente fine al blocco;

  1. 32. Rinnova la richiesta al direttore generale di ripristinare, il prima possibile, la presenza dell’UNESCO a Gaza per poter assicurare la rapida ricostruzione di scuole, università, siti culturali, istituzioni, centri di comunicazione e luoghi di culto che sono stati distrutti o danneggiati nelle successive guerre contro Gaza;

  1. 33. Ringrazia il direttore generale per l’incontro informativo tenutosi nel marzo 2015 sull’attuale situazione a Gaza riguardo alle competenze dell’UNESCO e per il risultato dei progetti condotti dall’UNESCO nella Striscia di Gaza-Palestina, e la invita ad organizzare, al più presto, un nuovo incontro informativo sulle stesse questioni;

  1. 34. Ringrazia inoltre il direttore generale per le iniziative che sono già state portate avanti a Gaza nel campo dell’educazione, della cultura, dei giovani e per la sicurezza dei reporter, ed auspica che continui il coinvolgimento attivo nella ricostruzione dei siti culturali ed educativi di Gaza;

III I DUE SITI PALESTINESI DI AL-ḤARAM AL IBRĀHĪMĪ/TOMBA DEI PATRIARCHI AD AL-KHALĪL/HEBRON E DELLA MOSCHEA BILĀL IBN RABĀḤ /TOMBA DI RACHELE A BETLEMME

  1. 35. Riafferma che i due siti in oggetto, situati ad Al-Khalil/Hebron ed a Betlemme sono parte integrante della Palestina;

  1. 36. Condivide la convinzione affermata dalla comunità internazionale secondo cui i due siti sono importanti dal punto di vista religioso per ebraismo, cristianesimo e islam;

  1. 37. Disapprova fortemente l’attuale prosecuzione di scavi, lavori e costruzione di strade private per i coloni da parte di Israele e di un muro di separazione all’interno della  città vecchia di Al-Khalil/Hebron, che danneggia l’integrità del sito, e condanna il conseguente impedimento alla liberta di movimento e di accesso a luoghi di preghiera. Chiede ad Israele, la potenza occupante, di porre fine a tali violazioni in base alle disposizioni delle importanti convenzioni, decisioni e risoluzioni dell’UNESCO.

  1. 38. Deplora profondamente il nuovo ciclo di violenza, iniziato nell’ottobre 2015, nel contesto di una costante aggressione da parte dei coloni israeliani e di altri gruppi estremisti verso i residenti palestinesi, inclusi studenti, e chiede ad Israele di impedire tali aggressioni;

  1. 39. Denuncia l’impatto visivo del muro di separazione nel sito della Moschea Bilal Ibn Rabaḥ Mosque/Tomba di Rachele a Betlemme, così come l’assoluto divieto di accesso per i fedeli cristiani e musulmani palestinesi al sito, e chiede alle autorità israeliane di riportare il paesaggio all’aspetto originale e rimuovere il divieto di accesso;

  1. 40. Condanna decisamente il rifiuto da parte di Israele di dare compimento alla disposizione 185 EX/Dec. 15, che impone ad Israele di rimuovere i due siti palestinesi dal proprio patrimonio nazionale e chiede alle autorità israeliane di agire in base a tale decisione;

IV

  1. 41. Decide di includere questi argomenti di discussione sotto il titolo di “Palestina Occupata” nell’agenda della 201° sessione, ed invita il direttore generale a sottoporre ad essa un rapporto aggiornato sulla situazione a riguardo.




L’arte dell’occupazione, secondo il generale israeliano Gadi Shamni

Nota redazionale: i redattori di Zeitun hanno deciso di proporre ai propri lettori questa lunga intervista al generale Gadi Shamni pur non condividendone i punti di vista espressi, sia riguardo ad alcuni personaggi citati nell’articolo, sia in generale sul ruolo dell’esercito israeliano nei Territori palestinesi occupati e sul suo modo di agire nei confronti della popolazione civile palestinese.

Non solo egli ha partecipato alla sanguinosa operazione militare in Libano del 2006 (più di 1.000 civili libanesi uccisi), in cui sono stati commessi crimini di guerra denunciati dalle organizzazioni dei diritti umani ed usato fosforo bianco in zone abitate. Le costanti violazioni del diritto internazionale e dei diritti umani da parte dell’esercito israeliano non corrispondono alla rivendicazione di moralità sostenuta dall’intervistato. Il tentativo di assolvere l’esercito israeliano da ogni responsabilità riguardo alle violazioni dei diritti dei palestinesi, e dei civili di altri Paesi arabi, si scontra con molti casi che dimostrano il contrario.

Quanto a Ya’alon, che secondo Shamni è una persona di” integrità indiscutibile ” e “onesta”, ha definito “un cancro” i palestinesi, un “virus” l’associazione israeliana “Peace Now” e John Kerry “messianico ed ossessivo” per i suoi tentativi di riprendere i colloqui di pace tra Israele e i palestinesi; ha sostenuto un progetto per la segregazione tra palestinesi e coloni israeliani sugli autobus, la ripresa della colonizzazione nonostante gli impegni presi dal suo governo con Obama e l’uso della bomba atomica contro l’Iran. Per il suo ruolo di generale nell’esercito è stato più volte accusato di corresponsabilità in crimini contro l’umanità, anche per la strage di Qana, in cui venne bombardata una struttura dell’ONU dove avevano trovato rifugio civili libanesi, con un bilancio di 106 morti e centinaia di feriti.

Tuttavia riteniamo che sia significativo che persino un personaggio come Shamni si esprima in termini quanto meno problematici su alcune questioni cruciali della politica e della società israeliane, sull’influenza di gruppi di fanatici estremisti nel e sul governo israeliano, in primo luogo riguardo all’occupazione dei territori palestinesi.

Dopo 35 anni di servizio militare, il generale di divisione (ritirato) Gadi Shamni, autodefinitosi “generale dell’occupazione”, loda la moralità dell’esercito e accusa i politici per l’impasse tra israeliani e palestinesi. Egli dice che ci sono una soluzione e una controparte, ma prima Israele si deve liberare dalla stretta degli estremisti.

di Carolina Landsmann

Haaretz – 15 ottobre 2016

Lo scalpore mediatico a proposito dei commenti del generale di divisione dell’esercito israeliano (ritirato) Gadi Shamni in agosto – “Abbiamo portato l’occupazione al livello di un’arte. Siamo i campioni mondiali dell’occupazione”- è durato appena due giorni. Parlando di se stesso, Shamni ha aggiunto: “Sono stato il generale del Comando Generale [che comprende la Cisgiordania]. Generale dell’occupazione” (in ebraico, la parola “aluf” significa sia “campione” che “generale di divisione”). Ci sono state persone che si sono infuriate, che si sono dissociate dalle sue considerazioni, che lo hanno criticato – anche se qualcuno si è detto d’accordo. Ma il polverone si è rapidamente calmato. Apparentemente l’opinione pubblica si è ormai abituata a queste esternazioni.

“Qualcosa delle posizioni del capo dei servizi di sicurezza del Mossad [agenzia israeliana di spionaggio all’estero. Ndtr.] e dello Shin Bet [servizio di sicurezza interna israeliano. Ndtr.] li trasforma in gente di sinistra,” ha detto recentemente il capogruppo della coalizione di governo, deputato David Bitan (del Likud). Shamni ha sorriso tranquillamente a questa affermazione, ma Bitan troverà probabilmente meno da ridere quando sentirà quello che Shamni ha da dire ora.

“La stragrande maggioranza dei quadri dirigenti del sistema di difesa pensa che ci stiamo muovendo in una direzione molto problematica rispetto ai palestinesi,” mi ha detto di recente, mentre ci trovavamo in una piccola stanza negli uffici dell’ “Israel Aerospace Industries” [“Industrie Aerospaziali di Israele”, impresa statale in cui lavorano molti ex-militari. Ndtr.], dove Shamni occupa il ruolo di vice presidente esecutivo della divisione “Sistemi di terra”. “Per ogni 50 persone che la pensano come me, ne troverà [solo] uno o due che sposi un’opinione diversa.”

Come lo spiega?

“Abbiamo familiarità con la difficile situazione, i limiti nell’uso della forza, il danno che ciò determina all’IDF [Israeli Defence Forces, Forze di Difesa Israeliane, nome dell’esercito israeliano. Ndtr.] ed allo Stato. E sappiamo che la storia che non c’è una soluzione al problema della sicurezza non è vera.”

Pensa che l’IDF possa garantire la sicurezza di Israele in una situazione con due Stati [Israele e Stato palestinese. Ndtr.]?

“Certamente. Esiste una soluzione per la sicurezza. Un mare di carte e di studi è stato scritto su questo. E non ci sono possibilità che Israele riesca a costruire relazioni corrette con i Paesi della regione, compresi rapporti commerciali e di cooperazione, prima di risolvere la questione palestinese:”

“Come tutti i ‘guardiani’ [in riferimento al documentario di Dror Moreh del 2012 con questo titolo, in cui sei ex capi dello ‘Shin Bet’ hanno sostenuto la necessità di un accordo con i palestinesi], sta parlando solo a cose fatte – quando non sta più rischiando la sua carriera o la sua pensione, quando non sta disubbidendo,” ha scritto l’editorialista di Haaretz Rogel Alpher a proposito di Shamni. Esponenti di destra hanno messo in dubbio la serietà delle considerazioni di Shamni esattamente per le stesse ragioni.

“Che cosa fa pensare a queste persone di essere così furbe?” ribatte Shamni. “Si aspettano forse che la gente a cui importa davvero lasci il posto a quelli a cui non importa niente? Molti ufficiali superiori dell’IDF capiscono la delicatezza della situazione sul terreno e lavorano per limitare i danni. Soldati e comandanti che si trovano sul posto dove ci sono tensioni con i palestinesi sono esposti alla loro dimensione umana – e questo incide su di loro. Improvvisamente capiscono che la situazione non è quella che pensavano.”

Questo scontro con la realtà porta ad una moderazione sul piano politico?

“Non so se questo influenzi il loro voto, e non penso che ciò sia realmente importante. Penso che la gente dell’esercito che ha a che fare con checkpoint, arresti, pattugliamenti e protezione delle colonie si trova di fronte a situazioni umane e vede le cose in modo diverso.”

L’esercito è una forza moderata?

“Senza dubbio. Anch’io, come capo del comando centrale, ho agito per ridurre al minimo i danni e limitare le tensioni tra le popolazioni. Per reprimere i fenomeni estremi sia della parte ebraica che di quella palestinese. Invece di criticare le persone dovrebbero dire: ‘E’ una gran cosa che ci siano molti ufficiali superiori nell’IDF che sono moralmente turbati da questo.’ Se non ci fossero loro, l’attività dell’IDF sarebbe completamente diversa. E’ il comportamento corretto dell’IDF e dell’Amministrazione civile che rende possibile una vita accettabile là. Ci sono cose sgradevoli – lo riconosciamo – ma la maggioranza dei soldati è molto coscienziosa. Quando un soldato sta controllando un punto di passaggio dei lavoratori e arriva qualcuno, di qualunque età, che ha viaggiato tutta la notte per andare al lavoro, la grande maggioranza dei soldati dell’IDF si comporterà umanamente e rispettosamente verso di lui. Non è l’ideale, ma potrebbe essere molto peggio.”

E’ questo che intende per elevare l’occupazione al livello di un’arte?

“Noi eccelliamo in questo – abbiamo creato meccanismi sofisticati che permettono una vita accettabile in queste circostanze. Quando gli americani hanno conquistato l’Iraq nel 2003, sono venuti da noi per imparare come “tenere il controllo” [“lehachzik”, che può anche essere tradotto in questo contesto con “amministrare”] di territori. C’è un’altra parola per questa situazione? In inglese, il verbo “occupare” viene usato. Cos’è l’occupazione? E’ avere il controllo. Noi controlliamo territori. Se dici kibbush [occupazione] tutti saltano sulla sedia. Ma questa è la realtà. Da una parte, [il modo in cui l’esercito ha rapporti con la popolazione palestinese è una fonte di] orgoglio per l’IDF e per Israele – ma è in questo che noi vogliamo eccellere? Dall’altra, effettivamente noi eccelliamo in questo. L’IDF è l’unico raggio di sole in tutto questo contesto. E’ la più importante forza di moderazione.”

Chi modera l’esercito- l’establishment politico?

“La realtà. Una grande percentuale di chi critica l’IDF non capisce i veri punti sensibili; il 99% dei critici non sono mai stati in un campo di rifugiati. Negli ultimi anni, solo il sistema di difesa ha avuto successo nel mantenere la cooperazione con i palestinesi. La prassi sul terreno è stata condotta sulla base della comprensione della complessità, e con lo scopo di prevenire rivolte. Se tutte le raccomandazioni fatte dai comandi dell’esercito e della difesa negli scorsi anni fossero state accolte, le cose andrebbero molto meglio.”

Perché, allora, c’è gente che definisce menzognera [l’ong contro l’occupazione] Breaking the Silence [associazione di soldati ed ex-soldati israeliani che raccoglie le denunce di violazioni dei diritti umani commesse dall’IDF nei territori occupati. Ndtr.], che conosce molto bene la situazione sul terreno, quando esprime critiche?

“Non accetto il loro modo di fare. Credo che sia sbagliato che vadano all’estero a criticare. Le critiche devono rimanere all’interno del Paese.

La distinzione tra “dentro” e “all’estero” nell’era dei media liberi e di internet è un’illusione.

“Le cose filtrano, ma non completamente. Non è lo stesso che essere in un campus negli Stati Uniti o in Europa e parlare delle atrocità perpetrate dai soldati dell’IDF. Ci sono casi gravi che sono le eccezioni, e vengono presi in considerazione. Io non vedo nessun allarme.”

Anche lei ha rotto il silenzio.

“No. Io non sono mai stato zitto.”

‘Paura di pronunciarsi’

Shamni, 57 anni, è nato a Gerusalemme e vive a Reut, una comunità nei pressi di Modi’in [comune israeliano che si trova in parte in Israele e in parte nei territori occupati. Ndtr.]. Lui e sua moglie, Hadas, hanno quattro figli (di età compresa tra i 16 e i 32 anni) e sono diventati nonni da poco. Shamni è stato arruolato ne 1977 ed ha passato i successivi 35 anni nell’IDF, soprattutto nei paracadutisti, compreso un periodo come comandante di brigata. E’ stato anche comandante della brigata “Hebron” (un breve periodo dopo il massacro di fedeli musulmani ad opera di Baruch Goldstein in quella città nel 1994), ed ha guidato la divisione “Gaza” durante la Seconda Intifada. In seguito è stato capo della direzione operativa dello Stato Maggiore, promosso al rango di generale di brigata e aggregato alla segreteria militare del primo ministro (con Ariel Sharon, poi con Ehud Olmert), un incarico che ha mantenuto durante la seconda guerra in Libano del 2006. Nel 2007 è stato nominato capo del “Comando Centrale” [organo militare che si incarica del controllo dei territori palestinesi occupati. Ndtr.]. Nel 2008 parlò al corrispondente militare di Haaretz Amos Harel di quello che allora era un nuovo fenomeno tra i coloni estremisti: “Hanno adottato il metodo “prezzo da pagare”: se non sono abbastanza forti da lottare contro le forze di sicurezza in una situazione particolare [come quando alcuni avamposti vengono evacuati], ci colpiscono da qualche altra parte. E’ uno sviluppo molto grave.”

Egli avvertì: “Questa gente sta cospirando contro i palestinesi e contro le forze di sicurezza…Ci sono elementi marginali che stanno guadagnando appoggio per le ‘condizioni favorevoli’ di cui godono e il sostegno fornito da certe parti della leadership, sia dei rabbini che del governo, in dichiarazioni esplicite o in modo tacito.”

Shamni non è rimasto in silenzio riguardo al fenomeno ed ha anche emesso ordini vietando ad alcuni attivisti di destra di entrare in Cisgiordania. In seguito a ciò lui stesso è stato attaccato, ricevendo minacce contro la sua persona e la sua famiglia.

Nel 2009 Shamni è stato nominato attaché militare negli Stati Uniti. E’ stato candidato a succedere a Gabi Ashkenazi come capo di Stato Maggiore, ma è stato battuto da Benny Gantz. Si è ritirato dall’IDF nel 2012. E’ uno degli autori di un testo intitolato “Un sistema di sicurezza per la soluzione dei due Stati.” Il rapporto è stato pubblicato lo scorso maggio dal “Centro per una Nuova Sicurezza Americana”, un gruppo di studio di Washington il cui capo, Michèle Flournoy, “è candidato a diventare segretario alla Difesa se [Hillary] Clinton vincerà le elezioni,” dice Shamni. Il rapporto è stato distribuito in Israele e a livello internazionale. Secondo Shamni quelli che lo hanno ricevuto hanno manifestato notevole interesse. Ma è ancora presto, aggiunge, e non ne vuole discutere oltre.

Le sue considerazioni sull’occupazione sono state fatte durante un incontro tenuto in agosto dall’ “Istituto per le Politiche e Strategie” del “Centro Interdisciplinare” di Herzliya e dai “Comandanti per la Sicurezza di Israele”, che, secondo il loro sito, è “un movimento non di parte di ex ufficiali superiori della sicurezza” i quali credono che “l’attuale stallo diplomatico sia dannoso per la sicurezza di Israele.”

Shamni stava rispondendo a un commento del generale di divisione (ritirato) Yaakov Amidror [del partito di estrema destra “La Casa Ebraica”, attualmente nella coalizione di governo. Ndtr.], ex- capo del Consiglio Nazionale di Sicurezza di Israele, secondo cui i palestinesi non avrebbero dovuto avere problemi con l’occupazione.

Quindi c’è un partner? Il presidente palestinese Mahmoud Abbas è un partner?

“Certo che lo è. La maggior parte della gente che si oppone all’idea dei due Stati è decisa ad ereditare la terra dei nostri antenati e non ha nessun interesse in accordi per la sicurezza.”

Cosa pensa del primo ministro Benjamin Netanyahu?

“Penso che capisca che Israele ha seri problemi. Penso che vorrebbe tirarne fuori Israele, ma non sa come.”

“Non è in grado di farlo perché Israele è governato da altre persone.”

Da chi?

“Da piccoli gruppi che sono permeati di fede.”

I coloni?

“Non tutti [sono coloni]. Penso che ci siano pochi gruppi dominanti nella politica israeliana; non sono necessariamente la maggioranza, ma loro decidono le cose da fare. Se uno dovesse esaminare le reali opinioni della maggior parte dei parlamentari di Israele – anche escludendo i deputati arabi – emergerebbe che la maggioranza pensa che dobbiamo trovare un accordo con i palestinesi il prima possibile. Ma non sono in grado di esprimere pubblicamente questa posizione, perché nel momento in cui lo facessero perderebbero i loro sostenitori.”

Ma chi sono questi sostenitori?

“Non voglio generalizzare. Non sono tutti i coloni. Ma ci sono piccoli gruppi, ideologizzati, estremisti, attivi, che sono organizzati e finanziati.”

Finanziati da chi?

“Da ebrei, soprattutto dall’estero, che sono grandi finanziatori dei politici. Non voglio fare nomi, neppure dei finanziatori. Ci sono gruppi estremisti ideologici che stanno dettando l’agenda dello Stato e sono in grado di agire come un deterrente nell’arena politica. C’è gente in questo Paese che ha paura di esprimersi. Brave persone.”

La politica israeliana è presa in ostaggio?

“Guardi cos’è successo a [Moshe] Ya’alon. E’ un caso esemplare. Qualcuno la cui integrità e il cui contributo allo Stato sono indiscutibili. Non è stato in grado di sopravvivere [come ministro della Difesa]. Perché? Perché è rimasto fedele alla sua verità. E, tra l’altro, gli ci è voluto del tempo per capire il problema: se avesse affrontato fin dall’inizio i processi di radicalizzazione come ha fatto durante la fine del suo mandato, soprattutto in Cisgiordania, penso che le cose sarebbero diverse adesso. Ma se n’è venuto con una sorta di tentativo di tranquillizzare la gente, di non pestare i piedi a nessuno. Eppure lo devi fare. E nel momento in cui ha cominciato a fare i conti con questioni difficili, si è ritrovato cacciato fuori.”

Si sta riferendo ai commenti di Ya’alon sul Elor Azaria, il soldato dell’IDF processato per omicidio colposo dopo aver sparato a un palestinese ferito a Hebron il marzo scorso?

“Azaria è stato la goccia che ha fatto traboccare il vaso, l’ultimo pretesto. Il processo è iniziato molto prima, quando Ya’alon, come ministro della Difesa, ha deciso che avrebbe insistito perché la legalità e l’ordine venissero mantenuti in Cisgiordania. Ci sono stati incidenti in cui ha deciso di distruggere una struttura di un tipo o di un altro, e tutti hanno detto la loro sul suo caso. Ha solo fatto quello che si doveva legalmente, moralmente ed eticamente. E’ stato allora che è iniziato il peggioramento. E’ stato allora che è diventato un bersaglio.”

Intende che è stato “silurato” politicamente?

“Certo.”

Anche lei ha paura di esprimersi?

“No. Al contrario. Io mi esprimo. E io chiedo a tutti coloro che comprendono questo problema [nel campo politico e della difesa] che si alzino e parlino. Per varie ragioni, la gente non lo sta facendo. Hanno paura di perdere il lavoro, le proprie comodità. O conducono una vita tranquilla, perciò, perché andarsi a prendere questo grattacapo?”

Anche il suo amico, deputato Ofer Shelah [di Yesh Atid], pensa che la soluzione dei due Stati non è un problema per la sicurezza?

“Sì, ma lei ha visto cos’è successo quando Yesh Atid [partito di centro sinistra. Ndtr.] è entrato nella coalizione di governo [tra il 2013 e il 2014]. Si sono dimenticati della questione palestinese.”

Società estremista, esercito moderato

In un’intervista alla televisione “Canale 2” lei ha fatto riferimento alle “manipolazioni legali e operative” che sono state compiute per scopi di colonizzazione. Cosa voleva dire?

“Il potere sovrano in Giudea e Samaria [denominazioni israeliane della Cisgiordania. Ndtr.] è l’IDF, e governa il generale del ‘Comando Generale’ – lui prende le decisioni. Se c’è il desiderio di espropriare un territorio, può decidere che c’è una necessità di carattere militare per quella determinata area. E se c’è una ragione di sicurezza, non gliela si può rifiutare. Nessuno gli dirà di no. E anche se la questione arriva alla Corte di Giustizia, questa confermerà che è una zona di interesse militare. Ci sono state situazioni nel passato in cui aree sono state confiscate per fini militari, ma non è sempre stato del tutto chiaro. Molte volte la terra è stata espropriata per la colonizzazione con delle scorciatoie. Se vogliamo costruire colonie, allora decidiamo che vogliamo costruire colonie. Perché utilizzare ragioni di sicurezza?

“Quando ho preso la direzione del Comando Centrale, eravamo sull’orlo di una crisi di fiducia con l’Alta Corte – perché la Corte aveva la sensazione che le ragioni di sicurezza fossero addotte in luoghi in cui non corrispondevano esattamente alla situazione. Ho messo fine a tutto questo. Non ci sono più situazioni in cui un motivo legato alla sicurezza è messo in campo in luoghi in cui non ci sono reali questioni di sicurezza. Basta scorciatoie. Ci sono stati periodi in cui sono state esercitate forti pressioni e situazioni in cui sono state prese scorciatoie. Penso che siano stati fatti cambiamenti sostanziali negli ultimi anni. Uno dei problemi di Ya’alon è stato che…è solo una persona onesta e non era disponibile a scorciatoie e a tirare fuori argomenti legati alla sicurezza dove non ne esisteva nessuno.”

Pressioni da dentro l’esercito o da fuori?

“Da fuori”

Da parte di chi, da fuori?

“Ci sono molti lobbisti e gente che esercita pressioni sui politici nel governo e nella Knesset [il parlamento israeliano. Ndtr.]. Beh, non capisce cosa significa esercitare forti pressioni?

No.

“No?”

No -cioè, non capisco che tipo di pressioni. Cosa potrebbe succedere?

“Pressioni sono esercitate ad ogni livello politico, e a volte hanno anche successo. L’esercito deve essere molto risoluto nelle sue opinioni, confidare in se stesso e non scendere a compromessi. Penso che sia quello che è successo anche negli ultimi anni. Non ci sono più scorciatoie in quella zona, e questa è una delle ragioni per l’aumento delle tensioni tra l’esercito ed i coloni. Sono io che ho promosso questa linea di condotta. Non penso che il GOC [Comando Generale. Ndtr.] o lo Stato Maggiore oggi prenderebbero delle scorciatoie. Penso che questo periodo sia ormai passato.”

E quando il vice capo di Stato Maggiore, Yair Golan, parla di fascismo strisciante, e Ehud Barak [dirigente del partito Laburista ed ex-primo ministro israeliano. Ndtr.] fa riferimento al nascente fascismo?

“Questa è un’altra cosa. Deve chiedere a loro a cosa si riferissero, ma ritengo che parlassero di fenomeni che riguardano le tensioni con i coloni estremisti, la storia con i gruppi del “prezzo da pagare” [gruppi di coloni estremisti che aggrediscono i palestinesi. Ndtr.], tutti gli avvenimenti dell’ultimo periodo – il fatto di Duma [l’attacco incendiario contro una casa palestinese del luglio 2015 in cui sono stati uccisi tre membri della famiglia Dawabsheh] e molte cose minori che avvengono quotidianamente.”

Non pensa che l’incremento di questi fatti contraddica la sua sensazione che l’IDF stia conservando la propria moralità?

“Ma non è l’IDF che sta facendo queste cose. Yair Golan non si riferiva all’IDF quando ha parlato di fascismo strisciante. Si stava riferendo alla società israeliana.”

Ma lei non può fare una distinzione tra l’IDF e la società israeliana.

“Si può. Perché l’IDF agisce in base a ordini. E c’è la disciplina. Quando questi fenomeni sono scoperti, sono immediatamente repressi. Non paragoni la “gioventù della cima delle colline” [giovani coloni estremisti] all’IDF. Yair stava parlando della “gioventù della cima delle colline”, di tutti gli estremisti scatenati.”

La diffusione di fenomeni come l’incidente di Azaria nell’esercito non la preoccupa?

“No. Questi fenomeni non sono concentrati nell’esercito; succedono nella società israeliana. E’ vero che in ultima istanza l’IDF è uno specchio della società, ma l’esercito non è il centro.”

In base agli standard de “l’occupazione a livello di un’arte,” Azaria è un contrattempo?

“Cosa intende per ‘contrattempo’?”

Non è un esempio di eccellenza nell’occupazione, suppongo.

“Ritengo che Azaria sia una vittima della situazione di cui sto parlando. Non voglio entrare nei dettagli mentre è in corso un processo. Non so esattamente cosa sia successo lì, non ho visto gli atti dell’indagine.”

Ma ha visto le riprese video?

“Le ho viste, ma abbiamo imparato che i video non sempre riflettono quello che è successo. E’ possibile che abbia fatto un terribile errore, e ciò verrà chiarito nel processo. Ma deve capire che questa situazione provoca questi fatti. A volte i soldati non riescono a resistere alla pressione. Un soldato entra nella mischia, vede i suoi compagni feriti, ha sentito un sacco di incitamenti tutto attorno. Sta vivendo in mezzo ad una miscolanza di soldati, ufficiali, coloni ed altri, alcuni dei quali molto estremisti, che a volte può creare confusione in soldati che non sono abbastanza forti. Agli occhi di chi dovrebbe apparire bravo? A quelli dei suoi superiori? Della gente attorno che li sta esaltando ed incitando? E’ una situazione molto complicata per i soldati. Lui [Azaria] è un soldato giovane.

Non so quanta esperienza avesse in situazioni simili. Ma questa è un’eccezione. Non è la norma nel comportamento dell’IDF.”

L’ “Intifada del lupo solitario” ha delineato qualcosa che potrebbe essere etichettata come “risposte individuali” da parte sia della società israeliana che dell’IDF.

“E’ possibile. Una certa atmosfera è stata creata attorno a questa cosa, ogni sorta di affermazioni è stata fatta e ogni genere di politico ha affermato che ogni scontro con un terrorista deve finire con l’uccisione del terrorista. Ciò può aver provocato il fatto che persone si siano lasciate trascinare e siano andate in confusione. Non è un problema con dimensioni che ci possano disturbare. Ma dobbiamo sentirci disturbati dall’erosione graduale. Israele prende l’iniziativa solo in seguito a gravi traumi.”

L’ “Intifada del lupo solitario” potrebbe arrivare a determinare questo tipo di trauma?

“Siamo in una situazione di deterioramento costante. Non sappiamo dove ciò ci porterà. Non solo non stiamo prendendo iniziative, stiamo gestendo la situazione al contrario. Ad Hamas viene dato quasi tutto quello che vuole. Sta consolidando il suo potere ed il suo governo; controlla i punti di passaggio, raccoglie le tasse, paga i salari e sta persino trattenendo, indisturbato, i corpi di due soldati dell’IDF. Allo stesso tempo in Cisgiordania ci sono organizzazioni che hanno dichiarato apertamente di voler vivere in pace con Israele – e noi le stiamo indebolendo.”

Meno colonie, meno soldati

Shamni esprime preoccupazione rispetto alla mancanza di rapporti tra israeliani e palestinesi. “Sono cresciuto a Gerusalemme,” dice. “Li ho conosciuti là, gli arabi erano i nostri vicini. Non avevo amici arabi, ma li vedevo. Sono stato in quartieri arabi, ho visitato la Città Vecchia, non li ho visti solo in televisione e sui giornali. Oggi non c’è interazione. Semplicemente non ci sono prospettive di riuscire a vivere insieme nello stesso Paese. I palestinesi non accetteranno mai che questa situazione continui per sempre. Per cui dobbiamo cominciare a prendere le misure necessarie.”

Quali, per esempio?

“Se tu dici che il tuo obiettivo strategico finale è di arrivare ad una separazione, allora ci sono cose che fai ed altre che non fai. E’ più o meno chiaro come saranno i tuoi confini. Lo Stato di Israele lo ha riconosciuto; il primo ministro anche. La soluzione sono i due Stati. Sulla base, più o meno, dei confini del 1967 con uno scambio di territori. Quanto territorio Israele può concedere senza danneggiare il fronte interno? Due per cento, 2,5% – questo è il massimo. Sono più o meno i blocchi di colonie e tutti gli insediamenti adiacenti alla barriera [di separazione]. Se oggi sai che questo è il tuo scopo e la tua direzione strategica, tu inizi fin da ora a fare le cose giuste. Costruisci nei blocchi di colonie e non fuori da questi. Non crei una situazione in cui la realtà demografica renderà estremamente difficile mettere in atto questa mossa in futuro.”

Considerazioni relative alla sicurezza costituiscono uno degli argomenti per giustificare gli insediamenti, ma ora l’esercito è lasciato lì per proteggerli. Cosa viene prima?

“L’esercito è lasciato lì perché Israele non ha intenzione di lasciare quel territorio. Nel frattempo sempre più progetti di insediamenti sono avviati. Mettiamola così: se ci fossero meno coloni ebrei in [Cisgiordania], ci sarebbero meno ragioni che l’IDF fosse schierato in centri abitati. Prenda ad esempio il nord della Samaria [della Cisgiordania. Ndtr.]. Lì non ci sono insediamenti, e dove gli insediamenti sono stati evacuati c’è meno esercito. Perché se hai meno israeliani, meno insediamenti, è perfettamente chiaro che hai bisogno di meno forze. Ma non è questo il punto. La questione è se è possibile mantenere una situazione in cui l’IDF non c’è sul terreno quando non ci sono insediamenti, e se è possibile difendere Israele con i nuovi confini. Io dico di sì.

“La questione se il progetto di insediamento è giustificato dal punto di vista della sicurezza non è più rilevante. In generale, gli insediamenti sono stati costruiti nei pressi delle strade principali. L’IDF non ne ha più bisogno. L’esercito può difendere il Paese e le sue frontiere senza fare ricorso agli insediamenti. Al contrario: dove ci sono rischi oggi, evacueremo gli insediamenti nelle retrovie. Si parla di evacuare le comunità attorno alla Striscia di Gaza nel caso di un altro scontro con Hamas, ecc. Abbiamo evacuato comunità nel nord durante la seconda guerra del Libano. E c’erano progetti di evacuazione dalle Alture del Golan e da ogni sorta di posti. Non si vogliono civili sulla linea del fronte. In una situazione di guerra contro forze militari, i civili sono un peso.”

Per cui lei pensa che dovremmo aspirare a spostarci su frontiere che saranno tracciate da Israele?

“No. Non credo a mosse unilaterali.”

Lei si rammarica del disimpegno da Gaza [deciso unilateralmente da Sharon. Ndtr.]?

“C’è una grande differenza tra la Striscia di Gaza e la Cisgiordania. Io ero il comandante della divisione “Gaza” al culmine della lotta contro Hamas. Non è una cosa di cui sento la mancanza. La nostra situazione sarebbe molto peggiore se fossimo rimasti nella Striscia di Gaza perché, dagli accordi di Oslo, non c’era più la presenza dell’IDF nei centri abitati. Avevamo insediamenti a Gush Katif, a Netzarim, nel nord della Striscia di Gaza. L’IDF era schierato lì per proteggere i residenti – che, tra l’altro, erano gente stupenda. C’è un’enorme differenza tra le caratteristiche degli insediamenti a Gush Katif e quello che sta succedendo in alcune parti della Giudea e Samaria. Intendo come modo di comportarsi, carattere, estremismo. Ma, come ho detto, non eravamo schierati nei centri abitati.

“Arrestavamo terroristi, demolivamo infrastrutture, entravamo ed uscivamo. Non controllavamo realmente Gaza, Khan Yunis, Rafah; non eravamo in tutti i campi di rifugiati. Hamas ha migliorato le sue capacità lì, e più passava il tempo, più difficile era diventato difendere gli insediamenti. Ci sono stati episodi molto gravi prima del disimpegno, e mi lasci dire che non aveva senso continuare a rimanervi. Non avrebbe neppure impedito ad Hamas di rafforzarsi.

“La gente dice che il nostro ritiro da Gaza ha permesso ad Hamas di diventare forte, ma è vero solo a metà. Perché persino quando eravamo lì, Hamas si è rafforzato. Se fossimo rimasti lì, il processo sarebbe stato un poco più lento. I tunnel esistevano anche quando eravamo lì, armamenti entravano di nascosto e c’era un’industria bellica locale. Era molto difficile per noi arrivare dappertutto. Al tempo del disimpegno, c’era un gran numero di razzi e Qassam [razzi artigianali prodotti a Gaza. Ndtr.]. E’ vero che non avevano un raggio d’azione di 70 kilometri, come ora, ma erano sparati contro Sderot e il sud di Ashkelon.”

Forse perché l’IDF non controllava tutta la Striscia di Gaza.

“Beh, vediamo cosa significa controllare tutta Gaza. Come dopo l’operazione “Scudo Difensivo” [nel 2002], quando abbiamo controllato la Giudea e la Samaria e siamo entrati dappertutto [cioé in tutta la zona A, che in base agli accordi di Oslo era sotto totale controllo dell’ANP. Ndtr.]. Ciò avrebbe significato schierare grandi forze, che avrebbero danneggiato gravemente l’economia di Israele. In fin dei conti ci sono dei limiti all’ordine operativo di battaglia. Chiunque dica che dovremmo rioccupare la Striscia di Gaza non capisce cosa ciò significherebbe.”

Israele non ha la capacità di distruggere Hamas nella Striscia?

“Che vuol dire ‘distruggere Hamas’? Israele può conquistare Gaza. Non sarebbe facile, potrebbero volerci pochi giorni o settimane, ma alla fine la Striscia sarebbe sotto il controllo dell’IDF. Ogni strada e ogni vicolo. Quale sarebbe la fase successiva? Sarebbe che avremmo due milioni di persone di cui dovremmo soddisfare le necessità e la cui vita quotidiana dovremmo gestire.

“La sicurezza di Israele riposa principalmente sulla deterrenza. E per la deterrenza c’è bisogno di un punto di riferimento. Oggi siamo fuori, indebolendo Hamas, garantendo che faccia il lavoro all’interno [controllando altri gruppi di miliziani] ed esercitando pressioni sull’organizzazione. E’ lo stesso in Libano. E dovrebbe essere lo stesso anche in Cisgiordania. E’ impossibile distruggere Hamas. Non si tratta solo di persone e dirigenti, o di Ismail Haniyeh [uno dei principali leader dell’organizzazione]. Hamas è consapevolezza. Non puoi sradicare la consapevolezza. La puoi cambiare. Come? Convincendo la gente. Anche Fatah aveva altre posizioni, ma è venuto il giorno in cui sono arrivati alla conclusione che dovevano parlare con noi, che la soluzione non sarebbe arrivata con la forza.”

Quando avverrà con Hamas?

“Perché succeda, Hamas dovrà sentire di correre un pericolo per la sua stessa esistenza. E’ per questo che l’organizzazione deve essere tenuta sotto pressione. Attualmente abbiamo un’eccezionale opportunità perché gli egiziani odiano Hamas. Guardi cos’è successo con l’operazione “Piombo Fuso” [2008-2009]. Fortunatamente gli egiziani sono stati duri – perché ci siamo affrettati a fare ogni sorta di concessione. Quando loro [gli egiziani] hanno deciso di eliminare i tunnel, lo hanno semplicemente fatto. Spero che [il presidente egiziano Abdel-Fattah] al-Sissi rimanga al potere per molti anni ancora.

“In più, noi non siamo lì [a Gaza], per cui nessuno può sostenere che siamo occupanti. C’è solo la questione del blocco, che credo si possa spiegare perché è giustificabile nei termini di considerazioni di carattere militare. E il fatto è che viene accettato a livello internazionale, nonostante le critiche. Naturalmente è necessario garantire che la popolazione non arrivi a condizioni di carestia e di epidemie. Questo è un lato della formula; l’altro è rendere più facili le cose in Cisgiordania e rafforzare Fatah e l’Autorità Nazionale Palestinese.”

Come possiamo rafforzare Fatah in Cisiogrdania?

“Con una politica molto più estesa per rendere più agevoli gli spostamenti e la libertà economica. Il piano [del bastone e della carota] del [ministro della Difesa Avigdor] Lieberman è fantastico: togliere le restrizioni, permettere la costituzione di zone industriali e agricole nell’area C [che è sotto totale controllo di Israele per quanto riguarda la sicurezza], facilitare le esportazioni. Dare un impulso all’economia palestinese. Ciò inciderà sull’appoggio a Fatah ed alle forze moderate. Il funzionamento delle strutture dell’ANP, sia militari che civili, deve essere rafforzato. Devono avere la possibilità di governare, di aiutare il loro popolo per guadagnarsi l’appoggio politico. Dove ciò dipende dall’IDF, si sta facendo. Ma l’incarico affidato all’esercito è limitato. In ultima analisi, quando vuoi dare ai palestinesi più territorio per sviluppare la loro economia nell’area C, ti scontri con una questione politica. Il ministro della Difesa dice che lo sta per fare? Aspettiamo e vediamo quando succederà.”

Lei si è costruito una vita, una carriera, una sicurezza economica e un futuro per i suoi figli grazie all’esercito e all’occupazione. Forse questo comporta che lei non veda situazioni allarmanti?

“Ho passato la maggior parte della mia vita in Libano e in altre zone. Ma sì, sono stato anche in Giudea e Samaria e a Gaza. Ma sarei rimasto nell’esercito anche senza occupazione. Sto parlando per un senso di preoccupazione non solo per il Paese ma anche per l’IDF, perché ho paura dell’erosione morale e del fatto che l’IDF non si concentri sui suoi compiti principali. Invece di combattere, sta controllando una popolazione. Non attacco l’IDF né chiedo di rifiutarsi di fare il servizio militare, perché l’IDF è il raggio di luce in questa storia. Ho perso molti amici lungo il cammino. Prima che cadessero, quando si resero conto della situazione realmente pericolosa in cui si trovavano, mi sembrava che stessero sorridendo: Nitzan Barak, il capitano Uri Maoz, il capitano Tzion Mizrahi, il sergente Elad Rotholtz e molti altri. Tutta quella gente stupenda era sensibile e umana. Le loro famiglie sono come parenti per me e per la mia famiglia. Se me lo chiede, quello che mi rimane del servizio nell’esercito è l’impegno a fare ogni cosa in modo da pagare un prezzo simile solo se non abbiamo scelta.

“Diciamo sempre che la differenza tra noi e i nostri nemici è che noi santifichiamo la vita e loro santificano la morte. Chiedo se non c’è un crescente numero di persone tra noi che è pronto a sacrificare i propri figli sull’altare delle proprie convinzioni e che è pertanto responsabile di farci diventare una società che santifica la morte.”

Se le persone non volessero fare il servizio militare, non ci sarebbe nessuno che parteciperebbe a questo progetto.

“Penso che in quel caso lo Stato non sarebbe in grado di esistere. Viviamo in un Paese democratico sotto un governo legittimo. Nel corso della mia carriera militare non ho visto azioni che potrebbero giustificare il rifiuto di fare il servizio militare. Penso che, in fin dei conti, stiamo agendo in modo etico.”

Pensa che sia moralmente accettabile occupare un altro popolo?

“Solo quando ci sono ragioni di sicurezza. La domanda è dove finiscono le ragioni di sicurezza e se le cose possono essere fatte in modo diverso. Lei sa qual è la mia opinione. Penso che dobbiamo arrivare ad una situazione di separazione perché non ci sono ragioni di sicurezza. Se ci fossero, chi ne parlerebbe? La democrazia ha strumenti che debbono essere utilizzati. Mi pare chiaro che c’è una maggioranza che pensa che ci sia bisogno di un cambiamento ma che è apatica. Purtroppo. Uno dei miei obiettivi è di scuoterla. Non solo io – molti dei miei amici stanno cercando di risvegliare la maggioranza apatica.”

Sta pensando di entrare in politica?

“No”

Non ha paura di essere etichettato con la sindrome delle “lacrime di coccodrillo”?

“Assolutamente no. Ci ho pensato molto nel corso degli anni. Non sento rimorsi di coscienza per tutte le cose che ho fatto – e c’erano cose scabrose, con penose conseguenze per gli avversari. Tutto quello che ho fatto, l’ho fatto nel modo più trasparente possibile, se è possibile chiamarlo così. Ciò significa che non ho fatto quello che non era necessario. Non sto solo parlando di me. Tutto sommato, non abbiamo causato danni fini a se stessi – e questa è proprio la differenza, vede? Quando provochi danni per il gusto di farlo.”

Forse se gli israeliani non avessero eccelso nell’occupazione, non sarebbe durata 50 anni.

“Ma c’è una divisione del lavoro. Non è compito dell’esercito decidere se l’occupazione debba continuare. La strategia deve essere lasciata a livello politico. Nel momento in cui la tua missione è legale, allora è bene e positivo che noi abbiamo il nostro esercito, che fa le cose come le fa.”

Ma Dio non fa le leggi, giusto?

“Giusto. Ma neanche gli ufficiali dell’IDF.”

“Per il futuro di Israele”

Rispondendo a questo articolo, il deputato Ofer Shelah ha detto: “Gadi Shamni è stato un amico per circa 40 anni, ed è una persona a cui sono affezionato e che rispetto. Ho parlato molto con lui, sia di argomenti personali che politici, ed ho grande stima dei suoi sforzi di stilare un documento per accordi relativi alla sicurezza che saranno opportuni per arrivare ad un patto con i palestinesi, insieme a seri partner americani che ho incontrato e con cui ho parlato. I problemi di sicurezza in questo tipo di accordo sono tutt’altro che semplici, ma possono essere risolti con una leadership coraggiosa e determinata.

“[Il partito] Yesh Atid crede che Israele si debba separare dai palestinesi, per il bene del futuro di Israele come Stato ebraico e democratico. Ciò deve avvenire nel quadro di un processo regionale in cui il posto di Israele nel Medio Oriente sia definito e serva come contesto adeguato per la ripresa dei negoziati, che sono arrivati ad un punto morto. I miei amici ed io diciamo questo in ogni occasione e stiamo lavorando per metterlo in pratica in ogni ambito politico.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




Senza la prospettiva di uno Stato, i palestinesi si adattano ad un limitato autogoverno

di Amira Hass,

Haaretz, 9 ottobre 2016

 

Gaza è alle prese con la prima condanna a morte inflitta ad una donna. In Cisgiordania la gente è sempre più convinta che l’ANP (Autorità Nazionale Palestinese) sia un’istituzione permanente, nonostante tutte le previsioni in senso opposto.

Oltre ai timori sul nuovo conflitto tra israeliani e palestinesi a Gaza, gli arresti dell’esercito in Cisgiordania, le notizie sull’avamposto di Amona ed i nuovi espropri di terre, i palestinesi sono alle prese con alcune questioni interne, o almeno parzialmente interne.

Mercoledì 5 ottobre c’è stato un precedente a Gaza. Per la prima volta un tribunale palestinese ha comminato la pena di morte ad una donna, a Khan Yunis. Una corte distrettuale l’ha incolpata di omicidio premeditato di suo marito.

Il nome della vittima è stato reso noto a gennaio dopo che è stato trovato il suo corpo: si tratta di Riad Abu Anza, di 36 anni. La stampa ha pubblicato solamente le iniziali dell’imputata, anche se era a tutti noto chi fosse e da quale famiglia provenisse.

Subito dopo che i sospetti erano caduti su di lei, una delegazione di Hamas si è recata in visita alla casa dell’ucciso e, in una conferenza stampa, ha chiesto che la famiglia e gli altri mostrassero moderazione e lasciassero lavorare gli inquirenti. Queste espressioni erano un chiaro avvertimento che sarebbe stato difficile arginare una sanguinosa faida.

Il corpo di Abu Anza, che mostrava i segni di numerose ferrite da coltello, è stato trovato sabato 30 gennaio, dove c’era in passato l’insediamento israeliano di Atzmona (l’area degli ex insediamenti di Gush Katif è ora conosciuta come “i territori liberati”). La famiglia aveva informato della sua scomparsa tre giorni prima.

Nel giro di sei ore la polizia di Gaza ha raggiunto sua moglie, che inizialmente ha negato ogni coinvolgimento. Ma di fronte a prove evidenti, ha confessato. Una videocamera di sicurezza nella zona (che è stata trasformata in fiorenti progetti agricoli sotto Hamas o gente legata al gruppo e alle basi militari) ha filmato Abu Anza insieme ad una donna coperta fino agli occhi da un niqab (indumento islamico femminile che copre tutto il corpo e il capo, ndtr.). In seguito, un’impronta rilevata sul luogo è stata trovata perfettamente corrispondente alle scarpe della donna, e sui suoi vestiti è stato trovato del sangue.

All’inizio del processo le è stato attribuito un difensore d’ufficio. Delle attiviste femministe hanno detto ad Haaretz che poiché lei aveva confessato non aveva richiesto un avvocato di fiducia. Attivisti palestinesi per i diritti umani l’hanno visitata in prigione; lei ha raccontato loro che quando era una studentessa universitaria la sua famiglia l’aveva fatta sposare con Abu Anza, più vecchio di lei, contro la sua volontà.

Lui aveva problemi di salute mentale. I media palestinesi riferivano che era “un balordo”, i vicini dicevano che era “un disgraziato”. Aveva divorziato dalla prima moglie perché non gli aveva dato dei figli. La seconda moglie aveva dato alla luce un maschietto.

Le attiviste femministe hanno riferito che probabilmente lui la picchiava e la violentava sistematicamente, e quando lei era scappata dalla sua famiglia quest’ultima aveva preso le parti del marito e la aveva costretta a tornare da lui. Hanno detto che si aspettavano che il giudice prendesse in considerazione queste circostanze.

Se è stato davvero questo a portare all’omicidio, è anche una sconfitta dei gruppi per i diritti delle donne e del ministero palestinese per gli affari sociali. Lei non ha ritenuto di poter rivolgersi a loro; forse non sapeva che ci fosse qualcuno a cui rivolgersi. Adesso ha il diritto di appellarsi contro la sentenza di morte per impiccagione; le attiviste sperano che questa volta si convincerà ad assumere un avvocato di fiducia.

In base alla legge palestinese, l’esecuzione di una sentenza di morte (prevista dalla legislazione della Giordania, dell’Egitto e da quella rivoluzionaria dell’OLP) è possibile solo se è confermata dal presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese. Ma il regime di Hamas a Gaza non riconosce più come valida la presidenza di Mahmoud Abbas. A partire dalla separazione dei due governi palestinesi nel 2007 e la creazione di un sistema giudiziario separato a Gaza, la gran maggioranza delle sentenze di morte è stata emessa là e solo a Gaza esse sono state eseguite.

Dal 2005 Abbas non ha firmato sentenze di morte; probabilmente le critiche dei gruppi palestinesi ed internazionali per i diritti umani hanno avuto effetto. Dal 1994, sono state pronunciate 72 sentenze di morte dai tribunali palestinesi. Dal 2010, solo due sono state emesse in Cisgiordania.

Secondo il sito web di B’Tselem, ufficialmente sono state eseguite 13 sentenze. Ma alcuni prigionieri condannati a morte sono stati assassinati mentre si trovavano nelle prigioni dell’ANP ed alcuni sono stati uccisi da uomini armati dopo che erano fuggiti dalla prigione durante i bombardamenti israeliani nell’inverno 2008-2009.

Dalla creazione del sistema giudiziario separato di Hamas nel 2007, sono state emesse altre 68 condanne a morte nella Striscia di Gaza, 33 delle quali sono state eseguite. Queste cifre non includono i prigionieri uccisi da Hamas durante la guerra di Gaza nell’estate del 2014.

Un alto funzionario di Hamas ha detto ad un ospite europeo che, in assenza della pena capitale, le famiglie sarebbero precipitate in sanguinose faide. Ma un attivista per i diritti umani di Gaza sostiene che alcune persone continuano ad agire lo stesso per ottenere vendetta. “Purtroppo la maggioranza della popolazione della Striscia di Gaza è tuttora favorevole alla pena di morte”, ha detto.

Gli scagnozzi di Abbas

Nel pomeriggio di martedì 4 ottobre parecchie decine di uomini e donne hanno risposto all’appello del Movimento Giovanile Palestinese a prendere parte a Ramallah ad una manifestazione contro la partecipazione di Mahmoud Abbas al funerale di Shimon Peres. Circa 15 minuti dopo, altri giovani sono arrivati portando bandiere di Fatah; gridavano il loro appoggio ad Abbas e ai leaders di Fatah per gli anni a venire. “Siamo convinti che (la leadership) sappia che cosa è bene per la patria e per il popolo”, ha dichiarato ai giornalisti un manifestante.

Questa scena si è ripetuta tantissime volte negli ultimi anni. Soprattutto in occasione di manifestazioni il cui principale bersaglio è Abbas, si svolgono contromanifestazioni in cui almeno alcuni dei partecipanti sono persone pagate dai servizi di sicurezza dell’ANP. Queste persone danno inizio agli scontri. Martedì pomeriggio alcuni manifestanti, sia uomini che donne, sono stati picchiati.

Alcune manifestanti donne hanno denunciato che i loro aggressori le hanno anche molestate sessualmente. Muhammad Karaja, un avvocato impegnato nel sostegno dei prigionieri di Addameer (associazione di difesa dei prigionieri palestinesi, ndtr.) ed in gruppi per i diritti, era presente nel suo ruolo di monitorare la condotta delle autorità negli eventi pubblici. E’ stato colpito alla faccia ed alla testa ed ha avuto bisogno di cure mediche.

Ha identificato i suoi aggressori come membri dei servizi di sicurezza. Altri si trovavano lì vicino e non sono intervenuti in suo aiuto, pur essendo lui conosciuto come avvocato.

L’aggressione nei suoi confronti e la dispersione violenta della manifestazione hanno portato ad una serie di condanne. Mercoledì l’ordine forense ha organizzato proteste in diverse città della Cisgiordania. Gruppi per i diritti umani hanno chiesto che gli aggressori vengano perseguiti. Il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina ha incolpato dell’aggressione direttamente Abbas.

Intanto il sito di informazioni Amad (legato a Fatah ed oppositore di Abbas) è venuto a conoscenza che il servizio di sicurezza preventivo ha compiuto degli arresti per interrogare dei membri di Shabiba, il movimento giovanile di Fatah, a Bir Zeit. Questo è successo subito dopo che il gruppo ha distribuito volantini in cui si chiedevano le dimissioni di Abbas per aver partecipato al funerale di Peres.

Secondo il reportage, l’agenzia per la sicurezza dell’ANP sospettava che il deposto dirigente di Fatah Mohammed Dahlan fosse la persona che stava dietro all’appello di Shabiba. Tra l’altro, già mercoledì Amad ha riferito che Abbas aveva tenuto un basso profilo per due giorni; questo, prima dell’informazione ufficiale che Abbas era stato in ospedale per esami cardiaci.

Insegnanti indipendenti fastidiosi

Il Ministero dell’Educazione dell’ANP ha messo in guardia a chiare lettere gli insegnanti che intendessero riprendere il loro sciopero. Nel migliore dei casi, i loro salari verranno ridotti. Nel caso peggiore, saranno licenziati. E’ stato detto loro in duri termini, in un comunicato stampa, che “il ministro non starà con le braccia incrociate di fronte al tentativo organizzato palese di sovversione, e alla insistenza di alcuni nel partecipare alla distruzione dell’insegnamento in Palestina rinnovando lo sciopero nelle nostre scuole.”

Il comunicato stampa del Ministero dell’Educazione, riportato dall’agenzia di notizie Wafa, è pieno di altre pesanti affermazioni, come ad esempio: “l’istigazione (da parte di alcuni insegnanti) si salda all’attacco israeliano contro il Ministero dell’Educazione palestinese. Non lasciatevi fuorviare, qui ci sono di mezzo considerazioni personali ed interessi privati.”

A marzo gli insegnanti delle scuole pubbliche avevano accettato di interrompere lo sciopero, che la gente aveva appoggiato, dopo che Abbas aveva promesso di intervenire per applicare le condizioni dell’accordo sui salari del 2013. Ma le promesse – soprattutto quella di adeguare i salari al costo della vita – devono ancora essere mantenute.

Intanto è stato creato un sindacato indipendente degli insegnanti – al di fuori del sindacato tradizionale che fa integralmente parte dell’OLP e dipende da Fatah e dal suo capo. Chiaramente è questa attività indipendente che irrita particolarmente le autorità palestinesi.

Legge sulla previdenza sociale migliorata

E adesso le buone notizie. La legge sulla previdenza sociale per i lavoratori del settore privato, approvata da Abbas in febbraio, è stata emendata e migliorata dopo una valanga di critiche. Queste si sono esplicitate in manifestazioni, seminari con la partecipazione di attivisti sociali e docenti universitari, denunce sui media e assemblee pubbliche.

Da quando il Consiglio Legislativo Palestinese è stato privato dei suoi poteri legislativi nel 2007, la legiferazione è stata trasferita ai ministri e ad Abbas. Ovviamente ciò ha rafforzato il carattere autoritario dell’Autorità Palestinese.

Però a volte i membri eletti del Consiglio Legislativo riescono ad intervenire nel processo legislativo, discutere le bozze e sollevare obiezioni, come hanno fatto nel caso della legge sulla previdenza sociale. I piccoli partiti di sinistra vi hanno giocato un ruolo importante.

La legge migliorata, positivamente recepita, è stata annunciata mercoledì 28 settembre e comprende i seguenti risultati: una garanzia governativa (statale, nella formulazione della legge) per il fondo pensioni dei lavoratori, una modifica del rapporto tra i contributi del lavoratore e quelli del datore di lavoro dal 7,5% e 8% del salario rispettivamente al 7% e 9%, ed una riduzione del periodo lavorativo a fini pensionistici da 360 mesi a 300 per gli uomini e da 300 a 240 per le donne.

Inoltre la pensione minima sarà il 75% del salario minimo mensile (attualmente 1.450 shekels, cioè 382 dollari)[341,32 euro, ndtr] le donne avranno diritto al congedo per maternità dopo tre mesi di lavoro anziché sei, vi sarà esenzione dalle tasse per un prelievo una tantum dei risparmi sul fondo pensioni e il numero di lavoratori rappresentanti nel consiglio sociale per la sicurezza passerà da quattro a sei.

Infine ci sarà un intervento positivo per i disabili, che potranno godere di una pensione dopo 10 anni di lavoro ed il pagamento ai figli disabili nel caso di morte di un genitore assicurato, anche se i figli hanno più di 21 anni; un intervento positivo per i lavoratori che svolgono mansioni pericolose; il trasferimento della pensione al marito nel caso di morte della moglie assicurata.

Oltre alle conquiste ottenute dalla protesta sociale palestinese, l’approvazione di una legge sulla previdenza sociale – che fa riferimento a situazioni di pagamenti e rimborsi che avverranno tra decenni e la cui formulazione ha creato preoccupazione a molti palestinesi per mesi – indica qualcosa di più. Nonostante tutte le previsioni di un imminente tracollo – o perché Abbas non ha successori, o per via dell’instabilità di Fatah, o ancora perché le restrizioni israeliane impongono un’economia debole – i difficili rapporti tra la popolazione e le istituzioni di un limitato autogoverno si stanno adeguando alla situazione presente.

La situazione attuale non dipende quindi da una sola persona. Nonostante le dure critiche interne all’ANP, ai suoi fallimenti politici e nazionali, la percezione di essa come un’istituzione permanente ed esistente sta iniziando a radicarsi.

La trasformazione dell’ANP in uno Stato appare molto lontana. Ma sembra che proprio la speranza che essa assolva al suo ruolo e sia al servizio della società possa essere un’altra strada per sostenerla.

Traduzione di Cristiana Cavagna




Elor Azaria sta affrontando un processo Dreyfuss dei nostri giorni

di Odeh Bisharat

Haaretz – 26 settembre 2016

Perchè l’ex vice capo di stato maggiore Uzi Dayan non dichiara coraggiosamente solo che chiunque colpisca palestinesi è innocente?

Nel gennaio 1898, quattro anni dopo che Alfred Dreyfus, un ufficiale ebreo dell’esercito francese, fu condannato come spia a favore della Germania, lo scrittore Emile Zola scrisse una lettera aperta intitolata “J’accuse”. Nel testo Zola accusò il comando francese di aver falsificato i documenti per incriminare Dreyfus. Oggi stiamo assistendo a un processo simile. Il moderno Dreyfus è rappresentato dal soldato israeliano Elor Azaria, con l’ex- vice capo di stato maggiore Uzi Dayan che interpreta Zola.

L’Emile Zola originario attaccò l’esercito francese, mentre l’attuale sta attaccando i comandanti dell’esercito israeliano che hanno osato mettere sotto processo un soldato ebreo. Il primo sosteneva che i documenti erano stati falsificati, mentre lo Zola attuale sta affermando che nel passato sono successe cose peggiori e “i soldati non sono mai stati processati”.

Ora, se a Gerusalemme ci fosse una qualche forma di giustizia, lo stesso Dayan dovrebbe essere processato. Dayan ha esplicitamente detto: “Ho avuto a che fare con un incidente ancora più grave, molto più grave, perché cinque palestinesi sono stati uccisi da paracadutisti all’incrocio di Tarqumiya..era gente che stava tornando dal lavoro in Israele..Ho detto: – ora formi una commissione di inchiesta per tre giorni…- i soldati non sono neanche stati processati.”

C’è un’affermazione più inequivocabile di questa? Dayan sta dichiarando che i soldati erano colpevoli di aver ucciso cinque palestinesi innocenti, e non ha fatto niente per perseguirli.

L’Emile Zola di oggi continua dicendo: “La presunzione di innocenza di Azaria è stata calpestata.” Queste cose sono state dette in un’udienza pubblica, con un imputato a cui è consentito di andare a casa sua, è difeso da una schiera di avvocati, con un primo ministro che simpatizza per lui e un ministro della Difesa che è ancora più solidale.

Pensandoci bene, Dayan ha ragione. Seriamente, perché non dare semplicemente al soldato una nota di merito?

In teoria il processo ad Azaria dovrebbe essere semplice. Un soldato è ripreso mentre spara a un aggressore palestinese ferito che non rappresenta una minaccia per lui né per chiunque altro. Eppure molti nella destra israeliana (non tutti, naturalmente) sono accorsi in sua difesa. Ci sono quelli che sostengono che forse c’è qualcosa di nascosto che non si può vedere a occhio nudo. Che c’erano altre cose che stavano succedendo e che la camera da presa non ha ripreso. (Forse il video era truccato. Vale la pena verificare).

Dopo tutto ciò ho evitato di mordere l’affascinante mela messa davanti a me. Forse non era affatto una mela. Forse l’ho creata io con il mio ego soggettivo. Ma con questa quantità di acrobazie della destra, il processo ad Azaria sarà studiato nelle facoltà di filosofia per esaminare se la sparatoria è davvero avvenuta o se esiste solo nell’ego soggettivo di ognuno di noi. Dopotutto, Immanuel Kant ha già stabilito che non possiamo distinguere tra le nostre percezioni di qualcosa e la cosa in sé. Spero solo che questa filosofia favorevole venga applicata anche ai prigionieri palestinesi.

Dayan ora è l’amministratore delegato della lotteria nazionale Mifal Hapayis, la seconda maggiore agenzia governativa responsabile della cultura in Israele dopo lo stesso ministero della Cultura e dello Sport. Sarebbe d’uopo che smettessimo di maltrattare la ministra della Cultura Miri Regev perché non conosce Checov, mentre il miglior figlio della cultura occidentale è orgoglioso di aver evitato il processo a soldati che hanno ucciso cinque arabi.

Durante il primo processo Dreyfuss l’ingiustizia gridava vendetta ai cieli, in quanto era stato tramato un complotto contro un ufficiale dell’esercito solo perché era ebreo. Il secondo processo Dreyfuss, tuttavia, sarà la notizia finale per la celebrazione del cinquantesimo anniversario dell’occupazione.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Comitato: Oltre 1000 minori palestinesi detenuti da Israele nel 2016 fino ad ora

24 settembre 2016,

Maanews Agency

RAMALLAH (Ma’an) —

Sabato il Comitato Palestinese per le questioni dei prigionieri ha detto che oltre 1000 minori palestinesi sono stati imprigionati dalle forze israeliane dall’inizio dell’anno, registrando un incremento rispetto al 2015.

Il Comitato ha dichiarato che almeno 1000 minori palestinesi, di età compresa tra 11 e 18 anni, sono stati imprigionati da Israele dallo scorso gennaio, inclusi circa 70 bambini di Gerusalemme est occupata, che sono stati posti agli arresti domiciliari.

Un avvocato del Comitato, Hilba Masalha, ha citato parecchi casi in cui i minori palestinesi hanno subito abusi e torture durante la detenzione.

Uno dei ragazzi, il diciassettenne Nidal del quartiere Issawiya di Gerusalemme est, è stato arrestato in giugno e tenuto per 20 giorni nel famigerato “Russian compound” [stazione di polizia nell’omonimo quartiere, così chiamato perché ospita una grande chiesa ortodossa, ndt], prima di essere trasferito alla prigione di Megiddo. Secondo Masalha, Nidal ha riferito di essere stato sistematicamente picchiato brutalmente ed anche insultato, mentre si trovava nel “Russian compound”.

Ha citato in particolare un’occasione in cui una decina di guardie carcerarie lo hanno trascinato dalla sua cella in una stanza senza videocamere di sicurezza e lo hanno brutalmente picchiato per un’ora mentre era ammanettato. Una delle guardie, ha detto Nidal, ha preso un secchio dell’immondizia e glielo ha messo sulla testa, mentre il gruppo rideva e lo scherniva.

Pure Ahmad, un sedicenne anch’egli di Issawiya, arrestato in aprile, è stato portato nel “Russian compound”, dove gli hanno ordinato di stare in ginocchio a testa bassa per tre ore. Prima dell’ interrogatorio, un poliziotto ha tagliato con un coltello il cappio usato per ammanettare Ahmad, ferendolo.

Ahmad ha detto che il profondo taglio sulla sua mano non è stato curato durante l’interrogatorio di tre ore da parte di cinque inquirenti israeliani, che gli urlavano contro e lo hanno picchiato diverse volte anche sulla testa, sostenendo che si stava comportando in modo “irritante”.

Masalha ha anche citato il caso del diciassettenne Umran del distretto di Tulkarem in Cisgiordania, arrestato in maggio mentre camminava per strada. Umran sarebbe stato ripetutamente picchiato mentre era detenuto.

I soldati lo hanno portato da un posto all’altro dal pomeriggio alla sera dopo il suo arresto, lo hanno condotto fino al muro di separazione israeliano e là gli hanno scattato fotografie con in mano la sua carta d’identità, tra le risate. Infine al mattino Umran è stato portato in una struttura di sicurezza prima di essere trasferito in una prigione israeliana.

In agosto il Comitato Palestinese per le questioni dei prigionieri ha dichiarato che le forze israeliane avevano arrestato 560 ragazzi a Gerusalemme est occupata dall’inizio del 2016.

Secondo il Comitato le forze israeliane hanno imprigionato 30 ragazzi palestinesi nel mese di agosto, alcuni dei quali tredicenni, ed hanno incassato 65.000 shekels ( circa 15 dollari) di multa dalle loro famiglie, mentre la maggior parte dei detenuti ha detto di essere stato picchiato e torturato durante la detenzione e l’interrogatorio e di essere stati trasportati da un centro di detenzione all’altro.

Negli ultimi mesi le forze israeliane hanno operato un giro di vite nei confronti dei ragazzini a Gerusalemme est, dal momento che le comunità palestinesi nella città occupata hanno incominciato a risentire delle conseguenze della legislazione approvata tra il 2014 e il 2015, che aumenta le pene per chi lancia pietre, consentendo che siano loro comminate condanne a 20 anni nel caso sia provata l’intenzione di ferire, e fino a 10 anni in caso contrario.

L’associazione per i diritti ‘Defense for Children International-Palestina (DCIP)’ ha citato in un rapporto di luglio molti casi di minori palestinesi che hanno ricevuto condanne al carcere per periodi dai 12 ai 39 mesi, con fino a tre anni di libertà vigilata.

I diffusi arresti fanno luce sugli abusi ampiamente documentati di ragazzi palestinesi da parte delle forze israeliane e sulle dure prassi di interrogatorio utilizzate per estorcere confessioni, che sono da tempo oggetto di critica da parte della comunità internazionale.

Secondo il DCIP, i minori di Gerusalemme, benché in teoria abbiano maggiori diritti dei ragazzi palestinesi nella Cisgiordania occupata, che sono soggetti ad un draconiano sistema di detenzione militare, tuttavia “non godono dei diritti che gli spetterebbero” all’interno del sistema giudiziario civile israeliano.

Su 65 casi documentati dal DCIP nel 2015, “più di un terzo dei ragazzi di Gerusalemme è stato arrestato di notte (38,5%), la grande maggioranza (87,7%) è stata legata durante l’arresto e solo un’esigua minoranza di ragazzi (10,8%) ha potuto avere la presenza di un familiare o un avvocato durante l’interrogatorio.”

Ayed Abu Eqtaish, direttore del programma di responsabilizzazione del DCIP, è stato citato nel rapporto con queste parole: “Le modifiche del codice penale e delle linee guida politiche a partire dal 2014 sono discriminatorie e hanno come obbiettivo i palestinesi, specificamente i ragazzi. Israele è firmatario della Convenzione per i Diritti dell’Infanzia e facciamo appello perché rispetti le proprie responsabilità.”

Secondo l’associazione per i diritti dei prigionieri Addameer, gli interrogatori dei ragazzini palestinesi possono durare fino a 90 giorni, durante i quali, oltre ad essere picchiati e minacciati, sono spesso riportati casi di violenza sessuale e detenzione in isolamento per ottenere confessioni, mentre i verbali delle confessioni che sono costretti a firmare sono in ebraico – lingua che la maggior parte dei minori palestinesi non parla.

Secondo Addameer, fino ad agosto risultavano essere stati detenuti nelle prigioni israeliane 7000 palestinesi, 340 dei quali erano minori.

Traduzione di Cristiana Cavagna




La “Legge sull’Espulsione”: ecco com’è la democrazia israeliana

La Nakba continua

di Jonathan Cook

Washington Report on Middle East Affairs, ottobre 2016

E’ stato difficile conciliare le azioni e parole del primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu.

Egli è stato uno dei principali promotori di una nuova legge – approvata il 19 luglio – che assegna al parlamento israeliano, la Knesset, nuovi poteri draconiani: una maggioranza di tre quarti dei suoi membri può espellere un parlamentare eletto se non ne condivide le opinioni.

Nota come la “Legge sull’Espulsione”, la misura è universalmente vista come un modo per i partiti ebraici della Knesset di espellere parlamentari che rappresentano la numerosa minoranza palestinese. Un israeliano su cinque è palestinese.

Eppure, meno di una settimana dopo Netanyahu ha postato sulle reti sociali un video in ebraico e inglese in cui chiedeva scusa ai cittadini palestinesi per i suoi commenti, molto criticati, fatti l’anno scorso durante le elezioni politiche israeliane.

Allora aveva sollecitato i suoi sostenitori ad andare a votare, mettendo in guardia che “gli arabi” – cioè il milione e settecentomila cittadini palestinesi di Israele – “stanno andando a votare in massa.”

Ha detto che i suoi commenti sono stati fraintesi. Al contrario, egli ha invitato “i cittadini arabi di Israele a far parte della nostra società – in massa. Lavorate in massa, studiate in massa, prosperate in massa…Sono orgoglioso del ruolo che gli arabi giocano nei successi di Israele. Voglio che svolgiate un ruolo ancora più importante.”

Tuttavia la “Legge sull’Espulsione” minaccia di limitare gravemente il ruolo dei palestinesi nella Knesset, l’unica istituzione pubblica di Israele di maggiore visibilità.

Secondo “Adalah”, il centro giuridico che rappresenta la minoranza palestinese, la “Legge sull’Espulsione” non ha eguali in nessuno Stato democratico. L’associazione nota che si tratta dell’ultima di una serie di leggi miranti a limitare rigidamente i diritti della minoranza palestinese in Israele e a contrastare il dissenso.

Altri temono che questa misura in sostanza svuoterà la Knesset dei suoi partiti palestinesi.

“Questa legge viola ogni norma democratica e il principio in base al quale le minoranze devono essere rappresentate, ” ha affermato Mohammed Zeidan, direttore dell'”Associazione per i Diritti Umani” di Nazareth. “Manda all’opinione pubblica il messaggio secondo cui è possibile, persino auspicabile, avere una Knesset solo ebrea.”

I quattro partiti palestinesi presenti in parlamento, in una coalizione denominata “Lista Unitaria”, il 22 luglio hanno mandato una lettera aperta mettendo in guardia che Netanyahu e il suo governo “vogliono una Knesset senza arabi.”

Zeidan ha sottolineato come ciò potrebbe rapidamente avvenire: “Basterebbe che un parlamentare palestinese venga espulso e ci sarebbero enormi pressioni sugli altri perché diano le dimissioni per protesta.”

Yousef Jabareen, un membro palestinese della Knesset per la “Lista Unitaria”, ha detto che la legge ha creato “parlamentari in libertà vigilata”, minacciati perché stiano zitti o perché “si comportino bene”. I suoi effetti, ha aggiunto, potrebbero privare decine di migliaia di votanti del diritto di essere rappresentati.

“La minaccia di espulsione servirà come una tattica per metterci a tacere,” ha detto Jabareen, “impedendo inoltre la possibilità per i membri della Knesset di adempiere fedelmente al programma che hanno promesso ai propri elettori.”

Chi ha proposto questa legge ha fatto poco per mascherare l’intenzione di utilizzare questa misura solo contro i parlamentari palestinesi. Con 13 seggi, la “Lista Unitaria” è attualmente il terzo maggior gruppo sul totale dei 120 seggi della Knesset.

Il primo bersaglio di questa legge è Haneen Zoabi, un’esponente del partito Balad [partito che sostiene che Israele dovrebbe essere uno Stato per tutti i cittadini e che i palestinesi con cittadinanza israeliana debbano essere riconosciuti come minoranza nazionale. Ndtr. ]che è stata aggredita da molti parlamentari ebrei della Knesset (vedi giugno/luglio 2015 su Washington Report, p. 13). La misura era originariamente stata chiamata “Legge Zoabi”.

Alla fine di giugno, in un drammatico preludio all’approvazione della legge, più di una dozzina di parlamentari ebrei hanno scatenato violente proteste in parlamento nei confronti di Zoabi mentre lei stava facendo un discorso riguardante il patto di riconciliazione del governo israeliano con la Turchia. Ha dovuto essere difesa dalle guardie della Knesset.

Aveva scandalizzato i parlamentari riferendosi all’ “assassinio” di 10 attivisti umanitari da parte del commando israeliano nel 2010 [la strage sulla nave turca Mavi Marmara. Ndtr.]. La marina israeliana aveva attaccato una flottiglia di solidarietà, a cui Zoabi aveva partecipato, mentre stava navigando in acque internazionali dalla Turchia verso Gaza. L’incidente aveva portato alla rottura con Ankara.

Invece di criticare i parlamentari ebrei, Netanyahu aveva detto che Zoabi aveva “passato ogni limite” con i suoi commenti contro i commando e che non c’era “posto per lei nella Knesset”.

Allo stesso modo il leader dell’opposizione Isaac Herzog aveva chiesto di censurare tutti i discorsi di Zoabi dal canale TV della Knesset.

Festeggiando l’approvazione della legge, Netanyahu ha postato sulle reti sociali: “Quelli che appoggiano il terrorismo contro Israele e i suoi cittadini non faranno parte della Knesset israeliana.”

Zeidan ha affermato che la nuova legge rappresenta “una pericolosa escalation” nella più generale tendenza ad eliminare il dissenso e ad incitare all’odio.” Stiamo entrando in una nuova epoca. Prima c’erano leggi e politiche razziste, ma ora siamo andando rapidamente verso il vero e proprio fascismo.”

“I continui incitamenti contro la minoranza palestinese, dal primo ministro in giù, si spingono fin nelle piazze, dove ci saranno più violenze e più attacchi contro i cittadini palestinesi da parte della popolazione israeliana.”

Secondo la polizia israeliana, in luglio Zoabi avrebbe rifiutato una guardia del corpo della Knesset, nonostante il livello di minacce contro di lei lo richiedesse.

Procedimenti contro politici possono essere intrapresi con l’appoggio di 70 parlamentari. Un’espulsione può essere portata a termine se 90 parlamentari ritengono che il politico abbia incitato al razzismo o abbia appoggiato la lotta armata contro Israele. Nella legge non c’è una definizione su cosa costituisca un “appoggio”.

“Adalah” ha sottolineato che la Knesset potrà prendere in considerazione le affermazioni del parlamentare – e l’interpretazione di queste data dalla maggioranza – e non solo azioni o obiettivi manifesti.

Finora un politico avrebbe potuto essere destituito dalla Knesset solo se coinvolto in un grave crimine.

Netanyahu ha presentato la proposta di legge in febbraio, dopo che Zoabi e due suoi colleghi di Balad alla Knesset, Jamal Zahalka e Basel Ghattas, hanno incontrato una dozzina di famiglie palestinesi di Gerusalemme est occupata i cui figli erano stati uccisi durante attacchi solitari o in scontri con le forze di sicurezza. I tre parlamentari avevano promesso di aiutare a fare pressione sul governo perché restituisse i corpi per il funerale.

Autorità israeliane hanno sostenuto che la visita equivaleva ad un appoggio al “terrorismo”. I tre sono stati sospesi dalla Knesset per parecchi mesi. In base alla nuova legge, potrebbero essere espulsi per sempre.

Zahalka, leader del partito Balad, ha detto che i parlamentari palestinesi dovrebbero affrontare un “tribunale illegale, in cui parlamentari ostili fungerebbero da giudice e giuria. “

Ha detto che la “Lista Unitaria” si stava preparando a mandare una lettera all’Unione Interparlamentare, un’ istituzione che rappresenta 170 parlamenti di tutto il mondo, sollecitandola ad espellere la Knesset.

Data l’ampia maggioranza necessaria per ottenere l’espulsione di un parlamentare, alcuni hanno sostenuto che la nuova legge sarà praticamente impossibile da mettere in pratica.

Zahalka non è d’accordo. Egli dice: “Se durante il primo atto vedi un fucile, sai che nell’ultimo verrà usato. Ed è così con questa legge. Quando ci sarà la prossima “emergenza” o la prossima guerra, i parlamentari ebrei – anche quelli che ora criticano la legge – si uniranno per espellere chi dissente.”

Zoabi si è ritrovata ripetutamente aggredita praticamente da tutti i partiti ebrei della Knesset.

Nell’estate 2014, durante un massiccio attacco israeliano contro Gaza noto come “Margine Protettivo”, la commissione etica della Knesset l’ha sospesa per un tempo record di sei mesi – il più lungo periodo allora permesso.

Durante un’intervista ad una radio israeliana, aveva criticato i palestinesi responsabili del rapimento di tre giovani israeliani nella Cisgiordania occupata, ma si era rifiutata di chiamarli “terroristi”. Gli israeliani erano in seguito stati trovati morti.

Zahalka ha detto che i parlamentari palestinesi ora affrontano una situazione “straordinaria”. “In ogni Paese, l’immunità parlamentare conferisce agli eletti diritti più ampi di quelli dei comuni cittadini per permettere loro di svolgere i propri compiti in parlamento,” ha affermato. “Solo in Israele i rappresentanti eletti avranno maggiori restrizioni alla libertà di parola e di azione dei comuni cittadini.”

La “Lista Unitaria” ha detto che intende presentare appello alla Corte Suprema contro la legge.

La “Legge sull’Espulsione” fa seguito alla messa fuorilegge lo scorso anno del Movimento Islamico del nord, il movimento extra-parlamentare più seguito tra la minoranza palestinese in Israele (vedi Washington Report, Gen/febbr. 2016, p.24). Il suo capo, lo sceicco Raed Salah, è considerato un leader spirituale per una grande parte della comunità.

All’epoca, Netanyahu ha insinuato che il Movimento Islamico fosse legato ad attività “terroristiche”. Tuttavia indiscrezioni al giornale Haaretz provenienti da ambienti ministeriali hanno rivelato che i servizi di sicurezza israeliani non avevano trovato tali legami.

Zeinad aveva osservato che da qualche tempo la destra israeliana stava conducendo una battaglia per liberare la Knesset dei partiti palestinesi.

Negli ultimi 15 anni la Commissione Elettorale Centrale, che è dominata dai partiti ebrei, ha ripetutamente tentato di escludere parlamentari palestinesi dalla partecipazione alle elezioni. Tuttavia la Corte Suprema israeliana ha ribaltato queste decisioni in appello.

Nel 2014 il governo ha tentato una strada diversa. Ha approvato una “Legge Soglia”, alzando il quorum necessario per ottenere un seggio alla Knesset. Il quorum è stato fissato troppo in alto per i quattro piccoli partiti palestinesi.

Tuttavia la mossa ha avuto l’effetto contrario. I partiti hanno risposto formando la “Lista Unitaria”, ed è diventata una delle maggiori formazioni alla Knesset dopo le elezioni politiche dello scorso anno.

E’ stato in quel contesto, ha affermato Zeidan, che, alla vigilia delle elezioni, Netanyahu ha fatto il suo commento molto criticato, mettendo in guardia sul fatto che “gli arabi stanno andando a votare in massa.”

Asad Ghanem, un professore di politica dell’università di Haifa, ha sostenuto che la “Legge sull’Espulsione” può realizzare l’ obiettivo dichiarato di Netanyahu di scoraggiare la partecipazione dell’elettorato palestinese. L’astensionismo dei votanti della minoranza è sceso a poco meno della metà dopo la creazione della “Lista Unitaria” in tempo utile per le elezioni del 2015.

“Se si vede che questi attacchi alla rappresentanza politica degli arabi alla Knesset continuano,” ha detto Ghanem, “allora i votanti potrebbero concluderne che quando è troppo è troppo e che è arrivato il momento di rinunciare alla partecipazione politica.”

Jonathan Cook è un giornalista che vive a Nazareth e vincitore del premio speciale di giornalismo Martha Gellhorn. E’ autore di “Sangue e religione” e di “Israele e lo scontro di civiltà”.

(Traduzione di Amedeo Rossi)




I soldati israeliani uccisero dozzine di prigionieri nel corso di una delle guerre combattute dall’esercito israeliano (IDF) nei primi decenni dell’esistenza dello Stato di Israele.

di Aluf Benn,

Haaretz ,16 settembre 2016

Secondo una testimonianza ottenuta da Haaretz, ai prigionieri fu ordinato di mettersi in fila e voltarsi, prima di essere colpiti alla schiena. L’ufficiale che diede l’ordine venne rilasciato dopo aver scontato sette mesi di prigione, mentre il suo comandante fu promosso ad un alto grado.

I soldati israeliani uccisero dozzine di prigionieri durante una delle guerre combattute dall’IDF nei primi decenni di esistenza dello stato di Israele. L’ufficiale che aveva dato l’ordine di uccidere i prigionieri subì un processo, ma se la cavò con una condanna ridicolmente mite. Il suo comandante fu promosso ad grado molto superiore e l’intera vicenda venne insabbiata.

Le dozzine di prigionieri erano soldati degli eserciti nemici. Si erano arresi dopo la battaglia ed avevano deposto le loro armi. Alcuni di loro erano gravemente feriti.

I soldati israeliani che presero inizialmente il controllo del luogo dove loro si erano arresi li radunarono in un cortile interno circondato da un muro, diedero loro del cibo e parlarono con loro delle loro vite e del servizio militare.

Alcune ore dopo questi soldati vennero assegnati ad un’altra missione ed altre forze militari israeliane vennero inviate a sostituirli nel luogo in cui erano tenuti i prigionieri. Questo cambio della guardia pose il problema tra gli ufficiali preposti su che cosa fare dei soldati nemici catturati, poiché i nuovi militari si rifiutarono di assumersene la responsabilità, mentre quelli in partenza non avevano mezzi per il trasporto dei prigionieri.

Il comandante della compagnia che era l’ufficiale responsabile del posto ordinò allora ai suoi soldati di uccidere i prigionieri. Secondo la testimonianza rilasciata ad Haaretz, ai prigionieri venne ordinato di mettersi in fila e di voltarsi, quindi furono fucilati alla schiena. Un ufficiale nemico che era stato utilizzato come traduttore fuggì, ma fu colpito a morte da soldati del nuovo contingente, che erano in una jeep. Dopo il massacro un bulldozer dell’esercito ammucchiò i corpi in una fossa improvvisata.

Due testimonianze oculari del massacro dei prigionieri furono rilasciate al reporter di Haaretz molti anni fa. Secondo una di esse, da parte di un uomo che disse di essersi rifiutato di ubbidire all’ordine, il comandante gli ordinò di scendere ed uccidere i prigionieri feriti. Lui rifiutò perché prima i prigionieri gli avevano chiesto se sarebbero stati uccisi e lui aveva risposto di no.

Il comandante lo minacciò di inviarlo alla corte marziale per disobbedienza ad un ordine, ma lui continuò a rifiutarsi. Allora un altro uomo – il secondo testimone – saltò in piedi e si offrì volontario per eseguire l’ordine.

La testimonianza della seconda persona, che confessò di aver partecipato all’uccisione dei prigionieri insieme a tre suoi commilitoni, concorda a grandi linee con quella del primo testimone, benché essi non fossero in contatto e nessuno dei due conoscesse il contenuto della conversazione svoltasi con l’altro. Una differenza era che il secondo uomo sosteneva di aver anch’egli inizialmente rifiutato di ubbidire all’ordine, ma quando il comandante aveva insistito, lui aveva accettato di eseguirlo. Aggiunse che, dopo aver ucciso i prigionieri, si avvicinò e li colpì nuovamente da soli cinque metri di distanza, per assicurarsi che fossero tutti morti.

L’esercito israeliano avviò un’indagine della polizia militare sull’incidente, che si concluse con un processo per omicidio nei confronti del comandante della compagnia. Fu condannato a tre anni di prigione e rilasciato dopo soli sette mesi.

Il comandante sostenne che gli venne ordinato di uccidere i prigionieri dal suo superiore, che in seguito ottenne un’alta carica nell’esercito. Non è chiaro se l’ufficiale superiore sia mai stato indagato, ma sicuramente non subì mai un processo. Il comandante della compagnia lavorò come guida turistica dopo aver lasciato l’esercito, e quando anni dopo fu intervistato sull’argomento da un giornalista di Haaretz, rispose che “l’argomento è riservato” e gli suggerì di rivolgere le domande “ai servizi di sicurezza”.

Questo assassinio di dozzine di prigionieri fu uno dei più gravi crimini nella storia dell’IDF, ma l’esercito lo nascose e lo insabbiò. Portare alla luce i fatti è importante anche oggi, per comprendere la storia delle regole morali di combattimento dell’IDF ed imparare lezioni di leadership, di educazione e di comando per il futuro.

Traduzione di Cristiana Cavagna




Il video di Netanyahu sulla “pulizia etnica” viene criticato duramente dal Dipartimento di Stato

Mondoweiss, 9 settembre 2016

Philip Weiss

 

Oggi il primo ministro Benjamin Netanyahu ha postato un altro dei suoi video in inglese riguardo al conflitto. Nel video si sostiene che quelli che vogliono creare uno Stato palestinese propugnano la “pulizia etnica” degli ebrei dai territori occupati e che alcuni Stati di larghe vedute appoggiano un simile piano

[Dal video di Netanyahu]

Ma la leadership palestinese chiede addirittura lo Stato palestinese a una condizione: senza ebrei. C’è una definizione per questo: pulizia etnica. E questa richiesta è vergognosa. È ancora più vergognoso che la comunità internazionale non la consideri tale. Alcuni Paesi, peraltro di ampie vedute, promuovono addirittura questa vergogna. Vi siete mai chiesto se accettereste la pulizia etnica nel vostro Paese? Un territorio senza ebrei, ispanici, neri? Da quando in qua la xenofobia è una base per [ottenere] la pace?…Penso che sia l’intolleranza verso gli altri ad ostacolare la pace”

 

E il Dipartimennto di Stato [USA] è stato veloce oggi nel criticare il primo ministro, riportando una descrizione della vera pulizia etnica, quella dei palestinesi. Segnali di una nuova fermezza dell’amministrazione Obama nei suoi ultimi giorni?

[Dalla conferenza Stampa del Capo dell’Ufficio Stampa del Dipartimento di Stato USA ndt]

Sig.[Elisabeth]Trudeau. Abbiamo visto il video del primo ministro israeliano. Naturalmente noi dissentiamo fortemente dall’idea che coloro che si oppongono alla colonizzazione o che la percepiscono come un ostacolo alla pace in qualche modo propugnano la pulizia etnica degli ebrei dalla Cisgiordania. Noi crediamo che l’uso di quel tipo di terminologia è inopportuno e dannoso. La questione delle colonie deve essere risolta nella parte finale dei negoziati tra le due parti. Noi condividiamo la visione di tutte le passate amministrazioni USA e la forte opinione della comunità internazionale che la continua colonizzazione è un ostacolo alla pace. Noi continuiamo ad appellarci a entrambe le parti affinché dimostrino con azioni e con iniziative politiche una sincera adesione alla soluzione dei due Stati.

Abbiamo più volte manifestato la nostra forte preoccupazione per il fatto che la politica del fatto compiuto si muove nella direzione opposta. Per essere chiari: il fatto indiscutibile è che già quest’anno migliaia di unità abitative nelle colonie sono state programmate per gli israeliani nella Cisgiordania , avamposti illegali e unità coloniali non autorizzate sono stati retroattivamente legalizzati, più terra della Cisgiordania è stata confiscata per l’uso esclusivo degli israeliani e c’è una drammatica crescita delle demolizioni risultante in più di 700 strutture palestinesi distrutte, con l’espulsione di più di 1000 palestinesi. Come abbiamo già detto molte volte, ciò solleva reali domande circa le intenzioni di Israele sul lungo periodo rispetto alla Cisgiordania.

Domanda: Quindi a lei il video non è piaciuto molto, giusto?

Sig. Trudeau: Giusto

D. Per cui avete – non lei personalmente, ma l’amministrazione – chiarito le vostre impressioni, oltre ai suoi commenti in questo momento, agli israeliani?

Sig. Trudeau: Sì. Stiamo parlando direttamente con il governo israeliano su questo.

D. Voglio dire, c’è qualcosa che lei possa fare? Cioè , lui ha detto questo, sembra che ci creda ed è un punto di vista abbastanza forte. Anche se lei dissente da ciò, cosa gli ha chiesto di fare? Voglio dire, gli avete chiesto di tornare completamente sui suoi passi oppure..

Sig. Trudeau: Non voglio entrare nelle nostre discussioni diplomatiche. Quello che posso dire è: inopportuno , inutile. Parleremo con i nostri alleati e amici israeliani e vedremo cosa ne esce.

Mondoweiss: Notate il riferimento alle demolizioni delle case e ai 1000 palestinesi sfollati.

Questo è un punto di partenza.

Traduzione di Carlo Tagliacozzo