Fine impunità israeliana

L’impunità israeliana sta per terminare

Maureen Clare Murphy

19 luglio 2020 – The Electronic Intifada

 

Il tempo dell’impunità di Israele si sta riducendo man mano che il Tribunale Penale Internazionale si avvicina all’apertura di un’indagine completa sui crimini di guerra in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza.

Un’offensiva diplomatica israeliana e le sanzioni da parte degli Stati Uniti non hanno ancora piegato la corte.

La sentenza della camera preliminare in merito alla giurisdizione della corte sulla Palestina è attesa in tempi brevi (la Corte Penale Internazionale si è appena aggiornata per le vacanze estive e si riunirà nuovamente a metà agosto), e il governo israeliano non prevede che i giudici decideranno a suo favore.

Il quotidiano di Tel Aviv Haaretz ha riferito questa settimana che Israele sta compilando “una lista segreta di funzionari militari e dell’intelligence che potrebbero essere soggetti ad arresti all’estero” nel caso in cui  un’indagine della CPI dovesse proseguire .

Il giornale afferma che a quanto si dice, l’elenco “ora comprende tra 200 e 300 funzionari”.

Il documento, ha aggiunto Haaretz, rimane segreto perchè la CPI “probabilmente considererebbe un elenco di nomi come un’ammissione ufficiale israeliana del coinvolgimento di questi funzionari nei casi sotto inchiesta”.

Tra i probabili sospetti, ministri di alto livello e gerarchie militari che hanno supervisionato e portato avanti l’offensiva israeliana del 2014 contro la Striscia di Gaza. Tra i potenziali sospetti di alto rango citati da Haaretz ci sono Benjamin Netanyahu e l’ex capo dell’esercito Benny Gantz, che guidano congiuntamente il governo di coalizione israeliano.

La lista potrebbe comprendere anche funzionari di livello inferiore coinvolti nella costruzione di colonie in Cisgiordania.

Ma il numero di persone responsabili di crimini di guerra perseguibili penalmente aumenta ad ogni esecuzione in strada di un palestinese da parte della polizia e dei militari israeliani.

Disarmato e indifeso”

Decine di organizzazioni per i diritti umani hanno dichiarato questa settimana alle Nazioni Unite  che i responsabili dell’esecuzione extragiudiziale del 26enne Ahmad Erakat ad un checkpoint il mese scorso devono essere chiamati a risponderne.

Israele ha sostenuto che Erakat sia andato intenzionalmente a sbattere contro il checkpoint con la sua auto, causando lievi ferite a una soldatessa. Il video dell’incidente mostra che i soldati hanno sparato a Erakat quando è uscito dal suo veicolo con le mani in alto.

Le organizzazioni per i diritti umani affermano nel loro appello che, quando è stato ucciso, Erakat  stava sbrigando delle commissioni poco prima del matrimonio di sua sorella. La sposa “stava già indossando il suo abito per il matrimonio quando ha saputo che suo fratello era stato ucciso”.

Erakat avrebbe dovuto sposarsi a settembre dopo che il suo matrimonio, previsto a maggio, era stato posticipato a causa della pandemia.

Le associazioni per i diritti umani affermano che Erekat, “palesemente disarmato e indifeso”, è stato lasciato morire dissanguato per circa 90 minuti, durante  i quali le forze di occupazione gli hanno negato le cure mediche.

I soldati israeliani presenti non hanno fornito ad Erakat nessun intervento di pronto soccorso. Dieci minuti dopo la sparatoria, un’ambulanza israeliana è arrivata al posto di blocco. Quei medici hanno curato solo la soldatessa leggermente ferita senza fornire aiuto a Erakat.

“Avendo curato un soldato israeliano ferito ma lasciando (Erakat) senza assistenza medica nonostante fosse gravemente ferito, la condotta di Israele equivale a una illegale discriminazione razziale”, aggiungono le organizzazioni a favore dei diritti umani.

I soldati israeliani hanno impedito ai paramedici palestinesi di avvicinarsi ad Erakat.

Le organizzazioni per i diritti umani affermano che negare le cure ai palestinesi feriti dalle forze israeliane “deve essere inteso come parte integrante di una diffusa e sistematica politica israeliana nei confronti dei palestinesi consistente nello sparare per uccidere”.

L’intento di questa politica, aggiungono le associazioni, “è quello di mantenere il regime israeliano di sistematica oppressione razziale e dominio sul popolo palestinese”.

Solo nel corso del 2019 l’esercito israeliano non ha prestato le cure ai palestinesi feriti in almeno 114 occasioni .

“La negazione di un’assistenza medica il prima possibile” proseguono nell’appello urgente le organizzazioni, equivale a “violazioni dei diritti alla salute e alla vita.”

“Clima di paura”

Israele sta trattenendo il corpo di Erakat come parte di una politica che consiste nel negare i resti dei palestinesi uccisi in quelli che sostiene siano stati attacchi a soldati e civili.

Dall’inizio dell’attuazione di tale politica, nel 2015, Israele ha ritardato la restituzione dei corpi di oltre 250 palestinesi uccisi dai propri soldati.

Continua a trattenere 63 di questi corpi in modo che possano essere usati come oggetto di contrattazione nei futuri scambi di prigionieri.

Questa pratica, approvata dalla corte suprema israeliana, è una forma di punizione collettiva che, affermano le organizzazioni per i diritti umani, “equivale a tortura e maltrattamenti nei confronti delle famiglie delle vittime”.

L’appello precisa che le pratiche israeliane di punizione collettiva “intendono creare un clima di paura, repressione e intimidazione” e “indebolire la capacità del popolo palestinese di opporsi efficacemente al regime”.

L’uccisione intenzionale di Ahmad Erakat è una grave violazione della Quarta Convenzione di Ginevra, affermano le organizzazioni per i diritti umani. Gli Stati firmatari, incluso Israele, sono obbligati a portare le persone sospettate di aver commesso tali violazioni dinanzi ai loro tribunali.

Tuttavia, aggiungono le associazioni, le procedure investigative interne da parte dell’esercito israeliano “hanno più volte dimostrato di non essere minimamente all’altezza degli standard internazionali per garantire indagini efficaci, oneste e credibili”.

Data la mancanza di accesso alla giustizia nei tribunali israeliani, le organizzazioni affermano che “le reali responsabilità riguardo le vittime palestinesi possono essere accertate solo attraverso la giustizia penale internazionale e i tribunali con giurisdizione internazionale.”

“La (Corte Penale Internazionale) a questo proposito rappresenta per i palestinesi un tribunale di ultima istanza”, aggiungono. Le organizzazioni esortano gli esperti delle Nazioni Unite per i diritti umani “a chiedere alla CPI di deliberare, senza indugio, a favore del riconoscimento della giurisdizione territoriale della corte” in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza.

Fino a quando non sarà garantita la giustizia, ci saranno nuove famiglie palestinesi in lutto per un figlio o una figlia, settimana dopo settimana, mese dopo mese, anno dopo anno.

 

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Relatore ONU denuncia violazioni israeliane

Il relatore speciale dell’ONU: la situazione dei diritti umani in Palestina continua ad essere terribile

Palestine Chronicle, Wafa, Media sociali

 

16 luglio 2020 – Palestine Chronicle

 

Mercoledì [15 luglio] il relatore speciale dell’ONU sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati dal 1967, Michael Lynk, ha reso pubblico il suo rapporto annuale, in cui affronta le illegali politiche israeliane di punizione collettiva nei confronti del popolo palestinese.

Evidenziando il ricorso sulle punizioni collettive da parte di Israele come uno “strumento fondamentale nella sua cassetta degli attrezzi coercitiva per il controllo della popolazione,” Lynk chiede ad Israele di “porre fine ad ogni misura che rappresenti una punizione collettiva.”

Il rapporto evidenzia le politiche e le prassi israeliane che costituiscono una punizione collettiva illegale, compreso il blocco durato 13 anni della Striscia di Gaza, le demolizioni punitive di case, il fatto di non consegnare corpi [di palestinesi uccisi, ndtr.] e le limitazioni alla libertà di movimento.

Nel suo rapporto Lynk presenta una lista di raccomandazioni, chiedendo a Israele di rispettare le leggi internazionali e l’opinione maggioritaria a livello internazionale, mettendo totalmente e rapidamente fine alla sua occupazione durata 53 anni del territorio palestinese.

Chiede anche al governo israeliano di interrompere ogni misura che rappresenti una punizione collettiva.

Mentre il rapporto è principalmente centrato sulla questione delle punizioni collettive, esso affronta anche “un certo numero di altri problemi, compresi la continua espansione delle colonie israeliane; l’incremento della violenza dei coloni; la detenzione di palestinesi; l’uso di prodotti delle colonie; la prevista annessione di parti della Cisgiordania palestinese da parte di Israele e il suo potenziale impatto; la situazione dei difensori dei diritti umani e l’impatto della pandemia di COVID-19.”

Shahd Qaddoura, consulente per le ricerche giuridiche e la difesa di Al-Haq [ong palestinese per i diritti umani, ndtr.], ha accolto positivamente il rapporto, affermando:

“Il rapporto del professor Lynk prende in esame una delle più consuete politiche israeliane di imposizione delle misure di punizione collettiva come strumento di repressione, controllo e dominazione contro il popolo palestinese per conservare il suo regime colonialista di insediamento e di apartheid. Mentre i palestinesi continuano a soffrire per l’assenza di giustizia e dell’obbligo di rispondere a livello internazionale, anche davanti alla Corte Penale Internazionale, Israele continua a beneficiare di una cultura dell’impunità creata illegalmente.”

 

 

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Il coronavirus accentua la crisi politica in Israele

La crisi dovuta al coronavirus accentua lo scontro tra Netanyahu e Gantz

 

La crisi dovuta al coronavirus e le gravi difficoltà economiche non hanno fatto che approfondire la distanza tra il primo ministro Benjamin Netanyahu e il suo alleato di coalizione, il primo ministro che lo dovrebbe sostituire e attuale ministro della Difesa Benny Gantz.

Mazal Mualem

16 luglio 2020 – Al Monitor

 

Il capo di Blu e Bianco, Benny Gantz, che è il primo ministro di riserva e il ministro della Difesa, sperava che la serie di interviste che ha rilasciato dalla casa in cui è in quarantena a Rosh HaAyin alle tre principali stazioni televisive del Paese il 15 luglio avrebbe mitigato, almeno parzialmente, le sue carenze nel campo delle pubbliche relazioni.

Le interviste sono state registrate e si pensava che sarebbero state messe in onda in prima serata, con l’obiettivo di suscitare attenzione. Gantz è arrivato preparato, con una pagina di messaggi al pubblico e due importanti notizie: una riguardo alla possibilità che Israele, alla luce dell’incremento giornaliero della diffusione del virus del COVID-19, rinnovi una chiusura totale del Paese; la seconda in merito all’insistenza di Gantz per un bilancio biennale, a differenza del primo ministro Benjamin Netanyahu, che vorrebbe un bilancio annuale. Quest’ultima differenza di opinione potrebbe persino portare, in uno scenario improbabile, alle elezioni.

Ma mentre Gantz si stava preparando a queste importanti interviste, Netanyahu e il ministro delle Finanze Israel Katz erano impegnati a dare gli ultimi ritocchi a un altro turbinoso piano economico da presentare durante una conferenza stampa. Quel giorno Netanyahu intendeva occupare l’attenzione dell’opinione pubblica, proprio mentre Gantz si stava preparando a fare altrettanto.

Negli ultimi giorni Netanyahu ha dovuto occuparsi di una crescente ondata di proteste e manifestazioni; aveva bisogno di una “soluzione” immediata per calmare le masse. La notte precedente, il 14 luglio, davanti alla casa di Netanyahu su via Balfour a Gerusalemme si era svolta una turbolenta manifestazione, terminata con decine di arresti e una sensazione di perdita di controllo. Alla stregua della decisione del presidente USA Donald Trump di distribuire soldi alla popolazione all’inizio della crisi di coronavirus, Netanyahu ha deciso un’immediata elargizione di fondi a tutti i cittadini del Paese.

Gantz è stato aggiornato da Netanyahu e da Katz riguardo alla loro intenzione di distribuire 6 miliardi di shekel (circa 1 miliardo e mezzo di euro) solo poche ore prima della conferenza stampa del 15 luglio.

Benché Gantz si fregi del titolo di primo ministro in alternanza, Netanyahu e la sua gente non lo hanno consultato né hanno preso in considerazione l’opposizione di principio di Gantz a distribuire denaro senza fare differenze tra chi ha realmente bisogno di aiuto e chi invece no. L’approccio di Gantz è quello consigliato dai più alti livelli del ministero delle Finanze, guidato dal governatore della Banca di Israele.

Netanyahu ha semplicemente annunciato la sua decisione al primo ministro che lo dovrebbe sostituire. È vero, il primo ministro ha suggerito che lo stesso Gantz partecipasse alla conferenza stampa, ma persino Gantz ha capito che ciò gli avrebbe provocato più danni che benefici, e si è rifiutato di essere presente.

Il risultato finale è stato che le interviste a Gantz sono state oscurate dalla grande discussione provocata dalla conferenza stampa in diretta, con centinaia di migliaia di cittadini incollati agli schermi televisivi. Ancora una volta Netanyahu ha preso il controllo dell’agenda pubblica e, dopo una serie di lunghe settimane di “ibernazione da COVID-19”, è tornato in prima linea. Come prevedibile, la proposta di Netanyahu e Katz è stata attaccata da ogni parte e deve ancora essere approvata dal governo.

Ma ha ottenuto il suo scopo: nelle strade si parla meno delle manifestazioni e, se Gantz si dovesse opporre all’iniziativa, Netanyahu apparirà ancora come la figura che cerca di assistere e aiutare la popolazione.

L’avvenimento qui descritto è un’ulteriore manifestazione della grave crisi di fiducia tra Netanyahu e Gantz, due persone che hanno promesso ai cittadini di risolvere la crisi del coronavirus. Ma non hanno avuto successo nel creare un meccanismo per lavorare insieme in armonia e collaborazione per risolvere una delle maggiori crisi vissute dallo Stato di Israele da sempre.

Quasi ogni cosa diventa argomento di discussioni e tensioni tra le due parti: il bilancio, la “guerra” di Netanyahu contro il sistema giudiziario, opposte visioni del mondo. A ciò si aggiungono “ego ipertrofici” e l’enorme numero di ministeri di ambo le parti che stanno lottando per ottenere “rilevanza” – a spese gli uni degli altri.

Gantz è certo che Netanyahu stia preparando il terreno per elezioni anticipate e non abbia intenzione di lasciare libero il posto di primo ministro tra un anno e mezzo, come stabilito nell’accordo di unità tra i partiti Likud e Blu e Bianco. Nel caso specifico non si tratta di paranoia, ma di una possibilità concreta. Netanyahu, da parte sua, detesta in ogni momento questo governo. Si è abituato a comandare con il pugno di ferro, praticamente da solo, senza una vera opposizione all’interno del governo. Ma ora, mentre gestisce la crisi e si scontra con degli ostacoli, deve prendere in considerazione le opinioni dei ministri di Blu e Bianco. Il 14 luglio ha cercato di richiudere le piscine e le palestre del Paese, ed è stato bloccato dai ministri; la questione è arrivata alla commissione COVID-19 della Knesset [il parlamento israeliano, ndtr.], che ha annullato la sua decisione. Le piscine e le palestre non sono state chiuse, provocando la sensazione tra la popolazione che il modo in cui il Pase è governato non funzioni.

“Netanyahu si sente come Gulliver nella terra di Lilliput. Nelle riunioni del governo ogni sorta di giovane ministro di Blu e Bianco gli fa la predica. Ne soffre e, secondo me, rimpiange di non aver convocato le elezioni quando era avanti nei sondaggi,” afferma ad Al-Monitor un ministro del Likud che vuole rimanere anonimo.

La sera del 14 luglio, sullo sfondo della pessima pubblicità riguardante la vastissima diffusione del coronavirus, un importante membro del Likud ha duramente criticato Gantz, e le sue parole sono state citate dai media. Il membro del Likud ha detto che il primo ministro è furioso con Gantz e il suo partito perché bloccano le iniziative necessarie a impedire la diffusione dell’infezione, e che Blu e Bianco lo fa per ragioni politiche. “Gantz e Blu e Bianco devono smetterla immediatamente con i giochetti politici riguardo al COVID-19; questo comportamento mette in pericolo le vite dei cittadini israeliani. Da quando il governo di unità ha stabilito che ogni decisione debba essere presa in accordo tra il Likud e Blu e Bianco, loro (Blu e Bianco) silurano ogni risoluzione non in linea con le loro valutazioni populiste,” ha affermato il referente, che ricopre un ruolo importante, gettando così benzina sul fuoco.

Gantz non ha nessun dubbio sul fatto che le parole del politico del Likud siano arrivate direttamente dall’ufficio di Netanyahu, ed ha reagito. Poco dopo un politico di Blu e Bianco ha accusato Netanyahu di cercare di dare la colpa a Gantz della sua fallimentare gestione della crisi del COVID-19, e che il primo ministro non consente a Gantz, in quanto ministro della Difesa, di condurre lui la lotta contro il COVID-19. “Questo non è tempo per la politica e scontri (interni), solo per battaglie per risanare l’economia, il sistema sanitario e la società… Ci sono quelli che affrontano questi problemi, e quelli che sfuggono alle proprie responsabilità a questo riguardo,” ha detto alla stampa, citato come fonte anonima, il politico di Blu e Bianco.

Fino a stamattina sono stati fatti tentativi da entrambe le parti di spegnere le fiamme del conflitto interno. Sono stati intervistati ministri di Blu e Bianco, compreso il ministro degli Esteri Gabi Ashkenazi, che si è limitato a critiche moderate contro la munificenza di Netanyahu nei confronti della Nazione. È quello che succede quando due parti opposte sono imprigionate in un governo da incubo sull’orlo di una gravissima crisi e non hanno nessuna via di fuga.

Ma i segnali indicano un altro imminente scontro politico, che si prevede scoppierà molto presto. La prossima settimana Netanyahu deve far approvare dal governo il suo programma di distribuzione del denaro.

 

 

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)

 

 




Tribunale israeliano consente alla NSO di continuare a vendere tecnologia per lo spionaggio ai governi autoritari

13 lug 2020 – Al Jazeera

Amnesty afferma che il sistema di spionaggio tecnologico Pegasus viene utilizzato dai governi repressivi per colpire attivisti e giornalisti a favore dei diritti umani.

Un tribunale israeliano ha respinto la richiesta di togliere alla controversa società israeliana di tecnologia per lo spionaggio NSO Group la licenza di esportazione per sospetto uso della tecnologia dell’azienda ai danni di giornalisti e dissidenti in tutto il mondo.

L’istanza legale, presentata da Amnesty International a gennaio, richiedeva al tribunale di impedire a NSO di vendere la sua tecnologia all’estero, in particolare a governi repressivi.

Il tribunale del distretto di Tel Aviv ha stabilito che gli avvocati di Amnesty non hanno fornito prove sufficienti “per dimostrare l’affermazione che fosse stato fatto un tentativo di rintracciare un attivista per i diritti umani cercando di hackerare il suo cellulare” o che l’hackeraggio fosse stato effettuato da NSO.

“La concessione di una licenza viene effettuata dopo un’indagine estremamente rigorosa e anche dopo la concessione dell’autorizzazione le autorità conducono dei controlli e rigorose indagini, se necessario”, ha affermato il tribunale. In caso di violazione dei diritti umani, ha aggiunto, tale permesso può essere sospeso o annullato.

Il tribunale ha emesso la sentenza domenica, ma l’ha resa pubblica solo lunedì.

Gil Naveh, portavoce di Amnesty International Israel, ha dichiarato che l’organizzazione è rimasta delusa ma non sorpresa.

“È una tradizione di lunga data da parte dei tribunali israeliani avvallare burocraticamente le decisioni del Ministero della Difesa israeliano”, ha detto.

L’organizzazione non è a conoscenza delle prove fornite dalla NSO o dal Ministero della Difesa alla corte, perché le udienze si sono tenute a porte chiuse. “Anche se lo sapessimo, non potremmo parlarne”, ha detto.

Nel 2018 Amnesty ha denunciato che uno dei suoi dipendenti è stato preso di mira dal sistema di spionaggio di NSO, affermando che un hacker ha cercato di penetrare nello smartphone del membro dello staff usando come esca un messaggio su WhatsApp riguardante una protesta davanti all’ambasciata saudita a Washington.

NSO, una società israeliana di noleggio hacker, utilizza il suo sistema di spionaggio Pegasus per prendere il controllo di un telefono, delle sue videocamere e dei suoi microfoni e per ricavarne i dati personali dell’utente.

L’azienda è stata accusata di vendere il suo software di sorveglianza a governi repressivi che lo usano contro i dissidenti. La clientela non viene rivelata, ma si ritiene che includa Stati mediorientali e latinoamericani. La società ha dichiarato di vendere la propria tecnologia ai governi approvati da Israele per aiutarli a combattere criminalità e terrorismo.

NSO Group ha affermato in una dichiarazione che la società “continuerà a lavorare per fornire tecnologia agli Stati e alle organizzazioni di intelligence”, aggiungendo che il suo scopo è “salvare vite umane”.

In un rapporto pubblicato il mese scorso Amnesty International ha affermato che il telefono del giornalista marocchino Omar Radi è stato violato con l’uso della tecnologia dell’NSO nell’ambito degli sforzi del governo per reprimere il dissenso.

Un dissidente saudita ha accusato l’NSO di essere coinvolta nell’omicidio del giornalista saudita Jamal Khashoggi nel 2018.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




“Dai da mangiare a un beduino”: video razzista israeliano suscita indignazione

Redazione di Palestine Chronicle

13 luglio 2020 – Palestine Chronicle

Riprese video diventate virali sulle reti sociali mostrano il conduttore di un popolare spettacolo televisivo israeliano per bambini che viaggia con la sua famiglia nel deserto del Naqab (Negev) e che dà da mangiare a due bambini palestinesi come se si tratti di animali da zoo.

Il video mostra Roy Oz (noto anche come Roy Boy) che apre il finestrino della sua macchina mentre tiene in mano un biscotto. Poi lui agita il biscotto davanti a due bambini palestinesi di una comunità beduina mentre chiede a suo figlio: “Ariel, vuoi dar da mangiare a un beduino?”

“Diamo da mangiare a un beduino. Non volete dare da mangiare a un beduino?” dice ripetutamente Oz ai suoi figli sui sedili posteriori.

Il video ha provocato un’immediata indignazione tra gli attivisti per i diritti umani, con molte critiche nei confronti del razzismo istituzionalizzato in Israele.

In un post su Facebook Oz ha affermato che il video era stato realizzato cinque anni fa durante un viaggio di famiglia. Non è chiaro come le immagini vergognose siano filtrate sulle reti sociali.

Atia al-Asem, capo del consiglio regionale dei villaggi palestinesi nel Naqab, ha manifestato indignazione riguardo al video, affermando che i beduini sono trattati dagli israeliani come se fossero “scimmie”

Il deputato arabo del parlamento israeliano (la Knesset) Ahmad Tibi ha descritto il comportamento di Oz come “il peggior comportamento umano, di una brutalità razzista e ignobile.”

Il giornalista e redattore palestinese di Palestine Chronicle Ramzy Baroud ha affermato: “Le migliaia di palestinesi che stanno ancora vivendo nel deserto del Naqab sono state sottoposte a una costante campagna israeliana di disumanizzazione, razzismo e pulizia etnica.”

“Il razzismo e la pulizia etnica delle comunità beduine palestinesi vanno di pari passo,” ha aggiunto Baroud. “Il video di Oz non può essere visto separatamente dai progetti del governo israeliano di rinchiudere i palestinesi nel Naqab in comunità isolate e povere per far posto allo sviluppo di zone residenziali per soli ebrei.”

“Perché questo sinistro scenario avesse successo i beduini palestinesi dovevano essere disumanizzati dal sistema politico e mediatico israeliano. Il video di Oz è una semplice manifestazione di questa indignante situazione.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Le demolizioni di case raggiungono un picco prima dell’annessione

Maureen Clare Murphy

7 luglio 2020 – Electronic Intifada

L’annessione formale di territori occupati da parte di Israele potrebbe essere stata accantonata, ma prosegue l’espulsione forzata di palestinesi in Cisgiordania.

Secondo l’associazione [israeliana] per i diritti umani B’Tselem, il mese scorso le demolizioni israeliane di case palestinesi nei territori sono aumentate.

In Cisgiordania, compresa Gerusalemme est – che Israele ha già annesso in violazione delle leggi internazionali – sono state distrutte circa 45 case.

B’Tselem afferma che otto delle case distrutte a Gerusalemme “sono state demolite dai loro proprietari, dopo che essi hanno ricevuto un ordine di demolizione dalla Municipalità e desideravano evitare di pagare il costo della demolizione e le multe del Comune.”

A Gerusalemme est più di 50 persone, tra cui circa 30 minorenni, sono state cacciate in seguito alle demolizioni. Nel resto della Cisgiordania 100 persone, metà delle quali minorenni, sono state lasciate senza casa. Oltre alla distruzione delle case, il mese scorso le forze di occupazione israeliane hanno raso al suolo più di 35 strutture non abitative.

B’Tselem ha pubblicato il video dell’Amministrazione Civile israeliana – in realtà un’unità del suo esercito – che il 3 giugno ha demolito cinque stalle di proprietà della famiglia Abu Dahuk nei pressi di Gerico nella Valle del Giordano.

Le forze di occupazione hanno anche confiscato pannelli solari, frigoriferi e contenitori per l’acqua. In gennaio, con il pretesto della vicinanza di una zona militare israeliana, la famiglia Abu Dahuk è stata espulsa da un’area attigua in cui aveva vissuto per 30 anni.

Israele ha dichiarato zona militare chiusa più di metà della Valle del Giordano della Cisgiordania. Ai palestinesi che vivono in queste zone, molti dei quali in comunità di pastori, è stato ordinato di evacuare le loro case quando Israele compie esercitazioni militari di combattimento.

Ma il vero scopo della dichiarazione di zone militari chiuse è l’espropriazione delle terre palestinesi per poi annetterle ad Israele.

L’utilizzo di macchinari edili delle ditte Caterpillar e JCB

All’inizio di giugno l’Amministrazione Civile israeliana si è occupata della distruzione di sei case nelle colline meridionali di Hebron, in Cisgiordania.

Per mettere in atto questi crimini ha utilizzato macchinari della Caterpillar e della JCB.

Entrambe le imprese, rispettivamente americana e britannica, sono state contestate per il loro perdurante coinvolgimento nella distruzione delle case palestinesi.

In seguito, nello stesso mese l’amministrazione civile ha smantellato e confiscato un recinto per allevamento del bestiame in un’altra zona delle colline meridionali di Hebron.

Le forze di occupazione hanno sparato granate stordenti contro abitanti e attivisti che protestavano contro la confisca.>

Così, anche se l’annessione di Israele non è stata formalizzata, i palestinesi continuano ad essere espulsi per farvi posto.

Come ha detto recentemente Hagai El-Ad, direttore di B’Tselem, la mancanza di iniziative internazionali riguardo all’annessione di fatto delle terre della Cisgiordania invia ad Israele un messaggio di accondiscendenza:

“Fai quello che vuoi con milioni di palestinesi per tutto il tempo che vuoi. È permesso quasi tutto finché non vengano ufficialmente formalizzati certi aspetti, in modo che noi tutti possiamo continuare a guardare da un’altra parte rispetto a questa ingiustizia e facciamo finta che sia temporanea.”

Finora nel corso di quest’anno in Cisgiordania sono state demolite circa 325 strutture di proprietà di palestinesi, con conseguente espulsione di circa 370 persone.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Sanzioni degli USA contro la CPI: a proposito della risposta collettiva di 67 Stati

Nicolas Boeglin

30 giugno 2020 – Middle East Monitor

Lo scorso 11 giugno il mondo ha assistito attonito a un atteggiamento inusitato nella storia del diritto internazionale: gli Stati Uniti hanno annunciato ufficialmente vari provvedimenti sanzionatori presi contro il personale della Corte Penale Internazionale (CPI).

Lo scorso 23 giugno sono stati 67 gli Stati aderenti allo Statuto di Roma che hanno deciso di alzare la voce, diffondendo un comunicato congiunto in cui si oppongono a queste insolite sanzioni unilaterali nordamericane contro la giustizia penale internazionale.

L’iniziativa di questa risposta collettiva, scarsamente pubblicizzata, è stata affidata a Costarica e Svizzera.

Sintesi del testo del comunicato congiunto

Il comunicato sottoscritto chiarisce che:

Come Stati Membri dello Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale (CPI) riaffermiamo il nostro appoggio incondizionato alla Corte come istituzione giudiziaria indipendente e imparziale. In sintonia con il comunicato stampa dell’11 giugno del presidente dell’Assemblea degli Stati Membri rinnoviamo il nostro impegno per mantenere e difendere i principi e i valori sanciti dallo Statuto di Roma e di preservarne l’integrità senza che essa venga danneggiata da nessuna iniziativa o minaccia contro la Corte, i suoi funzionari e quanti collaborano con essa.”

In questo appello unitario da parte dei firmatari si afferma anche:

Continuiamo ad impegnarci a favore di un ordine internazionale sulla base di regole. La Corte Penale Internazionale è parte integrante di questo ordine ed è un’istituzione fondamentale nella lotta contro l’impunità e nella ricerca della giustizia, componenti essenziali della pace, della sicurezza e della riconciliazione sostenibili. Di conseguenza continueremo a rispettare i nostri obblighi di collaborazione in base allo Statuto di Roma ed esortiamo tutti gli Stati a garantire la piena collaborazione con la Corte affinché essa svolga al meglio il proprio importante compito di garantire la giustizia per le vittime dei crimini più gravi, di grande rilevanza per la comunità internazionale.”

Va sottolineato che, per una qualche ragione che lascia sorpresi, il testo in spagnolo del comunicato non è stato pubblicato in nessun sito ufficiale di nessuno Stato ispanofono, ragione per la quale ci siamo limitati a riprodurre le versioni ufficiali in inglese e francese rese pubbliche dagli organismi diplomatici di altri Stati.

Benché, a differenza del titolo, il testo in sé non menzioni esplicitamente gli Stati Uniti, esso riafferma in modo inequivocabile l’appoggio alla giustizia penale internazionale da parte di questi 67 Stati che lo hanno sottoscritto, cercando in questo modo di rispondere alla inusitata decisione nordamericana annunciata lo scorso 11 giugno.

Alcuni brevi particolari sui firmatari

Gli Stati Membri dello Statuto di Roma sono in totale 123 (secondo il documento ufficiale del depositario dello Statuto di Roma, che spetta alla Segreteria Generale delle Nazioni Unite).

La lista dei 67 Paesi, che precede il testo del comunicato congiunto reso pubblico il 23 giugno dall’Aia, consente di identificare chiaramente gli Stati Membri dello Statuto di Roma che per qualche ragione hanno scelto di non appoggiare l’iniziativa presentata da Costarica e Svizzera non firmando il testo.

La mancanza di queste firme risponde probabilmente a forti pressioni diplomatiche esercitate dagli Stati Uniti. Nel caso dell’America Latina non compaiono El Salvador, Guatemala, Honduras, Panama e Paraguay. Nel caso di Stati Membri dell’Unione Europea (UE), né Ungheria né Polonia hanno considerato opportuno firmare il comunicato, così come la Corea del Sud e il Giappone in Asia.

Nel suo account twitter personale il presidente dell’Assemblea degli Stati Membri, il sudcoreano O-Gon Kwon, ha ringraziato Costarica e Svizzera per aver dato avvio all’iniziativa di questa risposta collettiva.

Il fatto che il Costarica sia stato tra quelli che hanno preso l’iniziativa non fa che riconfermare la sua tradizionale vocazione di attaccamento alla giustizia e di difesa del diritto internazionale.

Nel caso specifico della CPI è necessario ricordare che il Costarica è stato l’unico Stato centroamericano a non firmare l’Accordo Bilaterale di Immunità” (o ABI) uno degli oltre 100 firmati dagli Stati Uniti per evitare che il suo personale militare o civile possa essere consegnato alla giustizia penale internazionale. A questo riguardo il tipo di pressioni esercitate dai diplomatici nordamericani negli anni 2005 e 2006 al più alto livello in Costarica e le risposte alle loro richieste possono essere analizzate riguardando i telegrammi confidenziali resi noti da Wikileaks. Nel secondo di questi messaggi si può leggere che [in inglese nel testo, ndtr.] “dopo l’incontro, tuttavia, la vicepresidentessa di Arias, Laura Chinchilla, ha chiesto una copia dell’articolo 98 dell’accordo tra USA e Colombia, che poi le abbiamo consegnato.”

Nella pubblicazione del 2012 dell’Università per la Pace [istituzione accademica dell’ONU con sede in Costarica, ndtr.] l’ex-ministro degli Esteri del Costarica Bruno Stagno Ugarte, nel suo articolo intitolato “Difendere l’integrità dello Statuto di Roma: gli alti e bassi del caso Costarica, 2002-2008”, entra nei dettagli dell’impatto delle sanzioni a cui è stato in seguito sottoposto il Costarica per essere rimasto fedele ai principi sui quali si fonda la CPI.

Tornando alle sanzioni annunciate nel giugno del 2020 contro il personale della CPI “non c’è dubbio che questa decisione nordamericana non abbia precedenti nella storia del diritto internazionale.”

Anche il fatto di rispondere a una insolita decisione unilaterale (salutata e accolta positivamente da un solo Stato: Israele) con una controffensiva diplomatica collettiva è un gesto altrettanto inedito: da questo punto di vista il comunicato unitario sottoscritto da questi 67 Paesi Membri dello Statuto di Roma può essere considerato una vera “prima assoluta” nella storia della giustizia penale internazionale.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dallo spagnolo di Amedeo Rossi)




Ex presidenti e personalità latinoamericane chiedono sanzioni contro l’apartheid israeliano

4 luglio 2020 – Monitor de Oriente

Oggi più di 320 personalità pubbliche, accademici, ex-presidenti e parlamentari di tutta l’America latina hanno presentato una dichiarazione congiunta contro i piani israeliani di annessione di grandi estensioni della Cisgiordania occupata.

Tra i firmatari ci sono il premio Nobel per la Pace argentino Adolfo Pérez Esquivel; i musicisti brasiliani Chico Buarque e Caetano Veloso; gli ex-presidenti Luiz Inácio Lula da Silva e Dilma Rousseff (Brasile), Pepe Mujica (Uruguay), Fernando Lugo (Paraguay), Rafael Correa (Ecuador) ed Ernesto Samper (Colombia); l’ex-ministro degli Esteri del Brasile Celso Amorim; Paulo Sérgio Pinheiro, ex- segretario per i Diritti Umani del Brasile ed attuale presidente della Commissione Arns per la Difesa dei Diritti Umani. Anche più di 60 deputati brasiliani di vari partiti – che comprendono il PSOL [Partito Socialismo e Libertà, di estrema sinistra], il PT [Partito dei Lavoratori, di sinistra], il PCdoB [Partito Comunista del Brasile, estrema sinistra] e il PDT [Partito Democratico Laburista, di centro sinistra] – hanno firmato il documento.

La dichiarazione resa pubblica ieri al margine di una iniziativa della società civile sudafricana e come parte di una risposta unitaria di Africa, Asia e America latina, chiede sanzioni contro Israele e la ricostituzione del Comitato Speciale dell’ONU contro l’apartheid per bloccare le politiche israeliane di colonizzazione.

La crescente gravità delle violazioni da parte di Israele e la sua impunità ci impongono di rispondere all’appello lanciato dalla grande maggioranza delle organizzazioni della società civile palestinese…Appoggiamo la richiesta del popolo palestinese che si ponga fine al commercio di armi e alla cooperazione militare e in materia di sicurezza con Israele; che si annullino gli accordi di libero commercio con questo Stato; che si proibisca il commercio con le illegali colonie israeliane; che si chieda conto alle persone e ai soggetti che cooperano, complici di questo regime di occupazione e di apartheid. Ci impegniamo a lavorare, nei nostri rispettivi contesti nazionali, per sostenere l’applicazione di queste misure,” dice la dichiarazione.

La campagna ha ottenuto anche le firme di decine di accademici brasiliani, tra cui l’antropologo del Museo Nazionale Eduardo Viveiros de Castro, il pluripremiato scrittore Milton Hatoum e il fumettista Carlos Latuff. Altri firmatari sono l’ex-sindaco di São Paulo Fernando Haddad; Sônia Guajajara, dirigente del Coordinamento dei Popoli Indigeni del Brasile (APIB); Débora Silva del Movimento delle Madri di Maggio; Guilherme Boulos, coordinatore del Movimento dei Lavoratori senza Casa (MTST); Douglas Belchior del Movimento Negro Uneafro; João Pedro Stédile del Movimento dei Lavoratori senza Terra (MST); dirigenti sindacali, come Sérgio Nobre della Central Unificata dei Lavoratori (CUT) e Carlos Prates della CSP-Conlutas; Juliano Medeiros, presidente del Partito Socialismo e Libertà (PSOL); José Maria de Almeida, presidente del Partito Socialista Unificato dei Lavoratori (PSTU); Edmilson Costa, segretario generale del Partito Comunista Brasiliano (PCB); Maria Carolina de Oliveira, segretaria dei Rapporti Internazionali dell’ Unione Nazionale degli Studenti (UNE).

Firmando il documento l’ex-primo ministro brasiliano Celso Amorim ha affermato che “l’annessione del territorio palestinese da parte di Israele non solo è una violazione delle leggi internazionali e una minaccia per la pace, ma anche un’aggressione contro gli uomini e le donne che hanno lottato contro il colonialismo e l’apartheid. La voce del Sud deve essere ascoltata.”

Inoltre anche il movimento internazionale per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) in America latina ha lanciato una campagna denominata “No all’Annessione” (#NoALaaAnexación).

Il prossimo sabato attivisti sudafricani manifesteranno in rete contro i progetti di annessione e l’apartheid israeliani. Tra le personalità pubbliche che parteciperanno all’evento ci saranno Omar Barghouti, fondatore del movimento BDS; Mandla Mandela, nipote di Nelson Mandela; Rajmohan Gandhi, nipote del Mahatma Gandhi; l’attivista sudafricano Phakamile Hlubi Majola; l’ex ministro degli Esteri brasiliano Celso Amorim; la deputata cilena Karol Cariola.

(traduzione dallo spagnolo di Amedeo Rossi)




“Silicon Wadi”: al momento l’ultimo progetto israeliano per prendere il controllo della Città Vecchia di Gerusalemme

Aseel Jundi – Wadi Al-Joz, Gerusalemme est occupata

venerdì 3 luglio 2020 – Middle East Eye

Numerose attività economiche palestinesi a Gerusalemme est hanno ricevuto avvisi di espulsione in quanto Israele prevede di installare il suo parco tecnologico della zona

Nonostante lo choc subito quando ha ricevuto da parte del Comune dell’occupazione israeliana a Gerusalemme l’ordine di lasciare la sua officina, davanti ai suoi clienti Mahmoud al-Kurd non ha mai perso il sorriso.

Il trentacinquenne lavora a tempo pieno nell’autofficina, costruita nel 1960 e situata nell’unica zona industriale di Gerusalemme est occupata. Kurd vi ha lavorato quando era ancora un bambino, insieme a suo padre, che aveva affittato il locale, lo ha diretto per decine di anni prima della sua morte e lo ha lasciato ai suoi figli perché provvedano alle necessità delle loro famiglie. Ha ricevuto l’avviso di espulsione il 1 giugno e ha tempo fino alla fine dell’anno per lasciare i locali in cui svolge la sua attività.

Il 3 giugno il Municipio ha annunciato il progetto di parco tecnologico battezzato “Silicon Wadi” (wadi significa valle). Essa sostituirà la zona industriale che si trova nel quartiere palestinese di Wadi al-Joz a Gerusalemme est, nelle immediate vicinanze della Città Vecchia.

Questo progetto, valutato 2,1 miliardi di shekel (circa 542 milioni di euro), prevede 250 000 m² di “uffici per le imprese di tecnologia avanzata”, così come 100.000 m2 divisi tra “negozi” e “hotel”. Si inscrive nel progetto quadro “Centro città di Gerusalemme est”, approvato in aprile dalla commissione israeliana di urbanistica e gestione del territorio.

L’attività di Kurd dovrebbe chiudere per far posto ai progetti di Israele, anche se i dettagli concreti che riguardano il piano non sono ancora noti.

Mahmoud al-Kurd vende ricambi per automobili e si è specializzato nei sistemi elettrici e nei climatizzatori dei veicoli. Nel corso degli anni ha scelto di ignorare le voci che circolavano attorno a lui relative ai progetti del governo israeliano di cacciare lui e le altre attività in una delle strade più animate di Gerusalemme.

Io sono qui come un albero verdeggiante, le cui radici sono profondamente attaccate al suolo,” dichiara a Middle East Eye.

Mi rifiuto di essere sradicato dal Comune (israeliano) e di essere spostato. Penso che la soluzione più semplice sia che il Comnue scelga un altro luogo per mettere in pratica i suoi progetti, lontano dalle nostre fonti di sostentamento,” afferma il giovane, aggiungendo che rifiuta l’idea di ripartire da zero da qualunque altra parte – anche se fosse solo a qualche metro dal luogo a cui lui e i suoi clienti si sono abituati.

Resterò qui fino all’ultimo momento. Questo mestiere è la mia passione. È in questo vecchio spazio che ho avuto successo,” spiega.

Basta che l’anima del mio defunto padre erri attorno a me qui, è lui che ha affittato questo negozio decenni fa e ci ha trasmesso i mezzi per vivere. Mi rifiuto di essere il dipendente di un rivenditore ebreo se siamo trasferiti per lavorare nelle zone industriali israeliane.”

Kurd dice di essere perfettamente cosciente degli obiettivi dell’occupazione israeliana per Wadi al-Joz, un quartiere vicino alla moschea di al-Aqsa e alla Chiesa del Sacro Sepolcro. Sostiene che se il Comune asserisce che la zona industriale è troppo affollata e debba essere riorganizzata, esso lavora da anni a questi progetti per investire su questa zona strategica.

Scenari negativi

A circa 200 metri da lì, Ihab Mshaashaaa aggiunge il tocco finale al lavoro di verniciatura su una delle vetture dei suoi clienti nell’officina che affitta da 30 anni. Non ha ricevuto indicazioni relative allo sgombero del suo laboratorio, ma dice di aspettarselo quando ci sarà una seconda ondata di notifiche d’espulsione.

La mente di Mshaashaaa brulica di prospettive negative sulle responsabilità che gli competono e a cui fa abitualmente fronte grazie ai proventi dell’officina. Si preoccupa dell’eventualità di essere cacciato e di perdere l’unica fonte di reddito della famiglia.

Mshaashaa afferma che l’amministrazione municipale dell’occupazione israeliana non ha incontrato nessuno di quelli che lavorano nella zona industriale per proporre alternative, e che i proprietari delle attività commerciali hanno poche informazioni o nessuna sulla natura dei progetti futuri.

Mohannad Jbara, l’avvocato che difenderà quelli che sono danneggiati dal progetto, spiega a MEE che l’amministrazione municipale propone in genere dei piani strutturali generali per i progetti, con un nome e un numero, senza peraltro fornire piani dettagliati per ogni edificio. Secondo lui, consegnando degli avvisi d’espulsione a certe strutture e negozi della zona, il Comune tenta di sviare l’attenzione dal progetto più ampio del “Centro città di Gerusalemme est”.

Il progetto comprende un grande spazio, a partire dalla zona della porta di Damasco, uno dei punti di acceso alla Città Vecchia di Gerusalemme, passando per le strade di Sultan Suleiman e Salah al-Din, attraverso una parte del quartiere di Sheikh Jarrah e una parte della zona industriale di Wadi al-Joz. Il primo giugno una quarantina di proprietari di attività economiche palestinesi in questa zona ha ricevuto, come Kurd, ordini di espulsione.

Secondo l’avvocato Jbara con questo progetto l’amministrazione comunale evidenzia la sua idea per questa zona, la cui realizzazione sarà completata nel 2025, definendo il panorama organizzativo del centro di Gerusalemme est nei prossimi 30 anni. Ciò crea una situazione per la quale ogni progetto che non corrisponda a questa idea sarà bocciata.

Spiegando le tappe che un progetto deve seguire prima di essere messo in pratica, l’avvocato sostiene che la questione è prima discussa nella commissione municipale, poi è trasmessa a una commissione distrettuale competente per l’approvazione. A quest’ultimo stadio si suppone in genere che gli abitanti dei quartieri presi di mira siano consultati, prima dell’approvazione al terzo e ultimo stadio.

Attualmente i progetti relativi alla zona industriale di Wadi al-Joz sono stati affrontati dalla commissione distrettuale, ma non sono stati presentati all’opinione pubblica per conoscere le obiezioni. L’avvocato Jbara racconta che la commissione distrettuale non ha approvato il progetto perché il Comune di Gerusalemme non ha preso misure per avvertire i proprietari dei negozi e degli edifici. L’amministrazione municipale si è quindi affrettata ad inviare delle notifiche d’espulsione per proseguire nel progetto.

Wadi al-Joz è una zona sensibile e penso che la commissione distrettuale ritenga che questo progetto non sia praticabile perché ignora completamente le officine e cerca di concretizzare il sogno di un parco tecnologico ed edifici di sedici piani,” ritiene l’avvocato.

Quando la municipalità ha inviato gli avvisi di espulsione ha affermato che i commercianti della città utilizzano le strutture in modo improprio, anche se sono state costruite da parecchi anni, e che è giunto il momento di far rispettare la legge contro queste violazioni. Jbara definisce “impudenti” questa affermazione, sottolineando che da cinquant’anni le autorità percepiscono le tasse pagate dai proprietari di queste strutture e sanno che essi lavorano nella manutenzione di veicoli.

L’avvocato assicura ai proprietari di officine a Wadi al-Joz che esistono molteplici risorse giudiziarie a loro favore e che il Comune non li espellerà con la forza, perché non è proprietaria degli edifici in cui essi lavorano. Potrebbe tuttavia accusarli con il pretesto di “utilizzo irregolare”.

Il progetto del Comune a Wadi al-Joz non è che una tessera del puzzle del rafforzamento del controllo israeliano sui quartieri palestinesi che circondano la Città Vecchia, compresi Silwan e Sheikh Jarrah, grazie ad organizzazioni dei coloni che avviano lunghe e costose azioni giudiziarie per espellere i palestinesi dalle loro case e sostituirli con dei coloni.

Questi progetti saranno il chiodo sulla bara del controllo organizzato (di Israele) sul settore immobiliare a Gerusalemme,” dichiara l’avvocato Jbara, aggiungendo che ciò si inscrive nel quadro dell’adeguamento della zona con la “visione finale [israeliana] dello status quo politico di Gerusalemme.”

Secondo i mezzi di comunicazione israeliani il progetto “Silicon Wadi” sarà il più importante di Gerusalemme est, in quanto comprende una superficie di 200.000 m2 di imprese tecnologiche che forniranno delle possibilità di lavoro a 10.000 diplomati e laureati palestinesi. Oltre alle imprese tecnologiche, saranno costruiti negozi e hotel e tredici strade saranno trasformate in “arterie pedonali che nel mese di agosto accoglieranno regolarmente visite guidate e spettacoli di strada.”

Ebreizzazione

Moshe Lion, il sindaco di Gerusalemme, ha dichiarato al giornale Israel Hayom [quotidiano gratuito di destra, ndtr.] che si tratta di una tappa storica per compensare le carenze di Israele nei confronti dei palestinesi di Gerusalemme e che un simile progetto rafforzerebbe la fiducia nell’amministrazione comunale.

Queste dichiarazioni non sono nuove. Dal suo arrivo al potere, Moshe Lion ha messo in pratica una politica comunicativa che intende dipingere il Comune come un alleato dei palestinesi della città, che intenderebbe garantire loro una vita decente.

Ha promosso questi slogan grazie a varie attività di intrattenimento messe in pratica a Gerusalemme est durante il periodo di quarantena a causa del COVID-19 e durante il mese sacro del Ramadan. Tuttavia dal suo arrivo al potere i bulldozer israeliani hanno continuato a demolire edifici palestinesi a Gerusalemme o ad obbligare i palestinesi a demolire le loro stesse case con il pretesto della mancanza di licenze edilizie.

Il presidente del consiglio di amministrazione della Camera Araba del Commercio e dell’Industria di Gerusalemme, Kamal Obeidat, dice a MEE che è ingiusto evacuare queste proprietà, alcune delle quali risalgono al 1957.

Sostiene che il numero di imprese nella zona industriale varia tra le 160 e le 180. La Camera, aggiunge, ha discusso con i proprietari fondiari privati della zona per capire a fondo la natura delle riunioni che il capo di gabinetto del sindaco ha avuto con loro.

Durante il primo incontro il delegato municipale ha fatto pubblicità al progetto ed ha parlato della sua importanza per i palestinesi. Durante il secondo ha fatto appello ad investitori arabi e durante il terzo ha suggerito l’idea che Google potrebbe aderire al progetto.

Kamal Obaidat spiega che la Camera Araba del Commercio e dell’Industria considera il progetto sospetto, ritenendo che saranno imprese israeliane che monopolizzeranno la proprietà e la gestione delle imprese del parco tecnologico, ebreizzando così tutta la zona.

Adel al-Jaaba, uno dei proprietari fondiari che l’amministrazione comunale ha incontrato, afferma di aver assistito a due sedute, durante le quali il Municipio ha presentato l’idea del progetto e l’ha esortato a chiedere un permesso per costruire degli immobili molto alti. I rappresentanti municipali hanno dichiarato che, nel caso in cui lui e gli altri proprietari non fossero in grado di ottenere i permessi e che le imprese di tecnologia avanzata fossero disposte ad affittare gli edifici non appena completati, il Comune si farebbe carico della costruzione.

Jaaba possiede un terreno di 950 m2 su cui ha un negozio di prodotti per l’edilizia. Nel caso in cui il progetto “Silicon Wadi” venga approvato, dovrà demolirlo e chiedere al suo posto un permesso edilizio per un edificio di vari piani. In caso contrario il Comune prenderà l’iniziativa di distruggerlo, insieme a una storica zona industriale di circa 35.000 m2.

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)




Tribunale israeliano aggiudica ai coloni proprietà della chiesa a Gerusalemme

Tamara Nassar

3 luglio 2020 – Electronic Intifada

Il mese scorso un tribunale israeliano ha respinto una petizione presentata dalla chiesa greca ortodossa per annullare la vendita di proprietà immobiliari a Gerusalemme a un’organizzazione estremista di coloni israeliani.

La decisione dà nuovamente il via libera ad Ateret Cohanim, un gruppo di destra coinvolto in città nella colonizzazione di terra palestinese, per impossessarsi delle tre proprietà.

Lo scorso agosto, la Corte distrettuale di Gerusalemme aveva sentenziato a favore del gruppo di coloni che cerca di far sì che ci sia una maggioranza ebraica nella Città Vecchia, attraverso la colonizzazione e l’espulsione con la forza di nativi palestinesi.

Ateret Cohanim sostiene di aver stipulato contratti in leasing nel 2004 per terreni della chiesa con Ireneo I, all’epoca il patriarca greco ortodosso. I contratti sarebbero scaduti dopo 99 anni.

La chiesa ha detto che ricorrerà in appello contro la decisione del 24 giugno presso la Corte Suprema israeliana e ha accusato la Corte distrettuale di Gerusalemme di aver ignorato “varie nuove prove di comportamenti criminali, come estorsione, frode e inganno ” riguardanti i contratti del 2004.

Il pronunciamento della Corte è stato una sorpresa ed è arrivato questa mattina a meno di 24 ore dalla conclusione dell’udienza, senza che si fossero esaminate le prove e senza averne consentito l’audizione,” ha detto il patriarcato.

Noi crediamo che la Corte Suprema accoglierà il nostro caso dopo aver riesaminato le prove e ribalterà la decisione della Corte distrettuale.”

Ma questa fiducia è probabilmente mal riposta, dato che in precedenza la Corte aveva già deciso a favore dell’organizzazione dei coloni autorizzando il passaggio di proprietà.

La battaglia legale di Ateret Cohanim contro la chiesa per tentare di impossessarsi degli immobili nei pressi della Porta di Giaffa nella Città Vecchia si protrae da 16 anni.

Due delle tre proprietà, l’hotel New Imperial e l’hotel Petra, sono al momento occupate da organizzazioni palestinesi che Ateret Cohanim cerca di sfrattare.

Sono due degli edifici più antichi della città e si affacciano sulla Cupola della Roccia e la Basilica del Santo Sepolcro.

Ireneo I era stato rimosso dalla chiesa perché accusato di aver approvato le transazioni.

I tre siti sono stati concessi in leasing per molto meno del loro valore e dei funzionari della chiesa erano stati accusati di essere stati pagati dal gruppo dei coloni per mandar avanti l’operazione.

Nel 2005 una commissione formata dall’Autorità Nazionale Palestinese aveva esaminato il fatto e scagionato Ireneo I.

L’indagine concludeva affermando che, dato che gli accordi non erano stati approvati dal Sinodo di Gerusalemme, ciò li rendeva “legalmente nulli in quanto incompleti.”

Ireneo I sostenne che la sua estromissione era illegale e continuò a considerarsi il patriarca.

Theofilo III, che ora è il patriarca, ha bloccato le vendite che il suo predecessore avrebbe approvato perché c’erano di mezzo bustarelle e corruzione. Dopo la sua nomina la chiesa ha acquisito i siti.

Il patriarcato sostiene che Ateret Cohanim abbia corrotto Nikolas Papadimos, il direttore delle finanze, per mandare avanti l’accordo.

La chiesa greca ortodossa è fra i maggiori proprietari terrieri nel Paese.

Mentre cerca di impedire che i coloni israeliani si impossessino delle tre proprietà, lo stesso Theofilo III è accusato di cercare di vendere altri beni ecclesiastici, spesso ad acquirenti misteriosi, inclusi investitori israeliani.

Per questo motivo i palestinesi cristiani hanno richiesto la sua estromissione dalla carica di patriarca.

(traduzione dall’inglese Mirella Alessio)