Un’impresa basca deve lasciare la metropolitana leggera dell’apartheid israeliana

Alys Samson Estapé

12 dicembre 2019 – The Electronic Intifada

Lavoratori, sindaci e associazioni della società civile si stanno unendo nei Paesi Baschi per opporsi alla partecipazione dell’impresa locale CAF a un progetto per allungare la metropolitana leggera delle colonie israeliane nella Gerusalemme est occupata.

Il progetto viola il diritto internazionale in quanto consolida il controllo di Israele su terra palestinese occupata. Con la sua partecipazione, CAF sta contribuendo a gravi violazioni dei diritti umani dei palestinesi.

Ad agosto un consorzio tra CAF e l’impresa israeliana per le infrastrutture Saphir è stata scelta dal ministero delle Finanze israeliano per estendere il progetto di metropolitana leggera delle colonie, noto come Jerusalem Light Rail [[Metropolitana leggera di Gerusalemme] (JLR). CAF e Saphir hanno vinto un contratto di circa 1,8 miliardi di euro per estendere la metropolitana leggera ad altre colonie israeliane illegali, soprattutto a Gerusalemme est, e per rafforzare i collegamenti tra queste colonie e Gerusalemme ovest.

Altre multinazionali hanno partecipato alle fasi iniziali dell’offerta per il progetto, comprese Alstom, Siemens, Systra, Bombardier e Macquarie. Però si sono ritirate dall’appalto, lasciando in gara solo due consorzi.

Imbarazzante”

La rivista economica israeliana “Globes” ha spiegato che le altre imprese “ufficialmente non si sono ritirate dalla procedura per ragioni politiche”, ma ha aggiunto che “per la maggior parte delle compagnie internazionali di trasporti e infrastrutture, Gerusalemme è “imbarazzante”.

Preoccupazioni riguardo al progetto sono state sollevate non solo dalle compagnie internazionali, ma anche all’interno della stessa CAF. In ottobre il consiglio di fabbrica della sede centrale di CAF a Beasain [piccolo comune nel centro dei Paesi Baschi sede di altre aziende metalmeccaniche, ndtr.] ha rinnovato l’appello di gennaio perché CAF si ritiri dal progetto, affermando che Israele intende “legittimare” l’occupazione militare israeliana di Gerusalemme est.

Sempre in ottobre a Saragozza [in Aragona, ndtr.] due sindacati, il “Gruppo Indipendente” e la CGT, hanno affermato che CAF dovrebbe ritirarsi dal progetto.

Entrambi i sindacati rappresentano lavoratori della fabbrica CAF che costruirebbe apparecchiature per la JLR. Hanno affermato che il progetto è un “affronto contro i diritti del popolo palestinese.”

Il 29 novembre, Giornata della solidarietà con il popolo palestinese dell’ONU, il consiglio di fabbrica della sede centrale di CAF a Beasain ha di nuovo espresso la propria opposizione al progetto JLR. All’inizio di quella settimana, il consiglio comunale di Beasain ha approvato all’unanimità una mozione di solidarietà con il popolo palestinese e in appoggio ai suoi diritti.

Ad Altsasu, in Navarra, il 29 novembre, durante un altro evento di solidarietà, due sindaci dei Paesi Baschi, Mikel Arregi, sindaco di Zestoa, e Francisco Javier Razquin Flores, noto come Rubio [Biondo], sindaco di Arbizu, hanno chiesto a CAF di ritirarsi dal progetto. I loro villaggi, Zestoa e Arbizu, sono gemellati con Marda, a sud di Nablus, e con Birzeit, entrambi nella Cisgiordania occupata.

Stretti legami di solidarietà”

Arregi ha detto a Electronic Intifada che “è importante che CAF, un’importante impresa della nostra regione, non sia complice delle violazioni israeliane dei diritti dei palestinesi.”

Ha continuato: “Ci sono molti di noi nei Paesi Baschi che stanno dalla parte del popolo palestinese e non vogliono che questo progetto vada avanti. Quindi ci stiamo mobilitando per bloccarlo.”

Spesso nei Paesi Baschi si tengono iniziative sulla Palestina. Il 30 novembre a Donostia [san Sebastian] lo scrittore palestinese Salah Jamal e lo chef basco Zigor Iturrieta [noto cuoco e conduttore di un programma televisivo di cucina, ndtr.] hanno partecipato all’ evento “Sapori di Palestina”, organizzato dal Comune di un villaggio, durante il quale è stato di nuovo messo in discussione il coinvolgimento di CAF nel progetto di metropolitana leggera a Gerusalemme.

Solo la settimana precedente Sahar Francis, dell’organizzazione per i diritti dei prigionieri “Addameer” e Nidal al-Azza, dell’associazione per i diritti dei rifugiati “Badil” hanno fatto un tour nei Paesi Baschi.

Xabier Aguirregabiria, di “Sodepaz”, un’organizzazione spagnola per i diritti umani, ha affermato che gli oppositori alla partecipazione di CAF nel progetto continueranno a mobilitarsi “finché CAF non sarà più complice dell’occupazione israeliana.”

Ci sono stretti rapporti di solidarietà tra i popoli basco e palestinese, dovuti alla comune esperienza di lotta per i nostri diritti e la nostra libertà,” ha detto. “La società civile, i politici e i sindacati stanno lavorando insieme nei Paesi Baschi per opporsi alla partecipazione di CAF a questo progetto israeliano di colonizzazione a Gerusalemme est.”

Il coinvolgimento di imprese nei crimini del regime israeliano di occupazione e apartheid è legalmente perseguibile e moralmente deprecabile. Può anche danneggiare gli affari. Nel 2015 l’impresa francese Veolia è stata obbligata a rinunciare [alla partecipazione] allo stesso progetto di colonizzazione illegale israeliana, dopo aver perso miliardi di dollari in appalti internazionali a causa di prolungate campagne del BDS [movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni contro Israele, ndtr.].

CAF deve tener conto degli appelli dei suoi stessi lavoratori e della società civile basca e palestinese e stare dalla parte giusta della storia ritirandosi da questo progetto illegale.

Alys Samson Estapé è la coordinatrice delle campagne del Comitato Nazionale del BDS palestinese (BNC) in Europa.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




“Era un angolo di paradiso”: i palestinesi della Cisgiordania che sono autorizzati ad accedere alla loro terra solo per un istante

Shatha Hammad – RAMALLAH, Cisgiordania occupata

Mercoledì 11 dicembre 2019 – Middle East Eye

Queste terre in Cisgiordania sono loro, ma queste famiglie palestinesi non hanno diritto di recarvisi che qualche ora due volte all’anno, sotto il controllo dell’esercito di occupazione israeliano

Alle 7 del mattino di questo 2 novembre una decina di vetture che trasportano 35 famiglie palestinesi si presentano una dopo l’altra all’ingresso del villaggio di Janiya, a nord-est di Ramallah, in attesa che l’esercito israeliano le autorizzi ad accedere ai terreni agricoli.

Queste famiglie devono pazientare per più di 3 ore, i bambini iniziano ad innervosirsi e gli adulti a perdere la pazienza, mentre i soldati prendono posizione nella zona.

Poco dopo le 10 i soldati ritirano le carte d’identità di tutti quanti e danno il segnale che consente alla fila di auto palestinesi di entrare, accompagnate dall’esercito. I veicoli devono attraversare la colonia di “Talmon A” e dovranno imboccare lo stesso cammino al ritorno tra qualche ora. Il villaggio di Janiya è quasi totalmente circondato dalle colonie ebraiche.

Dall’inizio degli anni ’90, quando i coloni si sono impossessati delle zone circostanti, l’esercito autorizza i palestinesi ad accedere alle loro fattorie solo due volte all’anno, ogni volta per una giornata. Tuttavia negli ultimi due anni l’esercito ha impedito loro di accedere alle loro terre per la semplice ragione che la stagione della raccolta coincideva con giorni di feste ebraiche.

Questa visita è una grande occasione per le famiglie palestinesi, anche se vivono solo a qualche minuto in macchina da lì, nel villaggio.

Nabiha è madre di dieci figli ed ha un’ottantina di nipoti. Questa ottuagenaria è arrivata in sedia a rotelle con una trentina di membri della sua famiglia, indossando il tradizionale thobe [abito tipico, ndtr.] ricamato palestinese, che ha attentamente scelto la sera prima.

Nabiha descrive i suoi ricordi nella fattoria con qualche parola: “Passavamo tutta l’estate qui. Ci stavamo fino alla stagione della raccolta delle olive, in ottobre. Coltivavamo ogni sorta di verdure estive. Mi ricordo di una pianta di pomodori che una volta ne produsse 16! Vendevamo i nostri prodotti nei villaggi intorno e, all’arrivo dell’inverno, tornavamo a casa a Janiya.”

Quando la famiglia arriva al suo appezzamento di terreno di circa 2 ettari, Nabiha si piazza davanti alla sorgente, nei pressi di dove una volta si trovava la sua casa. Oggi l’edificio è vuoto, porte e finestre sono state sfasciate e dei rifiuti costellano il suolo, lasciati lì da altri arrivati prima di loro. Per un attimo Nabiha fissa il campo, canta una lamentazione per il marito defunto e rifiuta di parlare con chiunque. Approfitta di questo momento per rivivere i suoi preziosi ricordi in questo luogo.

Ma non assomiglia più a come se lo ricordava. Dei coloni hanno installato delle altalene e delle sedie di legno in ogni angolo e hanno piantato nuovi alberi. Si sono riuniti lì per tutto l’anno nei pressi della sorgente, Umm Siraj, che scorre nel bacino davanti alla casa di Nabiha.

L’anziana signora rifiuta di definire la sua terra come “confiscata” finché ci può andare, anche se solo due volte all’anno.

Questa terra era un angolo di paradiso – noi la coltivavamo tre volte all’anno. La sabbia era rossa e non c’erano pietre. La cisterna era sempre pulita, bevevamo e innaffiavamo le piante con la sua acqua”, racconta Nabiha a Middle East Eye, circondata dai suoi nipoti affascinati dalle storie della nonna a proposito di quel luogo.

Ogni volta che la famiglia vi torna, lei ci trova sempre meno ulivi, abbattuti dai coloni. Questa volta sono rimasti scioccati nel trovare l’albero più grande e antico tagliato in due.

La tristezza regna nella famiglia, come se avessero perso uno dei loro cari. “Passavamo tre giorni a raccogliere le olive di quell’albero,” racconta Mayza, una delle figlie di Nabiha. “Nessun dolore è pari a quello di aver perso quest’albero. Sono scoraggiata.”

Mayza passa il resto della giornata chiusa nel suo silenzio.

Corsa contro il tempo

La famiglia lavora come può, impegnata nella corsa contro il tempo. Alle 15 i soldati arriveranno e daranno l’ordine di andarsene dal terreno, anche se non hanno terminato il loro lavoro. La figlia di Nabiha, Fatima, e sua figlia di 19 anni, Mariam, raccolgono le olive come macchine, senza fermarsi, per anticipare l’arrivo dell’esercito.

Fatima, 50 anni, s’è svegliata presto ed ha preparato i dolci da portare per la colazione. Confida che non ha potuto dormire la notte prima per l’entusiasmo.

Il suo sguardo si illumina guardando la fattoria. “Mia madre ci portava qui quando eravamo bambini, ci passavamo otto mesi all’anno. In pratica sono cresciuta qui – non si tratta solo dei nostri ricordi, qui ci sono anche le nostre anime,” dichiara a MEE.

Io e i miei fratelli e sorelle abbiamo imparato a nuotare in questa cisterna,” continua indicando il bacino ormai vuoto.

Fa notare che in primavera la terra fioriva e i bambini della famiglia avevano memorizzato i nomi delle diverse piante: “Mi ricordo che c’era un alveare su uno degli ulivi. Avevamo troppa paura per avvicinarci.”

Le restrizioni israeliane relative all’accesso delle famiglie palestinesi s’inaspriscono ogni anno, con lo scopo di scoraggiarle al tornarvi. Di conseguenza la terra ne soffre, così come le persone che se ne occupano.

La terra e gli alberi qui hanno bisogno di cure, sono stati trascurati. Alcuni dei nostri ulivi hanno smesso di produrre, per cui un certo numero di famiglie non viene più,” spiega Fatima.

Quando mio padre ha visto quello che era successo alla nostra terra la prima volta che abbiamo potuto tornare, ha avuto un infarto. Da quel momento la sua salute è peggiorata fino alla sua morte nel 2009,” continua.

Mariam, la figlia di Fatima, piange ascoltando il racconto di sua madre: “Raccogliere le olive era una delle nostre attività preferite in famiglia, anche se è faticoso. La storia dei nostri genitori e della nostra famiglia qui fa sì che noi siamo cresciuti ereditando questo attaccamento e l’amore per questa terra,” confida.

Tre soldati israeliani fanno la guardia mentre la famiglia lavora la terra.

I coloni si comportano come se questa terra fosse loro e noi fossimo dei semplici visitatori. Ciò ci fa infuriare e significa che continueremo a doverci battere per venire qui, ma non rinunceremo,” aggiunge Mariam.

La famiglia ha deciso di procedere in anticipo al raccolto, temendo che le autorità israeliane non l’autorizzino a tornare durante la stagione della raccolta l’anno prossimo. “Viviamo con la paura e l’angoscia costanti all’idea di perdere questa terra a favore dei coloni… è circondata e dominata dalle colonie,” sottolinea Fatima.

Tayseer Abu Fkhaida, presidente del consiglio municipale di Janiya, descrive la zona della sorgente di Umm Siraj come una delle più fertili della regione, costellata di antichi uliveti romani e che produce un olio d’oliva di grande qualità.

Dice a MEE che centinaia di ettari sono già stati confiscati al villaggio: “Si sono già impossessati del 65% circa delle terre. Oggi il villaggio non conta più di 300 degli 800 ettari originari.”

Temiamo che questa zona venga confiscata. I coloni e l’esercito tentano di imporre il fatto compiuto. Ci aspettiamo che in ogni momento l’accesso alle nostre terre ci venga totalmente vietato,” dichiara Abu Fkhaida.

Sono circa le 15,30. L’esercito decide che è giunta l’ora e comincia a cacciare dalla zona le famiglie, anche se non hanno finito il loro lavoro.

Al momento di andarsene, i soldati li trattengono per circa due ore in più, con il pretesto di verificare le loro carte d’identità, allungando questo viaggio faticoso che un tempo non era che un breve tragitto fino alle loro case nel villaggio.

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)




Il procuratore della CPI agisce da avvocato difensore di Israele

Ali Abunimah

5 dicembre 2019 – Electronic Intifada

Il procuratore della Corte Penale Internazionale sta di nuovo permettendo a Israele di farla franca sul [caso] del suo assalto mortale di dieci anni fa contro la flottiglia [diretta] a Gaza.

I soldati israeliani hanno colpito a morte 10 persone a bordo della Mavi Marmara dopo aver fatto irruzione sulla nave, che faceva parte di una flottiglia civile.

Lunedì Fatou Bensouda ha dichiarato di confermare la sua decisione del 2015 di non aprire un’indagine sull’attacco, nonostante i giudici della corte le abbiano chiesto per due volte di riconsiderarla.

A settembre, i giudici d’appello della Corte Penale Internazionale hanno definito Bensouda “irrispettosa” affermando che lei avrebbe affrontato in “modo superficiale” un [loro] precedente invito a riconsiderare il caso.

Le hanno nuovamente chiesto di tornare sui propri passi e di giungere ad una nuova decisione – quella emessa questo lunedì.

La sua nuova decisione in realtà stabilisce che Israele dovrebbe continuare a beneficiare della medesima impunità a cui la Corte Penale Internazionale sembra voglia porre fine.

Bensouda riconosce che “esiste un ragionevole fondamento per credere che siano stati commessi dei crimini di guerra da parte di membri delle forze di difesa israeliane” quando salirono a bordo della Mavi Marmara.

Ma insiste sul fatto che l’attacco israeliano in alto mare non è “talmente grave” da giustificare un procedimento giudiziario.

Nelle prime ore del 31 maggio 2010 i commando israeliani salirono a bordo e sequestrarono le imbarcazioni nelle acque internazionali del Mediterraneo orientale.

Le forze israeliane effettuarono un attacco armato particolarmente violento contro la nave più grande, la Mavi Marmara, uccidendo nove persone. Una decima vittima è deceduta nel maggio del 2014 a causa delle ferite riportate.

A bordo della Mavi Marmara almeno altre 20 [persone] vennero gravemente ferite.

“Pretesti procedurali”

Questo giovedì gli avvocati delle vittime hanno accusato il procuratore di parzialità e hanno preannunciato un appello.

“Con questa decisione – affermano gli avvocati – l’intento è quello di difendere Israele nei confronti di qualsiasi accusa di crimini di guerra in maniera così sfacciatamente palese proprio sotto gli occhi della comunità internazionale.

Poiché il procuratore della CPI non può in alcun modo coprire questi crimini, si nasconde dietro pretesti procedurali”.

In effetti, la decisione di Bensouda dello scorso lunedì è accompagnata da un documento di 44 pagine che espone numerose giustificazioni procedurali sul perché non possa perseguire il caso.

Sembra più la relazione di un avvocato difensore al fianco di Israele piuttosto che di un procuratore che tenti di porre fine all’impunità per crimini internazionali.

In alcuni punti sembra incolpare le vittime, sostenendo che “le persone che sono state uccise e ferite intenzionalmente sono state vittime di circostanze come minimo conseguenti alla violenta resistenza dei passeggeri all’abbordaggio del Mavi Marmara da parte delle IDF [esercito israeliano].”

Suggerisce persino che i soldati israeliani bene armati che hanno effettuato un assalto ingiustificato su una nave civile in acque internazionali potrebbero aver agito per “autodifesa” – argomenti che sarebbero potuti provenire direttamente dal governo israeliano.

Uno degli argomenti addotti da Bensouda per non agire è che il numero delle vittime dell’attacco israeliano sia stato “relativamente ridotto rispetto ai casi potenziali derivanti da altre situazioni”.

In precedenza i giudici della CPI avevano sottolineato che il tribunale ha perseguito casi con ancora meno vittime – come [nella causa] contro Bahar Idriss Abu Garda e Abdallah Banda, entrambi accusati di crimini di guerra contro le forze di pace dell’Unione Africana nella regione del Darfur in Sudan.

I giudici hanno stabilito che tali procedimenti giudiziari erano giustificati perché, sebbene i presunti crimini presentassero poche vittime dirette, essi avevano interrotto le operazioni di soccorso umanitario e di mantenimento della pace [condotte] a beneficio di milioni di civili.

Lo stesso ragionamento si applicherebbe esattamente alla flottiglia, che si stava recando a Gaza per rompere un blocco che priva milioni di palestinesi fondamentali diritti umani e umanitari.

Scarso Peso”

L’attacco israeliano alla flottiglia aveva evidentemente lo scopo di inviare un messaggio al mondo secondo il quale nessuno avrebbe dovuto tentare di rompere il blocco illegale di Gaza o fornire solidarietà alla sua gente.

Il Comitato Internazionale della Croce Rossa, tra gli altri, considera il blocco una punizione collettiva, una grave violazione delle Convenzioni di Ginevra.

Ma Bensouda afferma che il significato del messaggio di Israele “non può essere valutato con alcun grado di affidabilità”. Dice quindi di aver dato “scarso peso” alle argomentazioni in base alle quali l’obiettivo di Israele potesse garantire che nessuno osasse rompere il blocco nei confronti di due milioni di persone, la metà delle quali minori.

L’ultima decisione del procuratore sul caso della flottiglia è di cattivo auspicio per i palestinesi che sperano che la CPI garantisca la giustizia a lungo negata.

Dal 2015 il procuratore sta conducendo un esame preliminare di presunti crimini di guerra nella Cisgiordania occupata e nella Striscia di Gaza, ma non ha ancora avviato alcuna indagine formale che possa condurre a procedimenti giudiziari.

Questo mercoledì l’ufficio di Bensouda ha pubblicato la sua relazione annuale sui suoi esami preliminari.

In essa si afferma che dopo cinque anni di analisi della situazione in Palestina, Bensouda “ritiene che sia tempo di prendere le misure necessarie per portare a termine l’esame preliminare”.

Resta da vedere se tali conclusioni non costituiranno un ulteriore insabbiamento.

ALI ABUNIMAH

Co-fondatore di The Electronic Intifada e autore di The Battle for Justice in Palestine [La battaglia per la giustizia nella Palestina, ndtr.] appena pubblicato da Haymarket Books.

Ha anche scritto One Country: A Bold-Propos to End the Israel-Palestinian Impasse [Uno Stato unico: Una solida proposta a favore del termine dell’impasse israelo-palestinese].

Le opinioni sono soltanto mie.

(Traduzione di Aldo Lotta)




L’adolescente di Gaza  “arrestato” da Israele e riportato a casa in un sacco per cadaveri

Tareq Hajjaj (Gaza, territori palestinesi occupati)

5 dicembre 2019 Middle East Eye

La morte di Emad Khalil Ibrahim Shahin, arrestato per aver oltrepassato illegalmente la barriera israeliana, è avvolta dal mistero.

Dopo essersi intrufolati attraverso la barriera di sicurezza eretta da Israele lungo la Striscia di Gaza, Emad Khalil Ibrahim Shahin ed i suoi amici si sono infilati in una baracca abbandonata ed hanno acceso un fuoco. Temendo di essere scoperti, sono scappati.

“Abbiamo corso fino a quando abbiamo trovato una duna di sabbia dietro cui nasconderci, dall’altro lato della barriera, ma ci siamo accorti a quel punto che Emad non era con noi. Correva più lentamente perché aveva le stampelle”, racconta a Middle East Eye uno dei suoi compagni, che vuole restare anonimo.

“L’abbiamo visto a terra e gli abbiamo detto di trascinarsi. Ma è stato allora che è arrivato un veicolo militare a tutta velocità e un soldato gli ha sparato addosso, colpendolo alla gamba destra. Poco dopo è arrivato un elicottero e lo ha portato via.”

Emad Shahin è tornato a Gaza solo 355 giorni dopo. È arrivato il 23 ottobre dentro un sacco per cadaveri.

Oggi la sua famiglia e diverse Ong palestinesi ed israeliane chiedono perché l’esercito israeliano abbia trattenuto il corpo del ragazzo di 17 anni così a lungo e come sia apparentemente morto per la semplice ferita di una pallottola a una gamba.

Simbolo della contestazione

Emad Khalil Ibrahim Shahin era il minore di nove figli, il cui padre lavora come custode in una scuola, guadagnando un salario basso ma dignitoso.

Secondo la sorella Monira, il ragazzo partecipava con entusiasmo al movimento di protesta della Grande Marcia del Ritorno, come anche il resto della famiglia.

Le manifestazioni, che si svolgono tutti i venerdì dal marzo 2018, chiedono alle autorità israeliane di togliere l’assedio della Striscia di Gaza che dura da undici anni, e di permettere ai rifugiati palestinesi – circa il 70% degli abitanti di Gaza – di ritornare alle loro città e villaggi in quello che ormai è Israele.

Una volta alla settimana si possono vedere i palestinesi manifestare lungo la barriera che separa Israele dall’enclave costiera. Anche se le forze israeliane colpiscono soprattutto i manifestanti vicini alla barriera, sono stati presi di mira anche dei palestinesi ben più lontani.

Temendo i cecchini israeliani, Monira e gli altri parenti di Emad sono rimasti abbastanza lontani dalla barriera durante le manifestazioni. Invece il ragazzo vi si è avvicinato diverse volte, bruciando pneumatici per bloccare la visuale ai soldati che prendono di mira i manifestanti.

Non ci è voluto molto tempo prima che i cecchini sparassero a Shahin ad un piede, il 17 maggio 2018.

“Si è ripreso in fretta”, racconta Monira a Middle East Eye, aggiungendo che appena due settimane dopo era tornato alle manifestazioni con le stampelle.

“Quando sono state ampiamente condivise sulle reti sociali delle sue foto mentre partecipava alle manifestazioni nonostante la ferita, lui ne è andato fiero. Si considerava un simbolo della contestazione.”

Ventuno venerdì dopo, Emad è stato di nuovo ferito, allo stesso piede. Malgrado ciò è ritornato alla marcia.

Quando gli hanno sparato per la terza volta, all’altro piede, i chirurghi hanno dovuto amputargli tre dita.

“Nostra madre ha tentato di impedirgli di ritornare. Tutta la famiglia gli ha detto che aveva fatto il suo dovere per il suo Paese e che ormai doveva stare tranquillo”, racconta Monira.

“Ma lui ha ribattuto di non temere la morte, che la morte era ineluttabile e che preferiva morire per il suo Paese resistendo all’occupazione piuttosto che inutilmente.”

Oltrepassare la linea

Il primo novembre 2018 Emad – zoppicando sulle stampelle – e due amici hanno deciso di oltrepassare la barriera, per tentare di raggiungere una baracca lasciata vuota dall’esercito israeliano a circa 300 metri dall’altro lato della barriera, continua sua sorella.

Secondo lei il suo obbiettivo era sfidare l’assedio e riportare un ‘trofeo’, come la cintura di munizioni di un soldato o la targa di una jeep.

Anche se la zona è molto militarizzata e Emad non si muoveva certo liberamente, il giovane palestinese e i suoi amici hanno raggiunto il campo. Eccitato e senza fiato, ha chiamato sua sorella nel momento in cui si preparavano ad andare.

“Voleva condividere il suo momento di gloria. Ma io gli ho urlato contro imponendogli di andarsene immediatamente prima di farsi uccidere. Ero terrorizzata”, racconta Monira.

“Quando è tornato a casa, mia madre era in lacrime e gli ha chiesto di non farlo più.”

Il sabato seguente Emad si è svegliato presto ed ha annunciato a sua madre che dopo colazione sarebbe andato a fare una piccola commissione. Invece è tornato alla baracca, portandovi della benzina.

Alle 16,30 del 3 novembre 2018 Emad è stato colpito alla gamba vicino alla barriera ad est del campo di rifugiati di Maghazi, che si trova nella zona centrale di Gaza.

Secondo testimoni oculari è stato arrestato da un certo numero di soldati israeliani che lo hanno portato via in elicottero venti minuti dopo, a quanto pare verso il centro medico Soroka nel Negev.

Da quel momento la sorte di Shahin è misteriosa.

Subito dopo la scomparsa del ragazzo la sua famiglia ha contattato delle Ong palestinesi e israeliane, cercando disperatamente informazioni.

Inizialmente le autorità israeliane hanno detto che aveva riportato ferite ‘lievi’, ma il giorno seguente a quello in cui è stato ferito l’Ong ‘Medici per i Diritti Umani’ con sede a Tel Aviv ha comunicato la sua morte.

Nei giorni successivi ‘Medici per i Diritti Umani’ ha insistito per avere risposte ed ha chiesto il referto medico sulla morte del ragazzo.

L’11 novembre è stato comunicato all’Ong che le cartelle mediche di Emad Shahin non potevano essere rese pubbliche perché il suo corpo non era stato identificato. È stato consigliato di contattare l’Istituto medico-legale israeliano Abu Kabir.

“Ho contattato la dottoressa Maya Hoffmann di Abu Kabir, che ha cercato di localizzare il corpo, senza riuscirci. Sono stato indirizzato a un servizio d’archivio”, spiega a MEE Ran Yaron, di ‘Medici per i Diritti Umani.’

“Il servizio responsabile degli archivi ha dichiarato che nessun corpo non identificato era stato trasferito da Soroka, quindi abbiamo pensato che l’esercito trattenesse il corpo.”

Dopo di ciò HaMoked, un’organizzazione israeliana per la difesa dei diritti umani, ha chiesto all’esercito israeliano informazioni sul corpo di Shahin. Senza risultato.

“Non capisco ciò che Israele ha fatto del corpo di un ragazzo palestinese per un anno”, dice Yaron.

Interrogato sulla morte di Emad Shahin e sui motivi per cui il suo corpo è stato trattenuto per un anno, l’esercito israeliano ha detto a Middle East Eye di rivolgersi al Ministero della Difesa.

Interpellato, il Ministero della Difesa ha dichiarato che si trattava di una questione su cui solo l’esercito poteva dare spiegazioni.

Morte senza spiegazioni

La famiglia di Emad Shahin è stata distrutta nell’apprendere della sua morte

“Sapevamo che sarebbe stato incarcerato, ma non ucciso”, commenta Monira. In assenza del corpo, alla famiglia rimaneva una flebile speranza che fosse vivo.

Quando la Croce Rossa internazionale ha informato i familiari che il corpo di Emad era arrivato all’ospedale al-Shifa di Gaza, si sono precipitati per vederlo.

Secondo il dr. Emad Shihada il corpo è stato conservato in azoto liquido per un lungo periodo.

Senza una strumentazione adeguata per scongelarlo, un’autopsia non avrebbe potuto essere eseguita prima di aver lasciato le spoglie al sole per due giorni.

La famiglia ha preferito seppellirlo piuttosto che aspettare, seguendo la tradizione islamica che raccomanda la sepoltura immediatamente dopo la morte.

Anche se non è stata eseguita un’autopsia completa, la famiglia di Emad ha riscontrato parecchi segni inquietanti sul suo corpo.

Dalla metà del torace fino all’addome vi era una cicatrice di 15 cm. che indicava punti di sutura. Lo stesso si riscontrava su 13 cm. che andavano dal lato sinistro del torace sui due lati.

Queste misteriose incisioni hanno fatto pensare ai familiari di Emad che fossero stati prelevati i suoi organi per traffico, una pratica nota che Israele tenta di eliminare dal 2008.

Secondo il dottor Shihada è tuttavia possibile che il corpo sia stato aperto dai medici per cercare di fermare un’emorragia interna.

Un esame esterno ha mostrato che a Shahin era stato sparato tre volte alla gamba destra. Se uno o più proiettili hanno trapassato l’arteria femorale, provocando un’emorragia che non è stata fermata entro 15 minuti, ciò avrebbe potuto provocare la sua morte, spiega a MEE il dottore.

“Emad era solo un ragazzo”, dice Monira. “Israele avrebbe potuto curarlo dopo averlo prelevato. Ma non lo hanno fatto. Lo hanno ucciso.”

Trattenimento dei corpi

Secondo il centro al-Mezan per i diritti umani, le autorità israeliane trattengono tuttora i corpi di quindici palestinesi della Striscia di Gaza uccisi dopo il 30 marzo 2018, tra cui due bambini.

Benché la famiglia di Emad Shahin abbia atteso circa un anno perché le fosse restituito il corpo del ragazzo, le altre famiglie palestinesi che vivono nell’incertezza potrebbero non recuperare mai i corpi dei loro cari.

La scorsa settimana il Ministro della Difesa Naftali Bennett ha ordinato che nessun corpo dei palestinesi trattenuti da Israele venga restituito alle rispettive famiglie, ritenendo questo un “mezzo di dissuasione contro il terrorismo”

Israele è il solo Paese al mondo che applica una politica di sequestro delle spoglie, in base ad una legge che risale al 1945, durante il mandato britannico.

La morte di Emad Shahin e la minaccia di un arresto da parte di Israele non hanno però dissuaso Monira e la sua famiglia dal partecipare alle manifestazioni della Grande Marcia del Ritorno.

“La resistenza è il solo mezzo per liberare la nostra terra”, afferma Monira. “E ormai noi ci andiamo anche per onorare Emad. D’ora in poi tutta la famiglia è pronta a morire per sconfiggere l’occupante.”

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




I conservatori britannici si impegnano a vietare i boicottaggi

Asa Winstanley

26 novembre 2019Electronic Intifada

Il partito conservatore al governo nel Regno Unito si è impegnato a vietare agli enti pubblici di aderire a “campagne di boicottaggio, disinvestimento o sanzioni contro Paesi stranieri”.

La promessa – inserita nel programma elettorale del partito – non fa il nome di alcuno Stato specifico, ma è chiaramente rivolta a proteggere Israele dal crescente movimento BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni).

Le campagne del BDS “minano la coesione della comunità”, afferma il documento programmatico, pubblicato domenica. I conservatori dicono che applicheranno il nuovo divieto se vinceranno le elezioni nazionali del 12 dicembre.

Se messo in pratica, si tratterebbe del secondo tentativo di questo genere da parte dei conservatori per arginare il BDS.

Nel febbraio 2016 Matt Hancock, ora importante ministro, si è recato a Gerusalemme per annunciare nuove misure volte a impedire agli enti pubblici britannici di boicottare Israele, durante una conferenza stampa congiunta insieme al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu.

Ma le nuove regole del governo del Regno Unito sulla gestione dell’autorità locale non sono state incisive e non hanno comportato nessuna nuova legge.

Il primo caso che si è basato sulla nuova normativa – promosso da un gruppo di pressione israeliano contro governi locali che avevano boicottato Israele – è stato bocciato dall’Alta Corte nel giugno 2016.

BDS nuovamente vietato?

Però c’era un’altra serie di direttive derivanti dal “divieto”. Tali direttive erano mirate ad impedire che gli enti pubblici che amministrano il regime pensionistico escludessero le imprese complici delle violazioni israeliane dei diritti umani.

Il nuovo impegno del programma elettorale arriva nel momento in cui la Campagna di solidarietà con la Palestina sta impugnando le norme anti-BDS presso la Corte Suprema, la più alta autorità giudiziaria del Regno Unito.

La settimana scorsa si è tenuta un’udienza ed una sentenza è prevista probabilmente per gennaio. Una fonte della Campagna ha detto che loro sono moderatamente ottimisti sull’esito.

A differenza del precedente “divieto”, la nuova promessa del programma elettorale sembra preludere alla presentazione di una nuova legge anti-BDS, o almeno un decreto che dichiari il boicottaggio di Israele “antisemita”.

L’affermazione del documento programmatico secondo cui le campagne BDS “minano la coesione della comunità” è quasi certamente un riferimento a quella falsa accusa.

Infatti il movimento BDS è sempre stato chiaro sul fatto di essere una campagna antirazzista che chiede eguali diritti per tutti.

Quest’anno i ministri del governo conservatore hanno diffamato i boicottaggi di Israele come antisemiti.

Calunnie

A maggio Jeremy Hunt, allora ministro degli Esteri del Regno Unito, ha espresso il suo appoggio alla dichiarazione non vincolante del Parlamento tedesco secondo cui “le argomentazioni e i metodi del movimento BDS sono antisemiti”.

La mozione tedesca ha anche calunniato il movimento BDS definendolo affine ai nazisti.

Il nuovo programma elettorale dei conservatori si pone in netto contrasto con quello del partito laburista di opposizione, che ha anzi appoggiato il movimento BDS.

La settimana scorsa il partito ha annunciato che un governo laburista sospenderebbe “immediatamente” la vendita di armi ad Israele ed all’Arabia Saudita.

Asa Winstanley è un giornalista di inchiesta e redattore associato di ‘The Electronic Intifada’. Vive a Londra

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Quest’anno Israele ha ucciso quasi 3 palestinesi alla settimana

Maureen Clare Murphy

29 novembre 2019 – Electronic Intifada

Venerdì 29 novembre il sedicenne Fahd al-Astal è morto dopo essere stato colpito all’addome dalle forze di occupazione israeliane durante le proteste lungo il confine tra Gaza e Israele.

Lo stesso giorno, Raed Rafiq Ahmad al-Sirsawi, 30 anni, è morto per le ferite riportate il 13 novembre nel corso della spirale di violenza israeliana contro Gaza.

Le loro morti portano a 132 il numero totale di palestinesi deceduti finora nel corso dell’anno a causa del fuoco israeliano. Ciò equivale a una media di quasi tre morti alla settimana.

Nel contempo un totale di 10 israeliani sono morti nello stesso periodo a causa della violenza palestinese.

Tredici volte più palestinesi che israeliani sono morti quest’anno per la violenza legata all’occupazione.

 

Prigioniero muore sotto custodia israeliana

Ma questa cifra non include i palestinesi che sono morti nelle carceri israeliane, tra cui Sami Abu Diyak, che martedì 26 novembre si è arreso al cancro [mentre era sotto la] custodia di Israele, fra le accuse di anni di mancanza di cure mediche.

Abu Diyak quest’anno è il quinto palestinese a morire nelle prigioni israeliane.

Contribuiscono alle morti palestinesi non comprese nelle statistiche della mortalità legata al conflitto anche le restrizioni agli spostamenti [inflitte] da Israele.

Tra questi casi vi sono [quelli dei] palestinesi morti in attesa del permesso di viaggio per [essere sottoposti] a cure mediche non disponibili nella Striscia di Gaza assediata.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità riferisce che in ottobre Israele ha accolto solo il 58% delle oltre 1.750 domande presentate dai palestinesi di Gaza bisognosi di cure mediche in Israele e in Cisgiordania.

L’ organizzazione sanitaria internazionale ha anche affermato che il tasso di permessi concessi da Israele per i palestinesi feriti durante le proteste lungo il confine Gaza-Israele è molto più basso del tasso complessivo di concessioni. Da quando la Grande Marcia del Ritorno di Gaza è iniziata il 30 marzo 2018, è stato autorizzato solo il 18% delle domande di cure mediche in Israele e in Cisgiordania per i feriti nel corso delle proteste.

 

Trattamenti crudeli verso i pazienti

[Il caso di] una paziente preso in esame dall’Organizzazione Mondiale della Sanità illustra il trattamento crudele da parte di Israele nei confronti dei palestinesi a Gaza che richiedono cure mediche specialistiche.

Identificata dall’organizzazione sanitaria mondiale come Sherehan, una donna di 33 anni madre di quattro figli, la paziente è stata indirizzata dai medici di Gaza ad un ospedale nella città di Ramallah, in Cisgiordania, per cure mediche specialistiche dopo averle riscontrato un tumore addominale in crescita.

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità “per Sherehan questo significava [dover] richiedere che Israele le rilasciasse un permesso per uscire da Gaza. Dal suo primo rinvio, al momento [Sherehan] ha fatto per 12 volte richiesta per [poter] uscire da Gaza per l’assistenza sanitaria e ogni volta senza successo.”

Le è stato negato un permesso otto volte, mentre in tre occasioni alla data del suo appuntamento la sua domanda è risultata “in fase di studio”, e una volta le è stato detto che il trattamento di cui aveva bisogno era disponibile a Gaza.

“Secondo il Ministero della Salute di Gaza, la complessa assistenza multidisciplinare richiesta per Sherehan non è disponibile localmente”, afferma l’Organizzazione Mondiale della Sanità.

Sherehan ha dichiarato all’organizzazione: “Ho sofferto un anno di malattia, ma negli ultimi tre mesi mi sono sentita così abbattuta e depressa. Il tumore sta diventando più grande e i miei sintomi stanno peggiorando. Non dispongo di cure, solo di antidolorifici.”

Pur negando ai palestinesi come Sherehan l’accesso alle cure mediche necessarie, l’esercito israeliano si vanta dei suoi soldati che donano i capelli ai malati di cancro.

Il COGAT [coordinamento delle attività governative nei territori, ndtr.], il braccio burocratico dell’occupazione militare israeliana che si occupa delle autorizzazioni per le domande di viaggio presentate da pazienti come Sherehan, si è lamentato del rapporto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità.

Secondo il COGAT, in ottobre è stato accolto solo il 51% di tutte le domande di pazienti, il che è inferiore alla cifra del 58% fornita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità.

Diamo a Cesare quel che è di Cesare – almeno il COGAT desidera essere riconosciuto come più crudele di quanto suggeriscono i rapporti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità.

 

Maureen Clare Murphy è redattrice associata di The Electronic Intifada e vive a Chicago.

 

(traduzione dall’Inglese di Aldo Lotta)




I cristiani palestinesi attaccati da coloni nella Cisgiordania occupata

Shatha Hammad

2 dicembre 2019 – Middle East Eye

TAYBEH, Cisgiordania occupata

Nel villaggio di Taybeh si sono moltiplicati gli attacchi contro proprietà palestinesi – se ne contano 36 solo nel mese di ottobre

Venerdì mattina la famiglia Basir si è svegliata molto prima dell’alba, alle grida dei vicini: c’era stato un attacco contro la sua casa nel villaggio palestinese di Taybeh.

Un gruppo di coloni israeliani aveva lasciato dei graffiti ostili sui muri – uno diceva “zona militare chiusa” – ed incendiato l’automobile della famiglia. Tuttavia gli aggressori non c’erano più quando Rollin Basir ha aperto la porta alle 2 del mattino trovando la sua auto in fiamme. È bruciata fino alle 6.

Rollin Basir racconta che tutto il villaggio è corso a casa sua man mano che la notizia dell’attacco si è diffusa, e gli abitanti sono rimasti fino a mattina inoltrata. Hanno espresso il loro timore che i coloni replicassero i loro attacchi o se la prendessero con loro e con le loro abitazioni.

 “Tutto indica che dietro a questo attacco ci sono dei coloni”, dichiara Rollin Basir, precisando che la sua auto gli era costata più di 42.000 dollari.

Taybeh si trova ad est di Ramallah ed è circondata da quattro colonie: Rimonim – totalmente costruita su terreni confiscati al villaggio (1 milione di km2) – Ofra, Kawkab al-Sabah e l’insediamento evacuato di Amona, dove le forze israeliane impediscono continuamente ai palestinesi di accedere ai loro terreni.

Rollin Basir – padre di tre bambini di età dai 15 giorni ai 7 anni – pensa che il suono dell’allarme dell’automobile abbia spaventato i coloni e che abbiano dovuto lasciare in fretta il luogo.

Oggi hanno bruciato la macchina, ma temo che domani possano bruciare la mia casa, con dentro i miei figli.”

 « Radici arabo-palestinesi »

Padre Johnny Abu Khalil riferisce a Middle East Eye che gli abitanti del villaggio hanno sentito il suono di un allarme, ma che è stato il fumo a condurli alla casa di Basir.

Il prete ritiene che l’attacco dei coloni costituisca un reale pericolo per la popolazione di Taybeh.

Siamo circondati dai coloni. Oggi si è trattato dell’incendio di un’auto, ma temiamo un aumento di questi attacchi e soprattutto l’incendio di alberi, di case e di chiese nel villaggio.”

Padre Abu Khalil spiega che Taybeh è in maggioranza cristiana, ma che l’attacco contro il villaggio non è solamente un attacco contro la cristianità come religione, ma contro le sue “radici arabo-palestinesi”.

Il colono israeliano non fa distinzione tra una città e un’altra, né tra un musulmano palestinese ed un cristiano palestinese…Il colono ritiene che questa terra sia sua e che noi palestinesi dobbiamo andarcene”, sottolinea.

Oggi il messaggio che mandiamo all’occupazione e ai suoi coloni è che, anche se riducono in cenere noi esseri umani, queste pietre proclameranno che questa terra è palestinese, la culla di Cristo e dei profeti.”

Restare all’erta

Padre Abu Khalil racconta che in aprile un gruppo di coloni ha attaccato alcune religiose francesi che visitavano Taybeh e le ha sequestrate per ore prima che i membri del monastero le trovassero.

Il prete afferma anche che uno dei coloni si era spogliato ed era rimasto nudo davanti alle religiose.

Le religiose erano in preda al panico…dopo questo attacco hanno deciso di lasciare Taybeh e rientrare in Francia. Ma degli abitanti hanno contattato il consolato francese e le religiose sono tornate in Palestina.”

Gli attacchi di coloni contro palestinesi e loro proprietà si sono moltiplicati negli ultimi tempi. Secondo il sito web israeliano di notizie Walla, solo in ottobre vi sono stati 36 attacchi, in particolare l’abbattimento di ulivi – che rappresentano una fonte di sussistenza per molte famiglie palestinesi -, slogan razzisti ed attacchi contro veicoli.

Issa Zayed, vicesindaco di Taybeh, dice a MEE che il villaggio ha subito aggressioni di coloni durante la prima Intifada (1987-1993), ma che quest’ultimo attacco è di pessimo auspicio.

Condanniamo e respingiamo questo attacco perpetrato dai coloni sostenuti dal governo israeliano…Esso è il risultato del continuo sostegno americano ad Israele e alla legalizzazione delle colonie in Cisgiordania.”

Quindici giorni fa il Segretario di Stato americano Mike Pompeo ha annunciato che Washington non considera più le colonie israeliane nei territori palestinesi occupati come “contrarie” al diritto internazionale.

Issa Zayed precisa che il Comune invita gli abitanti a mantenersi vigili, soprattutto agli ingressi del villaggio.

Questo attacco non annienterà la nostra indefettibile volontà di rimanere nel nostro villaggio storico.”

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




Israele approva una nuova colonia e ordina di demolire un mercato a Hebron

Kaamil Ahmed

1 dicembre 2019 – Middle East Eye

I palestinesi accusano il cambiamento di politica degli USA sulle colonie illegali

Israele ha approvato una nuova colonia sul luogo in cui si trova un mercato palestinese a Hebron, nella Cisgiordania occupata, provocando rabbia tra i palestinesi che accusano [per questa decisione] il recente cambiamento di politica degli USA. Domenica il ministro della Difesa Naftali Bennett ha dato il via libera alla nuova colonia, che implicherebbe la distruzione dell’antico mercato all’ingrosso e potrebbe a quanto si dice raddoppiare la popolazione dei coloni.

Ciò fa seguito alla decisione degli USA in novembre di non considerare più illegali in base alle leggi internazionali le colonie israeliane nei territori palestinesi occupati.

La decisione israeliana di costruire una nuova colonia illegale nella Hebron occupata è il primo risultato tangibile della decisione USA di legittimare la colonizzazione; essa non deve essere decontestualizzata,” ha detto Saeb Erekat, segretario generale dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina.

Il mercato palestinese destinato ad essere coinvolto è chiuso dal 1994, quando il colono israeliano Baruch Goldstein uccise 29 palestinesi all’interno della moschea di Abramo, che gli ebrei conoscono come la Tomba dei Patriarchi, e Israele rispose accentuando la sua presenza militare attorno alla Città Vecchia.

Circa 800 coloni israeliani vivono nei pressi della Città Vecchia di Hebron, molto vicino ai suoi abitanti palestinesi, e sono accompagnati da una pesante presenza militare che secondo i palestinesi impone loro un sistema simile all’apartheid.

La colonia a Hebron è il volto peggiore del controllo israeliano nei territori occupati,” hanno affermato in un comunicato gli attivisti di Peace Now [organizzazione israeliana contraria all’occupazione israeliana della Cisgiordania, ndtr.] contro le colonie.

Per mantenere la presenza di 800 coloni in mezzo a 250.000 palestinesi, intere vie di Hebron sono chiuse ai palestinesi, negando loro la libertà di movimento e con gravi ripercussioni sulle loro condizioni di vita.”

Il portavoce della comunità di coloni di Hebron Yishai Fleischer ha ringraziato Bennett per la decisione ed ha affermato che il terreno su cui sorge il mercato è stato di proprietà di ebrei dal 1807.

Tuttavia secondo Peace Now la terra appartiene legalmente al Comune di Hebron e i suoi abitanti hanno goduto di un affitto tutelato che non ha consentito che venissero espulsi senza basi legali, benché ciò sia stato ignorato dai tribunali israeliani, che hanno aperto la strada alla nuova colonia.

Ayman Odeh, capo della Lista Unita, coalizione parlamentare di cittadini palestinesi di Israele, ha affermato che la decisione è parte di una “guerra contro la pace”.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Dirigente di un gruppo suprematista ebraico imputato di incitamento all’odio contro i palestinesi

Natasha Roth-Rowland

27 Novembre 2019 – +972

Come Benjamin Netanyahu, Benzi Gopstein deve affrontare un procedimento penale atteso da tempo. Ma l’incriminazione di entrambi non cambia niente riguardo al sistema razzista ed espansionista che li ha prodotti

Martedì [26 novembre] un tribunale di Gerusalemme ha incriminato Benzi Gopstein, capo del gruppo razzista anti-assimilazionista “Lehava”, ed ha bandito il candidato alla Knesset del partito Otzma Yehudit [Potere Ebraico] per incitamento alla violenza, al razzismo e al terrorismo e per essersi pronunciato in favore del massacro alla Grotta dei Patriarchi di Hebron da parte di Baruch Goldstein nel 1994. Il suo rinvio a giudizio rappresenta il culmine di una campagna durata otto anni da parte dell’“Israel Reform Action Center” [Centro di Azione Israeliano per la Riforma, ndtr.] (IRAC), braccio giuridico dell’ebraismo riformato, per far sì che Gopstein e Lehava rendano conto [della loro posizione politica].

L’incriminazione di Gopstein cita, tra le altre cose, video in cui egli ha giustificato l’uso della violenza contro i palestinesi che sono in rapporto con donne ebree; ha definito i “nemici tra noi” (cioè i palestinesi) un “cancro”, ha proposto che la soluzione sia togliere di mezzo la Cupola della Roccia e la moschea di al-Aqsa ed ha affermato che ogni palestinese che egli dovesse vedere ad un matrimonio ebraico finirebbe nel “più vicino ospedale”.

Gopstein, allievo del fondatore della “Lega per la Difesa Ebraica” e demagogo razzista Meir Kahane ed ex-attivista del Kach, movimento politico israeliano di quest’ultimo, ha una lunga e storica carriera di razzismo violento. Da giovane ha avuto a che fare con la giustizia, in particolare quando è stato arrestato (e in seguito rilasciato per mancanza di prove) nel novembre 1990 in quanto sospettato di essere coinvolto nell’uccisione di due palestinesi, a quanto pare come rappresaglia per l’assassinio di Kahane a New York all’inizio di quel mese.

Di tutti i discepoli di Kahane che occupano ancora un posto sulla ribalta, Gopstein si è forse impegnato in modo più assiduo per portare avanti la principale ossessione del suo mentore: evitare rapporti tra ebrei e palestinesi, soprattutto tra donne ebree e uomini palestinesi. Come fondatore e capo di “Lehava” (il cui nome in ebraico è un acronimo per “Evitare l’Assimilazione nella Terra Santa”), Gopstein ha progettato di persona accaniti e spesso violenti tentativi di distruggere rapporti misti [tra israeliani e palestinesi, ndtr.] – sia tramite l’istituzione di un “telefono rosso” in stile Stasi [polizia segreta della Repubblica Democratica Tedesca, ndtr.], in cui israeliani preoccupati possono dare informazioni su cittadini che sospettano avere rapporti misti, fino a violente proteste durante matrimoni musulmani in cui la moglie si sia convertita dall’ebraismo.

Questi incidenti hanno fatto di “Lehava” un parafulmine per le critiche all’estrema destra nel discorso pubblico israeliano. Ed è facile capire perché: l’organizzazione e le sue azioni sono emblematiche dei fenomeni che israeliani progressisti (e non tanto progressisti) evidenziano come i mali della loro società, in un modo che consente loro di evitare di approfondire i più profondi problemi strutturali in cui essi stessi sono coinvolti.

Come Kahane prima di lui, Gopstein ha cercato di reclutare intorno alla sua causa giovani disadattati e svantaggiati dal punto di vista socio-economico, portando nell’organizzazione mizrahim (ebrei originari dei Paesi arabi o musulmani) della periferia sociale e geografica di Israele. La sua orchestrazione di proteste molto visibili – sia durante i matrimoni summenzionati o quelle del sabato notte in piazza Zion a Gerusalemme – garantisce che i media e i politici israeliani abbiano un archivio di immagini da condannare quando insistono che nel Paese la violenza della destra è esclusivamente un problema “mizrahi” (cioè: marginale e non istituzionale), invece che sistematico o “ampiamente diffuso” (cioè: ashkenazita [ebrei di origine europea, che dominano nella vita economica, politica e sociale di Israele, ndtr.]).

Analogamente lo stesso Gopstein – insieme al resto della sua coorte di “Otzma Yehudit”: Itamar Ben-Gvir, Baruch Marzel e Michael Ben-Ari — è liquidato come un fanatico religioso marginale, la cui ortodossia gli israeliani stentano ad evidenziare quando si scagliano contro la sua ideologia. Quindi, per esempio, durante un dibattito alla Knesset sulla messa fuori legge di “Lehava” nel 2015, il parlamentare laburista Itzik Shmuli denunciò trionfalmente Gopstein come “Isis con la kippah [il tradizionale copricapo ebraico, soprattutto degli ebrei praticanti, ndtr.]”.

Tali tentativi di definire come “diversi” i terroristi ebrei – siano Kahane, Yigal Amir [l’assassino di Rabin, ndtr.], Baruch Goldstein [autore della strage di 29 fedeli palestinesi nella tomba dei Patriarchi a Hebron, ndtr.], gli assassini di Muhammad Abu Khdeir [ragazzino palestinese bruciato vivo per vendicare la morte di tre giovani coloni uccisi da palestinesi nel 2014, ndtr.] o la “gioventù della cima delle colline” [gruppo informale di coloni estemisti, ndtr.] che incendia chiese, case e scuole [palestinesi] – è molto utile all’establishment israeliano. La condanna e l’occasionale incriminazione di questi personaggi consente al governo e ai suoi sostenitori interni ed internazionali di evidenziare un sistema giudiziario che funziona e un codice morale che rifiuta questa ideologia e queste azioni razziste. È lo stesso meccanismo che seleziona sporadicamente e in apparenza (anche se non realmente) in modo arbitrario soldati e poliziotti israeliani da punire per la continua serie di uccisioni extragiudiziarie di palestinesi, tra gli altri violenti misfatti.

In entrambi i processi, il sistema che produce violenza politica e abusi dell’esercito e li ricompensa con un’impunità quasi totale sfugge a una verifica.

Vale la pena di notare il tempismo dell’incriminazione di Gopstein: cinque giorni dopo l’incriminazione di Benjamin Netanyahu e nel bel mezzo dell’ultimo picco di violenza dei coloni in Cisgiordania durato sette giorni, compresa l’ultima fiammata dello scorso fine settimana a Hebron in cui circa una decina di palestinesi sono rimasti feriti, tra cui un bimbo di 18 mesi.

L’incriminazione di Netanyahu è stata sbandierata come la prova decisiva di una democrazia israeliana in ottima salute – un sistema talmente sicuro da mettere sotto processo il suo stesso primo ministro. Tali analisi hanno misteriosamente ignorato il fatto che Netanyahu finora non ha dovuto affrontare alcuna conseguenza per il fatto di aver infranto ripetutamente la legge relativa alla campagna elettorale e alle elezioni, né per i suoi tentativi razzisti di sopprimere il diritto di voto [dei palestinesi] – azioni che, si potrebbe pensare, rivelano molto più dello stato della democrazia israeliana di quanto questi osservatori evidenzino. Non dimentichiamoci neppure che Netanyahu ha conferito una legittimazione senza precedenti a Gopstein e ai suoi colleghi di “Otzma Yehudit” intervenendo personalmente in loro favore prima delle elezioni dell’aprile 2019.

Né la squadra di quelli che dicono che “la corruzione rafforza la democrazia” segnala l’altro, più fondamentale ostacolo per le loro analisi, cioè che il sistema giudiziario che ha indagato e incriminato Netanyahu è lo stesso che appoggia l’occupazione della Cisgiordania e l’assedio contro Gaza; che consente l’espulsione di palestinesi dalle loro case e la loro demolizione; che gestisce un apparato giudiziario separato su base etnica nei territori occupati, uno per i palestinesi e l’altro per gli ebrei. Ed è lo stesso sistema giudiziario che costantemente omette di considerare responsabili i propri soldati e civili per aver commesso soprusi, per aver aggredito e ucciso palestinesi ed ebrei etiopi, perché fa parte di uno Stato che, lasciando mano libera ai coloni violenti che agiscono in qualità di civili, ha rinunciato al proprio monopolio sull’uso legittimo della violenza.

In altre parole il sistema giudiziario che ha messo sotto processo Netanyahu e Gopstein in questo stesso momento sta anche consentendo ai coloni di aggirarsi per la Cisgiordania vandalizzando e incendiando proprietà palestinesi e aggredendo i proprietari. Queste due incriminazioni di alto livello non intaccano minimamente i progetti di espansione delle colonie, di esclusione su base etnica e di occupazione militare, azioni promosse dagli individui incriminati: la violenza nella relazione con i palestinesi continuerà anche se Gopstein verrà condannato, e la formalizzazione dell’annessione della Cisgiordania, insieme alla devastazione di Gaza che dura da molto tempo, sopravvivrà alla destituzione di Netanyahu.

Il sistema giudiziario che li ha messi sotto processo, per quanto possa essere disturbato dai loro quasi indistinguibili attacchi contro di esso come quinta colonna all’interno della società israeliana, continuerà ad approvare questi progetti.

È positivo che questi due uomini stiano affrontando le conseguenze attese da tempo per (alcune delle) loro azioni. L’ Israeli Religious Action Center, in particolare, deve essere elogiato per una battaglia quasi decennale per chiamare Gopstein a rispondere delle sue azioni. Ma non dobbiamo neppure fare di questa serie di avvenimenti altro che quello che sono: una foglia di fico che, puntando il dito contro due facili bersagli, rafforza piuttosto che indebolire il sistema che li ha prodotti.

Natasha Roth-Rowland è una dottoranda in storia all’università della Virginia, dove fa ricerca e scrive sull’estrema destra ebraica israeliana in Israele-Palestina e negli USA. In precedenza ha passato parecchi anni come scrittrice, redattrice e traduttrice in Israele-Palestina e il suo lavoro è stato pubblicato su The Daily Beast, the London Review of Books Blog, Haaretz, The Forward e Protocols. Scrive sotto lo pseudonimo del suo vero cognome in memoria di suo nonno, Kurt, che venne obbligato a cambiare il proprio cognome in ‘Rowland’ quando cercò di rifugiarsi in Gran Bretagna durante la Seconda Guerra Mondiale.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Un quartiere di Gerusalemme vessato rifiuta di sottomettersi

Jaclynn Ashly

22 Novembre 2019 – The Electronic Intifada

E’ un pericolo costante.

Amin Barakat non usa mezzi termini. Il cinquantenne abitante di Issawiyeh, quartiere di Gerusalemme est, dice che la vita nella zona non è sicura.

Non a causa del crimine, ma della polizia.

Ci sentiamo continuamente in pericolo. La polizia israeliana è ovunque. Non siamo sicuri nelle strade, nelle nostre scuole e neppure persino nelle nostre case,” racconta Barakat a “The Electronic Intifada.” “Ho troppa paura anche solo di mandare i miei figli a comprare qualcosa al negozio o di consentire loro di andare fuori da soli. Temo che possano essere arrestati.”

Issawiyeh è stato occupato da Israele nel 1967. Dopo la guerra Israele ha unilateralmente annesso tutta la zona di Gerusalemme, compresa Issawiyeh, e in conseguenza di ciò il quartiere è finito sotto la giurisdizione della polizia civile israeliana.

Durante gli ultimi mesi la zona ha dovuto affrontare una drastica impennata dell’attività della polizia che ha precipitato il quartiere nel caos.

Le luci lampeggianti blu e rosse dei veicoli della polizia israeliana sono diventate un incontro quotidiano nelle strade si Issawiyeh, mentre droni della polizia sorvolano [il quartiere] sorvegliando ogni movimento degli abitanti.

Proiettori della polizia penetrano nelle case degli abitanti, mentre poliziotti israeliani effettuano raid nel cuore della notte, facendo irruzione delle case e arrestando gli abitanti. In varie occasioni la polizia ha affermato che le sue attività sono dovute a qualunque cosa, dalla repressione di “cellule terroristiche” fino a quella di chi lancia pietre, ma gli abitanti e i gruppi per i diritti umani mettono decisamente in discussione ciò e affermano che le attività della polizia sono “ingiustificate”.

I posti di controllo e di blocco della polizia, arresti arbitrari e continue vessazioni degli abitanti di Issawiyeh hanno portato la tensione a un punto critico. Violenti scontri tra abitanti infuriati, che a volte lanciano pietre, e forze di sicurezza, compresi unità antisommossa e poliziotti di frontiera paramilitari che sparano lacrimogeni e proiettili ricoperti di gomma, hanno lasciato un bilancio di centinaia di abitanti feriti.

A luglio, circa un mese dopo l’inizio delle operazioni di polizia, Muhammad Obeid, 19 anni, è stato colpito e ucciso a Issawiyeh dalla polizia israeliana durante una protesta contro la brutalità della polizia, scatenando tre giorni di seguito di intensi scontri tra la polizia e gli abitanti di Issawiyeh.

Essi sono stati obbligati a chiudere i negozi, affermano, e il comitato dei genitori di Issawiyeh, che in genere si occupa di più banali questioni pedagogiche nella zona, ha convocato uno sciopero scolastico in tutto il quartiere.

I genitori sono troppo spaventati per mandare i propri figli fuori di casa in mezzo a quello che i gruppi per i diritti umani hanno definito un livello “senza precedenti” di attività della polizia nella zona.

Arresti e vessazioni arbitrari

La situazione è insopportabile,” ha detto in una recente intervista Muhammad Abu Hummus, un dirigente della comunità locale a The Electronic Intifada: “La polizia sta qui 24 ore al giorno. I genitori hanno paura di mandare i figli a scuola.”

Non c’è nessuna giustificazione per tutto questo. La polizia vuole vessarci senza alcuna ragione,” ha aggiunto.

Secondo Amy Cohen, direttrice dei rapporti internazionali e di sostegno di “Ir Amim”, un’organizzazione non governativa israeliana che documenta e sollecita attenzione su questioni riguardanti Gerusalemme, queste dirompenti operazioni di polizia a Issawiyah sono iniziate il 12 giugno.

Cohen ha documentato sviluppi sul terreno ad Issawiyeh e afferma che gli abitanti si sono lamentati delle incursioni quotidiane della polizia ormai da cinque mesi. Certo il villaggio ha subito per anni raid per la sicurezza e demolizioni di case, ma gli ultimi mesi sono stati particolarmente pesanti.

Qui c’è stata per mesi nelle strade non solo una presenza ostile della polizia armata, ci sono state anche palesi vessazioni contro gli abitanti. C’è una totale distruzione della vita quotidiana all’interno della comunità,” ha detto Cohen a The Electronic Intifada.

Le forze israeliane hanno piazzato posti di controllo e blocchi di polizia “totalmente arbitrari”, in orari casuali nella strada principale nel già congestionato quartiere, dice Cohen, bloccando la principale via di entrata e di uscita della comunità. I checkpoint e i blocchi hanno “creato un caos totale nel quartiere,” ha affermato.

Per giunta la polizia israeliana ha preso di mira gli abitanti con multe “casuali e arbitrarie”, per esempio per non aver parcheggiato in modo corretto l’auto, ha detto Cohen. In altri casi funzionari del Comune di Gerusalemme, scortati dalla polizia, hanno multato proprietari di negozi per aver aperto a una certa ora o per tenere scaffali o strutture fuori dal negozio, che secondo i funzionari devono ottenere un permesso.

Una campagna poliziesca “aggressiva”, che include arresti di abitanti che camminano per la strada e incursioni notturne, ha dato come risultato circa 500 abitanti arrestati da giugno, compresi minori. Secondo Cohen, solo circa il 20% degli arrestati ha ricevuto delle imputazioni a carico.

È una discrepanza notevole,” ha detto Cohen, notando che questi numeri mostrano che gli arresti che sono stati condotti sono casuali e arbitrari. Allo stesso modo tutti i minori arrestati, compreso un bambino di 9 anni, sono stati rilasciati entro le 24 ore senza che venissero accusati di qualcosa.

Secondo Barakat gli abitanti sono anche stati obbligati a pagare pesanti multe in seguito agli arresti, anche quando non sono state presentate accuse contro la persona arrestata. Ha evidenziato che all’inizio del mese la polizia ha arrestato un quindicenne di Issawiyeh per la seconda volta in un mese. Al padre del ragazzino è stato chiesto di pagare circa 1.500 dollari di cauzione per ogni arresto del figlio, dice Barakat.

Sciopero scolastico in tutto il quartiere

Abu Hummus, che Israele ha arrestato numerose volte per aver guidato la resistenza non violenta alle politiche israeliane nella Gerusalemme est occupata, ha detto a The Electronic Intifada che le condizioni imposte dall’aggressiva presenza poliziesca hanno seminato preoccupazione tra i genitori che si stavano preparando per l’inizio dell’anno scolastico.

In conseguenza di ciò il comitato dei genitori di Issawiyeh ha dichiarato che, se la polizia non avesse garantito che le forze di polizia sarebbero rimaste fuori dalle strade nelle ore in cui i ragazzini fanno il tragitto da casa a scuola e viceversa, all’inizio dell’anno scolastico avrebbero iniziato uno sciopero in tutto il quartiere riguardante nove scuole locali.

Abu Hummus, insieme a due membri del comitato dei genitori, è stato arrestato in agosto per aver convocato lo sciopero. È stato portato via dal letto in piena notte e accusato di “incitamento e appoggio al terrorismo.”

Tutti e tre sono stati rilasciati qualche giorno dopo. Prima che iniziasse la scuola il comitato, la polizia e il Comune di Gerusalemme sono riusciti ad arrivare ad un accordo verbale che ha evitato lo sciopero. Secondo Cohen, quando sono state aperte le porte delle scuole c’è stata una “occasionale riduzione” delle attività della polizia nel quartiere. Ma non è passato molto tempo che le forze di sicurezza hanno violato l’accordo e hanno ripreso le operazioni di disturbo.

Il 2 novembre, all’inizio del mese, per gli abitanti è stato raggiunto un punto di rottura, dopo che la polizia israeliana ha fatto irruzione in una scuola superiore locale e ha arrestato all’interno della proprietà della scuola uno studente sedicenne accusato di aver lanciato pietre contro la polizia. Secondo i media locali, sono scoppiati scontri, in quanto altri studenti hanno lanciato sedie contro la polizia, che allora ha sparato granate assordanti all’interno del cortile della scuola.

Il giorno dopo il comitato dei genitori ha dichiarato uno sciopero scolastico in tutto il quartiere che ha coinvolto circa 4.500 studenti dai 3 ai 18 anni.

Abbiamo decretato lo sciopero per salvare le vite dei nostri figli,” ha detto a The Electronic Intifada Barakat, padre di sette figli: “Le loro vite sono in pericolo. Non abbiamo avuto scelta. Dobbiamo fare in modo che i nostri figli vengano protetti.”

Il 4 novembre la polizia ha risposto arrestando gli stessi due membri del comitato dei genitori che erano stati fermati in agosto. Sono stati rilasciati il giorno dopo, dice Cohen, ma gli è stato rifilato un divieto di ingresso a Issawiyeh per sette giorni.

Perdere la speranza

Il 5 novembre gli abitanti hanno tenuto una manifestazione, mentre il comitato dei genitori ha partecipato a un altro incontro con il Comune di Gerusalemme e funzionari di polizia. È stato raggiunto un altro accordo verbale, che ha posto fine allo sciopero, che secondo Barakat includeva la formazione di un gruppo whatsapp con il comitato, il Comune e la polizia per migliorare la comunicazione tra le parti.

Tuttavia, secondo Cohen, solo due giorni dopo la polizia ha di nuovo ripreso le attività durante le ore degli spostamenti scolastici ed è andata pure oltre, affermando che nessun accordo del genere era stato raggiunto. Barakat sostiene che la polizia ha subito lasciato il gruppo whatsapp.

Ciò ha scatenato l’ondata di operazioni di polizia più intense e pesanti dal giugno scorso,” dice Cohen. La polizia israeliana ha notevolmente incrementato il numero di forze sul terreno a Issawiyeh che all’inizio del mese, il 9 novembre, “si è trasformato in una zona di guerra totale,” ha affermato.

Scontri con decine di poliziotti sono consistiti in “attacchi non provocati contro gli abitanti, terribili vessazioni e brutalità e l’uso di proiettili rivestiti di gomma, lacrimogeni e granate assordanti,” ha aggiunto Cohen.

Durante gli scontri sono rimasti feriti decine di abitanti, tra cui Abu Hummus. Un video degli incidenti, fornito dagli abitanti, mostra Abu Hummus di schiena che riprende i sensi con sangue che gli gronda dalla testa.

Anche un bambino di 8 mesi è stato vittima delle conseguenze per l’inalazione di gas lacrimogeni mentre era in casa sua.

Cohen dice che gli abitanti stanno perdendo la speranza per la situazione: “Sono arrivati al punto di sentirsi totalmente demoralizzati,” ha detto. “Stiamo parlando di cinque mesi di operazioni di polizia al giorno che hanno totalmente devastato le loro vite e quelle dei loro figli – e non se ne vede ancora la fine.”

Anche attivisti e organizzazioni israeliani sono comparsi in scena per dimostrare solidarietà con il quartiere, ma le loro iniziative di sostegno hanno fatto poco per limitare l’incremento delle attività della polizia nella comunità.

In un recente messaggio Ir Amim ha condannato il “palese abuso di potere” della polizia e ha evidenziato che gli abitanti di Issawiyeh, non essendo riusciti ad appellarsi a funzionari israeliani, ora stanno chiedendo un “intervento internazionale coordinato” per mettere immediatamente fine alle operazioni di polizia “al fine di ripristinare una vita normale nel quartiere.”

Barakat e Abu Hummus hanno detto a The Electronic Intifada che la polizia non ha informato gli abitanti di Issawiyeh sul perché si stiano mettendo in atto queste attività della polizia.

Portavoce della polizia israeliana e del Comune di Gerusalemme non hanno risposto alle molteplici richieste di un commento.

Nuova fase” di oppressione a Gerusalemme

Cohen ha detto a The Electronic Intifada che in alcuni momenti durante gli ultimi mesi la polizia ha sostenuto che le incursioni intendevano reprimere “cellule terroristiche” o abitanti che lanciavano pietre, bombe incendiarie e bottiglie molotov su una strada che porta alla colonia illegale di Maaleh Adumim.

Secondo Cohen, in base a indagini di Ir Amim ci sono stati “pochissimi” casi di lancio di pietre o eventi simili: “Non ci sono ragioni esplicite del perché siano state condotte operazioni ormai da cinque mesi. Non c’è alcuna giustificazione.”

Cohen ha affermato che la polizia ha avuto “carta bianca per operare come meglio crede,” aggiungendo che le operazioni sono guidate dal comandante della polizia di Gerusalemme Doron Yedid. “Egli (Yedid) vuole andarci giù con la mano pesante per reprimere il quartiere apparentemente senza ragione,” spiega Cohen.

Le altre istituzioni hanno fatto poco per intervenire. Non c’è una governance corretta né una corretta responsabilizzazione del comportamento della polizia. Gli abitanti sono stati fondamentalmente lasciati soli a fare i conti con una brutalità senza precedenti della polizia nella loro comunità.” Barakat afferma di credere che Israele “vuole solo renderci la vita impossibile per buttarci fuori da Gerusalemme.”

Gruppi per i diritti umani hanno da tempo evidenziato che le politiche discriminatorie di Israele a Gerusalemme est – che includono regolarmente la distruzione di case, l’assegnazione discriminatoria delle licenze edilizie e l’espulsione di palestinesi dalle proprie case a favore di coloni israeliani – intendono cacciare i palestinesi dalla città.

Con oltre il 70% di famiglie palestinesi nella Gerusalemme est occupata che vivono sotto il livello di povertà, se la vita diventa troppo cara hanno pochissime alternative se non spostarsi verso i sovraffollati quartieri di Gerusalemme dall’altra parte del muro di separazione di Israele o in Cisgiordania.

Dopo che Israele ha occupato Gerusalemme est nel 1967 ai palestinesi non è stata concessa la cittadinanza israeliana, ma sono stati invece rilasciati permessi di residenza permanente, che possono essere revocati da Israele per una serie di ragioni, compresa la scarsa lealtà verso lo Stato.

Dal 1967 e fino al 2017 a circa 15.000 palestinesi è stato revocato il documento di identità di Gerusalemme e sono stati espulsi dalla città.

Già in precedenza Issawiyeh ha subito azioni poliziesche draconiane. Nel quartiere c’è una lunga tradizione di organizzazione della comunità e l’attivismo contro l’occupazione israeliana rimane forte. Ma Cohen dice che le operazioni del passato non sono mai state così “infinite e incessanti.”

È una nuova fase di politiche oppressive rivolte contro la popolazione palestinese a Gerusalemme,” ha detto Cohen a The Electronic Intifada. “È un sistema per espellere e spogliare i palestinesi.”

Loro (Israele) vogliono schiacciare completamente qualunque resistenza e organizzazione comunitaria ancora esistente a Issawiyeh.”

Jaclynn Ashly è una giornalista che abita in Cisgiordania.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)