Una tiratina d’orecchi ai soldati che hanno ucciso un palestinese-americano: l’amministrazione Biden ‘non è soddisfatta’

Yumna Patel

7 febbraio 2022 – Mondoweiss

L’amministrazione Biden ha richiesto una ” approfondita indagine penale e (l’assunzione della) piena responsabilità” dopo l’inchiesta dell’esercito israeliano sulla morte di Omar Asaad, palestinese con cittadinanza americana. 

La scorsa settimana l’esercito israeliano ha concluso la propria indagine sulla morte di Omar Asaad, un ottantenne con doppia cittadinanza palestinese-americano che è stato ucciso a gennaio nel corso di un violento raid israeliano contro la sua città natale nella Cisgiordania occupata. 

Il 12 febbraio Asaad ha avuto un infarto dopo esser stato trascinato fuori dalla sua auto nel cuore della notte da soldati israeliani che l’hanno poi legato, imbavagliato e lasciato per ore al freddo in un magazzino abbandonato. 

Nella sua indagine interna, arrivata dopo crescenti pressioni da parte di funzionari USA, l’esercito ha concluso che la morte di Asaad è stata un “evento serio e grave risultante da fallimento morale e decisioni errate da parte dei soldati.”

Nel riepilogo dell’inchiesta l’esercito afferma che Asaad è stato fermato nel “quadro” di “attività di controterrorismo” ad Jiljilya, sua città natale nella Cisgiordania settentrionale. 

Sostenendo che Asaad non avesse con sé un documento di identità e si “fosse rifiutato di cooperare con i controlli di sicurezza,” l’esercito dice che i soldati hanno “risposto” ammanettandolo e imbavagliandolo per “un breve lasso di tempo.” L’esercito afferma che dopo mezz’ora è stato “rilasciato e liberato da manette e bavaglio”.

Però alcuni testimoni, tra cui quelli che erano stati ammanettati accanto a lui, al momento avevano detto che Asaad era stato trascinato e picchiato dai soldati, cosa di cui non c’è traccia nella relazione dell’esercito. Alcune persone del posto sostengono che quando Asaad è stato trovato giaceva sul pavimento ancora bendato e legato. 

L’indagine ha determinato che al suo rilascio i soldati non avevano notato segni di sofferenza o altri indicatori sospetti riguardo alle condizioni di salute di Assad. I soldati hanno ritenuto che Assad fosse addormentato e non volevano svegliarlo,” dice la relazione dell’esercito. 

I due palestinesi fermati con lui hanno detto al Washington Post che Asaad era “privo di sensi e non respirava più quando i soldati se ne sono andati.”

Nella dichiarazione dell’esercito si dice che la morte di Asaad viola “uno dei valori fondamentali dell’IDF [Forze di Difesa israeliane, l’esercito israeliano, ndtr.]: proteggere la vita umana.”

Nel 2021 l’esercito israeliano ha ucciso 341 palestinesi, inclusi 86 minori, e nel 2022 fino ad oggi ha ucciso sei palestinesi. 

Parole vuote’

Nelle conclusioni dell’inchiesta l’esercito israeliano dice di “rammaricarsi profondamente per la morte” di Asaad che definisce “un chiaro errore di giudizio morale.” 

L’esercito afferma che il comandante responsabile dell’unità sarà “redarguito,” e che il plotone coinvolto e ai comandanti della compagnia “non verranno assegnati incarichi di comando per due anni.”

Tuttavia il Dipartimento di Stato USA ha detto di non essere soddisfatto delle conclusioni dell’esercito né dei provvedimenti disciplinari presi contro alcuni soldati e che si aspetta che gli ufficiali israeliani svolgano una “esaustiva indagine penale.” 

Gli Stati Uniti si aspettano un’accurata indagine penale e una piena assunzione di responsabilità in questo caso e gradirebbero ricevere ulteriori informazioni relative a queste iniziative il prima possibile,” dice in una dichiarazione il portavoce del Dipartimento di Stato Ned Price.

E mentre l’esercito sostiene che l’uccisione di Asaad vada “contro i valori dell’IDF,” B’Tselem, gruppo israeliano per i diritti umani, fa notare che l’esercito israeliano raramente ritiene i propri soldati responsabili delle violazioni dei diritti umani contro palestinesi nei territori occupati. 

Persino quando i militari sono ripresi in filmati mentre compiono gravi violazioni dei diritti umani è molto raro che vengano condannati a pene detentive. B’Tselem condanna l’inchiesta dell’esercito dicendo che: “‘fallimento morale’ è solo un’espressione vuota quando accompagnata, come prevedibile, con il più flebile dei rimproveri.”

In realtà il fallimento morale di base è che le alte sfere israeliane guidano un regime di supremazia ebraica in cui la vita dei palestinesi non ha alcun valore,” conclude l’associazione.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




L’UE usa i fondi del “Green Deal” per fornire elettricità alle colonie israeliane

Ali Abunimah

31 gennaio 2022 – Electronic Intifada

La scorsa settimana l’Unione Europea ha annunciato finanziamenti per oltre 884 milioni di euro per i progetti del “Green Deal”, teoricamente mirati a facilitare la “transizione verso energie pulite.”

Ma della fetta maggiore, circa 618 milioni e 916 mila euro, beneficerà direttamente Israele, incluse le sue colonie costruite su terre palestinesi occupate.

L’Unione Europea sostiene di opporsi a queste colonie, riconoscendo regolarmente che sono costruite in violazione del diritto internazionale.

I nuovi finanziamenti andranno alla costruzione dell’EuroAsia Interconnector, un cavo sottomarino che collegherà la rete elettrica israeliana a quella europea.

Secondo il sito web del progetto, l’EuroAsia Interconnector sarà un “ponte di energia” che consentirà la “trasmissione bidirezionale di elettricità” fra il Mediterraneo orientale e l’Europa.

L’impresa ha ottenuto il sostegno dall’UE ai più alti livelli fin da quando, nel giugno 2017, i leader di Grecia, Cipro e Israele hanno firmato un accordo per dargli il via.

Bruxelles dice che l’ultima iniezione di contanti, che fa seguito a una precedente di circa 88.412.400 € in fondi EU, è una “continuazione del sostegno finanziario e politico al progetto EuroAsia.”

L’UE ha dato il suo completo appoggio al collegamento elettrico, anche se è sempre stato chiaro che ciò avrebbe significato collegare all’Europa le colonie israeliane, in pratica quindi fornendo loro energia.

Nel 2018 il Comitato Nazionale del movimento palestinese Boicottaggio Disinvestimento e Sanzioni (BDS) ha dichiarato: “In questo modo si collegherebbero le colonie israeliane illegali con la rete elettrica europea,” e l’UE violerebbe le sue stesse politiche e l’obbligo di non riconoscere o assistere atti israeliani illegali.

L’annuncio più recente riguardante i finanziamenti UE arriva proprio mentre Amnesty International ha accusato Israele del crimine contro l’umanità di apartheid.

L’anno scorso Human Rights Watch e il gruppo israeliano per i diritti umani B’Tselem avevano raggiunto la stessa conclusione, denunciando finalmente la natura del sistema israeliano di segregazione razziale e controllo imposto con la violenza che, da decenni, i palestinesi hanno descritto come apartheid.

Sostegno di Washington

L’UE ha ricevuto una pacca sulla spalla dall’amministrazione Biden per i fondi all’EuroAsia Interconnector che Ned Price, portavoce del Dipartimento di Stato, ha definito “un elemento chiave per rafforzare la sicurezza energetica regionale e incrementare l’uso di energie pulite.”

Non ha detto però che potenzierebbe e rafforzerebbe le colonie israeliane a cui Kerry, in qualità di Segretario di Stato nell’amministrazione Obama, ha sostenuto di essere contrario.

Questo mese l’amministrazione Biden ha ritirato il sostegno USA a un gasdotto per fornire l’Europa di gas fossile estratto da Israele nel Mediterraneo da giacimenti contesi.

I funzionari USA sostengono che il progetto è finanziariamente ed ecologicamente insostenibile.

È tuttavia scorretto che UE e USA stiano facendo passare il loro continuo sostegno a Israele e alle sue colonie come una fonte di “energia pulita”, specialmente quando Israele confisca o distrugge regolarmente i pannelli solari dei palestinesi, alcuni pagati dall’UE, per costringerli a lasciare le loro terre.

Inutile dire che non c’è niente di “verde” o “pulito” nel finanziare un regime di apartheid e nel contribuire a elettrificare le sue colonie insediate su terra rubata.

Ma il greenwashing è anche usato per coprire un piano sostenuto da Washington e dagli Emirati Arabi Uniti per collegare la rete elettrica giordana a Israele e alle sue colonie, rendendo la Giordania ancora più dipendente politicamente ed economicamente da Tel Aviv.

Il recente regalo finanziario dell’EU ricompensa e incoraggia il comportamento criminale di Israele. Non potrebbe essere più lontano dall’aiuto all’ambiente.

È tuttavia in linea con lo storico sostegno europeo alla colonizzazione a scapito dei popoli indigeni.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Un tribunale federale degli Stati Uniti impedisce al Texas di applicare la legge anti-BDS agli impresari

Redazione di Middle East Eye

29 gennaio 2022 MEE

Un palestinese-americano ha intentato causa quando la città di Houston ha chiesto alla sua azienda di firmare un impegno a non boicottare Israele

Un tribunale federale degli Stati Uniti ha impedito allo Stato del Texas di applicare la sua legge anti-BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni) contro un appaltatore palestinese-americano che si è rifiutato di firmare l’impegno a non boicottare Israele.

Rasmy Hassouna, ingegnere e vicepresidente esecutivo della A&R Engineering and Testing Inc, di proprietà palestinese, ha intentato una causa a novembre sfidando una legge del Texas che vieta allo Stato di fare affari con società che partecipino al movimento BDS contro Israele.

Nella denuncia presentata al tribunale federale di Houston l’azienda ha affermato che la legge viola il diritto sancito dal Primo Emendamento di partecipare a boicottaggi economici come forma di protesta.

Venerdì, il giudice distrettuale degli Stati Uniti Andrew S. Hanen ha emanato un’ingiunzione che impedisce al Texas di applicare la legge anti-boicottaggio contro Hassouna.

“L’argomento sostenuto dalla [compagnia di Rasmy] può portare alcuni individui, specialmente quelli che si identificano con Israele, a provare disagio, ansia o addirittura rabbia”, ha scritto Hanen nella sua sentenza.

“Tuttavia, l’argomento – anche se turba alcuni segmenti della popolazione – è protetto dal Primo Emendamento sino a che non si trasformi in violenza e azioni illecite.

“La Corte ritiene che Hassouna difenda un punto di vista filo-palestinese veramente protetto dal Primo Emendamento”.

Una decisione pietra miliare

Il Comitato per le Relazioni America-Islam (Council on American-Islamic Relations, CAIR), con cui Hassouna ha collaborato per intentare la causa, ha salutato la sentenza della Corte come “una grande vittoria del Primo Emendamento contro i ripetuti tentativi del Texas di reprimere il discorso a sostegno della Palestina”.

“I tentativi reazionari di creare un’eccezione al Primo Emendamento riguardo alla Palestina tradiscono il ruolo centrale che i boicottaggi hanno svolto nella nostra storia”, ha affermato Gadeir Abbas, avvocato che cura da tempo le controversie del CAIR.

Secondo il gruppo di difesa musulmano, l’ingiunzione garantisce che Hassouna sarà in grado di “fare contratti con Houston senza rinunciare al suo diritto in base al Primo Emendamento di boicottare Israele egli stesso o attraverso la compagnia che possiede”.

Sebbene in questa fase preliminare l’ingiunzione si applichi solo a Hassouna, il ragionamento del [giudice] Hanen indica che “questi recenti tentativi di sopprimere la difesa della Palestina finiranno col fallire”, ha affermato il gruppo.

“I legislatori statali dovrebbero prendere nota di questa decisione… In base al Primo Emendamento non è possibile vietare i boicottaggi, “, ha affermato Lena Masri, direttrice delle controversie nazionali e dei diritti civili del CAIR.

Il dovere di boicottare

Secondo la causa presentata dal CAIR per conto di Hassouna, negli ultimi 17 anni A&R ha fatto affari con la città di Houston per oltre 2 milioni di dollari.

Ad ottobre, quando ha ricevuto il contratto per il rinnovo, Hassouna ha notato che conteneva una nuova clausola, che gli imponeva di impegnarsi a non boicottare Israele.

Ha rifiutato di firmare il rinnovo del contratto e di riconoscere la legittimità di quella legge, che si applica a tutti i comuni e anche allo Stato del Texas.

“È mio diritto e dovere boicottare Israele e qualsiasi prodotto di Israele”, ha affermato Hassouna.

“Questa politica è contro il mio diritto costituzionale e contro il diritto internazionale”.

Oltre a presentare denuncia, Hassouna, che è di origini palestinesi e originario di Gaza, ha anche chiesto alla Corte di emettere un’ordinanza restrittiva temporanea che impedisca l’applicazione della legge nel corso del processo.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




La questione della melagrana

Samah Jabr

19 gennaio 2022 – Chronique de Palestine

Un racconto della dottoressa Samah Jabr

La proprietaria della casa è arrivata in tribunale senza recare nulla se non l’immagine stessa della verità. Non si è avvalsa di un avvocato e non ha preparato una documentazione, perché si trattava solo di una melagrana.

Il colono è arrivato con dei voluminosi faldoni con carte e foto e scortato da una schiera di avvocati e di falsi testimoni che si sono presentati come amici e vicini del fratello dell’accusata.

L’ imputazione rivolta alla proprietaria della casa era che si sarebbe introdotta nel giardino e avrebbe colto una melagrana.

Lei ha spiegato che il giardino fa parte della sua casa, che suo padre in persona aveva piantato il melograno e che il frutteto ha più anni del colono.

Allora gli avvocati hanno replicato che lei non è in possesso di documenti attestanti il suo diritto di proprietà, al che lei ha risposto di aver ereditato sia la casa che il giardino da suo padre, dopo essersi assicurata che il suo unico fratello non le contestasse i beni. Gli abitanti del villaggio non hanno mai messo in dubbio la sua eredità in quanto suo padre era conosciuto come una persona generosa.

Per questo motivo non ha richiesto un nuovo titolo di proprietà.

A quel punto gli avvocati hanno tirato fuori dei documenti che sarebbero stati firmati da suo fratello, ucciso durante una manifestazione l’anno precedente.

Hanno sostenuto che suo fratello aveva venduto la casa e il giardino al colono prima di morire e dei falsi testimoni hanno corroborato l’affermazione del tribunale secondo cui le carte firmate dal fratello e registrate da uno studio legale di ottima reputazione erano valide.

Un vecchio compagno di scuola del fratello ha dichiarato: “È proprio la sua scrittura, la conosco bene.” Da parte sua un suo vecchio vicino ha detto: “L’ho visto coi miei occhi firmare queste carte”. Ed un terzo: “Il terreno definito dai suoi confini – dal filo per stendere i panni fino al riquadro coltivato a piante di menta – costituisce la proprietà del colono.”

Queste affermazioni sono sembrate convincenti per il giudice ed hanno instillato il dubbio sulle parole della ragazza. Secondo il parere del giudice, come avrebbe potuto il fratello contestare l’eredità della casa, dato che gli uomini non lasciano in eredità niente alle donne!

La giovane si è allora ricordata di una foto che conservava con affetto nel portafoglio.

Ha mostrato la foto di suo fratello dove si vede un bambino con entrambe le mani amputate in seguito ad un bombardamento della sua scuola quando frequentava le elementari.

Ha chiesto: “Come avrebbe potuto una persona senza mani firmare queste carte?”

Il giudice, in imbarazzo, ha detto: “Oh!…Queste lunghe controversie sono piene di contraddizioni”.

L’udienza si è conclusa ed il tribunale ha deciso quanto segue: l’accusata non ha potuto negare di aver colto la melagrana senza chiedere il permesso; dato che il tribunale teme che l’accusata possa coglierne altre, ha deciso di allontanarla dalla casa e dal giardino per il tempo necessario al tribunale per chiarire il fatto della firma del fratello amputato di entrambe le mani.

Inoltre l’accusata dovrà rimborsare le spese processuali, gli onorari degli avvocati e le spese sostenute dai testimoni.

Lasciandosi alle spalle il colono, il tribunale, l’accusa, i falsi testimoni, la proprietaria della casa non ha ormai altra risorsa che invocare Dio, affinché non permetta che qualcuno venga giudicato ingiustamente il giorno in cui i protagonisti si troveranno davanti al tribunale celeste.

Richiamiamo la vostra attenzione sul fatto che ogni somiglianza alle persone o ai fatti riportati in questo racconto è puramente casuale.

Samah Jabr

Samah Jabr è medico psichiatra ed esercita a Gerusalemme est e in Cisgiordania. Attualmente è responsabile dell’Unità di salute mentale del Ministero della Sanità palestinese. Ha insegnato in università palestinesi ed internazionali. La dottoressa Jabr è spesso consulente presso organizzazioni internazionali in tema di sviluppo della salute mentale. È anche una scrittrice prolifica. Il suo ultimo libro pubblicato in francese è Derrière les fronts – Chroniques d’une psychiatre psychothérapeute palestinienne sous occupation [Dietro i fronti – cronache di una psichiatra psicoterapeuta palestinese sotto occupazione, Sensibili alle Foglie, 2019].

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




“Siamo qui per mettere sotto pressione il villaggio”: le truppe israeliane ammettono la politica delle punizioni collettive

Yuval Abraham 

 24 gennaio 2022,  +972 Magazine

Da dicembre l’esercito israeliano ha imposto al villaggio di Dir Nizam una chiusura quasi totale e violente incursioni. E i soldati sono sinceri sul perché lo stanno facendo.

Per quasi due mesi i soldati israeliani hanno sottoposto i 1.000 residenti del villaggio palestinese di Dir Nizam a punizioni collettive, sostenendo che si trattava di una reazione ai bambini che lanciano pietre contro i veicoli di passaggio. Il 1° dicembre 2021 l’esercito ha chiuso tutti e tre gli ingressi al villaggio, che si trova a nord di Ramallah nella Cisgiordania occupata, e ha allestito un posto di blocco con bande chiodate all’unico ingresso lasciato aperto al traffico.

Da allora, i soldati israeliani hanno piantonato l’ingresso 24 ore su 24, controllando a lungo ogni macchina al passaggio, interrogando i passeggeri, aprendo i bagagli e fotografando le carte d’identità. A volte bloccando completamente tutti i movimenti dentro e fuori il villaggio per ore.

I soldati non si limitano a restare fuori dal villaggio; sono entrati a Dir Nizam in almeno 14 occasioni dall’inizio della chiusura per effettuare arresti, condurre indagini o compiere “azioni di deterrenza” contro gli abitanti del villaggio. In tre diverse occasioni sono persino entrati nella scuola del villaggio.

La punizione collettiva è stata imposta a Dir Nizam apparentemente per impedire ai bambini di lanciare pietre, ma gli episodi di lanci di pietre sono in realtà aumentati da quando l’esercito ha chiuso il villaggio e non sembra esserci in progetto che se ne vadano presto. Ho visitato l’area la scorsa settimana e ho chiesto ai soldati cosa stessero facendo esattamente lì:

Posso chiederti qual è lo scopo di questo posto di blocco?

“Certo. Siamo qui perché sulla statale 465, vicino al villaggio di Dir Nizam, gruppi di bambini dagli 8 ai 16 anni circa lanciano mattoni e piccoli sassi ai veicoli di passaggio… [Il posto di blocco] che abbiamo allestito qui è per fare pressione sul villaggio stesso. Stiamo facendo arrivare gli adulti in ritardo al lavoro al mattino, stiamo davvero rendendo difficile la loro vita quotidiana. Gli adulti sono consapevoli di ciò che stanno facendo i bambini e sono contrari. Non vogliono che lancino pietre”.

Quindi questa è in realtà una forma di punizione collettiva imposta al villaggio?

“Esatto. È una punizione collettiva per l’intero villaggio. La pressione sugli adulti, gli ‘anziani della tribù’, come qui vengono chiamati, farà pressione sui bambini che quindi smetteranno di lanciare pietre”.

Ok. E che senso ha questo per te? Punire mille persone, a causa di pochi bambini?

“O è così, o altre soluzioni che non sono sempre piacevoli. Per non dire altro.”

Cosa intendi per altre soluzioni?

“Oggi disponiamo di mezzi molto avanzati per identificare i bambini, i volti dei lanciatori di pietre. Se attiviamo questi mezzi, possiamo arrestarli. E questi bambini saranno messi dove devono essere messi”.

La nuova “normalità”

A duecento metri dal posto di blocco, accanto alla scuola, si sono radunati intorno a me otto bambini: il più grande è all’undicesima, il più giovane alla seconda, la maggior parte alle elementari [il sistema scolastico palestinese prevede sei anni di elementari, tre di medie e decimo e undicesimo anno di istruzione superiore ed è obbligatorio sino alla decima classe, ndtr.]. Quando ho chiesto in che modo la presenza militare li avesse colpiti, hanno iniziato a ridere. Ogni volta che uno parlava, gli altri lo interrompevano.

“Mi hanno arrestato”, ha detto un bambino di quinta elementare con uno zaino strappato. “Mi hanno picchiato”, ha gridato un altro ragazzo. «Sto lanciando sassi», urla un altro di quarta elementare, che poi corre goffamente lungo la strada.

L’atmosfera è cambiata grazie a Ahmad Nimer, un ragazzo che non rideva. Lo sguardo dei suoi occhi marroni appariva più vecchio dei suoi 13 anni e, vedendo i miei tentativi di avere una conversazione seria, ha detto: “Posso dirti io come mi colpisce l’esercito “. Tutti tacquero.

“E’ sempre mio padre che guida l’auto, mia madre siede accanto a lui e io mi siedo dietro”, dice mentre il gruppo gli si raduna intorno. “Da quando hanno allestito il posto di blocco, i soldati li fermano di continuo. Dicono ai miei genitori, in ebraico, ‘Dove state andando?’ e fotografano i loro documenti. A volte ci fanno scendere dall’auto, a volte dicono a loro o a me: ‘Perché i bambini lanciano sassi?’”

E tu cosa dici?

“Niente. Sono sul sedile posteriore e guardo mio padre”.

E cosa pensi?

“Niente. Non penso niente. Per me è normale”.

Il resto dei bambini annuisce. “È normale”, dice Tamer, un dodicenne con i capelli corti. “Il giorno in cui sono entrati nella nostra scuola sono svenuto per i gas lacrimogeni e mi sono svegliato pochi minuti dopo a casa”.

Tamer fa riferimento a quanto accaduto il 9 dicembre: secondo testimonianze e video, quel giorno i soldati israeliani sono entrati nella scuola del villaggio nelle ore pomeridiane, dopo che le lezioni erano finite, hanno interrogato gli studenti in cortile e cercato i bambini che tiravano pietre. “Hanno esaminato le aule, dicendo che stavano cercando quelli che tirano le pietre”, dice Adham, che ha 16 anni. “Hanno lanciato molti gas lacrimogeni e granate stordenti in cortile”.

Da quando sono iniziate le punizioni collettive al villaggio, i soldati sono entrati a scuola tre volte; l’incursione più recente è stata la scorsa settimana, il 18 gennaio, alle 8:45 mentre iniziavano le lezioni.

Il brutale ingresso dei soldati è stato ben documentato nei video ripresi da studenti e insegnanti che hanno assistito in prima persona alle aggressioni. In uno di essi si vedono soldati picchiare e tirare fuori dalla classe uno studente dell’undicesima classe mentre la sua insegnante cerca di proteggerlo con il suo corpo e grida: “Questa è una scuola, andate via!”

In un altro video, i soldati bendano lo stesso ragazzo vicino al cortile, mentre sullo sfondo si vedono bambini delle elementari che entrano dai cancelli e corrono verso le aule. Un altro video mostra un gruppo di soldati che attraversa il campo da basket della scuola, spintonando due membri dello staff. Due studenti sono stati arrestati: il primo, Ahmad al-Ghani, è stato rilasciato il giorno successivo; il secondo, Ramez Muhammad, è tuttora in custodia.

“Di solito prendono i bambini per qualche ora, li portano in giro in jeep, danno loro qualche schiaffo in faccia, chiedono loro perché hanno lanciato pietre e poi li riportano al villaggio”, ha detto Adham. La mattina del 5 gennaio, ad esempio, l’esercito è entrato a Dir Nizam e ha arrestato nove bambini, ma poche ore dopo li ha riportati tutti al villaggio. Non sono stati portati alla stazione di polizia per essere interrogati e non sono stati processati.

Si stanno facendo odiare ancora di più dai bambini”

Arin, una 43enne residente a Dir Nizam, ha affermato che tra tutte le conseguenze della politica delle punizioni collettive, ciò che colpisce di più i suoi figli sono le incursioni notturne dell’esercito. “I soldati vengono proprio a casa a interrogare i ragazzi e più volte hanno lanciato granate stordenti e gas lacrimogeni per le strade, per svegliare tutti”, ci ha detto.

Ad esempio, il 2 dicembre alle 22:30, una telecamera di sicurezza su una delle case del villaggio ha documentato i soldati che lanciavano nove granate stordenti sulla strada principale della zona residenziale. Dall’angolazione della telecamera è impossibile comprendere completamente il contesto, ma il linguaggio del corpo dei soldati è rilassato e non si vedono lanci di pietre prima del lancio delle granate stordenti.

Tutti a casa si sono immediatamente svegliati”, ricorda una donna anziana di nome Fatima, la cui casa si trova su quella strada. “Recentemente non ho più potuto dormire la notte, né io né i bambini”, dice un’altra donna di 30 anni, che ha chiesto di non essere nominata.

“Ogni notte, da un mese ormai, mio nipote mi chiede: ‘Nonna, hai chiuso a chiave la porta?’ Tre volte a notte lo chiede”, dice Arin. “Chi non ha mai lanciato pietre si dice: ‘Ora comincerò a tirare pietre, che importa? A prescindere dal fatto che io lanci o no pietre, tutti vengono puniti.’ Stanno facendo in modo che i bambini li odino ancora di più”.

Il nuovo posto di blocco si trova vicino al paese su una strada interna che si collega con la statale 465; vi sono stati recentemente posati anche blocchi di cemento. “L’unico giorno in cui possiamo rilassarci senza punizioni collettive è la loro vacanza, Shabbat. Il sabato non c’è posto di blocco al mattino, ma torna la sera”, ha detto Fatima.

Elham, 32enne che culla il figlio piccolo tra le braccia, mi ha raccontato una discussione avvenuta entrando in macchina nel villaggio. “Mio figlio era con me sul sedile posteriore. Il soldato gli ha detto: ‘Perché lanci sassi?’ e mio figlio ha risposto ‘Io non lancio sassi’ e il soldato: ‘Bugiardo, ti ho visto’. Mio figlio oggi era con me al lavoro, dalle sette del mattino”, ha continuato Elham. “Così ho cercato di dire al soldato che non ha lanciato pietre perché l’ho avuto sott’occhio tutto il giorno, dalla mattina. Ma il soldato mi ha semplicemente detto: ‘Parla ebraico, non capisco l’arabo.'”

“Controllate l’aria che respiriamo”

Come in moltissimi villaggi della Cisgiordania, la maggior parte delle terre di Dir Nizam si trova nell’Area C [sotto completo controllo israeliano, ndtr.] (e il 4,7% nell’Area B) [sotto parziale controllo israeliano, ndtr.], in cui Israele proibisce ai palestinesi quasi sempre di costruire anche su propria terra privata. “Vivo vicino all’insediamento di Halamish e tutto il giorno un drone aleggia sopra le nostre teste, scattando foto per assicurarsi che non abbiamo costruito nulla sulla nostra terra. Se qualcosa viene costruito, l’esercito viene a distruggerlo”, dice Fatima.

Halamish, noto anche come Neve Tzuf, è un insediamento israeliano di circa 1.500 residenti. È stato fondato nel novembre 1977 su un sito che fungeva da base militare giordana prima della guerra dei Sei Giorni e un ordine militare israeliano ha reso possibile l’espropriazione di circa 600 dunam di terra di proprietà privata dei residenti di Dir Nizam e Nabi Saleh. “Splendide viste panoramiche, a 25 minuti da Modi’in”, si legge sul sito web dell’insediamento in espansione che pubblicizza nuovi appartamenti.

I residenti palestinesi affermano che di recente i militari hanno impedito loro di coltivare la propria terra con mezzi pesanti quali i trattori nelle aree vicine all’insediamento. Jaber Musab, un contadino la cui casa si affaccia su Halamish, dice di aver lavorato tutta la vita per gli ebrei israeliani nella vicina Herzliya e anche ad Halamish. A differenza dei suoi vicini israeliani, non può lasciare la Cisgiordania senza un permesso dell’esercito. Gli ho chiesto perché i bambini del villaggio lancino pietre e lui ha risposto in ebraico: “Perché controllate l’aria che respiriamo”. Poi è rimasto in silenzio.

A dicembre Nasser Mazhar, un anziano contadino molto amico di Musab, è stato eletto capo del consiglio del villaggio di Dir Nizam, l’unica elezione che si è tenuta come previsto dopo che lo scorso maggio il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas ha annullato le elezioni presidenziali e parlamentari. Il precedente capo del consiglio, Bilal Tamimi, ha lasciato il villaggio: “Non potevo più viverci, a causa dei problemi con l’esercito”, mi ha spiegato al telefono da Ramallah. Musab ha precisato che anche suo fratello ha di recente lasciato il villaggio, una tendenza che secondo lui è aumentata a causa della punizione collettiva.

“Esci dal villaggio per un quarto d’ora e sei perquisito due volte, uscendo e rientrando”, mi ha detto Mazhar nel suo soggiorno, e il suo timido nipote di 12 anni ascoltava sul divano di fronte. “Ogni volta che passo mi dicono: ‘Dacci i nomi dei bambini che lanciano pietre’, anche se hanno comunque le macchine fotografiche. I soldati ci controllano perché siamo nelle Aree B e C. Loro sono responsabili della nostra sicurezza, non siamo noi responsabili della loro sicurezza”.

Fermati medici e infermieri

Da quando è iniziata la punizione collettiva, i soldati israeliani hanno chiuso completamente il villaggio quattro volte per periodi che vanno da una a sette ore. Tre settimane fa, durante una di queste chiusure, i soldati hanno negato l’ingresso a un gruppo di medici e infermieri di Ramallah che si stavano recando alla clinica locale per visitare i residenti.

Nel mese scorso agli insegnanti delle scuole superiori che provengono da altre città palestinesi è stato impedito per due volte di uscire o entrare nel villaggio, annullando così la giornata scolastica. “Tutti i bambini erano contenti di essere a casa”, ha riso Shadi, il nipote timido. Mi ha mostrato al cellulare un video del 7 dicembre, che mostrava la lunga fila degli insegnanti fermati al posto di blocco. «Quella è la macchina del signor Jumah, l’insegnante», dice. I soldati hanno lasciato entrare gli insegnanti dopo circa tre ore.

Shadi e il suo amico, entrambi in prima media, mi hanno portato a fare un giro nel villaggio mentre il sole cominciava a tramontare. Ho chiesto loro se passano del tempo a Ramallah. “A Tel Aviv!” disse Shadi, forse scherzando. “È vicina, guarda”, indica oltre l’orizzonte, dove si possono vedere le case della città e il mare.

Tel Aviv dista 30 chilometri in linea d’aria dal villaggio assediato. Nel cielo, grandi aerei si librano bassi. L’aeroporto Ben Gurion è a soli 20 chilometri da qui; a Shadi, come agli altri palestinesi residenti in Cisgiordania, non è permesso volare. Sono controllati da noi e lavorano per noi, ma non hanno un aeroporto.

All’uscita, vicino al posto di blocco, ho incontrato un palestinese della mia età che tornava dal lavoro a Herzliya. Ci va tutti i giorni per ristrutturare case, previo permesso di ingresso dell’esercito. “Parto alle 3 del mattino”, dice. “I soldati sono al posto di blocco anche allora.” Abbiamo parlato a lungo e mi ha chiesto di non pubblicare il suo nome, per paura che gli venisse negato il permesso di ingresso.

“Per tutto il viaggio di ritorno dal lavoro sono preoccupato di cosa accadrà al posto di blocco”, mi dice. “Proprio ora passavo con mia madre. Era andata a fare la spesa. I soldati mi hanno chiesto di scendere dall’auto e di deporre davanti a loro il contenuto delle borse. Ho detto loro che la carne si sarebbe sporcata e alla fine mi hanno permesso di sollevarla invece di metterla giù. Uno di loro mi ha chiesto: ‘Perché i ragazzi tirano pietre?’ Gli ho detto: ‘Sono bambini’. E lui ha detto: ‘Finché continueranno, continueremo a punirvi”.

Da un’analisi e da un incrocio di dati tra il gruppo Telegram di Hashomer Judea e Samaria – un’organizzazione di coloni che documenta esaurientemente i lanci di pietre palestinesi in Cisgiordania – e la pagina Facebook di Dir Nizam, che riporta le azioni dell’esercito nel villaggio, sembra che i soldati di solito impongano una chiusura totale dopo che il gruppo dei coloni riferisce di sassi lanciati sulla statale 465.

All’inizio dello scorso anno Rivka Teitel, un’israeliana di 30 anni, è stata gravemente ferita da un sasso lanciato contro la sua auto vicino a Dir Nizam, che l’ha colpita alla testa. Circa due settimane fa, anche un cittadino palestinese di Israele è stato leggermente ferito da un sasso lanciato in zona. Questi sono stati gli unici incidenti da lancio di pietre che hanno causato feriti nell’ultimo anno a Dir Nizam.

Da quando il 1° dicembre l’esercito ha imposto la chiusura, c’è stato un forte aumento nella zona degli incidenti causati da lanci di pietre. In media, sono stati documentati 10 volte più episodi di lanci di pietre rispetto al periodo precedente l’introduzione delle punizioni collettive e ci sono stati sei volte più ingressi militari nel villaggio per effettuare arresti, indagini o attività di deterrenza.

Abbiamo chiesto al portavoce dell’esercito israeliano se ai soldati fosse stato ordinato di punire i residenti del villaggio e se la punizione collettiva fosse una politica dichiarata dell’esercito nei territori occupati. La risposta affermava: “Recentemente, c’è stato un aumento significativo degli incidenti terroristici locali, inclusi il lancio di pietre e bombe molotov contro i veicoli che viaggiano sulla statale 465. Tra le azioni per affrontare questo fenomeno le forze dell’esercito israeliano stanno operando nell’area in conformità con le valutazioni operative, attraverso attività sia palesi che segrete”.

Yuval Abraham è un giornalista freelance israeliano che lavora in strutture educative bilingue israelo-palestinesi. Ha studiato l’arabo e insegna la lingua ad altre persone di lingua ebraica che credono nella lotta comune per la giustizia e in una società condivisa tra israeliani e palestinesi.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Un tribunale federale tedesco stabilisce che la politica anti-BDS di Monaco è illegale

Adri Nieuwhof

24 gennaio 2022 – Electronic Intifada

Con una vittoria della libertà politica, un tribunale federale tedesco ha sentenziato che il rifiuto dell’amministrazione comunale di Monaco di mettere a disposizione uno spazio pubblico per un dibattito sulla risoluzione anti-BDS della città è stato un provvedimento anticostituzionale.

Il tribunale ha stabilito che la politica dell’amministrazione comunale della città “viola il diritto fondamentale alla libertà d’espressione”.

La decisione è uno schiaffo per il consiglio comunale di Monaco, che nel 2017 ha adottato una risoluzione che nega finanziamenti e spazi pubblici ai sostenitori del BDS, la campagna per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni per i diritti dei palestinesi.

La sentenza ha importanti implicazioni per la libertà di parola in tutta la Germania, dove le persone che difendono i diritti dei palestinesi affrontano una metodica repressione e calunnie da parte di politici.

Nel contempo nella vicina Austria la giunta comunale di Vienna ha denunciato un membro di BDS Austria per “diffamazione” per un post su Facebook in cui critica l’apartheid israeliano.

Monaco viola la legge

Nell’aprile 2018 Klaus Ried ha cercato di prenotare una sala del Museo della Città di Monaco in cui tenere un dibattito su come la risoluzione anti-BDS della municipalità avrebbe colpito la libertà di parola. L’amministrazione comunale ha rifiutato la prenotazione in quanto lo considerava un evento legato al BDS.

Ried ha portato la questione in tribunale. In un primo tempo la corte ha sentenziato contro di lui, affermando che l’amministrazione comunale di Monaco aveva il diritto di imporre simili restrizioni.

Egli ha presentato appello e nel 2020 ha vinto.

Ma l’amministrazione comunale di Monaco non ha accettato questa decisione e ha portato la causa davanti a un tribunale federale, sperando di ribaltare la vittoria di Ried.

Tuttavia il tentativo è fallito. Il 20 gennaio il tribunale federale amministrativo tedesco di Lipsia ha emanato la sua sentenza a favore di Ried. La corte federale ha affermato che la legge tedesca “garantisce a chiunque il diritto di esprimersi liberamente e di diffondere la propria opinione.” Ha stabilito che la giunta comunale di Monaco non poteva violare quel diritto negando il permesso a un evento a causa del fatto che fosse prevedibile che “venissero espresse opinioni sulla campagna BDS o sul suo contenuto, obiettivi e tematiche.”

Il tribunale federale ha affermato che la risoluzione anti-BDS di Monaco non è una legge.

La storica sentenza invia un avvertimento ai consigli comunali in tutta la Germania che hanno approvato risoluzioni simili e hanno negato la disponibilità di spazi pubblici

a organizzatori di eventi riguardanti il BDS.

La sentenza ha anche implicazioni riguardo alla risoluzione anti-BDS del parlamento tedesco del 2019, in cui, pur non essendo giuridicamente vincolante, si invitano le istituzioni tedesche e gli enti pubblici a negare finanziamenti e strutture a gruppi che appoggiano il movimento BDS.

BDS Austria sotto attacco

La giunta comunale [alleanza tra socialdemocratici e liberali, ndtr.] della capitale austriaca, Vienna, ha denunciato un rappresentante di BDS Austria per un post dell’agosto 2021 su una pagina Facebook del gruppo di attivisti.

Il post mostra la foto di un manifesto del Comune con incollato sopra un cartello di protesta, ma con il logo ufficiale della città ancora visibile.

Il manifesto di protesta richiama il famoso cartello degli anni ’30 “Visita la Palestina” [manifesto propagandistico sionista, ndtr.]. Ma porta invece la scritta “Visita l’apartheid”. Anche il manifesto di protesta ha il logo della città. Un post sulle reti sociali di BDS Austria ha l’ironica didascalia: “Siamo lieti che anche la Città di Vienna prenda atto dell’apartheid e lo affermi pubblicamente.”

In novembre a un membro di BDS Austria è stato notificato che il Comune di Vienna aveva presentato una denuncia sostenendo che il movimento BDS “incita all’odio contro il popolo israeliano.” Di conseguenza, sostiene l’amministrazione cittadina, essere pubblicamente associati al BDS è una diffamazione, dato che “la definizione della situazione in Israele/Palestina come ‘apartheid’ costituisce un danno per la nostra reputazione.”

L’amministrazione cittadina chiede al tribunale di proibire a BDS Austria di utilizzare i loghi del Comune e circa 3.500 € di danni. Se il tribunale ordinerà a BDS Austria di pagare le spese legali la cifra totale potrebbe arrivare fino a 35.000 €.

L’ European Legal Support Center [Centro Europeo di Sostegno Giuridico] (ELSC), un’associazione per i diritti civili e la difesa legale, l’ha definito un esempio di SLAPP –Strategic Lawsuit Against Public Participation [denuncia strategica contro l’attivismo pubblico].

Simili denunce intendono generalmente zittire le opinion critiche.

L’affermazione dell’amministrazione cittadina è palesemente ridicola perché risulta evidente che il manifesto era incollato in modo approssimativo su quello della città e che non si trattava di un messaggio ufficiale della città di Vienna.

Inoltre la negazione da parte di Vienna della situazione di apartheid vissuta dai palestinesi è in netto contrasto con un crescente consenso ed è sostenuta persino da importanti associazioni, come Human Rights Watch e l’israeliana B’Tselem.

ELSC ha organizzato una campagna di raccolta fondi per chiedere a donatori pubblici di contribuire alle spese giudiziarie.

E una petizione a sostegno di BDS Austria ha ottenuto circa 700 firme.

Strenui difensori di Israele

Nel 2017 l’Austria ha adottato la cosiddetta definizione di antisemitismo dell’IHRA [International Holocaust Remembrance Alliance, ente intergovernativo che riunisce rappresentanti di 34 Paesi, per lo più europei, ndtr.].

La controversa “definizione”, promossa da Israele e dalla sua lobby, confonde le critiche contro Israele e la sua ideologia statale sionista con il fanatismo antiebraico. La definizione dell’IHRA è ora regolarmente utilizzata in vari Paesi per calunniare i sostenitori dei diritti dei palestinesi.

Un anno dopo l’amministrazione comunale di Vienna [alleanza tra socialdemocratici e verdi, ndtr.] ha adottato una risoluzione che definisce il movimento BDS come intrinsecamente antisemita. La risoluzione nega appoggio istituzionale ai sostenitori del BDS e minaccia l’esistenza di uno spazio politico sicuro per la difesa dei diritti dei palestinesi in Austria. Nel 2019 membri di BDS Austria hanno organizzato una protesta presso il consiglio comunale della città contro questa censura ufficiale.

Come in Germania, l’élite politica austriaca sostiene strenuamente Israele. L’annessione dell’Austria da parte di di Adolf Hitler, austriaco, nel 1938 fu ben accolta dalla maggioranza dell’opinione pubblica austriaca, per cui, proprio come in Germania oggi, molti austriaci vedono l’incondizionato sostegno a Israele, indipendentemente da quello che fa ai palestinesi, come una forma di espiazione dei crimini nazisti.

L’avvocatessa Elisabetta Folliero, insieme al European Legal Support Center, ha presentato una confutazione della denuncia dell’amministrazione comunale. Essa include un parere specialistico dei giuristi di fama internazionale Eric David, Xavier Dupré De Boulois, Richard Falk e John Reynolds.

Essi sostengono che le risoluzioni austriache contro il BDS violano gli standard internazionali ed europei per i diritti umani, anche riguardo ai diritti fondamentali di libertà di espressione e associazione.

Tra le altre cose, gli esperti citano la fondamentale sentenza della Corte Europea per i Diritti dell’Uomo del 2020 che afferma che chiedere il boicottaggio dei prodotti israeliani costituisce un discorso politico protetto [dal principio della libertà di espressione, ndt].

La causa contro BDS Austria verrà discussa il 28 gennaio 2022 dal tribunale commerciale di Vienna.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




La lobby filoisraeliana nel Regno Unito prende di mira una ricercatrice palestinese

Nora Barrows-Friedman

22 gennaio 2022 – Electronic Intifada

Un’università britannica ha sospeso dall’insegnamento una dottoranda in seguito a una campagna di calunnie da parte dei sostenitori di Israele.

Shahd Abusalama, da molto tempo attivista e collaboratrice di The Electronic Intifada, è una studentessa di dottorato presso l’Hallam University di Sheffield.

Abusalama ha scritto della sua esperienza nella Striscia di Gaza, dove è nata e cresciuta sotto l’occupazione, l’assedio e gli attacchi militari israeliani.

Ha anche scritto del terrore quando si è trovata separata dalla sua famiglia a Gaza mentre questa si trovava sotto i bombardamenti israeliani nel 2014 [operazione Margine protettivo, ndtr.].

La campagna contro di lei ricorda la strategia utilizzata lo scorso anno per colpire David Miller, docente dell’università di Bristol. Miller è stato licenziato nonostante sia stato scagionato da ogni accusa di fanatismo antiebraico da due inchieste indipendenti commissionate dall’università di Bristol.

Recentemente Abuslama era stata assunta come lettrice associata presso la Hallam University di Sheffield, nel nord dell’Inghilterra.

Si stava preparando a tenere la sua prima lezione il 21 gennaio, quando la sera prima un funzionario l’ha informata che la sua lezione era stata annullata e che i suoi studenti sarebbero stati avvertiti.

L’impiegato ha affermato che una denuncia aveva provocato un’indagine e che, in base alle norme dell’università, non le sarebbe stato consentito di insegnare finché questa non si fosse conclusa.

In passato Abusalama ha subito ripetuti attacchi da associazioni e pubblicazioni antipalestinesi.

Lei e la sua famiglia sono rifugiati palestinesi che nel 1948 subirono la pulizia etnica e furono espulsi dalle loro case in quella che è ora Israele dalle milizie sioniste. Come a tutti gli altri profughi palestinesi, Israele vieta loro di tornare al luogo d’origine in quanto non ebrei.

Abusalama è un’importante attivista per i diritti dei palestinesi fin dal suo arrivo nel Regno Unito come studentessa. è stata una militante contro l’adozione della definizione di antisemitismo dell’IHRA, che confonde erroneamente le critiche a Israele con il fanatismo antiebraico, e nel 2019 per il boicottaggio dell’Eurovision [che quell’anno si tenne in Israele, ndtr.].

La controversa definizione dell’IHRA è regolarmente utilizzata dalle associazioni della lobby filo-israeliana per calunniare e censurare i sostenitori dei diritti dei palestinesi.

Abusalama ha affermato che il suo attivismo in queste due campagne è stato al centro di attacchi da parte di organizzazioni e pubblicazioni della lobby filo-israeliana.

Ha detto a Electronic Intifada che le ultime calunnie sono iniziate a dicembre, quando Jewish News [settimanale gratuito che si rivolge alla comunità ebraica della zona di Londra, ndtr.] e l’associazione della lobby filo-israeliana Campaign Against Antisemitism [Campagna contro l’Antisemitismo] l’hanno accusata di promuovere l’ostilità nei confronti degli ebrei.

In precedenza Joe Glasman, capo delle “inchieste politiche” di Campaign Against Antisemitism, nel 2019 si è attribuito a nome dell’associazione il merito della sconfitta elettorale del partito Laburista, allora guidato da Jeremy Corbyn. In seguito alla sconfitta Corbyn annunciò che avrebbe dato le dimissioni da leader del partito.

La bestia è stata uccisa,” si rallegrò Joe Glasman in un video che in seguito cercò di togliere da Internet. Il video diceva che Corbyn era stato “massacrato”.

Sostenitore dei diritti dei palestinesi, Corbyn, insieme ai suoi militanti di base, è stato bersaglio di una campagna di calunnie durata anni che lo accusava falsamente di antisemitismo.

Glasman ha sostenuto che lui e i suoi collaboratori hanno colpito Corbyn con una campagna coordinata utilizzando metodi che includevano “nostre spie e intelligence”.

Il direttore esecutivo della Campaign Against Antisemitism, Gideon Falter, è vicepresidente del Jewish National Fund UK [Fondo Nazionale Ebraico-UK], che raccoglie fondi per i progetti di colonizzazione israeliani su terre palestinesi. Resoconti sul JNF UK mostrano che fornisce sostegno finanziario per campagne di reclutamento nell’esercito israeliano e per Ein Prat, un’associazione che organizza corsi di addestramento per nordamericani che si arruolano in quell’esercito.

Affermazioni false

Queste accuse in malafede da parte di sostenitori del colonialismo di insediamento israeliano sono chiari tentativi di perseguitare e intimidire attivisti e accademici come Abusalama in modo da farli tacere.

Abusalama ha solo scoperto che l’università potrebbe aver indagato i suoi post sulle reti sociali leggendo le calunnie di Campaign Against Antisemitism e del Jewish News.

Lei afferma che l’università non si è messa in contatto con lei né le ha dato la possibilità di smentire le affermazioni diffamatorie.

Poi, il 19 gennaio, il Jewish Chronicle, nota pubblicazione antipalestinese con una lunghissima storia di calunnie, diffamazioni e denigrazioni, ha scritto una mail ad Abusalama, informandola che intendeva pubblicare un articolo sulla sua assunzione come lettrice.

Jewish Chronicle ha elencato una selezione dei suoi post sulle reti sociali che intendeva includere nell’articolo.

Abusalama ha risposto, spiegando il contesto di ogni post sulle reti sociali e aggiungendo di essere consapevole che le intenzioni della pubblicazione erano di diffamarla ulteriormente e intimidirla per proteggere Israele dalle critiche.

Sabato [22 gennaio] il Jewish Chronicle non aveva ancora pubblicato l’articolo.

Legittimare attacchi razzisti

Non è ancora chiaro chi o quale associazione abbia presentato la protesta che ha provocato la sua sospensione dall’insegnamento. Abusalama afferma che l’università non le ha ancora fornito alcuna informazione. Ma definisce vergognoso che l’università abbia legittimato gli attacchi considerando

la denuncia credibile e degna di un’indagine.

Abusalama afferma di essere sconvolta per il fatto che “l’università abbia dato retta e risposto a simili pubblicazioni razziste ed abbia confermato loro che avrebbe indagato sul mio conto senza prendere prima contatto con un membro della sua stessa comunità.”

I danni all’immagine provocati da pubblicazioni razziste come quelle sono una priorità più di quanto lo sia il dovere di salvaguardare i membri della propria comunità,” aggiunge.

Frattanto nelle caselle di posta elettronica dell’amministrazione stanno affluendo lettere di sostegno che chiedono che l’università protegga il lavoro di Abusalama e comprenda le ragioni politiche e razziste delle calunnie. Il sindacato dell’università e del college si sta mobilitando in sua difesa.

Non sono la prima e non sarò l’ultima ad essere presa di mira,” afferma. “È per questo che è fondamentale la resistenza contro di loro, per non consentirgli di continuare a diffondere stereotipi sui palestinesi come antisemiti solo perché osano sognare la libertà, la giustizia e l’uguaglianza per il loro popolo.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




La “guerra di logoramento” di Israele contro i minori palestinesi

Marwa Koçak , Amy Addison-Dunne

21 gennaio 2022 – Al Jazeera

Mentre continua la battaglia tra i Beduini palestinesi e Israele, i minori vengono indiscriminatamente arrestati

Hanno sfondato la porta prima dell’alba e circa 30 soldati israeliani hanno invaso la casa di famiglia.

L’obiettivo del loro arresto? Il dodicenne Ammar, accusato di aver partecipato a una protesta contro lo sgombero dei terreni nella regione di Naqab [più nota in occidente con il nome ebraico di Negev, ndt]. Ma sua madre dice che la famiglia non è ancora sicura del motivo per cui lo hanno arrestato, dato che il ragazzo in quel momento era a casa.

Non sappiamo esattamente perché l’hanno arrestato. Alle 5:30, 30 soldati israeliani hanno preso a calci la porta. Siamo stati presi dal panico e loro hanno chiesto di lui che dormiva”, ricorda la madre di Ammar.

Ha 12 anni, non può andare a scuola perché è agli arresti domiciliari. Le autorità israeliane gli hanno vietato di andare a scuola per 10 giorni a partire da ieri. Sono rimasta sconvolta quando ce l’hanno comunicato. Ho urlato loro: “Cosa potrebbe farvi un dodicenne?” Avevo così paura che lo picchiassero o torturassero in prigione, era così spaventato e piangeva”, dice.

Ammar è stato detenuto e alla fine rimandato a casa. Non ha detto una parola da quando è tornato e la sua famiglia è preoccupata per quello che è successo durante la sua custodia.

Le proteste nel deserto del Naqab sono divampate per diversi giorni: i Beduini palestinesi combattono per la loro stessa esistenza e resistono a un progetto di forestazione aggressivo supervisionato dal Jewish National Fund (JNF), un’organizzazione sionista.

Per decenni JNF ha piantato pini non autoctoni sulla terra palestinese con l’obiettivo finale di espandere il programma di colonizzazione israeliano. Questo particolare progetto vale la stupefacente cifra di 48 milioni di dollari e ha il pieno sostegno del governo israeliano.

L’organizzazione ha in programma di radere al suolo Beer al-Sabe (Be’er Sheva) nel deserto del Naqab in particolare un villaggio chiamato Sa’wa. Secondo Marwan Abu Frieh, un ricercatore sul campo e coordinatore dell’ufficio del Naqab (Negev) per Adalah, centro legale per i diritti degli arabi in Israele, la polizia israeliana ha avviato una campagna di arresti che ha portato alla detenzione di circa 150 persone, di cui il 40% legalmente minorenni. Abu Frieh afferma che almeno 16 sono ancora detenuti.

“Nessuna paura”

Lo stato israeliano non riconosce il diritto alla terra dei Beduini palestinesi, nonostante detengano atti di proprietà precedenti alla creazione dello Stato di Israele e la loro presenza su queste terre sia testimoniata da migliaia di anni.

Il padre di una studentessa, Jenin di 16 anni, non era in casa quando sua figlia è stata arrestata. Mentre era al lavoro, il suo WhatsApp trillava continuamente per le immagini inviategli di Jenin che veniva arrestata dalle forze israeliane durante le proteste.

Sebbene avesse paura di ciò che sarebbe potuto accadere a sua figlia detenuta dagli israeliani, provava anche un senso di orgoglio per il fatto che la ragazza stesse combattendo per la sua patria.

“Ho preso permesso dal lavoro e sono andato a cercare mia figlia che è stata arrestata per alcune ore e poi è stata mandata a casa”, ricorda. “Le ho chiesto come fosse stata arrestata e come si è sentita mentre era in arresto: si sentiva orgogliosa di sé e non aveva alcuna paura”.

Ci racconta che la vita è difficile nel Naqab, con gli israeliani che si rifiutano di consentire loro di costruire sulla propria terra o di ammettere la loro esistenza, nonostante i ripetuti tentativi dei Beduini e le campagne internazionali per il riconoscimento delle richieste dei Beduini sulla terra e di essere lasciati in pace.

Le forze israeliane fanno affidamento sulla legislazione approvata alla Knesset e sui precedenti legali che hanno portato alla legge, che consente alla polizia di arrestare minori di appena 12 anni. L’organizzazione di Marwan, Adalah agisce come difesa legale degli arrestati palestinesi, ma si trova ad affrontare difficoltà, tra cui lavorare con la documentazione che viene rilasciata agli avvocati.

Le condizioni per i minori in detenzione sono pessime e molti sono infettati dal COVID-19 e subiscono abusi fisici e psicologici.

“Anche se vengono rilasciati, hanno già sofferto a causa della detenzione e di quella amara esperienza per un periodo di giorni o una settimana o più. Questa spezza il loro morale e li mette in uno stato psicologico pessimo a seguito a tutto quello che hanno subito durane la detenzione”, afferma l’avvocato Shahda Ibn Bari che difende regolarmente i minori palestinesi arrestati durante le proteste.

“I minori subiscono abusi durante il loro arresto e abbiamo visto alcune foto di minori che subivano forme di strangolamento”, dice Marwan. “Abbiamo anche appreso che durante le indagini sono minacciati di futuri rischi, come se stessero cercando di intimidire i minori per non farli manifestare o per informare altri minori di quello che è successo loro in modo da diffondere la paura tra di loro”.

Minori tenuti in isolamento

Queste tattiche vengono messe in atto per garantire che i giovani come Jenin abbiano troppa paura per unirsi alla protesta. Jenin, dice suo padre, è andata a fianco dei suoi compagni di scuola e mentre era lì non ha commesso atti violenti.

“Sentiva che stava facendo una azione giusta per il suo popolo e la sua causa perché le forze israeliane hanno attaccato i nostri vicini e molti dei suoi compagni erano presenti all’evento e questo è ciò che l’ha incoraggiata ad andare “, ha detto.

La polizia distorce la legge a proprio vantaggio. Sebbene i minori di età inferiore ai 14 anni debbano comparire in tribunale entro 12 ore dal loro arresto, la polizia chiede ripetutamente ai tribunali una proroga della detenzione, che di solito viene concessa.

Marwan spiega: “Un esempio di quello che sta succedendo: l’altro giorno è stato rilasciato un minore di 14 anni, la sua detenzione è stata prorogata sei volte. Sì, sei volte il tribunale ha chiesto di prorogare la sua detenzione, abbiamo fatto appello alla Corte Centrale che ha restituito il fascicolo alla Corte ordinaria e ha esteso la sua detenzione”.

“Oggi, durante la procedura per il suo rilascio, la polizia ha chiesto di interrompere l’attuazione del rilascio, ma quando abbiamo presentato ricorso contro questa decisione la polizia ha ritrattato ed è stato rilasciato”.

Shahda afferma che la vita degli avvocati è molto difficile nel difendere i minori, poiché i servizi di intelligence spesso intervengono e annullano per motivi di sicurezza nazionale ogni decisione del tribunale per il rilascio di un minore, e i presunti reati di questi minori sono riclassificati come tali [mincce alla sicurezza nazionale, ndtr.]

“[I servizi di intelligence] hanno l’autorità di impedire a un minore di incontrare un avvocato, di trattenerlo per giorni, di portarlo davanti al tribunale senza vedere un avvocato e possono tenere il bambino in isolamento dal mondo esterno”, dice.

L’arresto di minori è una guerra di logoramento contro i minori palestinesi da parte dei tribunali e della polizia che li arresta, noi facciamo sempre appello ma non sempre riusciamo a convincere la corte, a volte il tribunale israeliano non accetta il nostro ricorso”.

La madre di Ammar, preoccupata per il danno psicologico causato a suo figlio, si lamenta del fatto che le autorità israeliane si rifiutano di vedere i minori palestinesi per quello che sono: dei bambini. Dice: “Un bambino è sempre e solo un bambino, ma non lo è agli occhi dei feroci occupanti. Ciò che mi spezza di più il cuore è lo sguardo negli occhi dei bambini che vedono la loro casa demolita dagli occupanti”.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Sheikh Jarrah: le forze israeliane hanno demolito la casa dei Salhiya durante un raid notturno

Huthifa Fayyad, Nadda Osman

19 gennaio 2022 – Middle East Eye

Le forze israeliane hanno preso d’assalto la casa nel quartiere occupato di Gerusalemme Est, arrestando diversi abitanti, tra cui il padre Mahmoud Salhiya, e demolito la casa

Alle prime ore di mercoledì le forze israeliane hanno fatto irruzione nella casa della famiglia Salhiya a Sheikh Jarrah nella Gerusalemme est occupata e prima di svuotare la casa e demolirla hanno arrestato con violenza e aggredito i membri della famiglia.

Intorno alle 3 del mattino, ora locale, un gran numero di unità di polizia, comprese forze antiterrorismo e antisommossa con bulldozer, hanno preso d’assalto la casa dei Salhiya.

Yasmin Salhiya, residente nella casa e figlia del proprietario Mahmoud Salhiya, racconta a Middle East Eye che numerose unità israeliane hanno interrotto la fornitura di elettricità alla casa mentre la perquisivano e hanno iniziato a sparare gas lacrimogeni, bloccando la vista a tutti.

Yasmin dice che gli agenti hanno poi aggredito la famiglia e arrestato cinque di loro, incluso Mahmoud. Anche circa 22 sostenitori che si erano accampati all’interno della proprietà in solidarietà con la famiglia sono stati aggrediti e arrestati.

Mio padre stava dormendo quando l’hanno preso. Non gli hanno permesso di indossare una giacca o delle scarpe”, racconta Yasmin, 19 anni, a MEE.

Hanno separato tutti quelli che erano lì e hanno iniziato a picchiare i giovani uomini prima di trattenerli nelle jeep e portarli via”.

Tra le persone aggredite c’erano la sorella di nove anni di Yasmin, Ayah, e la loro zia.

Hanno strattonato Ayah e aggredito suo padre, i suoi fratelli e sua zia proprio di fronte a lei. È sconvolta”, afferma Yasmin.

Dopo aver svuotato le case, le forze israeliane hanno iniziato a sparare proiettili di gomma contro giornalisti e sostenitori che erano fuori e hanno impedito alle ambulanze di accedere al sito, racconta Yasmin.

I bulldozer hanno terminato la demolizione tre ore dopo, lasciando la casa in rovina e i beni della famiglia sparpagliati a terra.

La demolizione e l’espulsione della famiglia sono avvenuti tra freddo e forti piogge, costringendo coloro che non erano stati arrestati a cercare rifugio presso i parenti.

Diciotto persone vivevano nella proprietà in due case adiacenti, tra cui Mahmoud, sua moglie e i suoi figli, sua madre e la famiglia di sua sorella.

“Quando guardo la casa in cui sono cresciuta con la mia famiglia in questo stato non so come descrivere i miei sentimenti”, dice Yasmin.

Torneremo a casa nostra. Qualunque cosa ci facciano, ritorneremo. Il nostro messaggio per tutti è restate nelle vostre case. Non lasciatele. Non vendetele. Stiamo perdendo la Palestina pezzo a pezzo”.

‘Voglio vivere con dignità o morire’

Ahmad al-Qadmani, l’avvocato della famiglia, dichiara a MEE che le forze israeliane hanno approfittato della quiete della notte per effettuare la demolizione. Afferma che la famiglia aveva cercato di bloccare la demolizione presentando un ricorso in tribunale, ma che la demolizione è andata avanti a prescindere.

“Ieri abbiamo presentato ricorso alla corte suprema per congelare l’ordine di demolizione, ma non abbiamo avuto risposta fino ad ora… è un attacco aggressivo che viola leggi e regolamenti”, aggiunge.

Lunedì le forze israeliane avevano tentato di espellere la famiglia Salhiya dalla loro casa, facendo irruzione nel terreno su cui sorge e distruggendo cinque attività commerciali di proprietà di Mahmoud. Il quale si è poi barricato sul tetto della casa e ha minacciato di darsi fuoco e di bruciare la casa se le forze israeliane avessero tentato di rimuoverlo.

Dopo 10 ore di stallo, le forze israeliane hanno lasciato l’area e sostenitori e giornalisti hanno potuto entrare. Da allora, decine di persone hanno visitato la casa per mostrare sostegno e alcune, nel timore di una successiva incursione israeliana, vi hanno pernottato.

“Voglio vivere con dignità o morire”, ha detto Mahmoud a MEE lunedì. “Stavo per darmi fuoco perché ogni giorno muoio, muoio da 25 anni”, ha aggiunto, riferendosi alle pressioni ricevute per decenni per vendere o rinunciare alla terra.

La morte è meglio che restare a guardare la tua casa che viene distrutta… stiamo morendo ogni giorno. Siamo stati ripetutamente espulsi dalla nostra patria. Siamo già morti. Siamo morti dentro. Siamo morti dal 1948″, ha detto Mahmoud.

Ultimatum

La famiglia di Mahmoud ha affrontato l’espulsione sin dal 2017, quando la loro terra è stata destinata alla costruzione di scuole, dopo 23 anni di azioni giudiziarie contro il governo israeliano. Israele ha emesso un ultimatum a dicembre per l’evacuazione della proprietà il 25 gennaio.

Il comune israeliano di Gerusalemme sostiene che i Salhiya non hanno alcun diritto sulla terra che un tempo apparteneva al Gran Mufti di Gerusalemme, Amin al-Husseini – che Israele confiscò dopo aver catturato la città nel 1967 – in base alla legge sull’assenza del proprietario. Mahmoud dice che la famiglia possiede la casa e vi vive da generazioni, da quando fu espulsa dalla milizia sionista da Ain Karem nel 1948 durante la Nakba o catastrofe palestinese: la guerra che portò alla creazione di Israele.

Dopo che Israele ha cercato di espellere le famiglie palestinesi dall’area lo scorso maggio per far posto ai coloni israeliani, Sheikh Jarrah è diventato nell’ultimo anno un luogo simbolo. Infatti le espulsioni hanno scatenato proteste in tutta la Cisgiordania occupata e nella comunità palestinese all’interno di Israele, nonché un’operazione militare su larga scala nella Striscia di Gaza assediata.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Aumenta il pericolo per i pescatori di Gaza

Ahmed Al-Sammak

12 gennaio 2022 – The Electronic Intifada 

Il 24 dicembre Beirut al-Aqraa era due miglia al largo quando il suo peschereccio iniziò ad affondare. Immediatamente si diresse a riva, ma a poche centinaia di metri da essa il natante andò a fondo.

Insieme a due dei suoi lavoratori, Beirut nuotò verso la salvezza. Eppure tre dei suoi fratelli dovettero essere soccorsi e portati in ospedale.

“Fortunatamente era circa l’una del pomeriggio”, racconta Beirut. “E alcuni altri pescatori ci hanno visto e si sono precipitati ad aiutarci”.

L’incidente ha avuto gravi ripercussioni su suo fratello Nayef.

“Se fossi rimasto in mare più a lungo, sarei morto”, ha detto Nayef. “Da allora vomito ogni giorno. E ho paura del mare. Non navigherò mai più. Preferirei rimanere senza lavoro piuttosto che uscire di nuovo sulla barca di Beirut”.

Diverse barche di Beirut erano state danneggiate da Israele quando nel maggio dello scorso anno attaccò Gaza in forze. Durante questo attacco, Israele prese di mira il porto di Deir al-Balah, nel centro di Gaza, dove erano ormeggiate le barche di Beirut.

Una delle barche risultò irrecuperabile.

Le autorità di Gaza hanno stimato che le perdite di Beirut causate dall’offensiva di maggio sono state di circa $ 25.000. “Ma siamo più verso $ 30.000”, afferma Beirut.

La barca affondata il 24 dicembre si chiamava Amal, la parola araba per “speranza”. Era tra quelle danneggiate dalle schegge di una bomba israeliana a maggio.

Per riparare correttamente la barca, Beirut aveva bisogno di circa 3 chilogrammi di fibra di vetro. Non poteva permettersi la fibra di vetro, quindi ha usato un sigillante più economico.

Dall’attacco di maggio era stato in grado di continuare a lavorare come pescatore usando Amal. Tuttavia, quando la barca ha iniziato a sgretolarsi il 24 dicembre, è stato chiaro che il lavoro di riparazione non era stato adeguato.

Nessun risarcimento.

Beirut ricorda come fosse soprannominato “il re dei pescatori” perché “avevo quattro barche”.

Prima dell’attacco di maggio, poteva guadagnare fino a $ 1.300 al mese. Ora guadagna solo circa $ 300. “E nessuno ha pagato alcun risarcimento per la mia perdita” afferma.

È ben documentato che Israele attacca spesso direttamente i pescatori palestinesi. Tra ottobre e dicembre è stato registrato dagli osservatori sui diritti umani un totale di 73 incidenti in cui Israele ha aperto il fuoco sui pescatori di Gaza.

Le forze navali israeliane hanno persino sparato due volte sui pescatori di Gaza il giorno di Capodanno.

A Khader al-Saidi è stato ripetutamente sparato contro da Israele.

Nel 2017 a seguito di uno di questi episodi di violenza di stato Khader è stato arrestato e detenuto per quasi un anno. È stato accusato di aver attraversato il confine di pesca consentito al largo della costa di Gaza, un confine spesso arbitrario.

Nel febbraio 2019 Khader era fuori a pescare con suo cugino Muhammad quando sono stati attaccati dalla marina israeliana. I due uomini hanno cercato di scappare ma non ci sono riusciti.

La marina israeliana ha sparato circa 30 proiettili d’acciaio rivestiti di gomma contro Khader, mentre suo cugino è riuscito ad abbassarsi e evitare i colpi.

Dopo essere stato colpito a entrambi gli occhi, Khader è caduto e ha perso conoscenza.

Racconta: “Mi sono svegliato quattro giorni dopo in un ospedale israeliano ad Ashdod [una città portuale]. Ho sentito qualcuno che parlava ebraico e gli ho chiesto ‘dove sono?’ Ma non ha risposto”.

Un medico, che parlava arabo, ha poi spiegato a Khader che aveva perso la vista all’occhio destro. Il medico aveva previsto che il suo occhio sinistro avrebbe impiegato circa una settimana per riprendersi.

Nonostante soffrisse molto, Khader è stato incatenato a mani e piedi mentre i soldati lo portavano al posto di blocco militare di Erez, che separa Gaza e Israele.

È stato scortato attraverso il checkpoint e abbandonato dai soldati israeliani. Un uomo è venuto ad assisterlo e lo ha portato alla polizia locale, che ha chiamato un’ambulanza.

Quando Khader è stato visitato dai medici a Gaza, hanno confermato che ora era cieco da entrambi gli occhi.

Oggi Khader lascia raramente la sua casa. “Non ho alcun desiderio di incontrare nessuno”, dice. “Israele mi ha trasformato in un mendicante”

Ha richiesto un’indennità di invalidità dall’Autorità Nazionale Palestinese ma non ne ha percepita alcuna. “Ero il sostegno di tutta la mia famiglia allargata, nove persone in totale”, afferma. “Ora dipendo dalle persone gentili che mi danno dei soldi. Israele mi ha trasformato in un mendicante”.

Aprire il fuoco non è l’unico modo in cui Israele mina la sicurezza dei pescatori di Gaza. L’assedio incessante di Gaza ha causato un calo del tenore di vita in generale e in particolare tra i pescatori.

Molti pescatori non possono pagare il conto per i lavori di manutenzione delle loro imbarcazioni. Le restrizioni all’importazione di Israele hanno anche portato a una carenza di pezzi di ricambio.

La carenza significa che quando i pezzi di ricambio sono disponibili per l’acquisto sono più costosi di quanto non fossero in precedenza.

Secondo un uomo che esegue lavori di riparazione sulle barche di Gaza, il prezzo di un nuovo motore per una barca di medie dimensioni è ora di oltre 11.000 dollari, quasi il doppio di quello di dieci anni fa.

La conseguenza di lavorare su barche non idonee alla navigazione può rivelarsi fatale, come illustra la storia di Muhammad Musleh. Muhammad, 40 anni, è annegato a settembre quando la barca su cui stava pescando si è capovolta. Il suo motore aveva smesso di funzionare [lasciandola in balia delle onde, ntd].

Suo fratello, Alaa, ha ammesso che la barca non era in buone condizioni. Ma la famiglia ha dovuto continuare ad utilizzarla per necessità economica.

“Se avessimo avuto i soldi per comprare un altro motore, non avremmo perso Muhammed”, afferma Alaa. “Ma non potevamo permettercene uno nuovo. E ancora non possiamo”.

“So che è stato sbagliato per noi andare in mare aperto”, ha detto. “Ma non avevamo altra scelta. Sono padre di quattro figli, Fayez [un altro fratello] ne ha tre e anche Muhammad ne aveva quattro. Chi altro darà da mangiare ai nostri figli?”

Ahmed Al-Sammak è un giornalista che vive a Gaza.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)