Il Brasile rifiuta il colono della Cisgiordania come ambasciatore israeliano

Fonti ufficiali israeliane sostengono che le relazioni diplomatiche saranno compromesse se il Brasile non riconosce Dani Dayan come prossimo ambasciatore a Brasilia

Redazione di MEE

 

Il Brasile avrebbe respinto la nomina da parte di Israele di un colono come suo prossimo ambasciatore, con un’iniziativa che secondo Israele danneggerà le relazioni diplomatiche tra i due Paesi.

Dani Dayan, un 60enne che vive nella colonia di Ma’ale Shomron in Cisgiordania, è stato nominato in agosto come nuovo ambasciatore israeliano a Brasilia.

Tuttavia il Brasile deve ancora approvare la nomina del diplomatico, nato in Argentina, in seguito a pressioni in Brasile contro la sua nomina e proteste rivolte alla presidentessa Dilma Rousseff a proposito di Dayan.

La nomina ad ambasciatore deve essere approvata dalla nazione ospite – un procedimento noto come “gradimento”. Però, se nessuna approvazione viene espressa entro due mesi, si intende che la scelta non è stata accettata. .

Dayan è stato un membro autorevole del Yesha Council, un insieme di organizzazioni di coloni ebrei in Cisgiordania, e gli attivisti brasiliani temono che l’approvazione della sua scelta potrebbe essere vista come un appoggio alle colonie israeliane, che in base alle leggi internazionali sono illegali.

La scorsa settimana, quando il precedente ambasciatore israeliano Reda Mansour ha lasciato Brasilia, una fonte ufficiale brasiliana ha detto a “The Times of Israel” [giornale on line israeliano indipendente. Ndtr.] che il governo non avrebbe risposto alla nomina di Dayan e invece avrebbe aspettato che il governo israeliano capisse l’antifona.

Tuttavia la viceministro degli esteri Tzipi Hotovely ha detto ai media israeliani che i rapporti si sarebbero inaspriti se Dayan non fosse stato accettato da Brasilia.

“Lo Stato di Israele declasserà i rapporti diplomatici con il Brasile a un livello secondario se la nomina di Dani Dayan non sarà confermata,” ha detto Hotovely alla rete televisiva israeliana Channel 10.

In una recente intervista con Haaretz, Dayan ha accusato il governo israeliano di starsene con le mani in mano invece di fare pressione sul governo brasiliano perché accetti la sua nomina.

“Io non so se sarò ambasciatore in Brasile e personalmente non mi importa molto,” ha affermato Dayan. “Mi renderebbe le cose ancora più semplici, ma sto lottando per il prossimo ambasciatore che è un colono.”

“La risposta israeliana all’attuale situazione determinerà come verrà designato il Paese ospite del prossimo ambasciatore proveniente da Giudea e Samaria (la Cisgiordania) o, non sia mai, creerà una situazione per cui centinaia di migliaia di israeliani saranno esclusi dallo svolgere il ruolo di ambasciatori a causa del loro luogo di residenza e che Israele vi si adegui.”

I rapporti tra il Brasile ed Israele hanno conosciuto un costante declino negli ultimi anni. Nel 2010 il Brasile ha riconosciuto la Palestina come Stato sovrano entro i confini del 1967, facendo infuriare Israele.

Nello stesso anno l’ex-presidente brasiliano Luiz Inacio Lula da Silva ha stretto rapporti con l’Iran, nemico di Israele, andando in visita a Teheran nel maggio di quell’anno.

Durante l’offensiva israeliana nella Striscia di Gaza della scorsa estate [operazione “Margine Protettivo”. Ndtr.], durante la quale più di duemila palestinesi sono stati uccisi, il Brasile ha richiamato il proprio ambasciatore da Israele e ha condannato “l’uso sproporzionato della forza da parte di Israele che ha provocato un grande numero di vittime civili, compresi donne e bambini.”

Il governo israeliano ha contrattaccato definendo il Brasile un “nano diplomatico” che crea “problemi” piuttosto che “contribuire alle soluzioni”.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Come le colonie israeliane soffocano l’economia palestinese

Al Shabaka e Ma’an News

Sintesi

Israele vede le linee giuda recentemente  emanate dall’Unione Europea per l’etichettatura di alcuni prodotti delle sue colonie come la punta dell’iceberg. Teme che ciò aprirà la porta a misure più dure contro la sua colonizzazione illegale e sta mettendo in campo le forze filo-israeliane in Europa e negli Stati Uniti. Uno degli argomenti continuamente ripetuti è che l’etichettatura danneggia i lavoratori palestinesi.

In questo documento la responsabile politica di Al-Shabaka Nur Arafeh e le consulenti politiche  Samia al-Botmeh e Leila Farsakh sfatano gli argomenti addotti da Israele contro la decisione dell’Unione Europea di etichettare i prodotti delle colonie, dimostrando l’impatto devastante che il sistema delle colonie israeliane ha avuto sull’economia palestinese togliendo ai palestinesi la terra, l’acqua e altre risorse e creando una massiccia disoccupazione. Affrontano anche la condizione di quei lavoratori palestinesi – una minoranza della forza lavoro – che sono stati obbligati a guadagnarsi da vivere proprio nelle colonie che hanno danneggiato in modo così grave l’economia dei palestinesi e più in generale i loro diritti. Proseguono esaminando il passo dell’Unione Europea (UE) e suggeriscono le iniziative successive che l’UE dovrebbe prendere per rispettare pienamente le leggi internazionali ed europee1.

Il contesto

Ci sono voluti anni all’Unione Europea per sviluppare la sua posizione sull’etichettatura dei  prodotti delle colonie che Israele ha costruito sui territori palestinesi e siriani [le Alture del Golan. Ndtr.] fin da quando li ha occupati nel 1967. La Commissione Europea ha emanato una decisione nel 1998 in cui si sospettava che Israele stesse violando l’accordo di associazione con l’UE, firmato nel 1995 e entrato in vigore nel 2000, che esentava i prodotti israeliani dal pagamento di dazi doganali. Nel 2010 la Corte Europea di Giustizia ha confermato che i prodotti provenienti dalla Cisgiordania non beneficiavano del trattamento doganale preferenziale in base all’accordo di associazione dell’UE con Israele e che le affermazioni delle autorità israeliane non erano vincolanti per le autorità doganali dell’UE.

Tuttavia è stato solo nel 2015 che l’UE ha preso la decisione a lungo attesa di adeguare le proprie azioni alle sue stesse regole, in parte come risposta alla crescente pressione da parte della società civile perché riconoscesse l’illegalità delle colonie. Il 10 settembre il Parlamento Europeo ha approvato una risoluzione che chiede l’etichettatura dei beni delle colonie israeliane in quanto prodotti negli “insediamenti israeliani” piuttosto che in “Israele” e che garantisce che non beneficino del trattamento  preferenziale sugli scambi in base al Trattato di Associazione tra l’Ue ed Israele. Due mesi dopo, l’11 novembre, l’UE ha emanato le linee guida attese da molto tempo riguardo all’etichettatura, che ha definito in un linguaggio molto discreto come  una “Comunicazione Interpretativa”. Tuttavia i prodotti delle colonie saranno ancora commerciati con l’Unione Europea (EU), lasciando ai consumatori la “decisione informata” se comprare o meno questi prodotti.

Israele sostiene che l’iniziativa dell’UE è “discriminatoria” e che è dannosa per l’economia palestinese in generale e per i lavoratori palestinesi in particolare. E’ chiaramente un tentativo da parte di Israele di distogliere l’attenzione internazionale dalla realtà dell’illegale colonizzazione israeliana, dei suoi effetti profondamente negativi per l’economia palestinese e degli obblighi morali e giuridici dell’UE. In effetti, l’intera colonizzazione da parte di Israele è illegale in base al diritto internazionale, come riconfermato dalla Corte Internazionale di Giustizia nel suo “Parere consultivo” del 2004 sul Muro di Separazione costruito da Israele. Il trasferimento da parte di Israele della sua popolazione nei territori occupati è una violazione della Convenzione dell’Aja del 1907 e della Quarta Convenzione di Ginevra del 1949.

Lo sfruttamento economico dei Territori Palestinesi Occupati da parte delle colonie

Il presente rapporto riguarda i territori occupati da Israele nel 1967 – la Cisgiordania, compresa Gerusalemme est, la Striscia di Gaza e le Alture del Golan, e più specificamente le colonie israeliane e gli avamposti costruiti nei Territori Palestinesi Occupati (TPO)2. Non affronta tutte le violazioni delle leggi internazionali e dei diritti dei palestinesi da parte di Israele.

Il fatto che la costruzione delle colonie israeliane si sia basata sullo sfruttamento economico dei TPO è stato ampiamente documentato. Ciò ha incluso la confisca di ampie zone di terra palestinese  e la distruzione di proprietà palestinesi per utilizzarle a scopi edilizi ed agricoli; la confisca di risorse idriche, al punto che 599.901 coloni utilizzano sei volte più acqua che tutta la popolazione palestinese della Cisgiordania, composta da 2.86 milioni di abitanti; l’appropriazione di luoghi turistici e archeologici; lo sfruttamento di cave, miniere, risorse del Mar Morto e di altre risorse naturali non rinnovabili dei palestinesi, come sarà argomentato in seguito.

Le colonie sono anche state agevolate da un sistema infrastrutturale di strade, di checkpoint e dal Muro di Separazione, portando alla creazione di bantustan isolati in Cisgiordania e all’appropriazione di altra terra palestinese.

In conseguenza di ciò attualmente le colonie israeliane controllano circa il 42% della terra della Cisgiordania. Questo dato comprende aree edificate così come i confini municipali delle colonie israeliane. Questi confini attualmente comprendono un’area 9,4 volte più ampia di quelle edificate nelle colonie della Cisgiordania e sono proibiti ai palestinesi che non hanno un permesso per accedervi.

La maggioranza delle colonie della Cisgiordania sono costruite nell’Area C, che rappresenta il 60% della Cisgiordania e che è molto ricca di risorse naturali3. Secondo uno studio della Banca Mondiale, il 68% dell’Area C è stato destinato alle colonie israeliane, mentre meno dell’1% è stato concesso all’utilizzo da parte dei palestinesi.

All’interno dell’Area C lo sfruttamento da parte delle colonie israeliane è concentrato nella Valle del Giordano e nella parte settentrionale del Mar Morto. Le colonie israeliane controllano l’85,2% di queste zone, che sono le terre più fertili della Cisgiordania. L’abbondante disponibilità di acqua e il clima favorevole forniscono le migliori condizioni per l’agricoltura. Di conseguenza producono il 40% delle esportazioni di datteri da Israele. Nel contempo i palestinesi hanno il divieto di vivere lì, costruire o persino pascolare il loro bestiame con il pretesto che si tratta di “terre statali”, di ” zona militare” oppure di “riserve naturali”.

Israele ricorre anche ad altri metodi per espellere i palestinesi dalle loro terre, distruggendo le case, proibendo la costruzione di scuole e ospedali e negando ai residenti l’accesso a servizi essenziali come l’elettricità, l’acqua e l’escavazione di pozzi. Al contrario, molte colonie sono definite “aree di priorità nazionale”, permettendo loro di ricevere incentivi finanziari dal governo israeliano nei settori dell’educazione, della salute, dell’edilizia, dello sviluppo industriale ed agricolo4.

I proventi israeliani derivanti dallo sfruttamento della terra palestinese e delle risorse della Valle del Giordano e dell’area settentrionale del Mar Morto sono stimati attorno ai 500 milioni di shekel all’anno (circa 118 milioni di euro). Per avere un’idea dell’impatto sull’economia palestinese, vale la pena di notare che i costi indiretti delle restrizioni imposte da Israele all’accesso palestinese all’acqua nella Valle del Giordano – e di conseguenza l’impossibilità di coltivare la loro terra – erano pari a  663 milioni di dollari [circa 616 milioni di euro. Ndtr.], l’equivalente dell’8,2% del prodotto interno lordo palestinese nel 2010.

Nel frattempo Israele continua a costruire nuove colonie. Netanyahu, durante il suo discorso all’US Center for American Progress [organizzazione liberal vicina ai Clinton e ad Obama. Ndtr.] in novembre, ha sostenuto che nessuna nuova colonia è stata edificata negli ultimi vent’anni. Di fatto 20 colonie israeliane sono state approvate durante i suoi mandati, tre delle quali erano avamposti illegali che sono state successivamente regolarizzate dal governo.

La manifestazione più recente della politica di colonizzazione israeliana è la ripresa della costruzione del Muro di Separazione nei pressi di Beit Jala in Cisgiordania, che di fatto separa gli abitanti del villaggio dalle terre coltivate di loro proprietà nella valle di Cremisan. Il percorso di questo tratto di Muro è stato disegnato per permettere l’annessione della colonia di Har Gilo, a sud di Gerusalemme, mettendola in collegamento con la colonia di Gilo, che si trova all’interno dei confini del Comune di Gerusalemme creati da Israele dopo l’inizio dell’occupazione, nel 1967.

Un’economia palestinese strangolata dalle colonie

La colonizzazione illegale da parte di Israele ha avuto decisamente un effetto profondamente negativo sull’economia palestinese. Il controllo israeliano su acqua e terra ha contribuito a ridurre la produttività del lavoro del settore agricolo ed il suo contributo al PIL: l’apporto di agricoltura,  settore forestale e della pesca è sceso dal 13,3% del 1994 al 4,7% nel 2012, ai prezzi attuali. Lo sversamento di rifiuti solidi e liquidi dalle zone industriali delle colonie nei TPO ha ulteriormente inquinato l’ambiente, la terra e l’acqua dei palestinesi.

L’accesso limitato alle cospicue risorse del Mar Morto ha impedito ai palestinesi di sviluppare il settore dei cosmetici e altre industrie, basate sull’estrazione di minerali. Uno studio della Banca Mondiale stima che se non ci fossero state restrizioni alla disponibilità di queste risorse, la produzione e la vendita di magnesio, potassio e bromo avrebbe comportato un valore annuo di 918 milioni di dollari [circa 844 milioni di euro. Ndtr.] per l’economia palestinese, l’equivalente del 9% del PIL nel 2011.

Le drastiche limitazioni nell’accesso alle miniere e alle cave nell’Area C ha anche ostacolato la possibilità per i palestinesi di estrarre ghiaia e pietre. Il valore lordo annuo stimato come perdita per l’economia palestinese per l’estrazione da cave e miniere è di 575 milioni di dollari [circa 529 milioni di euro. Ndtr.]. In totale, si stima che le limitazioni all’accesso ed alla produzione nell’Area C sono costate all’economia palestinese 3.4 miliardi di dollari [più di 3.1 miliardi di euro Ndtr.]. Come esaminato in un precedente documento di Al-Shabaka, Israele controlla persino l’accesso dei palestinesi al loro stesso campo elettromagnetico – una politica a cui contribuiscono le colonie –  creando perdite tra gli 80 ed i 100 milioni di dollari annui [dai 73 ai 92 milioni di euro. Ndtr.] per gli operatori palestinesi delle telecomunicazioni.

Inoltre l’assenza di contiguità territoriale all’interno della Cisgiordania, unita ad altre restrizioni israeliane al movimento ed all’accesso, ha frammentato la sua economia  in piccoli mercati non connessi tra loro. Ciò ha incrementato i tempi ed i costi di trasporto delle merci da una zona della Cisgiordania ad un’altra e dalla Cisgiordania al resto del mondo. In seguito a ciò, la competitività dei prodotti palestinesi sui mercati locali e internazionali è stata indebolita.

Oltretutto, poiché l’economia in Cisgiordania è stata viziata dall’imprevedibilità e dall’incertezza – il che non è sorprendente, in quanto l’area è sottoposta a un’occupazione militare –  il costo ed i rischi di fare impresa sono aumentati. Ciò ha peggiorato il clima per gli investimenti, limitato lo sviluppo economico e aumentato la disoccupazione e la povertà. Nel complesso si stima che il costo diretto ed indiretto dell’occupazione sia stato di circa 7 miliardi di dollari [6,4 miliardi di euro. Ndtr] nel 2010 – circa l’85% del PIL palestinese stimato5.

Spossessati: i lavoratori palestinesi nelle colonie israeliane

L’economia palestinese è stata quindi colpita da fragilità strutturali e settoriali che sono principalmente dovute all’occupazione israeliana e alla colonizzazione. L’espropriazione di terra, acqua e risorse naturali da parte delle colonie e il controllo restrittivo di Israele sui movimenti, l’accessibilità e altre libertà ha indebolito la base produttiva dell’economia, che non è più in grado di generare occupazione e investimenti sufficienti ed è sempre più dipendente dall’economia israeliana e dagli aiuti dall’estero.

Questa dura realtà economica è il fattore principale che porta alcuni palestinesi a lavorare nelle colonie israeliane – si stima che siano state solo il 3,2% del totale degli occupati della Cisgiordania nel terzo quadrimestre del 20156. Invece di essere auto-sufficienti proprietari dei mezzi di produzione, i palestinesi sono stati spossessati delle loro risorse economiche e dei loro diritti dall’occupazione militare e dalle colonie israeliane e sono stati trasformati in manodopera a basso costo.

Infatti la maggior parte dei lavoratori palestinesi nelle colonie è impiegata in lavoro di bassa qualifica e retribuzione: almeno la metà di loro è utilizzata nel settore edile. Ciò significa che meno del 2% del totale della popolazione palestinese occupata sarebbe colpita nel caso di chiusura delle industrie israeliane nelle colonie.

I lavoratori palestinesi nelle colonie sono sottoposti a condizioni di lavoro difficili e a volte pericolose, e si stima che il 93% di loro non abbia un sindacato che li rappresenti. Di conseguenza sono soggetti a licenziamenti arbitrari ed alla revoca del permesso di lavoro se rivendicano i propri diritti o cercano di sindacalizzarsi. Una ricerca del 2011 ha scoperto che la maggioranza dei lavoratori palestinesi avrebbe lasciato il proprio lavoro nelle colonie se avesse trovato un’alternativa nel mercato del lavoro palestinese.

Mentre si  sostiene che i lavoratori palestinesi nelle colonie ricevono un salario superiore a quello del mercato del lavoro palestinese, è il caso di notare che sono pagati in media meno della metà del salario minimo israeliano. Ad esempio a Beqa’ot, una colonia israeliana nella Valle del Giordano, i palestinesi sono pagati il 35% del salario minimo legale. E’ da notare che gli impianti di impacchettamento della Mehadrin, il più grande esportatore israeliano di frutta e verdura nell’UE, si trovano in questa colonia.

In breve, è proprio il colonialismo di insediamento israeliano che nuoce ai palestinesi, molto più che l’etichettatura da parte dell’UE dei prodotti delle colonie. Quello di cui i palestinesi hanno bisogno non è più lavoro nelle colonie o più dipendenza dall’economia israeliana. Piuttosto quello di cui i palestinesi hanno bisogno è lo smantellamento delle colonie israeliane, la fine dell’occupazione e la piena realizzazione dei loro diritti in base alle leggi internazionali. Solo allora potranno realmente migliorare la base produttiva dell’economia palestinese, generare opportunità di lavoro, garantirsi autonomia e auto-sufficienza e smettere di essere dipendenti dagli aiuti internazionali.

La distanza tra la retorica dell’UE e le sue azioni

E’ contro questo contesto che il ruolo dell’UE nei riguardi delle colonie israeliane deve essere messo in discussione. L’UE riconosce che le colonie israeliane costruite nei TPO sono illegali. La sua “Comunicazione Interpretativa” stabilisce chiaramente che l’UE, “in linea con le leggi internazionali, non riconosce la sovranità di Israele sui territori occupati da Israele dal giugno 1967.” Tuttavia l’UE continua ad importare beni dalle colonie israeliane (soprattutto frutta e verdura fresche coltivate nella Valle del Giordano) per un valore annuo stimato in 300 milioni di dollari [276 milioni di euro. Ndtr.]. E’ più di 17 volte il valore medio annuale dei prodotti esportati dai TPO nell’UE tra il 2004 e il 2014.

Nonostante la “Comunicazione Interpretativa”, rimane una grande discrepanza tra i discorsi dell’UE e le sue azioni, e la “Comunicazione” è insufficiente per adempiere agli obblighi legali dell’UE per varie ragioni. In primo luogo, non tutti i prodotti provenienti dalle colonie israeliane devono essere etichettati. Solo la frutta fresca e le verdure, il pollame, l’olio d’oliva, il miele, l’olio, le uova, il vino, i cosmetici e i prodotti organici sono soggetti all’indicazione obbligatoria dell’origine. Cibi pre-confezionati e prodotti industriali che non siano cosmetici sono soggetti solo all’indicazione volontaria dell’origine.

In più le imprese israeliane che operano nelle colonie possono facilmente aggirare l’etichettatura dei loro prodotti. Ad esempio, possono mettere insieme beni prodotti nelle colonie con altri prodotti in Israele per evitare che siano etichettati come “prodotti nelle colonie”. Possono utilizzare l’indirizzo di un ufficio all’interno dei confini di Israele internazionalmente riconosciuti come l’indirizzo ufficiale dell’impresa piuttosto che l’effettivo luogo di produzione. L’UE dovrebbe anche rilevare il fatto che le imprese che etichettano i propri prodotti come provenienti dalle colonie possono ricevere delle compensazioni dal governo israeliano per le eventuali perdite. Si stima che il bilancio dello Stato abbia destinato circa 2 milioni di dollari [1,8 milioni di euro. Ndtr.] ogni anno negli ultimi 10 anni per compensare le imprese israeliane delle colonie per le perdite cui devono far fronte a causa della fine del trattamento doganale di favore e di altre agevolazioni.

Nel contempo le stesse linee guida per l’etichettatura sono un’arma spuntata, in quanto “l’applicazione delle attuali disposizioni ricade sotto la responsabilità principale degli Stati membri”, come stabilisce la “Comunicazione Interpretativa” dell’UE. Cosa ancora più importante, limitandosi ad etichettare i prodotti provenienti dalle colonie e mantenendo al contempo relazioni commerciali e investimenti con queste ultime, l’UE sta in realtà continuando a finanziare l’espansione degli insediamenti ed a perpetuare l’occupazione israeliana, lo sfruttamento delle risorse naturali e l’appropriazione delle terre palestinesi –  una situazione illegale che l’UE sostiene di non “riconoscere”.

Inoltre, in chiara opposizione con quanto sostiene, l’UE intraprende progetti con imprese israeliane che sono profondamente coinvolte nelle colonie e nell’occupazione. Per esempio, l’UE ha approvato 205 progetti con la partecipazione israeliana a “Horizon 2020”, il più vasto programma di ricerca e innovazione dell’UE. Le imprese israeliane che vi partecipano comprendono Elbit, che è direttamente coinvolta nella costruzione degli insediamenti e del Muro; le Israel Aerospace Industries [industrie aerospaziali israeliane], che forniscono i macchinari necessari per la costruzione del Muro; l’università Technion, che lavora con il complesso militare israeliano. Banche europee sono anche legate a banche israeliane che forniscono mutui ipotecari ai coloni, finanziano le autorità israeliane nelle colonie e nella costruzione di insediamenti che godono del sostegno da parte dello Stato e altre attività economiche che promuovono la colonizzazione.

Pertanto la “Comunicazione Interpretativa” dell’UE sembra essere principalmente un atto simbolico, attraverso il quale [l’UE] risponde solo formalmente alla crescente richiesta della società civile europea, sempre più favorevole al movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) guidato dai palestinesi,  che vuole che essa rispetti i propri regolamenti e che Israele sia chiamato a rendere conto delle proprie azioni. In base alle leggi internazionali gli Stati terzi sono obbligati a non riconoscere come lecita una situazione illegale, a non fornire alcun tipo di assistenza per mantenere una situazione illegale e a collaborare per garantire che Israele rispetti le leggi umanitarie internazionali. In altre parole, l’UE e i suoi Stati membri dovrebbero fare quanto possibile per porre fine alla colonizzazione da parte di Israele.

Come l’UE potrebbe rispettare meglio la legge

L’UE dovrebbe iniziare a trasformare le sue parole in misure concrete per rendere Israele responsabile, istituendo un blocco totale su ogni attività economica, finanziaria, commerciale e di investimenti diretta o indiretta con le colonie israeliane, seguendo le orme di Copenhagen, Reykjavik e recentemente Amsterdam. Come raccomandato poco tempo fa in un rapporto del Consiglio Europeo delle Relazioni Estere [centro studi paneuropeo, i cui membri sono ex-ministri degli esteri, imprenditori, intellettuali ed attivisti, il cui scopo è promuovere il dibattito e favorire una politica estera efficace fondata sui valori europei. Ndtr.], dovrebbe anche sospendere le relazioni finanziarie con le banche israeliane, soprattutto quelle che finanziano l’occupazione e la costruzione delle colonie. In più, da parte loro gli Stati membri dell’UE dovrebbero cessare ogni relazione con le colonie israeliane.

Va qui osservato che l’UE è il principale partner commerciale di Israele, con scambi totali attorno ai 30 miliardi di euro nel 2014, che rappresentano circa il 33% del totale delle esportazioni israeliane di beni e servizi nel 20147. Il commercio dell’UE con le colonie israeliane rappresenta meno dell’1% del commercio dell’UE con Israele. Una iniziativa seria da parte dell’UE avrebbe un impatto consistente sulla colonizzazione israeliana e sulla prolungata occupazione militare.

Oltre a passare dall’etichettatura dei prodotti delle colonie a porre fine ad ogni relazione con gli insediamenti israeliani, i Paesi europei dovrebbero prendere in considerazione un embargo di tutti i prodotti israeliani. Fin da quando l’UE ha riconosciuto che il controllo di Israele sui TPO è una situazione di occupazione – un’occupazione militare che dura da circa 50 anni – avrebbe dovuto affrontare le cause profonde dell’occupazione, cioè la politica del governo israeliano, piuttosto che solo il suo effetto, ossia le colonie.

Per esempio, nel caso dell’apartheid in Sud Africa, un boicottaggio concentrato solo sugli affari che riguardavano le township non avrebbe avuto un grande effetto sul sistema di apartheid. Allo stesso modo, boicottare solo i prodotti degli insediamenti israeliani avrebbe un impatto molto minore che boicottare il sistema concreto che sta organizzando la colonizzazione dei territori per fare pressione su Israele perché ponga fine all’occupazione. Per questo è importante vietare ogni prodotto israeliano e non solo quelli delle colonie. Un simile passo prenderebbe di mira, tra le altre cose, l’inganno israeliano riguardo all’origine dei prodotti e delle materie prime che provengono dagli insediamenti. E’ difficile controllare, a meno che siano realmente boicottate le imprese e non solo i loro beni e servizi. In effetti molte delle imprese che lavorano nelle colonie provengono da Israele piuttosto che dai territori del 1967.

Gli appelli per un boicottaggio totale stanno aumentando e trovando adesioni in luoghi imprevisti. Per esempio, due docenti universitari statunitensi hanno recentemente sostenuto in un editoriale sul ” Washington Post” che boicottare solo i prodotti delle colonie “non avrebbe un impatto sufficiente”. Hanno invece proposto “un ritiro dell’aiuto e del supporto diplomatico USA e il boicottaggio e il disinvestimento dall’economia israeliana” per modificare i piani strategici di Israele.

Per la Palestina, un simile divieto aiuterebbe a proteggere i prodotti palestinesi, aumenterebbe la loro competitività e aiuterebbe in futuro a rafforzare la capacità dell’economia palestinese di integrarsi con quella internazionale, una volta che la libertà sia garantita. Il boicottaggio di tutti i prodotti ed i servizi israeliani sarebbe un modo efficace per dare la possibilità ai palestinesi di sconfiggere il colonialismo israeliano. Ciò sarebbe molto più efficace che fornire assistenza per lo sviluppo a settori specifici e risponderebbe direttamente alla richiesta del popolo palestinese di libertà e diritti umani.

Note:

  1. Le autrici ringraziano l’ufficio Palestina/Giordania della fondazione Heinrich-Böll per la cooperazione e la collaborazione con Al-Shabaka in Palestina. Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità delle autrici e non riflettono necessariamente l’opinione della fondazione Heinrich-Böll.
  2. Gli avamposti delle colonie sono costruiti senza l’autorizzazione ufficiale del governo israeliano. Tuttavia ricevono supporto finanziario da ministeri, agenzie governative, fondazioni locali ed internazionali e da privati (soprattutto dagli USA). Spesso Israele dopo un certo lasso di tempo li “legalizza”.
  3. In base agli accordi di Oslo, la Cisgiordania è stata divisa provvisoriamente in Area A, che dovrebbe essere sotto il controllo dell’Autorità Nazionale Palestinese ma è sottoposta a frequenti incursioni militari israeliane, Area B, sotto controllo condiviso di israeliani e palestinesi, ed Area C, sotto controllo esclusivo di Israele. Questo periodo provvisorio è scaduto nel maggio 1999.
  4. Per maggiori informazioni vedi “Trading Away Peace: How Europe helps sustain illegal Israeli settlements.” [“Vendere la pace: come l’Europa aiuta a sostenere le illegali colonie israeliane “]
  5. I costi diretti sono i costi supplementari sostenuti dai palestinesi in conseguenza delle restrizioni imposte dagli israeliani all’accesso ed al movimento, compresi i maggiori costi dell’acqua e dell’elettricità. I costi indiretti sono le perdite di entrate provenienti dalla produzione che i palestinesi avrebbero potuto fare se non ci fossero state queste limitazioni da parte israeliana. Un esempio di costi indiretti è rappresentato dal valore aggiunto dell’estrazione delle risorse del Mar Morto.
  6. In base all’inchiesta sulla forza lavoro realizzata nel novembre 2015 dal PCBS [Palestinian Central Bureau of Statistics, istituzione ufficiale del governo palestinese. Ndtr.], nel periodo luglio-settembre 2015 il numero di lavoratori palestinesi nelle colonie israeliane in Cisgiordania era di 22.100, su un totale di 674.900 lavoratori in Cisgiordania.
  7. Da confrontare con il commercio dell’UE con i TPO, che nel 2014 è stato di circa 154 milioni di euro.

(Traduzione di Amedeo Rossi)




La domanda non è perché la violenza sta esplodendo a Hebron, ma perché adesso?

Lo scontro è inevitabile quando centinaia di coloni vivono in mezzo a centinaia di migliaia di palestinesi.

di Amira Hass

Haaretz

Il rompicapo che il servizio di sicurezza israeliano ha cercato di risolvere nelle scorse settimane, riguardo al motivo per cui il centro dell’escalation si è posizionato tra Gerusalemme e Hebron, non è complicato. Queste sono le due città in cui i coloni vivono nel cuore della popolazione palestinese. In entrambe, i coloni sono pesantemente protetti, il che significa che sistematicamente ci si imbatte in soldati, poliziotti, agenti di sicurezza israeliani armati, come anche lo sono gli stessi coloni. In altre città la vita può andare avanti quasi dimenticandosi delle colonie e delle postazioni militari che le circondano. A Gerusalemme e a Hebron questo è impossibile, la protezione di poche centinaia di coloni impedisce costantemente la vita di centinaia di migliaia di palestinesi.

Dal punto di vista palestinese, la vita prosegue all’ombra di violente provocazioni quotidiane e di infinite umiliazioni. Perciò la vera domanda è perché l’ondata di protesta popolare, comprese le aggressioni individuali all’arma bianca, è esplosa adesso e non prima. Non è ancora possibile sapere se gli attacchi con le armi di venerdì segnano una nuova fase e se i tentativi israeliani di repressione la fermeranno oppure incoraggeranno altri a prendere le armi.

Uno dei compiti dei servizi di sicurezza palestinesi nelle ultime settimane è stato quello di controllare che individui armati non si avvicinassero a punti di contatto con l’esercito israeliano, ma questa non è l’unica spiegazione al fatto che non siano state usate le armi. Finora, anche senza indicazioni dall’alto, la maggior parte dei palestinesi concorda che sia meglio non essere indotti all’uso delle armi, a causa dell’amara esperienza della seconda intifada e della paura della repressione israeliana. Le persone che hanno sparato e ferito tre israeliani sono evidentemente giunte alla conclusione che ora i palestinesi lo possono accettare e sono pronti ad affrontare una maggiore repressione.

Come previsto, nella notte tra venerdì e sabato l’esercito israeliano ha compiuto raids in diversi quartieri. Un sito web di informazioni, identificato come appartenente ad Hamas, ha riferito che nel quartiere di Abu Sneina i soldati hanno arrestato un uomo delle forze di sicurezza palestinesi. Era probabilmente da quel quartiere, parte del quale è sotto il controllo della sicurezza israeliana, che sono stati colpiti i due giovani israeliani vicino alla Tomba dei Patriarchi.

Secondo fonti palestinesi, venerdì notte e sabato mattina[i coloni] israeliani hanno attaccato parecchie case palestinesi nei quartieri di Tel Rumeida e Jaber, attraverso i quali passa la strada che collega la città vecchia di Hebron a Kiryat Arba. Hanno tentato di entrare nelle case ed hanno tirato pietre almeno contro una di esse, mentre i soldati israeliani si trovavano lì vicino. Domenica l’esercito israeliano ha occupato almeno tre case nella città vecchia di Hebron, ha radunato gli abitanti di ognuna di esse in una stanza ed ha comunicato che le case erano diventate postazioni militari per 24 ore.

La settimana scorsa sono state bloccate le strade di accesso diretto che collegano Hebron ai villaggi e alle città vicine. Nella città vecchia di Hebron, chiunque non sia residente in Shuhada Street o Tel Rumeida non può entrare in questi quartieri. Il checkpoint all’entrata della moschea di Al-Ibrahimi (Tomba dei Patriarchi) è stato chiuso. Venerdì pomeriggio ai musulmani è stato impedito di entrare nel loro luogo sacro.

L’esercito israeliano ed il servizio di sicurezza Shin Bet hanno effettuato incursioni in ogni casa in cui un membro della famiglia è stato recentemente ucciso dai soldati o dalla polizia. In alcune delle case, i soldati hanno controllato ogni stanza ed esaminato i materiali di costruzione. I residenti hanno dichiarato a Haaretz che il personale dello Shin Bet ha comunicato loro l’intenzione di far esplodere le case. Non si trattava di casi in cui un militare o un civile israeliano era stato ucciso, ma di aggressioni all’arma bianca che avevano causato una lieve ferita, o addirittura nessuna.

Le famiglie sostengono di essere certe che se i soldati avessero voluto, avrebbero potuto ferire o arrestare i loro parenti. Dopo l’uccisione, che le famiglie ritengono intenzionale, la seconda più grave punizione è la sottrazione del corpo. Per le famiglie e per i loro congiunti, il pensiero che i loro cari giacciano in un obitorio e non abbiano ricevuto una degna sepoltura incrementa il livello di odio ed avversione nei confronti di Israele e degli israeliani.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Sapere che cosa accadrà alle loro famiglie non spaventa i palestinesi

Tre residenti di Jabal Mukkaber (sobborgo palestinese di Gerusalemme est, n.d.t.) sapevano che le loro case e la vita delle loro famiglie sarebbero state distrutte, eppure sono andati a Gerusalemme martedì scorso con determinazione omicida.

di Amira Hass

Haaretz

La mattina del 6 ottobre, quando la polizia ha fatto saltare in aria la casa di Ghassan Abu Jamal – uno degli assassini nell’attacco terroristico di novembre alla sinagoga Har Nof – a Gerusalemme est ed ha provocato gravi danni agli appartamenti di suo fratello e dei genitori, suo cugino Ala’a Abu Jamal stava a guardare.

“Ha cercato di dire ai poliziotti ‘Perché dovevate fare questo?’ ”, ricorda S., un parente. “ ‘La Corte Suprema ha approvato la demolizione della casa di Ghassan, ma ha dato ordine di evitare di danneggiare gli appartamenti vicini. Perché colpite anche la famiglia dei genitori e del fratello?’ ” Ma loro non hanno ascoltato. “Lo hanno insultato e picchiato davanti a sua moglie e a tre bambini”, ha aggiunto S.

Una settimana dopo, il 13 ottobre, il cugino Ala’a, dipendente della Bezeq (azienda di telecomunicazioni, n.d.t.), ha lanciato la sua auto aziendale contro Yeshayahu Kirshavsky ad una fermata di autobus a Gerusalemme. Poi è uscito dalla macchina ed ha ucciso Kirshavsky, di 60 anni, con un’accetta, prima di essere ammazzato.

“Noi, io, siamo ancora sotto shock,” ha detto S. “Lui era un uomo tranquillo, con la testa a posto. Aveva un lavoro stabile, a differenza di Ghassan, che era sempre disoccupato. Sono così preoccupato di come la gente viene spinta a gesti estremi. Se un uomo come Ala’a ha fatto quel che ha fatto – ed io sono contrario a questo con tutto il cuore – chi può sapere che cos’altro può succedere? Dopo la punizione dell’intera famiglia di Ghassan e di suo cugino Uday per l’attacco alla sinagoga, lui sapeva che cosa aspettarsi: che sarebbe stato ucciso; che avrebbero distrutto la sua casa; che la vita dei suoi figli e di sua moglie sarebbe stata distrutta. Eppure ha fatto quel che ha fatto.”

“Che governo stupido”, ha detto S. “Non vedete che così non funziona, che i vostri metodi di punizioni collettive provocano esattamente l’opposto?”, ha chiesto.

La figlia di Ghassan, Salma, ha compiuto cinque anni circa un mese fa. Ha chiesto una torta con in cima una vecchia foto di lei e suo papà. Nella foto, lei lo guarda con adorazione e lui le sorride con amore. E’ servita molta glassa e molta panna montata per ricoprire la torta rettangolare.

Dal momento dell’approvazione da parte della Corte Suprema della demolizione della casa di Ghassan, due mesi fa, sua moglie Nadia ed i loro tre bambini hanno vissuto al piano di sotto con il fratello Muawiyyah. L’Alta Corte di Giustizia, che ha respinto una petizione da parte di Hamoked (Centro per la difesa dei diritti individuali ed umani del gruppo Addameer, ndt) contro la punizione della famiglia, ha anche approvato la sua deportazione da Gerusalemme est alla Cisgiordania, poco dopo il compleanno della bambina.

Nadia è parente di Ghassan –  entrambi appartengono allo stesso clan nel villaggio beduino di Sawwahra, che è stato diviso a metà nel 1967: parte di esso è rimasta in Cisgiordania ed un’altra parte, conosciuta come Jabal Mukkaber, è diventata un quartiere di Gerusalemme est.

Quando è stato costruito il muro di separazione in Cisgiordania all’inizio del nuovo millennio, sono stati interrotti i contatti tra le due zone, e solo Nadia è rimasta nella sua casa di Gerusalemme grazie ai permessi di residenza temporanea del Ministero dell’Interno. Dopo l’attacco alla sinagoga, la sua richiesta di rinnovo del permesso è stata respinta.

Il giorno del compleanno di sua figlia, i bambini della grande famiglia e le loro madri si sono riuniti nella piccola stanza degli ospiti di Muawiyyah per festeggiare. Ma Nadia, vestita di nero, non era con loro, ha preferito restare in un’altra stanza.

Non poteva pretendere di essere felice, o che la tensione e la preoccupazione per il futuro non le devastassero l’anima. I suoi tre bambini sono cresciuti circondati dalla famiglia allargata nel quartiere di Gerusalemme: Nadia non può strapparli al loro ambiente naturale, ma al tempo stesso non può abbandonarli e andare a vivere da sola in Cisgiordania.

La torta è stata portata nella stanza e messa su un piccolo tavolo. Dopo aver spento le candeline, con l’aiuto di una zia, Salma ha brandito un lungo coltello affilato e lo ha puntato dritto sul viso del suo papà morto. Ha affondato il coltello nella gola e ha continuato tagliando parti della sua faccia, e poi della propria faccia, in pezzettini che sono stati distribuiti tra i bambini. Allora sua zia si è allontanata dal tavolo ed è andata in un angolo della stanza, sperando che nessuno si accorgesse delle sue lacrime.

I bambini ovviamente non hanno capito il simbolismo del coltello che tagliava l’immagine del padre. Il coltello ha detto ciò che i parenti evitano di dire apertamente: che sono arrabbiati col padre, Ghassan, che li ha abbandonati, che non si è preso cura di loro ed ha fatto quel che ha fatto. Alcuni preferiscono non vedere fotografie dettagliate degli omicidi, per scacciare il pensiero del coltello che forse ha colpito il corpo di persone che stavano pregando.

“Quale cuore è più spezzato di quello di un padre il cui figlio ha fatto questo?” ha detto a Haaretz il padre Mohammed. Ha detto cose simili un anno fa. “Che dio possa perdonarlo”, mormora S.

S. ha anche detto martedì scorso che il cugino Ala’a ha accompagnato le famiglie di Ghassan e del cugino Uday in tutte le fasi della punizione collettiva decisa da Israele.

“Gli interrogatori dei parenti, le ricorrenti incursioni e visite della polizia nelle loro case, qua e là pugni, insulti, il fratello Muawiyyah che ha perso il lavoro”, ha raccontato.

E poi hanno sigillato la casa dei genitori di Uday. “Sigillare” vuol dire buttare del  cemento nella casa e riempire tutte le stanze di un liquido che si solidifica fino a raggiungere 50-80 cm. dal soffitto.

La bella casa di povera pietra della famiglia fu costruita negli anni ’30. Non sarà più possibile abitarla. Ora i genitori di Uday affittano un piccolo appartamento nelle vicinanze, ma continuano a pagare le tasse  municipali per la casa riempita di cemento.

La famiglia ha subito altre forme di punizione collettiva non ordinate dalla Corte Suprema. Per esempio, i vicini e i conoscenti li evitano, perché sanno o temono che se fanno visita alla famiglia, lo Shin Bet, il servizio di sicurezza, si presenterà il giorno dopo o la polizia farà loro una visita notturna, con tutto ciò che comporta – lo spavento dei bambini nel cuore della notte, colpi e schiaffi, grida ed insulti, una porta o un mobile rotti.

Quando Ala’a ha deciso di seguire le orme del cugino, sapeva benissimo che avrebbe potuto essere ucciso. Questo pensiero non lo ha spaventato. Sapeva anche delle punizioni che i suoi genitori, sua moglie ed i suoi figli avrebbero subito. Forse può avere immaginato che le punizioni sarebbero state ancor più dure, data l’attuale ira ed il desiderio di vendetta di Israele.

Altri due residenti di Jabal Mukkaber hanno sparato ed accoltellato dei passeggeri di un autobus nel quartiere di Armon Hanatziv di Gerusalemme martedì scorso, uccidendo Haim Haviv, di 78 anni e Alon Gruverg, di 51. Non solo sapevano che sarebbero quasi sicuramente morti, ma anche che le loro famiglie avrebbero pagato un caro prezzo per le loro azioni.

Uno di loro era Baha Aliyan, che S. non conosceva, ma ne aveva sentito parlare. Era un attivista sociale, che ha iniziato varie attività per migliorare la qualità della vita, come aprire delle librerie in diversi quartieri palestinesi o sollevare lo spirito collettivo partecipando a diverse gare del Guinness Mondiale dei Primati. S. ha detto di Baha la stessa cosa che aveva detto di Ala’a: “Se un uomo simile decide di fare quel che ha fatto, è solo un’ennesima prova di quanto la situazione sia deteriorata, di quanto sia diventata pericolosa.”

Quando è stata annunciata la sua morte, è circolato ampiamente un post che Aliyan aveva caricato su Facebook il 12 dicembre 2014 – i 10 comandamenti di ogni shahid (martire): “Ci vedremo in paradiso”, era il decimo comandamento. “Non voglio manifesti”, era il secondo, mentre il primo imponeva alle organizzazioni politiche di “non utilizzare il mio sacrificio e la mia morte, perché appartengono alla patria, non a voi.” In altri termini, non pagate per il mio funerale o per la tenda funebre (un’usanza musulmana,ndt)  per sbandierare in cambio i vostri vessilli.

Il terzo comandamento protegge le madri: “Non date fastidio a  mia madre con domande solo per provocare commozione negli spettatori televisivi.”

L’ottavo comandamento dice che è sufficiente che la gente venga a pregare dopo il funerale. Il nono dice che lui non deve diventare un altro numero dimenticato.

Nel quarto chiede di non instillare odio in suo figlio. “ Vorrei lasciagli scoprire da solo la sua patria e morire per lei, non per vendicare la mia morte.”

Nel quinto comandamento, Aliyan ha scritto: “Se vogliono demolire la mia casa, lasciateli fare. La pietra non ha maggior valore dell’anima che dio ha creato.” Il sesto comandamento dice al popolo di non essere triste per la sua morte. “Siate tristi per ciò che accadrà a voi dopo di me.” E poi: “Non guardate a ciò che ho scritto prima del mio sacrificio. Chiedetevi ciò che c’è dietro di esso.”

( Traduzione di Cristiana Cavagna)




I giovani palestinesi soffrono di un continuo disagio, l’occupazione israeliana.

Parlando di Terza Intifada, i palestinesi con meno di 30 anni discutono su chi vedono alla testa delle ultime violenze.

Al Jazeera

Mentre le prime pagine dei media si concentrano sui drammatici attacchi all’arma bianca da parte di palestinesi e israeliani, gli uni contro gli altri, contemporaneamente nelle ultime settimane migliaia di giovani palestinesi sono scesi in strada in Israele, a Gerusalemme est, in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza per chiedere la fine della pluridecennale occupazione israeliana, per protestare contro le violenze delle forze di sicurezza israeliane e dei coloni e per chiedere il riconoscimento dei loro diritti umani.

Ovviamente gli accoltellamenti sono una novità, mentre le proteste sono di lunga data – tranne per il fatto che oggi coinvolgono una nuova generazione di palestinesi, quelli che sono cresciuti nell’epoca del processo di pace di Oslo e delle conseguenti frustrazioni e fallimenti. Come le proteste della prima Intifada nel 1987, alcune delle manifestazioni di oggi sono pacifiche, mentre altre si sono trasformate in scontri con le forze di sicurezza israeliane.

Mentre i veterani palestinesi e gli analisti affrontano la questione se gli attuali avvenimenti presentino le caratteristiche di una nuova intifada, Al Jazeera si è messa in contatto con un certo numero di palestinesi con meno di 30 anni in tutta la regione. Abbiamo posto loro due domande:

1) Chi pensi che diriga l’attuale rivolta?

2) Se queste proteste e questi scontri continueranno, come ti aspetti che risponderanno le forze di sicurezza israeliane, i coloni e l’Autorità Nazionale Palestinese?

Alcune delle loro risposte sono state tradotte dall’arabo, altre sono state espresse in inglese ma sono state corrette.

Lema Nazeeh

Avvocata di 27 anni di Ramallah, Cisgiordania

Questa sollevazione popolare è spontanea e chi la guida è la nuova generazione – soprattutto studenti medi ed universitari. Questa volta siamo scesi in strada e abbiamo raddoppiato la resistenza ovunque, a cominciare da Gerusalemme fino alla Cisgiordania e a Gaza. Stanno partecipando anche i palestinesi che vivono nei territori del ’48 [in Israele]. Il messaggio della nuova generazione è che la Palestina sarà libera e che siamo determinati a porre fine all’occupazione e al terrorismo dei coloni in Cisgiordania e a Gerusalemme.

Per continuare, abbiamo bisogno di creare un comitato unitario in cui il popolo si possa organizzare e dirigere il movimento al di fuori dell’establishment politico.

I palestinesi di qualunque parte devono essere uniti nella resistenza contro l’occupazione – manifestando a Gaza, Gerusalemme, Haifa, Ramallah, Betlemme, Yaffa ed Hebron. Finché continuerà l’occupazione dobbiamo continuare a resistere per una vita di libertà e dignità.

Le forze di sicurezza israeliane ed i coloni continueranno con la loro violenza e il terrorismo contro di noi, ma noi, il popolo, abbiamo una sola voce, che il governo israeliano, i gruppi sionisti e i membri della comunità internazionale complici dei crimini israeliani contro i palestinesi non potranno mai far tacere. Non è il momento di aver paura.

Fadi Salah Al Shaik Yousef

28 anni, specialista in sviluppo infantile a Gaza City, Gaza

Questa intifada popolare, che non è organizzata né diretta da nessuna autorità, è una reazione normale a tutti gli anni di ingiustizia, di crimini e di umiliazioni perpetrati da Israele contro il popolo palestinese. Considerando il grande numero di palestinesi uccisi e feriti per mano delle forze di sicurezza israeliane si tratta di una reazione assolutamente normale.

Queste proteste e questi scontri accadono perché il popolo palestinese ha perso ogni speranza nei propri dirigenti, persino nell’umanità. Abbiamo scoperto che le soluzioni pacifiche non stanno portando alla fine dell’occupazione – per cui dobbiamo continuare a resistere.

La gente di Gaza ormai non ha più niente da perdere, per cui siamo pronti ad aiutare in ogni caso la Cisgiordania. Noi marciamo fino alla frontiera con Israele e protestiamo per dire ai nostri fratelli in Cisgiordania che siamo solidali con loro e respingeremo ogni attacco israeliano contro di loro.

Israele e l’Autorità Nazionale Palestinese possono tentare di controllare la situazione, ma non ci riusciranno. Nessuno lo può fare. E’ anche difficile prevedere dove porterà tutto questo. Siamo abituati al fatto che Israele commetta dei crimini e poi faccia la parte della vittima. Non mi aspetto che questo cambi. Da parte sua l’Autorità Nazionale Palestinese deve cessare ogni forma di coordinamento in materia di sicurezza con l’occupante.

Come questo finirà dipenderà dalla volontà del popolo e dal livello di sostegno diretto o indiretto che riceveremo dalle varie fazioni palestinesi.

Nadine Khoury

16 anni, studentessa di scuola superiore a Taybeh, in Cisgiordania

Vorrei puntualizzare che questo non sta succedendo solo da una settimana. Ho vissuto qui in Palestina da circa tre anni e mezzo e mi sono resa conto che questi atti inumani sono molto comuni nella vita palestinese (il che non li rende meno tragici).

Penso effettivamente che i palestinesi stiano cercando di iniziare una terza intifada perché ne hanno abbastanza di vivere accanto a questa gente che continua a prendersi la loro terra, a uccidere i loro figli ed hanno realmente il coraggio di fare e giustificare tutto ciò. Tuttavia, anche se sono d’accordo che una terza insurrezione può essere la nostra unica possibilità di liberarci dell’occupazione israeliana, non penso che ora sia il momento migliore. I palestinesi non hanno la tendenza a pensare ed agire tutti insieme, per cui, finché non troveranno un’unità, personalmente non penso che ci sarà un’intifada. Vivendo in Palestina, posso notare la brutalità da ambo le parti per cui, per il momento, non vedo che la situazione si possa calmare  a breve.

Se e finché questi scontri continueranno, credo che le forze di sicurezza israeliane ed i coloni seguiteranno ad usare la forza, in ogni modo possibile, per reprimere una terza intifada. Israele vuole solo mantenere il controllo sul popolo palestinese e sulla indebolita Autorità Nazionale Palestinese. So che il popolo palestinese continuerà a lottare ardentemente per la propria terra, i propri diritti e la propria libertà. Una kefiah (hatta, copricapo palestinese, ndt.) e una pietra non sono niente rispetto a un giubbotto antiproiettile e a un cecchino. Purtroppo è una lotta impari e il mondo sta a guardare quello che succede.

Omar Daraghmeh

27 anni, traduttore a Tubas, Cisgiordania

La recente violenza è il risultato dell’assenza di un qualunque orizzonte politico tra i palestinesi e le autorità d’occupazione israeliane a causa della continua aggressione israeliana (dell’esercito e dei coloni) contro i palestinesi in generale e la profanazione della sacra moschea di Al-Aqsa in particolare.

Le tensioni spariranno e la tranquillità verrà gradualmente ripristinata a meno che la più ampia maggioranza della popolazione palestinese si unisca alla sollevazione, sopratutto i gruppi armati palestinesi nei campi di rifugiati della Cisgiordania o nella Striscia di Gaza sotto assedio.

Ci si aspetta che Israele scateni una guerra contro Gaza mentre darà mano libera ai coloni e chiuderà Gerusalemme e la Cisgiordania e intensificherà la campagna di arresti.

D’altra parte l’Autorità Nazionale Palestinese se ne verrà fuori con le sue inutili dichiarazioni, terrà qualche “riunione d’emergenza” e chiederà una “protezione internazionale” per i palestinesi mentre contemporaneamente reprimerà ogni protesta palestinese contro l’occupazione.

Tarek Bakri

29 anni, ingegnere e ricercatore a Gerusalemme

Forse quello che è successo alla moschea di Al-Aqsa ha spinto molti altri a partecipare alla rivolta, ma la vedo come qualcosa di più grande. Riguarda l’occupazione e le sue politiche. A un certo punto crediamo che ci sia  una parte che sta eliminando l’altra. Gli israeliani stanno portando avanti una sorta di lenta pulizia etnica a Gerusalemme  attraverso esecuzioni immediate e seminando la paura per fare in modo che i palestinesi lascino la città. Israele vuole che Gerusalemme abbia una maggioranza ebraica.

Non possiamo rimanere in silenzio di fronte a queste umiliazioni quotidiane. Succederà che i palestinesi alzeranno il livello della resistenza. Nel frattempo aumenterà la violenza dei coloni. Ma le forze di sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese rimarranno a guardare.

Raya Shamali

17 anni, studentessa di scuola superiore ad Arraba, Israele

La tensione tra le due parti è sempre stata  alta ed ogni tanto qualcosa la scatena e la rende più evidente. L’attuale situazione sta portando a scontri ancora peggiori tra i sionisti e i palestinesi e tra i cittadini palestinesi di Israele e il governo.

Ciò che sta avvenendo ora, i giovani palestinesi che lottano contro l’occupazione, è simile a quello che è successo nella seconda intifada, durante la quale questa generazione è cresciuta. Purtroppo è probabile che ciò porti a molti morti da entrambe le parti e colpisca in tutti gli ambiti della vita.

Finché le proteste continuano, mi aspetto che le forze di sicurezza israeliane continueranno nella repressione e nel razzismo verso i palestinesi. Mi aspetto anche che i coloni israeliani intervengano in modo più deciso.

E’ difficile dire cosa faranno le forze di sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese. O cercheranno di porre fine a quello che stanno facendo quelle israeliane, cosa che ci potrebbe portare a una guerra, o reprimeranno i manifestanti in modo che la situazione non diventi ancora peggiore.

Mustafa Staiti

29 anni, fotografo cinematografico a Jenin, Cisgiordania

Per la mia generazione – nata a metà degli anni ’80 durante la prima rivolta e che ha vissuto la seconda in tutti i suoi aspetti – è più facile avere un’opinione su quando tutto ciò diventerà quello che chiamiamo intifada. Una nuova azione può obbligare il mondo a trovare una soluzione finale per i palestinesi, o terminare con un altro disastro ad aggiungersi alla pulizia etnica a danno dei palestinesi. Quelli che scendono in strada adesso sono di una generazione più giovani di me. Sono nati nel culmine della violenza durante la seconda intifada – sono arrabbiati, senza paura e non gli importa quello che gli possa succedere. Non hanno niente da perdere; hanno sempre vissuto in guerra.

L’Autorità Nazionale Palestinese è instabile perché è legata ad accordi che dovrebbe mandare al diavolo, ma ciò porterebbe a una divisione o ad una violenza tra palestinesi. Israele cercherà di occupare più terra e continuerà ad usare la mano pesante. I coloni saranno i più soddisfatti se l’esercito israeliano invaderà la Cisgiordania e se si avanzerà verso l’idea di un unico Stato di Israele [compresi i Territori Occupati].

Mariam Barghouti

22 anni, studentessa universitaria a Ramallah, Cisgiordania

Credo ci sia una grande discrepanza tra il dibattito in corso all’estero sul fatto  se questa sia una terza intifada o no e la realtà sul terreno, dove questa discussione appare insensata. Al di là delle etichette, i giovani palestinesi stanno esprimendo il proprio malessere contro l’aggressione israeliana e i fallimenti della dirigenza palestinese per trovare una concreta soluzione per il popolo palestinese.

La grande maggioranza dei giovani che scendono in piazza ha tra i 13 e i 27 anni. E’ importante notarlo perché questa è la generazione di Oslo. E’ una generazione che non conosce una realtà oltre il muro dell’apartheid o le tattiche repressive dell’Autorità Nazionale Palestinese. Quello a cui stiamo assistendo non sono solo casuali atti di violenza, questa frustrazione ha infettato il popolo palestinese ormai da anni, stiamo lentamente implodendo. Piccoli atti di protesta in Cisgiordania, razzi da Gaza, scontri nella Palestina storica [Israele], tutto questo va a braccetto. Non possiamo decontestualizzare la situazione attuale dal passato. Ogni reazione è stata preceduta da un’azione, sia che si tratti del progressivo aumento dell’aggressione israeliana o della repressione da parte dell’Autorità Nazionale Palestinese. Non è solo uno scontro  nei confronti dell’aggressione israeliana, ma un messaggio all’Autorità Nazionale Palestinese che si creerà una rivolta se continueranno la normalizzazione dell’occupazione, tenendo tranquillo Israele grazie al coordinamento per la sicurezza, pretendendo contemporaneamente di parlare in nome dei palestinesi.

Questo è un momento cruciale, in cui i giovani diventano protagonisti. Le voci che erano rimaste assenti dalle politiche israelo-palestinesi stanno erompendo attraverso il suono di cori, pietre, accoltellamenti e qualunque altro metodo disponibile. Non si può dire dove finirà tutto ciò, ma non credo che adesso sia importante. La situazione potrebbe benissimo terminare con l’aiuto dell’Autorità Nazionale Palestinese, succube di Israele; oppure l’escalation potrebbe continuare ad aumentare finché formeremo una dirigenza dal basso che possa iniziare a formulare delle richieste. Comunque il messaggio chiaro è che per ogni azione c’è una reazione e questa è la reazione della gioventù palestinese al  fallimento dei negoziati e alle continue aggressioni israeliane.

Finché gli scontri continueranno da parte dei giovani palestinesi, le forze di sicurezza israeliane risponderanno nell’unico modo che conoscono, cioè con la violenza. E’ insito nella loro struttura coloniale opprimere e opporsi ad ogni forma di resistenza palestinese. E’ una tattica istituzionalizzata e non una reazione alle manifestazioni palestinesi. Le vite dei coloni sono state turbate dai palestinesi, non si sentono più a loro agio nella loro opera di colonizzazione e ciò potrebbe avere uno di questi due risultati, potrebbero accentuare  la violenza contro i palestinesi (come vediamo attualmente), o capire che la colonizzazione non gli conviene economicamente o socialmente e questo potrebbe obbligarli a voler lasciare le loro colonie. La differenza tra i giovani palestinesi e i coloni israeliani è che i giovani palestinesi non hanno dietro di loro un appoggio, si sostengono uno con l’altro. D’altra parte i coloni hanno il sostegno dell’esercito israeliano e naturalmente del sistema giudiziario israeliano, che non li incolperà né li condannerà per le continue violenze perpetrate contro i palestinesi.

Quanto alle forze di sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese, non agiranno senza un ordine della dirigenza dell’Autorità Nazionale Palestinese. Attualmente stanno permettendo ai giovani palestinesi di scontrarsi con le forze di sicurezza israeliane non per un sincero appoggio al popolo palestinese, ma perché stanno attenti a che la rabbia  in piazza non si rivolga contro di loro. D’altro canto ho detto “permettono” ai giovani, perché l’Autorità Nazionale Palestinese ha ancora il potere di placare l’ira dei giovani che scendono in strada. Il silenzio dell’Autorità Nazionale Palestinese potrebbe benissimo essere un metodo per lasciare che i giovani che manifestano si stanchino invece di cercare di tranquillizzare le masse come fanno di solito. Quello che è orribile comunque è la possibilità che l’Autorità Nazionale Palestinese utilizzi lo spirito dei giovani in piazza come una merce di scambio con Israele per rafforzare la propria legittimità in Cisgiordania come l’unica autorità in grado di ottenere la calma e controllare le masse palestinesi e obbligare Israele a tornare al tavolo dei negoziati.

Stilato da Renee Lewis, Ehab Zahriyeh, Nadeem Muaddi e Nadia AbuShaban

(Traduzione di Amedeo Rossi)




I residenti di Gerusalemme est sentono di non avere più niente da perdere

Anche quando non sono d’accordo con chi lancia pietre, i palestinesi di Gerusalemme est dicono che la loro esistenza è costantemente minacciata.

di Amira Hass

Haaretz

Rami ha ottenuto la cittadinanza israeliana due anni fa. E’ uno studente nel mezzo dei suoi vent’anni, nato e abitante a Gerusalemme est. Avverso al lancio delle pietre, ha intrapreso una cosciente e autonoma scelta di “israelizzazione” fin dalla scuola superiore.

Rami (non è il suo vero nome) è arrivato alla conclusione che non sarebbe andato avanti nella vita senza imparare l’ebraico, familiarizzare con la cultura ebraica e addirittura farsi degli amici ebrei, e proseguire gli studi e cercare opportunità di lavoro attraverso le istituzioni israeliane. Ha inoltrato due richieste di cittadinanza al Ministero dell’Interno, che le ha respinte entrambe. Solo dopo aver pagato ad un avvocato una cospicua cifra che lo ha indebitato, ha ottenuto la cittadinanza.

Non è patriottismo israeliano ciò che ha motivato Rami a diventare cittadino. Come tanti palestinesi di Gerusalemme che sono riusciti o hanno provato ad ottenere la cittadinanza israeliana, lo ha fatto per poter studiare e vivere all’estero senza il timore di non ricevere il permesso di ritornare alla sua città e alla sua casa. “La nostra esistenza a Gerusalemme è costantemente minacciata”, dice Rami, che si definisce un arabo di Gerusalemme, piuttosto che un palestinese.

Variazioni su questo tema emergono in ogni conversazione con residenti di Gerusalemme est, specialmente nel corso degli attuali ben noti scontri tra polizia e giovani. Giorno e notte, ogni palestinese di Gerusalemme vive e respira il desiderio degli israeliani, che si percepiscono nelle politiche dello Stato, che loro lascino la città e se ne vadano all’estero o a Ramallah. In quanto residenti ma non cittadini, sono soggetti alle leggi di ingresso israeliane – come se avessero chiesto di andare là e non fossero stati annessi. La residenza fuori città – per studio, lavoro o soggiorno in Cisgiordania – li mette a rischio di perdere lo status di residenti di Gerusalemme ed essere espulsi, con l’approvazione dell’Alta Corte.

La costante minaccia di Israele alla loro esistenza nella città è un punto cardine per capire la situazione di Gerusalemme est, anche se c’è chi dice – come la psicologa Rana Nashashibi, il dott. Muhammad Jadallah e Nasser Kos dell’associazione dei Prigionieri Palestinesi – che chiunque volesse e potesse andarsene lo ha già fatto. Così è. I 303.000 palestinesi che vivono a Gerusalemme est (il 75% di loro sotto la soglia di povertà) non se ne andranno, nonostante le pressioni e l’oppressione.

Sotto molti aspetti, Muhammad (ha chiesto di non rivelare il suo nome completo) è l’opposto di Rami, benché abbiano la stessa età. Ha tirato pietre, è stato ferito, catturato, arrestato e bandito dalla moschea di Al-Aqsa per un anno. La sua casa si trova a circa 50 metri da una delle entrate di Haram al-Sharif (Monte del Tempio). Al contrario di Rami, Muhammad ha dei dubbi sul legame ebreo con quel luogo.

Se una volta vi era un tempio, Allah ha voluto che fosse distrutto, e gli angeli hanno posto le fondamenta per una moschea”, ha detto questa settimana con convinzione.

Invece Rami ha scoperto in giovane età di non credere in dio, però entrambi parlano delle loro esperienze con il razzismo israeliano.

Gerusalemme est chiude alle cinque. Se vogliamo uscire un po’, è impossibile nella parte occidentale della città. Non è sicuro trovarsi là dopo le otto o le nove di sera. Quelli di destra danno la caccia ed inseguono chiunque identifichino come arabo, e di giorno qualunque poliziotto di frontiera può fermarti ed umiliarti”, dice Muhammad. “Perciò noi andiamo a Ramallah e a Betlemme.”

Ma la strada è piena di posti di blocco militari e di ingorghi di traffico a causa di essi, e quando riescono ad arrivare, la loro invidia è acuta. Nelle enclaves dell’Autorità Palestinese non si sperimenta ogni momento l’oppressione israeliana, come accade a Gerusalemme est. Là non c’è il timore di venire aggrediti. Nello scorso anno, dice Rami, tutti a Gerusalemme est hanno avvertito il razzismo e la discriminazione in due principali situazioni: in contrasto con le tempestive condanne comminate a palestinesi, i processi agli imputati per aver bruciato il giovane Muhammad Abu Khdeir a metà del 2014 sono ancora in corso. I palestinesi di Gerusalemme est traggono la conclusione che l’intenzione sia di emettere sentenze risibili. In secondo luogo, “una decina di palestinesi di Gerusalemme sono stati arrestati e processati per dei post su Facebook, mentre tutti sanno che i post razzisti degli ebrei non provocano arresti o processi”, dice Rami.

Rami non chiede ai ragazzi del vicinato che tirano pietre perché lo fanno, in quanto porre una simile domanda lo farebbe considerare uno fuori dal giro. Ma la verità è che lui si sente un estraneo nell’affollato quartiere in cui la sua famiglia si è trasferita 15 anni fa, quando lui era alle elementari, a causa dell’aumento dei prezzi di affitto nel loro vecchio quartiere. La costante minaccia all’esistenza dei palestinesi nella città si manifesta non solo nel precario status di residenza, ma anche della grave carenza di alloggi. Questo non avviene dal nulla. Israele ha espropriato circa un terzo delle riserve di terra che erano annesse a Gerusalemme nel 1967 ai loro proprietari palestinesi a beneficio dei quartieri ebraici e dei programmi pubblici al servizio soprattutto della popolazione ebraica. Sul terreno rimanente sono state imposte rigide restrizioni all’edificazione, probabilmente per preservare il “carattere rurale” dei quartieri, e nel centro di essi vi sono dei terreni destinati a costruzioni fortificate per gli ebrei.

La paura di perdere lo status di residenza e la costruzione del muro dopo il 2000 hanno riportato in città migliaia di persone che avevano migliorato la propria situazione abitativa trasferendosi nei quartieri adiacenti, come Bir Naballah e A-Ramm, che si trovano fuori dalla zona annessa a Gerusalemme. Il risultato è un’alta densità di popolazione, esorbitanti prezzi di acquisto o di affitto delle case, edificazioni senza permesso, ordini di demolizione e demolizioni di case.

Nasser Kos ricorda un ragazzino di 12 anni che al ritorno da scuola ha trovato la sua casa demolita. “Ha gridato ‘vendetta’ in modo che tutti potessero sentirlo e poi è andato a tirare una bomba incendiaria”, dice Kos. “Oggi ha 18 anni ed è ancora in prigione.” Anche chi non è d’accordo con la sua azione lo può capire. Persino Rami comprende quelli che tirano pietre.

Kos dice di essere diventato un militante di Fatah 30 anni fa, in modo che i suoi figli potessero vivere meglio. Non poteva mai immaginare che le loro vite non avrebbero avuto alcuna prospettiva né personale né politica di miglioramento o cambiamento.

Il ragazzo vede picchiare sua madre, vede il vecchio sulla via per Al-Aqsa colpito da un poliziotto”, dice Kos. “Non può sopportarlo. Dà sfogo alla sua rabbia.” Quindi i bambini e i giovani che tirano pietre finiscono per rappresentare tutta la popolazione.

Tutti noi sentiamo che abbiamo raggiunto il limite della nostra capacità di sopportare i sistematici attacchi contro di noi a Gerusalemme”, dice Nashashibi. “Israele è riuscita a far diventare le difficoltà della vita un problema quotidiano per ogni residente di Gerusalemme. Ogni conversazione inizia con ‘hai sentito lo sparo, ero soffocato dal gas, non ho potuto arrivare alla città vecchia, ho ricevuto una multa per niente, un funzionario comunale mi ha trattato sgarbatamente, il ragazzo ha abbandonato la scuola perché il livello è scarso e non ci sono i soldi per una scuola privata, la città non ripara il sistema delle acque di scarico.”

Lei è convinta che “se non fossimo così profondamente frustrati, andremmo tutti in strada.” Gli adulti hanno motivazioni concrete che impediscono loro di esprimere la propria continua rabbia, o come dice Nashashibi: “I bambini ed i giovani non sono condizionati dalle valutazioni e dalla paura degli adulti che non ci si guadagna niente, che si è ormai tentato di tutto e nulla è cambiato.”

La nuova politica israeliana di repressione delle manifestazioni e di punizioni più severe avrà effetto?

La morte non ci spaventa”, dice Kos. “Io sto parlando con te e sono morto. Io muoio mentre vivo. Noi moriamo ogni giorno. Perciò non abbiamo niente da perdere. Ecco perché i giovani sono pronti a morire.”

Sia Jadallah che Ziyyad Hammouri, direttore del Centro per i Diritti Sociali ed Economici di Gerusalemme, dicono che le autorità hanno già inasprito le misure punitive. “Anche persone che non hanno partecipato alle manifestazioni e al lancio di pietre sono state gravemente ferite dai colpi israeliani”, dice Hammouri. “Sono state comminate multe ed è stata cancellata l’assicurazione per le famiglie dei prigionieri. Quindi quale effetto deterrente potrà avere inserire queste misure in una legge?”

Nashashibi dice: “Quel che gli israeliani non capiscono è che nessun ragazzo tra i 12 e i 20 anni di età pensa che quello che è successo ad altri succederà a lui. Hanno la mentalità da “superpotere”. E’ tipico di quella fascia di età. Pensano che ciò che è successo agli altri (arresto, ferimento) è successo perché non hanno fatto le cose abbastanza bene, mentre loro possono fare meglio.

I genitori che hanno paura per i propri figli, per le multe o per la perdita di benefici sociali non possono fermare i ragazzi perché, secondo Nashashibi, “ il regime di discriminazione israeliano ha talmente indebolito l’istituzione familiare palestinese, l’autorità del padre, che essi per lo più non hanno influenza sui figli. Padri che non riescono a guadagnare il necessario per vivere, genitori picchiati dalla polizia di fronte ai loro figli, coppie che si sono sposate quando erano giovani e non lavorano. Tutto ciò ha condotto all’assenza di una figura autorevole all’interno della famiglia.”

Da un lato non vi è una famiglia forte. Dall’altro, non c’è un’organizzazione politica che coordini il lancio di pietre e le dimostrazioni, o che ordini di smettere. La gente ha perso fiducia nelle organizzazioni politiche, inclusa Fatah, dice Kos. I giovani decidono per conto loro.

Il poliziotto che picchia, il colono che visita la moschea di Al-Aqsa o controlla Silwan (quartiere alle porte di Gerusalemme, ndt.) e l’ispettore comunale che emette un ordine di demolizione sono quelli che hanno organizzato i ragazzi e li hanno mandati a tirare pietre”, dice. Rifiuta l’accusa che Fatah non sia interessata alla lotta e che i suoi membri pensino solo ai propri salari dell’Autorità Palestinese. La prova è che i segretari di Fatah nella città – precedente ed attuale – sono stati arrestati.

Molti dei dimostranti che dicono di manifestare per Al-Aqsa, compresi quelli che si sono scontrati coi poliziotti all’interno del cortile e della moschea, non sono particolarmente religiosi. “Alcuni di loro non sanno neanche come si prega”, dice Jadallah, che lavora in una clinica sul monte.

Gli arresti mostrano che non vi è un’associazione specificamente religiosa o organizzata”, concorda Kos. “La moschea di Al-Aqsa attira chiunque – il musulmano e il comunista, il militante e il commerciante, il tossicomane e l’insegnante.”

Diversamente dalle enclaves dell’Autorità Palestinese in Cisgiordania e Gaza, non c’è separazione tra i giovani e l’occupazione israeliana e non vi è luogo in cui sia possibile far finta che l’occupazione non esista. Non ci sono forze di sicurezza dell’Autorità Palestinese che impediscano che i giovani palestinesi si scontrino con la polizia israeliana, come accade a Betlemme e Nablus.

Forse c’è qualcosa di più sano in questo”, conclude Nashashibi, “perché puoi sfogare la tua rabbia e dimostrare che non c’è nulla di normale in una città occupata.”

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




L’indice dei titoli bancari di Tel Aviv ha subito un ribasso in seguito al rapporto del gruppo di esperti sulle colonie

 + 972

di Noam Sheizaf

Il Consiglio Europeo per le Relazioni con l’Estero pubblica un documento in cui si raccomanda all’UE di assumere misure contro le istituzioni finanziarie che fanno affari con la Cisgiordania [occupata]. I titoli bancari di Israele calano bruscamente in seguito alla diffusione sui media israeliani di un articolo della Reuters sul rapporto.

Lo scorso martedì il grado di nervosismo di Israele riguardo a potenziali future sanzioni contro aziende locali che fanno affari nelle colonie è stato evidente per chiunque. L’ ampia diffusione di un rapporto del gruppo di esperti della UE sull’argomento ha provocato un ribasso dell’indice dei titoli bancari di Tel Aviv di 2.3 punti in meno di un’ora (un totale di 2.46 punti per la giornata).

Il rapporto, pubblicato dal Consiglio Europeo per i Rapporti con l’Estero, comprende una serie di raccomandazioni tese a creare una distinzione tra i legami formali UE-Israele e quelli che implicano una complicità nelle attività delle colonie in Cisgiordania. Viene posto particolarmente in rilievo il sistema bancario (leggere l’intero rapporto).

Secondo gli autori del rapporto, Hugh Lovatt e Mattia Toaldo, “fare una distinzione tra le attività di Israele e quelle delle sue colonie all’interno delle relazioni bilaterali dell’UE è uno dei più potenti strumenti a disposizione dell’UE per mettere in discussione la struttura di incentivi su cui poggia il sostegno di Israele allo status quo”.

Il rapporto raccomanda alla Commissione Europea di “dar mandato alle sue direzioni generali di controllare i loro attuali rapporti con Israele per valutare se si differenzia Israele in quanto tale dalle colonie.” Si pone un particolare accento sul sistema bancario, che svolge attività finanziarie nelle colonie – soprattutto mutui e prestiti – ma ha anche parecchi interessi in Europa.

Il Consiglio Europeo per i Rapporti con l’Estero non ha potere formale all’interno delle istituzioni dell’Unione Europea, ma ha provocato ugualmente un notevole allarme in Israele. Un dispaccio della Reuters sul rapporto è stato ripreso dai media locali e pubblicato da Ynet alle 13.03. Subito dopo l’indice della borsa di Tel Aviv ha subito un calo. I media israeliani hanno velocemente messo in relazione il ribasso con le nuove voci sul rapporto.

Il ribasso dei titoli bancari del 22 luglio 2015 (Fonte: Calcalist.co.il)

Le tre maggiori banche israeliane – Hapoalim, Leumi e Discount – hanno perso ciascuna il 2.6-2.7%. Hanno anche dominato la giornata per volume di scambi.

Fonti all’interno delle banche hanno ignorato il rapporto, asserendo che esso non ha valore formale. Il Ministro degli Esteri israeliano ha evitato ogni commento sull’argomento per la stessa ragione. Tuttavia il mercato ha mandato un segnale diverso. E mentre le azioni possono tornare a salire domani, l’inatteso calo ha rivelato quanto il mondo degli affari israeliano sia preoccupato riguardo alle misure internazionali contro l’occupazione, soprattutto quelle relative al sistema bancario.

Comunque, una fonte interna al sistema bancario ha dichiarato al giornale finanziario Globes che questa potrebbe rivelarsi la più grave minaccia alle banche israeliane – anche peggiore della riforma che il governo intende attuare.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Perché i palestinesi combattono: la logica della vita e della morte a Gaza

Aspettarsi che Gaza non resista è un invito a Israele perché completi l’umiliazione del popolo palestinese, per utilizzare la Striscia per guadagni di carattere economico e per trasformare uomini, donne e bambini in manodopera a basso costo, che cerca di sbarcare il lunario garantendosi solo la sopravvivenza.

 – Nenanews

di Ramzi Baroud – Counterpunch

Si sta preparando un altro scontro tra Israele e il movimento di resistenza palestinese Hamas a proposito della liberazione di Avraham Mengitsu, un cittadino israeliano che, secondo fonti militari israeliane, “è entrato a Gaza” il 7 settembre 2014. Le circostanze dell’ingresso di Menghitsu a Gaza rimangono dubbie, soprattutto da quando il leader politico di Hamas Khaled Meshaal ha negato che l’ala militare di Hamas stia tenendo in ostaggio il cittadino israeliano.

Secondo il ministero della Difesa israeliano anche un altro israeliano è stato sequestrato a Gaza. Un divieto di parlare della sparizione di Mengitsu è appena stato revocato, ma un altro rimane in vigore a proposito dell’altro, supposto, detenuto israeliano. Secondo fonti ufficiali israeliane negoziati indiretti per il loro rilascio devono ancora iniziare. Per Hamas, che, secondo Meshaal, è stata contattata da Israele tramite interlocutori europei, nessuna discussione sarà possibile finché Israele non avrà liberato 71 palestinesi. Si tratta del numero di palestinesi che sono stati nuovamente arrestati poco dopo essere stati liberati nel 2011 in seguito allo scambio di prigionieri tra Hamas e Israele. All’epoca, uno scambio di prigionieri ha permesso la liberazione di 1.027 palestinesi (477 dei quali considerati membri di Hamas) e di Gilad Shalit, un soldato israeliano, catturato e tenuto prigioniero da combattenti di Hamas per 5 anni. La nuova prospettiva di negoziati permetterà ad Hamas di sollevare la questione della violazione dell’ultimo accordo per lo scambio di prigionieri da parte di Israele. Poiché ha arrestato di nuovo dei prigionieri liberati, il futuro accordo con Israele apparirebbe poco serio e come una misura temporanea per garantire gli immediati interessi di Israele, senza un totale e incondizionato impegno rispetto alla libertà dei prigionieri palestinesi appena liberati. Siccome il potere occupante ha accesso illimitato ai Territori Occupati palestinesi a Gerusalemme e in Cisgiordania, Israele può arrestare qualunque palestinese accusato di “terrorismo”, senza prove e senza un serio e giusto procedimento. Gli sforzi israeliani di stroncare qualunque forma di resistenza, armata o di qualunque altro genere, è ampiamente appoggiato dall’Autorità Nazionale Palestinese, i cui scagnozzi degli apparati di sicurezza sono totalmente addestrati ed equipaggiati per schiacciare ogni forma di dissenso in Cisgiordania. Una recente retata di arresti, che ha preso di mira principalmente simpatizzanti di Hamas ed altre voci dell’opposizione, ne è l’ultima prova. Molti scettici hanno messo in dubbio lo scambio di prigionieri del 2011. Qualcuno ha chiesto: “Che senso ha garantire la liberazione di centinaia di prigionieri se questi possono essere arrestati di nuovo da Israele quando gli pare?” I palestinesi si trovano a dover affrontare lo stesso dilemma di ogni movimento di liberazione moderno. Anche i nativi americani hanno dovuto fare i conti con lo stesso dilemma di fronte al genocidio e alla distruzione. Un intellettuale con le migliori intenzioni recentemente mi ha detto che i palestinesi dovrebbero lasciare le armi, smantellare le loro istituzioni e permettere a Israele di occupare Gaza, il che a sua volta metterebbe in chiaro che Israele deve rispettare le regole che riguardano i territori occupati. Ma Israele ha accolto gli impegni della Quarta Convenzione di Ginevra o qualunque altra legge internazionale riguardo ai diritti di una nazione occupata? Israele sta violando più risoluzioni dell’assemblea generale e del Consiglio di sicurezza ONU di qualunque altra nazione sulla terra, e preoccuparsi delle questioni relative alla popolazione civile occupata non è mai stata una priorità israeliana. La guerra di Israele contro Gaza di un anno fa ha causato più devastazioni che qualunque altra guerra in passato. Un rapporto dell’ONU recentemente pubblicato, mentre ha condannato Israele, ha anche denunciato i palestinesi per aver preso di mira i civili. Benché ci si aspettasse che il rapporto avrebbe condannato il lancio casuale di razzi artigianali su aree civili, la narrazione, nel suo complesso, mette sullo stesso piano Israele, un potente aggressore e occupante, e i palestinesi, che sono in una costante condizione di autodifesa. Eccetto il rapporto dell’ONU, insieme a pochi altri, così come il timido tentativo da parte dell’Autorità Nazionale Palestinese di chiedere il coinvolgimento della Corte Penale Internazionale (CPI) per indagare sui crimini di guerra israeliani, ben poco è cambiato a Gaza. Le sofferenze abbondano, un aiuto insufficiente riesce ad entrare permettendo alla gente soltanto di sopravvivere, la ricostruzione è molto ridotta, i blackouts elettrici sono lunghi e frequenti, e l’assedio rimane in piedi, più feroce che mai. Oltretutto l’agenzia di aiuto dell’ONU, UNRWA, che si occupa del benessere dei palestinesi, ha un passivo di 101 milioni di dollari, e pochissimi donatori offrono fondi per salvarla. Il ragionamento vano, secondo cui “il mondo non sarebbe rimasto inerme a guardare la guerra israeliana di 51 giorni contro Gaza” (la cosiddetta operazione “Margine protettivo”), era solo quello, un ragionamento vano, simile a alla pia illusione che è seguita alla cosiddetta operazione “Piombo fuso” del 2008-09. Il prezzo di morte tra i palestinesi nelle due guerre è stato di 4.000 persone , per la maggior parte civili, un gran numero dei quali bambini. Ma le sofferenze, naturalmente, vanno oltre i 4.000 morti e il lutto delle loro famiglie, poiché decine di migliaia sono stati feriti o mutilati, le già misere infrastrutture della Striscia sono state distrutte e il trauma collettivo è senza precedenti. La giustificazione di Israele, secondo cui questa azione è stata motivata dalla necessità di proteggere i civili nelle zone di confine è quanto meno fragile, in quanto i 69 o 73 israeliani uccisi durante l’ultima guerra erano soldati, che sono stati uccisi mentre erano impegnati ad invadere la Striscia assediata. Ma è vero che, se i palestinesi non avessero resistito, Israele non avrebbe utilizzato così tanto potere di fuoco? E avrebbe forse trattato un po’ meglio i palestinesi? La resistenza armata ha raggiunto il suo minimo in Cisgiordania e a Gerusalemme, dove si trova la maggior parte dell’esercito israeliano e dove le colonie ebraiche, illegali e fortificate, sono in costante espansione. Persino chi lancia pietre e dimostranti disarmati vengono regolarmente uccisi e feriti dall’esercito e dai coloni ebraici. E mentre l’Autorità Nazionale Palestinese sta giocando un ruolo cruciale nel controllo della popolazione, Israele sta accumulando ricchezze grazie all’occupazione. Quella israeliana in Cisgiordania non solo è l’occupazione meno onerosa tra tutte quelle illegali in tempi moderni, è anche la più conveniente. Aspettarsi che Gaza non resista è un invito ad Israele per completare la sua umiliazione del popolo palestinese, per utilizzare la Striscia per ricavarne benefici economici (per esempio, il gas naturale sulle coste e impianti balneari segregati su base razziale, ecc.) e trasformare i suoi uomini, donne e bambini in manodopera a buon mercato, alla ricerca di un modo per sopravvivere. In effetti, così è stato per parecchi anni, dal 1967 fino al cosiddetto disimpegno nel 2005. Il fallimento della comunità internazionale nell’agire dopo l’ultimo episodio dei massacri a Gaza significa che i palestinesi sono soli, almeno per il momento. I loro fratelli arabi sono presi dalle loro disgrazie, o stanno apertamente tramando contro la sottile ma risoluta Striscia. Per cui, anche se i conti della resistenza non tornano -che si tratti di uno scambio di prigionieri non garantito o di un terrificante bilancio di morti – i palestinesi di Gaza continueranno a resistere. I loro “fedayn” (combattenti per la libertà) hanno fatto così, dalla sua nascita nel 1948 fino all’attuale generazione, che rimane vigile sui confini nel 2015. Non si tratta di una questione di strategia, ma un atto dominato da una semplice logica che essi seguono: o una vita dignitosa o una morte onorevole.

Il dottor Ramzy Baroud ha scritto per 20 anni sul Medio Oriente. E’ un editorialista quotato a livello internazionale, un consulente dei media, autore di parecchi libri e fondatore di PalestineChronicle.com. Il suo ultimo lavoro è “Mio padre era un combattente per la libertà: la storia non raccontata di Gaza (Pluto Press, London)”. Il suo sito web è: ramzybaroud.net .

(traduzione di Amedeo Rossi)




Attacchi di Israele contro bambini palestinesi

Mondoweiss


Un rapporto delle Nazioni Unite elenca gli attacchi di Israele contro i bambini palestinesi, ma lascia Israele fuori dalla “lista della vergogna” di chi abusa dei diritti dei bambini

 

Allison Deger 12 giugno, 2015

 

Mesi fa dei giornalisti hanno fatto trapelare che Israele verrebbe tenuto fuori dalla lista delle Nazioni Unite dei peggiori violatori dei diritti umani dei bambini nel 2014, grazie all’accanita attività di lobby di Israele e degli Stati Uniti. The Guardian ha riferito che delle autorità hanno fatto telefonate alle Nazioni Unite, il Jerusalem Post ha ammesso che Netanyahu ha parlato personalmente con Ban Ki-moon e Foreign Policy ha scoperto che l’amministrazione Obama ha inviato in missione l’ambasciatrice Samantha Power – tutto per far pressione sulle Nazioni Unite per modificare la bozza.

“Le alte autorità si sono piegate alle pressioni politiche”, ha detto al Guardian un funzionario in marzo, “Come risultato, è stato dato un chiaro messaggio che Israele non sarà nella lista”.

Eppure Israele figura distintamente nel rapporto pubblicato ieri e viene additato come uno dei peggiori autori di abusi dei diritti dei bambini nel mondo con “conseguenze devastanti” sui minori. Il rapporto ha segnalato che lo scorso anno l’esercito israeliano ha ucciso 200 bambini in più a Gaza rispetto al numero totale dei bambini uccisi in Siria. Comunque Israele – secondo quanto riferito dai media ad inizio settimana, quando sono circolate le anticipazioni della bozza finale – è stato escluso dalla lista nell’allegato, una lista nera dei principali soggetti che compiono abusi sui bambini.

 

                                                                                                                                     Israele e lo Stato di Palestina

  1. Nel 2014 la situazione di sicurezza nello Stato di Palestina si era molto deteriorata, con un’altra escalation di ostilità a Gaza e un notevole aumento della tensione in tutta la Cisgiordania, con conseguenze devastanti per i bambini. I bambini palestinesi ed israeliani continuavano ad essere danneggiati dall’occupazione militare, dalla guerra e dall’assedio.
  2. Il periodo considerato ha visto un drammatico aumento del numero dei bambini uccisi e feriti, specialmente a Gaza. Almeno 561 bambini (557 palestinesi e 4 israeliani) sono stati uccisi e 4.271 feriti (4.249 palestinesi e 22 israeliani).
  3. In Cisgiordania sono stati uccisi 13 ragazzi palestinesi, tra gli 11 e i 17 anni. Dodici sono stati uccisi dai proiettili delle forze di sicurezza israeliane (11) e da pallottole di gomma (1) durante dimostrazioni, indagini militari e operazioni di arresto, ed un ragazzo è stato ucciso dai coloni. Il 15 maggio due ragazzi palestinesi di 16 e 17 anni sono stati colpiti ed uccisi con proiettili nel corso di scontri con soldati israeliani vicino al check point di Beituniya. Secondo alcune dichiarazioni, non sembra che i bambini uccisi dalle forze di sicurezza israeliane costituissero una minaccia letale. Il 19 marzo un ragazzo è stato colpito a morte dalle forze di sicurezza israeliane mentre attraversava il confine della Cisgiordania. In un altro caso, un bambino palestinese di dieci anni è stato colpito a morte alla schiena da proiettili delle forze di sicurezza israeliane nel campo di Al- Fawwar. Il governo israeliano riferisce che sono state o sono tuttora in corso indagini su questi casi.

Nonostante l’inserimento nel rapporto, i gruppi per i diritti umani criticano la rimozione di Israele dalla ‘lista della vergogna’. “Rimuovendo l’esercito israeliano dalla ‘lista della vergogna’, il Segretario Generale Ban Ki-moon ha dato un tacito assenso alle forze armate israeliane per portare avanti impunemente gravi violazioni nei confronti dei bambini”, ha detto Khaled Quzmar, direttore generale di Defense of Children International Palestine

Ciò che è incluso nel rapporto sono cinque pagine nel documento principale che riportano 35 distinti incidenti, sotto il titolo di “Israele e lo Stato di Palestina”. E’ la sezione più lunga su 22 regioni geografiche esaminate, più lunga delle schede su Iraq e Yemen messe insieme, due paesi coinvolti in combattimenti contro l’organizzazione del terrorismo islamico e in bombardamenti delle forze di coalizione.

Nella sola Gaza, le Nazioni Unite hanno documentato l’uccisione di 557 bambini, il terzo maggior numero di minori uccisi in una singola regione, dopo Afghanistan e Iraq, ma davanti alla Siria. Dei 4.249 bambini feriti, il 70% aveva meno di dodici anni. Inoltre l’esercito israeliano ha distrutto o colpito 543 scuole, compresi 274 asili infantili. Le Nazioni Unite hanno evidenziato che sono state danneggiate più scuole a Gaza durante la guerra estiva di 51 giorni che in tutti i paesi del mondo nell’intero 2014.

“Il numero delle vittime tra i bambini supera il numero complessivo dei bambini palestinesi uccisi durante i due precedenti attacchi”, ha rilevato l’indagine, aggiungendo “notizie di civili palestinesi e beni civili direttamente colpiti in circostanze in cui non vi era lancio di razzi né attività di gruppi armati nelle vicinanze” – ivi compresa una quantità di droni che hanno ucciso bambini.

In Cisgiordania, “I bambini uccisi dalle forze di sicurezza israeliane non sembravano costituire una minaccia letale”, ha scritto l’ONU sulla vicenda dei 13 minori uccisi dai colpi dell’esercito israeliano.

A Gerusalemme erano detenuti 700 minori e 151 nella Cisgiordania al momento della conclusione dell’indagine nel dicembre 2014. L’ONU ha inoltre ottenuto la testimonianza giurata di 122 minori precedentemente incarcerati, che furono “soggetti a maltrattamenti, come pestaggi, bastonate, bendature, calci e abusi e minacce verbali di violenza sessuale.”

Le Nazioni Unite hanno anche accertato che militanti di Gaza erano responsabili dell’uccisione di quattro bambini israeliani e 13 bambini palestinesi nel 2014 a causa dei razzi. Tre scuole israeliane sono state danneggiate. C’erano anche cinque casi confermati di reclutamento da parte di gruppi militanti di bambini palestinesi in combattimento, in seguito uccisi dall’esercito israeliano.

Il rapporto non ha rilevato che l’Autorità Palestinese, al governo in Cisgiordania, abbia provocato alcuna uccisione di bambini nel 2014.

Ogni anno l’ONU redige un rapporto sui paesi con il più alto numero di uccisioni ed abusi fisici e sessuali. Alla fine del documento un allegato elenca i principali autori degli abusi, un insieme di forze militari statali e gruppi militanti descritti nelle precedenti schede regionali. Normalmente i soggetti elencati nell’allegato coincidono con i gruppi dettagliati nel rapporto principale, mentre Israele costituisce una rilevante eccezione.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Palestinese in sciopero della fame ospedalizzato e legato con la forza

Khader Adnan Musa, al nono periodo di detenzione amministrativa, ha fatto lo sciopero della fame per un mese.

 

Di Amira Hass, 9 giugno 2015

 

Haaretz

 

Un detenuto amministrativo palestinese che è stato in sciopero della fame durante lo scorso mese è stato ospedalizzato con la forza ed incatenato al letto.

Khader Adnan Musa si trova nell’ospedale Assaf Harofeh di Tzrifin con un braccio e una gamba legati al letto 24 ore al giorno e tre poliziotti giorno e notte nella sua stanza, secondo quanto hanno riferito due attivisti israeliani contro l’occupazione, che lo hanno visitato venerdì.

Musa, che è stato posto in detenzione amministrativa per la nona volta 11 mesi fa, ha iniziato lo sciopero della fame per protestare contro la sua prolungata detenzione senza processo. Tre anni fa, durante un altro periodo di detenzione amministrativa, ha ottenuto il rilascio dopo uno sciopero della fame durato 66 giorni. In tutto, ha passato più di sei anni nelle prigioni israeliane.

Il servizio di sicurezza Shin Bet sostiene che egli è un membro attivo della Jihad Islamica, un’organizzazione terroristica.

Secondo il suo avvocato, Jawad Boulus, Musa, che rifiuta di sottoporsi ad esami medici, si è opposto alla propria ospedalizzazione perché sapeva che sarebbe stato ammanettato al letto. Boulus lo ha visitato mercoledì scorso, quando si trovava ancora nella clinica della Polizia Penitenziaria Israeliana a Ramle.

Il regolamento della Polizia Penitenziaria vieta di incatenare un prigioniero tranne nel caso in cui la guardia carceraria tema che egli possa fuggire o aiutare altri a fuggire, o provocare danni a persone o oggetti, danneggiare o distruggere delle prove, o riceva o spedisca un oggetto passibile di essere usato per commettere un crimine o minacciare la disciplina nel suo luogo di custodia. Però, alla domanda da parte di Haaretz di quale tra queste infrazioni la guardia temesse che Musa avrebbe commesso, il portavoce della Polizia Penitenziaria Israeliana Sivan Weizman non ha fornito spiegazioni.

Weizman ha detto che il detenuto è stato trasferito in ospedale in modo che la sua situazione potesse essere monitorata. E’ stato ricoverato in ospedale in base alla decisione del medico. Si tratta di un detenuto di sicurezza che è sorvegliato secondo regolamento, in base alle circostanze e alla adeguata valutazione della situazione.

Una portavoce dell’ospedale Assaf Harofeh ha detto che le decisioni sulla contenzione dei prigionieri sono di esclusiva competenza della Polizia Penitenziaria. Ha aggiunto che loro cooperano con la Polizia Penitenziaria come da regolamento.

Sia Boulus che gli attivisti israeliani hanno riferito che Musa è pienamente cosciente e vitale, benché I media palestinesi abbiano riportato il contrario. Comunque, ha aggiunto Boulus, Musa ha perso molto peso.

Musa potrebbe essere presto affiancato da un’altra persona in sciopero della fame, il segretario generale del Fronte per la Liberazione della Palestina, Ahmad Saadat, che sta scontando una sentenza di 30 anni per il suo ruolo nell’assassinio dell’ex ministro Rehavam Zeevi. Saadat domenica ha informato sia i suoi avvocati che la Polizia Penitenziaria che avrebbe iniziato uno sciopero della fame il 19 giugno, un anno dopo da che la sua famiglia ebbe il permesso di fargli visita per l’ultima volta: questo è stato riferito ad Haaretz dagli avvocati Boulus e Sahar Francis.

Francis ha detto che lo sciopero della fame di Saadat ha lo scopo di protestare non solo per la mancanza delle visite dei suoi famigliari, ma anche per ciò che molti prigionieri lamentano come ripetute violazioni da parte della Polizia Penitenziaria degli accordi che posero fine allo sciopero della fame di massa dei prigionieri palestinesi nel 2012.

Lo sciopero della fame del 2012 fu indetto per protestare contro il divieto delle visite dei famigliari, i prolungati periodi di isolamento ed il largo uso della detenzione amministrativa. Ma secondo Saadat non vengono applicati né gli accordi scritti né quelli orali raggiunti a quel tempo. Tuttora i prigionieri vengono mandati in isolamento, a centinaia di prigionieri vengono negate le visite dei famigliari ed il numero dei detenuti amministrativi è in aumento. Attualmente circa 450 palestinesi sono trattenuti senza processo.

Intanto, secondo Addameer, l’Associazione per l’Appoggio ai Prigionieri e per i Diritti Umani, lo Shin Bet e l’esercito israeliano lunedì hanno arrestato una dottoressa palestinese-americana, Sabreen Abu Sharar, che ha studiato in Egitto. Un tribunale l ‘ha posta in custodia cautelare per sette giorni.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)