Un fotogiornalista palestinese rischia di essere espulso da Israele

Linah Alsaafin

1 giugno 2019 – Al Jazeera

Mustafà al-Kharouf, che vive a Gerusalemme est occupata, rischia l’espulsione in Giordania

Negli ultimi cinque mesi Mustafà al-Kharouf è stato a languire nel carcere israeliano di Givon, lontano dalla moglie Tamam e dalla figlia Asia di un anno e mezzo, ma ora rischia la deportazione in Giordania.

Il trentaduenne fotogiornalista, figlio di madre algerina e padre palestinese, ha vissuto a Gerusalemme dal 1999, quando la sua famiglia vi è tornata.

Nonostante vari tentativi negli ultimi dieci anni, gli è stato negato lo status di residente permanente, a cui avrebbe diritto, facendo quindi di lui un apolide.

Quando la famiglia di Kharouf ha raggiunto i requisiti stabiliti dalle regole per avere la residenza, Mustafà aveva 18 anni e la sua famiglia non poteva presentare per lui una richiesta di ricongiungimento familiare o di registrazione di un minore.

A gennaio Mustafà, che lavorava per l’agenzia Anadolu [agenzia di notizie turca, ndtr.], è stato arrestato dopo che il suo legale si è opposto alla decisione del ministero dell’Interno israeliano di negargli la domanda per la regolarizzazione. Ora il suo destino è nelle mani di un tribunale israeliano, che deciderà se sarà espulso in Giordania, un Paese con cui non ha nessun legame.

Per ottenere lo status legale come palestinesi in città, la famiglia di Kharouf aveva presentato richieste di ricongiungimento familiare.

Ma alla base delle complicate leggi israeliane per i residenti palestinesi di Gerusalemme – a cui vengono concessi i diritti di residenza ma non la cittadinanza israeliana – è la politica del “centro della vita”, che è stata descritta come una “pulizia etnica legalizzata”.

Questa politica, che esige dai palestinesi che vivono nella Gerusalemme est occupata di dimostrare di avere il centro della propria vita in città per conservare il proprio status giuridico, è stata criticata dai gruppi per i diritti umani in quanto discriminatoria e come prodromo dell’espulsione – una grave violazione delle leggi internazionali.

Status giuridico rifiutato dal ministero degli Interni israeliano

Adi Lustigman, l’avvocatessa di Kharouf dell’organizzazione israeliana per i diritti umani “HaMoked”, ha detto ad Al Jazeera che per anni Kharouf ha cercato di regolarizzare la propria situazione a Gerusalemme, ma senza risultati. “Ha avuto un permesso temporaneo per qualche tempo, ma per il resto si è solo arrangiato in qualche modo, come fanno molti altri abitanti di Gerusalemme, apolidi e privi di status,” ha affermato Lustigman. “Ovviamente è estremamente difficile essere una persona senza diritti, senza permesso di lavoro e senza un luogo in cui andare per essere legale.”

Dall’ottobre 2014 all’ottobre 2015 Kharouf ha ottenuto un visto israeliano di lavoro B/1 per “ragioni umanitarie”. Eppure alla fine le richieste di una proroga del visto sono state rigettate dal ministero dell’Interno per “ragioni di sicurezza”.

Lustigman crede che i rifiuti del ministero riguardino il suo lavoro come fotogiornalista che documenta le violazioni dei diritti umani commesse dalle autorità israeliane a Gerusalemme est occupata.

Dopo che nel 2016 si è sposato con Tamam, una palestinese di Gerusalemme, Kharouf ha presentato un’altra domanda di ricongiungimento familiare, ma è stata di nuovo rigettata nel dicembre del 2018 dal ministero dell’Interno.

Secondo Lustigman, la decisione era basata su accuse infondate secondo cui Kharouf sarebbe membro di Hamas, messa fuorilegge da Israele.

Il 21 gennaio 2019 l’avvocatessa ha presentato appello contro la decisione, ma il giorno dopo le forze israeliane hanno fatto irruzione nella casa di Kharouf e lo hanno arrestato, e da allora è sottoposto a detenzione amministrativa – incarcerazione indefinita senza processo o accuse contro di lui. “Mio marito è la persona più ottimista che conosca, ma ora è disperato,” ha detto ad Al Jazeera Tamam, la moglie di Kharouf.

Tamam ha il permesso di visitare suo marito una volta alla settimana per un massimo di 20 minuti solo attraverso una vetrata.

Il suo stato d’animo è molto peggiorato da quando è stato arrestato,” dice la ventisettenne consulente scolastica. “Ha perso 10 chili ed è molto depresso.”

Pochi mesi fa, in aprile, il tribunale distrettuale israeliano ha rigettato l’appello di Kharouf e gli ha concesso un permesso provvisorio perché non sia espulso, in modo che possa presentare il suo caso all’Alta Corte israeliana, con il 5 maggio come scadenza. L’appello è già stato presentato, ma l’Alta Corte non ha ancora preso una decisione. Kharouf rimane esposto al rischio di essere espulso in Giordania.

Ordine di espulsione ‘illegale’

Saleh Hijazi, il capo dell’ufficio di Amnesty International a Gerusalemme, ha definito la decisione israeliana di negare la richiesta di residenza di Kharouf e di espellerlo “crudele e illegale”. “[Kharouf] deve essere rilasciato immediatamente e gli deve essere concessa la residenza permanente a Gerusalemme est in modo che possa riprendere la sua vita normale con la moglie e la figlia,” dice Hijazi.

L’arresto arbitrario e la prevista espulsione di Mustafà al-Kharouf riflettono la pluriennale politica israeliana di riduzione del numero di palestinesi residenti a Gerusalemme est, negando loro i diritti umani,” prosegue.

In seguito all’annessione illegale di Gerusalemme est da parte di Israele nel 1967, almeno 14.600 palestinesi si sono visti revocare il permesso di residenza.

In base alla Quarta Convenzione di Ginevra l’espulsione da un territorio occupato di persone protette è illegale. Lo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale stabilisce che “la deportazione o il trasferimento [da parte del potere occupante] di tutta o parte della popolazione del territorio occupato all’interno o fuori da questo territorio” costituisce un crimine di guerra.

Una persona non può essere resa apolide,” ha sostenuto in aprile con un comunicato stampa Jessica Montell, direttrice esecutiva di HaMoked. “A livello pratico, non ha senso mantenere Mustafà in ‘attesa di espulsione’ quando non c’è nessun Paese in cui Israele lo possa espellere.

L’Alta Corte di Giustizia ha riconosciuto gli abitanti di Gerusalemme est come popolazione indigena con uno status unico. Israele quindi deve rilasciare senza indugio Mustafà e concedergli lo status legale a cui ha diritto in quanto gerosolimitano.”

Tamam si è molto impegnata per consultare avvocati e vedere quello che si può fare, ma dice che la maggior parte di loro afferma che il caso di suo marito è troppo complicato ed ha rifiutato di occuparsene.

Non ho mai pensato a un progetto alternativo per noi,” dice Tamam. “Se Mustafà viene espulso in Giordania, non otterrà la residenza, per non parlare della cittadinanza. Di fatto verrà arrestato dalle autorità giordane appena attraversato il confine per tutto il tempo che ci vorrà perché controllino la sua documentazione e prendano una decisione su cosa farne di lui,” continua. Se viene espulso non sarà solo una famiglia che verrà separata. Verrà strappato a me e a mia figlia, ai suoi genitori e ai suoi suoceri.”

Lustigman afferma che mettere in evidenza il caso di Kharouf può fare la differenza per non sradicare la vita del fotogiornalista.

Speriamo che l’opinione pubblica, l’interesse della stampa e le azioni delle Ong possano avere un certo peso ed aiutare,” sostiene l’avvocatessa.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Nakba nella Valle del Giordano: le esercitazioni dell’esercito israeliano gettano il caos tra i palestinesi

Shatha Hammad da Khirbet Humsa al-Fawqa, Cisgiordania occupata

15 maggio 2019 – Middle East Eye

Cacciati dalle loro case perché Israele testa le proprie armi, la commemorazione di quest’anno degli avvenimenti del 1948 vede nuove espulsioni.

A Khirbet Humsa al-Fawqa, sul pavimento di una tenda abitata giacciono giocattoli sparpagliati. Per i bambini del villaggio i giochi sono finiti quando l’esercito israeliano ha dichiarato l’area zona militare proibita e nelle prime ore di domenica ha obbligato la comunità palestinese ad andarsene dalle proprie abitazioni.

In seguito a un ordine di espulsione di quattro giorni prima, ai 98 abitanti è stato vietato l’accesso alle loro abitazioni per tre giorni. L’esercito li ha informati che tra maggio e giugno verranno cacciati 12 volte per tre giorni ciascuna.

Ai palestinesi è stato detto che le abitazioni sarebbero state nel raggio di gittata dei proiettili dei carri armati poiché l’esercito israeliano utilizza l’area per effettuare esercitazioni militari.

La mattina dell’espulsione Mohammed Sulaiman Abu Qabbash, padre di cinque figli, li ha accompagnati in una vicina comunità ed è corso indietro nel tentativo di proteggere le tende e le pecore. Il trentacinquenne è andato avanti e indietro controllando ansiosamente la zona. Ha aspettato che i soldati israeliani arrivassero e lo buttassero fuori.

Nei prossimi tre giorni dormiremo all’aperto. Non abbiamo alternative, non possiamo opporci a una potenza simile,” ha detto Mohammed a Middle East Eye.

Se la comunità rifiuta di andarsene quando gli viene ordinato rischia l’espulsione con la forza, l’esproprio delle greggi e una multa retroattiva.

In base alle leggi internazionali cacciare dalle proprie case gli abitanti di un territorio occupato è considerato trasferimento forzato di persone protette, il che costituisce un crimine di guerra. Ma gli abitanti delle comunità palestinesi nella Valle del Giordano conoscono bene tali devastanti politiche israeliane.

La valle, una striscia di terra fertile che corre a ovest lungo il fiume Giordano, è abitata da circa 65.000 palestinesi.

Dal 1967, quando l’esercito israeliano ha occupato la Cisgiordania, Israele ha trasferito almeno 11.000 suoi cittadini ebrei nella Valle del Giordano. Alcune delle colonie in cui vivono sono state interamente costruite su terre palestinesi di proprietà privata.

Da quando è iniziata l’occupazione, circa il 46% della Valle del Giordano è stata dichiarata dall’esercito israeliano zona militare proibita.

Circa 6.200 palestinesi risiedono in 38 comunità in luoghi destinati a usi militari e devono ottenere un permesso delle autorità israeliane per entrare e vivere nelle loro comunità.

In violazione del diritto internazionale l’esercito israeliano non solo scaccia regolarmente in modo temporaneo le comunità, ma a volte demolisce anche case e infrastrutture.

Oltre a subire espulsioni temporanee, le famiglie palestinesi che vi vivono devono affrontare una miriade di limitazioni nell’accesso a risorse e servizi. Nel contempo la confisca di terre da parte di Israele ha espropriato risorse naturali a favore dei coloni.

Vivere la Nakba

Il digiuno durante l’espulsione e le temperature che hanno raggiunto i 40° hanno raddoppiato le difficoltà di questo Ramadan, dice Khadija Abu Qabbash mentre si prepara ad andarsene. La donna incinta, madre di cinque figli, la mattina ha lavato a mano una pila di vestiti. La sua figlia di 15 anni, Deema, l’ha aiutata a stendere in gran fretta i panni ad asciugare prima che arrivassero i soldati israeliani.

Questa mattina abbiamo accompagnato fuori i bambini ed ora la macchina è tornata a prenderci,” dice a MEE mentre piange. “Non potrò cucinare niente per iftar [pasto serale che interrompe il digiuno del Ramadan, ndtr.]. Ci dovremo accontentare di cibo in scatola.”

Le forze israeliane espellono regolarmente le famiglie di Khirbet Humsa al-Fawqa. Tuttavia in genere le espulsioni avvengono durante il giorno, mentre agli abitanti è consentito tornare alla sera.

Non so se stanno effettivamente facendo esercitazioni militari. A volte ci cacciano e non fanno niente. Intendono obbligarci ad andarcene per sempre,” dice Khadija.

Le attività di Israele nella Valle del Giordano sono state ben documentate da gruppi per i diritti umani e da Ong locali, che affermano che l’obiettivo di queste misure è cacciare i palestinesi e soffocare il loro sviluppo nella zona.

Essendo assolutamente strategica, i politici israeliani, anche prima delle recenti affermazioni del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu riguardo ai suoi progetti di annettere zone della Cisgiordania occupata, hanno chiarito in varie occasioni che la Valle del Giordano rimarrà in ogni caso sotto il loro controllo.

Nel 2013 negoziati di pace sono stati rifiutati da Israele quando è stata ipotizzaa la cessione di parte del controllo sulla valle.

Commentando l’evacuazione di Khirbet Humsa al-Fawqa di domenica, Walid Assaf, capo della Commissione Nazionale per la Resistenza al Muro e alle Colonie dell’Autorità Nazionale Palestinese, ha detto in un comunicato che ci sono stati tentativi con l’intervento di legali per bloccare l’espulsione temporanea, ma non si è potuto mettere in discussione l’ordine militare israeliano.

Proprio come hanno cacciato i palestinesi dale loro case nel 1948, oggi stanno facendo lo stesso. Non cederemo,” ha aggiunto Khadija, riferendosi alla Nakba, la pulizia etnica della Palestina storica da parte delle milizie sioniste 71 anni fa, che si commemora ogni anno il 15 maggio.

Qui non vogliono palestinesi”

Principalmente composte di pastori, le famiglie di Khirbet Humsa al-Fawqa si alzano alle 3 del mattino per mungere le proprie pecore e preparare il formaggio prima di andare ai mercati della vicina cittadina di Tubas.

Harb Abu Qabbash, 40 anni, dice a MEE che ogni famiglia possiede circa 300 pecore. Dato che è difficile spostarle fuori dalla zona, quando i palestinesi vengono evacuati molti degli agnelli rimangono indietro e spesso muoiono di fame senza nessuno che si occupi di loro.

Aggiunge che durante le esercitazioni militari migliaia di ettari di orzo e grano rischiano di essere bruciati. Secondo Harb ciò avviene regolarmente. “Il nostro maggior timore è che una bomba cada su una delle nostre tende. Se ciò accadesse sarebbe una catastrofe e perderemmo tutto,” dice Harb.

Gli israeliani vogliono impossessarsi della zona e svuotarla dei suoi abitanti. Non vogliono palestinesi qui,” aggiunge.

Nel 2005 hanno demolito le nostre tende e infrastrutture con il pretesto che erano state costruite senza permesso. Quando facciamo richiesta di un permesso loro non lo concedono.”

Quando non devono affrontare un’evacuazione, le esercitazioni militari e le demolizioni, i palestinesi della comunità lottano per approvvigionarsi dell’acqua sufficiente per le loro necessità sotto l’occupazione israeliana.

Ogni famiglia con le sue pecore utilizza un totale di due o tre serbatoi d’acqua al giorno,” dice Harb.

Per trasportare il camion cisterna alla comunità ci vogliono due ore. C’è un pozzo d’acqua a cinque minuti da qui, ma l’esercito israeliano ci ha vietato di utilizzarlo e lo ha destinato all’uso esclusivo dei coloni israeliani.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




Accordo del secolo

L’“accordo del secolo”? La benedizione americana al furto di terre e alla ghettizzazione dei palestinesi da parte di Israele

Nel corso degli ultimi 18 mesi la squadra di Trump per il Medio oriente sembra aver iniziato ad applicare il piano anche se non l’ha ancora reso pubblico

 

Jonathan Cook

 

Venerdì 10 maggio 2019 – Middle East Eye

 

Un rapporto pubblicato questa settimana dal giornale Israel Hayom che svelerebbe in apparenza “l’accordo del secolo” di Donald Trump dà l’impressione di un piano di pace che avrebbe potuto essere elaborato da un agente immobiliare o da un venditore di automobili.

Ma se l’autenticità del documento non è dimostrata, e al contrario persino messa in discussione, esistono seri motivi per credere che apra la strada a ogni futura dichiarazione dell’ amministrazione Trump.

 

Grande Israele

Si tratta soprattutto di una sintesi della maggior parte delle pretese della destra israeliana per la creazione del Grande Israele, con qualche concessione destinata ad ammansire i palestinesi – la maggior parte delle quali con l’obiettivo di alleggerire parzialmente lo strangolamento dell’economia palestinese da parte di Israele.

È esattamente ciò a cui assomiglierebbe l’“accordo del secolo” in base alle dichiarazioni del mese scorso di Jared Kushner che davano un primo quadro di questo piano.

L’organo di stampa che ha pubblicato la fuga di notizie è altrettanto significativo: Israel Hayom. Questo giornale israeliano appartiene a Sheldon Adelson, un miliardario americano dei casinò, uno dei principali donatori del partito repubblicano [USA, ndtr.] e uno dei maggiori finanziatori della campagna elettorale di Trump per la campagna presidenziale.

Adelson è anche un fedele alleato del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Nell’ultimo decennio il suo giornale non ha fatto altro che servire da portavoce dei governi ultranazionalisti di Netanyahu.

 

Netanyahu responsabile della fuga di notizie?

Adelson e Israel Hayom  hanno facile accesso alle figure più rappresentative delle amministrazioni americana e israeliana. Ed è stato ampiamente denunciato che nel giornale si scrivono poche cose interessanti senza che non siano state approvate in precedenza da Netanyahu o dal suo proprietario all’estero.

Il giornale ha rimesso in dubbio l’autenticità e la credibilità del documento, che è stato diffuso sulle piattaforme delle reti sociali, suggerendo persino che “è assolutamente possibile che il documento sia un falso” e che il ministero degli Esteri israeliano aveva deciso di occuparsi della questione.

La Casa Bianca aveva già informato che, dopo lunghi rinvii, aveva l’intenzione di svelare finalmente “l’accordo del secolo” il mese prossimo, dopo la fine del mese sacro per i musulmani del Ramadan.

Un responsabile anonimo della Casa Bianca ha dichiarato al giornale che il documento divulgato era “ipotetico” e “inesatto” – il genere di debole smentita che potrebbe ugualmente significare che il rapporto è, in effetti, in gran parte esatto.

Se il documento si rivela autentico, Netanyahu sembra essere il colpevole più probabile della divulgazione. Ha supervisionato il ministero degli Esteri per anni e Israel Hayom è spesso definito come il “Bibiton”, o il giornale di Bibi, dal soprannome del primo ministro.

Tastare il terreno

Il presunto documento, come l’ha pubblicato Israel Hayom, sarebbe un disastro per i palestinesi. Supponendo che Netanyahu ne approvi la divulgazione, le sue motivazioni non sarebbero forse molto difficili da individuare.

Da un certo punto di vista la divulgazione potrebbe costituire un mezzo efficace per Netanyahu e l’amministrazione Trump per tastare il terreno, per lanciare un ballon d’essai e decidere se osare pubblicare il documento così com’è o se devono apportarvi delle modifiche.

Ma è anche possibile che Netanyahu sia forse arrivato alla conclusione che mettere palesemente in pratica l’essenza di quello che già riesce a fare di nascosto potrebbe avere un prezzo non gradito – un prezzo che al momento potrebbe preferire evitare.

La fuga di notizie intende provocare un’opposizione anticipata al piano che arrivi sia da Israele che dai palestinesi e dal mondo arabo, nella speranza di impedire chee venga reso pubblico?

Forse ha sperato che le indiscrezioni, e la reazione che esse suscitano, obblighino la squadra di Trump per il Medio Oriente a rimandare di nuovo la pubblicazione del piano o a impedirne totalmente la diffusione.

Tuttavia, che “l’accordo del secolo” sia o no svelato tra poco, il documento divulgato – se è autentico – dà un’idea plausibile del pensiero dell’amministrazione Trump.

Dato che la squadra di Trump per il Medio oriente sembra aver cominciato ad applicare il piano, anche se quest’ultimo non è stato reso pubblico, durante gli ultimi otto mesi – dallo spostamento dell’ambasciata americana a Gerusalemme al riconoscimento dell’illegale annessione da parte di Israele delle alture siriane del Golan – questa fuga di notizie permette di far luce su come si articolerebbe la “soluzione” americano-israeliana del conflitto israelo-palestinese.

 

Annessione della Cisgiordania

L’entità palestinese proposta sarebbe denominata “Nuova Palestina”, ciò che costituirebbe probabilmente una pagina del manuale di strategia di Tony Blair, ex-primo ministro britannico diventato ambasciatore della comunità internazionale in Medio oriente dal 2007 al 2015.

Negli anni ’90 Blair ha allontanato il suo stesso partito, il partito Laburista, dalla sua tradizione socialista, poi lo ha ribattezzato il partito favorevole alle imprese, che ha dato come risultato – sbiadita copia di quello che era – il “New Labour”.

Il nome “Nuova Palestina” maschera efficacemente il fatto che questa entità demilitarizzata sarebbe sprovvista dei caratteri e dei poteri normalmente attribuiti a uno Stato. Secondo le rivelazioni, la Nuova Palestina non esisterebbe che su un’infima frazione della Palestina storica.

Tutte le colonie illegali di popolamento in Cisgiordania sarebbero annesse a Israele, ciò che sarebbe in linea con l’impegno preso da Netanyahu poco prima delle elezioni legislative dello scorso mese. Se il territorio annesso comprende la maggior parte della zona C, il 62% della Cisgiordania su cui in base agli accordi di Oslo Israele si è visto accordare un controllo temporaneo e che la destra israeliana intende insistentemente annettere, alla Nuova Palestina resterebbe il controllo del 12% della Palestina storica.

In altre parole l’amministrazione Trump sembra pronta a dare la propria benedizione a un Grande Israele che comprenda l’88% delle terre rubate ai palestinesi nel corso degli ultimi 70 anni.

“Nuova Palestina”

Ma è molto peggio di questo. La Nuova Palestina esisterebbe sotto forma di una serie di cantoni separati, o Bantustan, circondati da un oceano di colonie israeliane – ormai definite parte di Israele. L’entità sarebbe fatta a pezzi e tagliata come nessun altro Paese al mondo.

La Nuova Palestina non avrebbe un esercito, ma solo una forza di polizia con armi leggere. Non potrebbe agire che come una serie di municipalità scollegate tra loro.

In realtà è difficile immaginare come la “Nuova Palestina” cambierebbe in modo sostanziale la triste situazione attuale dei palestinesi. Non si potrebbero spostare tra questi cantoni se non attraverso lunghi giri, delle circonvallazioni e dei tunnel. Più o meno come ora.

 

Municipalità osannate

Il solo vantaggio proposto dal presunto documento è un progetto di bustarelle proveniente dagli Stati Uniti, dall’Europa e da altri Stati sviluppati, anche se finanziato principalmente dai ricchi Stati petroliferi del Golfo, in modo da alleviare la loro coscienza per aver spogliato i palestinesi delle loro terre e della loro sovranità.

Questi Stati forniranno 30 miliardi di dollari (26 miliardi di euro) in cinque anni per aiutare la Nuova Palestina a creare e a gestire i suoi municipi osannati. Se vi sembra una grossa somma di denaro, ricordatevi che ciò rappresenta otto miliardi di dollari in meno rispetto all’aiuto che gli Stati Uniti consegnano da un decennio a Israele per comprare armi e aerei da guerra.

Nel documento non compare chiaramente quello che succederà alla Nuova Palestina dopo questo periodo di 5 anni. Ma, considerato che il 12% della Palestina storica attribuita ai palestinesi costituisce il territorio più povero di risorse della regione – privato da Israele di risorse idriche, di coesione economica e di risorse chiave utilizzabili come le cave della Cisgiordania – è difficile non vedere il naufragio annunciato dell’entità dopo l’affievolirsi del flusso iniziale di denaro.

Anche se la comunità internazionale accettasse di destinare più soldi, la Nuova Palestina sarebbe per sempre totalmente dipendente dagli aiuti.

Gli Stati Uniti e altri Paesi sarebbero in grado di aprire o chiudere i rubinetti in base al “buon comportamento” dei palestinesi – come avviene attualmente. I palestinesi vivrebbero in modo permanente nel timore per le conseguenze delle critiche dei guardiani della loro prigione.

Fedele al suo impegno di far pagare al Messico la costruzione del muro lungo la frontiera sud degli Stati Uniti, a quanto pare Trump vorrebbe che l’entità palestinese pagasse Israele per fornirle una sicurezza militare. In altri termini, gran parte di questo aiuto di 30 miliardi di dollari ai palestinesi si ritroverebbe probabilmente nelle tasche dell’esercito israeliano.

È interessante notare che il presunto articolo sostiene che sono gli Stati produttori di petrolio, e non i palestinesi, che sarebbero i “principali beneficiari” dell’accordo. Ciò indica come l’accordo di Trump sia venduto agli Stati del Golfo: è un’occasione per loro di legarsi totalmente a Israele, alla sua tecnologia e alle sue capacità militari, in modo che il Medio oriente possa seguire le orme delle “tigri economiche” dell’Asia.

 

Pulizia etnica a Gerusalemme

Gerusalemme è descritta come una “capitale condivisa”, ma le clausole scritte in piccolo dicono tutt’altro. Gerusalemme non sarebbe divisa, con da una parte l’est palestinese e dall’altra l’ovest israeliano, come per lo più si era previsto. Invece di ciò, la città sarebbe diretta da una municipalità unificata sotto controllo israeliano. Esattamente come ora.

La sola concessione significativa ai palestinesi sarebbe che gli israeliani non sarebbero autorizzati a comprare case palestinesi, impedendo – almeno in teoria – l’assunzione del controllo di Gerusalemme est in modo più pesante da parte dei coloni ebrei.

Ma, dato che in cambio i palestinesi non sarebbero autorizzati a comprare delle case israeliane e che la popolazione palestinese a Gerusalemme est soffre già di una grave carenza di alloggi e che un’amministrazione comunale israeliana avrebbe il potere di decidere dove le case potrebbero essere costruite e per chi, è facile immaginare che la situazione attuale – Israele che si serve del controllo della gestione del territorio per cacciare i palestinesi da Gerusalemme – semplicemente continuerebbe.

In più, siccome i palestinesi a Gerusalemme sarebbero dei cittadini della Nuova Palestina, e non di Israele, quelli che sarebbero incapaci di installarsi in una Gerusalemme sotto dominazione israeliana non avrebbero altra scelta che emigrare in Cisgiordania. Sarebbe esattamente la stessa forma di pulizia etnica burocratica che i palestinesi stanno sperimentando attualmente.

Gaza aperta verso il Sinai

Riprendendo le recenti affermazioni di Jared Kushner, genero di Trump e consigliere per il Medio oriente, i vantaggi del piano per i palestinesi sono tutti legati ai potenziali utili economici e non politici.

I palestinesi sarebbero autorizzati a lavorare in Israele, come avveniva normalmente prima di Oslo, e verosimilmente, come allora, unicamente nei lavori peggio pagati e più precari, nei cantieri edili e in agricoltura.

Un corridoio terrestre, sicuramente sorvegliato da contractors militari israeliani che i palestinesi dovranno pagare, dovrebbe ricollegare Gaza alla Cisgiordania. Confermando informazioni precedenti relative ai progetti dell’amministrazione Trump, Gaza sarebbe aperta al mondo, e sul vicino territorio del Sinai sarebbero creati una zona industriale e un aeroporto.

Questa terra – la cui estensione sarebbe da definire nei negoziati – sarebbe presa in affitto all’Egitto.

Come sottolineato in precedenza da Middle East Eye, tale decisione rischierebbe di incoraggiare progressivamente i palestinesi a considerare il Sinai, invece di Gaza, come il centro della loro vita, un altro mezzo per procedere alla progressiva pulizia etnica.

Nel contempo la Cisgiordania sarebbe collegata alla Giordania da due passaggi di frontiera – probabilmente attraverso corridoi terrestri che attraverserebbero la valle del Giordano, che dovrebbe essere annessa anch’essa a Israele. Di nuovo, con i palestinesi chiusi in cantoni non collegati e circondati dal territorio israeliano, c’è da supporre che con il tempo molti cercherebbero una nuova vita in Giordania.

Nel corso di tre anni i prigionieri politici palestinesi sarebbero liberati dalle prigioni israeliane sotto l’autorità della Nuova Palestina. Tuttavia il piano non dice niente sul diritto al ritorno per i milioni di rifugiati palestinesi, i discendenti di quelli che sono stati cacciati da casa loro durante le guerre del 1948 e del 1967.

Pistola alla tempia

Alla maniera di don Corleone, l’amministrazione Trump sembra pronta a mettere una pistola alla tempia dei dirigenti palestinesi per obbligarli a firmare l’accordo.

Secondo il rapporto divulgato, gli Stati Uniti vieterebbero qualunque trasferimento di denaro ai palestinesi dissidenti, con lo scopo di obbligarli a sottomettersi.

Questo presunto piano esigerebbe che Hamas e la Jihad islamica si disarmino consegnando le loro armi all’Egitto. Se rifiutassero l’accordo, il rapporto sostiene che gli Stati Uniti autorizzerebbero Israele ad “attentare” contro i dirigenti – per mezzo di assassini extragiudiziari che costituiscono da molto tempo il pilastro della politica israeliana riguardo ai due gruppi.

Ciò che è meno credibile è il fatto che il presunto documento suggerisce che la Casa Bianca sarebbe pronta a dimostrare la propria fermezza anche nei confronti di Israele, tagliando l’aiuto americano se Israele non rispettasse i termini dell’accordo.

Dato che Israele ha regolarmente infranto gli accordi di Oslo – e il diritto internazionale – senza dover affrontare gravi sanzioni, è facile immaginare che in pratica gli Stati Uniti troverebbero delle soluzioni per evitare che Israele debba pagare le conseguenze di ogni violazione dell’accordo.

Imprimatur americano

Il presunto documento presenta tutte le caratteristiche del piano Trump, o almeno di una sua versione recente, perché descrive nero su bianco la situazione che Israele ha creato per i palestinesi nel corso di questi ultimi vent’anni.

Ciò dà semplicemente a Israele l’imprimatur ufficiale degli Stati Uniti per il furto massiccio delle terre e la riduzione in cantoni dei palestinesi.

Dunque, se offre alla destra israeliana la maggior parte di quello che vuole, che interesse ha Israel Hayom – portavoce di Netanyahu – a compromettere il suo successo divulgandolo?

Alcune ragioni potrebbero spiegarlo.

Israele ha già raggiunto tutti i suoi obiettivi – rubare la terra, annettere le colonie di insediamento, consolidare il suo controllo esclusivo su Gerusalemme, fare pressione sui palestinesi perché se ne vadano dalla loro terra e partano per gli Stati vicini – senza annunciare ufficialmente che si tratta del suo piano.

Ha realizzato grandi progressi in tutti i suoi obiettivi senza dover ammettere pubblicamente che la creazione di uno Stato per i palestinesi è un’illusione. Per Netanyahu, la questione deve essere sapere perché dovrebbe rendere pubblica la visione globale di Israele quando può essere realizzata di nascosto.

Timore di un contraccolpo

Ma, peggio ancora per Israele, una volta che i palestinesi e il mondo che sta a guardare capiranno che l’attuale situazione catastrofica per i palestinesi non migliorerà, ci sarà probabilmente un contraccolpo.

L’Autorità Nazionale Palestinese potrebbe crollare, la popolazione palestinese scatenerebbe una nuova ribellione, la cosiddetta “opinione pubblica araba” accetterebbe probabilmente questo piano meno di quanto i suoi dirigenti o di quanto Trump non desideri, e gli attivisti solidali in Occidente, soprattutto il movimento per il boicottaggio, beneficerebbero di un’ enorme spinta per la loro causa.

Inoltre sarebbe impossibile per i difensori di Israele continuare a negare che Israele ha messo in atto quello che l’accademico israeliano Baruch Kimmerling aveva definito “politicidio”: la distruzione dell’avvenire dei palestinesi, del loro diritto all’autodeterminazione e della loro integrità in quanto un solo popolo.

Se questa è la versione della pace in Medio oriente proposta da Trump, egli gioca alla roulette russa – e Netanyahu esiterà forse a lasciargli premere il grilletto.

 

 

Jonathan Cook è un giornalista britannico residente dal 2001 a Nazareth. E’ l’autore di tre libri sul conflitto israelo-palestinese. È stato vincitore del Martha Gellhorn Special Prize for Journalism.

 

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

 

 

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Da Israele al Brasile: dichiarazione di guerra alle popolazioni indigene

Ahmad Moussa

28 aprile 2019, Middle East Eye

Sotto la presidenza Bolsonaro, il Brasile sta perpetuando il razzismo e l’oppressione sionista-colonialista

Le recenti affermazioni del presidente brasiliano Jair Bolsonaro sul “perdonare l’Olocausto” hanno innescato le critiche da parte di Israele, ma ciò che non bisogna dimenticare sono i rapporti e l’identità sionisti del Brasile.

Gli osservatori internazionali sono rimasti turbati dalle recenti vittorie elettorali, in Brasile e Israele, dei candidati di estrema destra Bolsonaro e Benjamin Netanyahu, che hanno entrambi sostenuto e messo in atto apertamente politiche genocide contro le popolazioni indigene.

Il Brasile ha rivelato la propria anima nera, riflettendo l’israelizzazione del Paese ai giorni nostri.

La recente dichiarazione di Bolsonaro, secondo cui l’Olocausto può essere “perdonato ma mai dimenticato”, potrebbe sembrare una rottura nell’orientamento sionista, ma ciò è tutt’altro che vero.

Favoreggiamento della Nakba

Al di là della decisione di Bolsonaro di trasferire l’ambasciata brasiliana a Gerusalemme, e delle foto dei suoi due figli che indossano magliette dell’esercito israeliano e del Mossad – facendo pubblicità ai servizi segreti israeliani, noti per terrorizzare i palestinesi – la storia politica del Brasile dimostra una profonda lealtà all’ideologia sionista.

Il Brasile porta avanti il razzismo colonialista e l’oppressione sionista attraverso l’annichilimento della cultura indigena. È stato uno dei primi Paesi a riconoscere lo Stato di Israele, contribuendo e collaborando quindi alla Nakba – o “catastrofe”, l’espulsione, nel 1948, dei palestinesi dalle loro case – e alla pulizia etnica della Palestina tutt’ora in corso.

Il diplomatico brasiliano Ozvaldo Aranha, ex presidente dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, nel 1947 è stato determinante nel garantire la creazione di Israele.

Aranha promosse la divisione della Palestina in favore del movimento sionista e contro la volontà del popolo palestinese, rinviando per tre giorni la votazione per far sì che si arrivasse all’approvazione con il sostegno della maggioranza.

Vinse poi il Nobel per la Pace per il suo impegno a sostegno degli interessi sionisti.

Il Piano di Partizione dell’ONU ha fornito il precedente giuridico per giustificare la pulizia etnica della Palestina nel 1948, cioè la Nakba, che continua ancora oggi.

Questa procedura irregolare riecheggia oggi in Brasile, con gli attacchi alla popolazione indigena del Paese.


Occultamento di atrocità

La condivisione della linea contro gli indigeni tra Israele e il Brasile ha iniziato ad emergere più chiaramente negli ultimi anni, con la cooperazione per la sicurezza di alto livello durante i Mondiali di calcio in Brasile nel 2014 e le Olimpiadi del 2016.

Il Brasile ha realizzato questi due grandi eventi mondiali a spese della propria popolazione emarginata.

Ha voluto garantire sicurezza e protezione da un potenziale “terrorismo” nascondendo le atrocità e le conseguenze della repressione di stato e della violenza contro i brasiliani emarginati, soprattutto persone indigene nelle favelas ghettizzate e sovrappopolate, simili ai bantustan palestinesi creati da Israele.

Gli attivisti hanno lanciato l’allarme: Israele sta esportando il “modello di sicurezza a Gaza” in Brasile, dove la popolazione indigena è sotto costante minaccia di furto e sfruttamento dei propri territori tradizionali per fini politici ed economici.

Il motivo di questa relazione speciale è che il Brasile vuole imparare dalle tattiche israeliane contro i palestinesi. Tattiche che Israele sta esportando in tutto il mondo.

Campagna memoricida

Il “risanamento”, o “pulizia”, delle aree da parte della polizia brasiliana attraverso meccanismi repressivi è una strategia insegnata dagli agenti della sicurezza israeliani. Promuovere la colonizzazione e la cancellazione delle aree indigene è particolarmente interessante per il Brasile, nello stesso modo in cui Israele opprime la propria popolazione palestinese.

Questi eventi recenti sono utili a ricordarci l’inquietante identità del Brasile e quale strada sta imboccando il Paese.

Con i proclami fermamente pro-israeliani e anti-indigeni di Bolsonaro sull’appropriazione della terra, l’assimilazione e lo sterminio, in Brasile continua l’esportazione israeliana della cancellazione degli indigeni.

Le popolazioni indigene dei due Stati stanno fronteggiando una campagna di cancellazione della memoria; un tentativo di far loro dimenticare il passato, cosicché non possano avere un futuro.

È questo che non può essere perdonato né dimenticato.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Ahmad Moussa


Ahmad Moussa è uno studioso e attivista per i diritti umani, nonché collaboratore fisso ed editorialista freelance per varie agenzie stampa internazionali. È docente di questioni indigene e mediorientali e attivista per i diritti umani con un Master in Diritto Internazionale e Diritti Umani. Moussa è attualmente impegnato in una ricerca per un dottorato in Studi sulla guerra.

(traduzione di Elena Bellini)




Perché il sionismo è sempre stato un’ideologia razzista

Asa Winstanley

20 aprile 2019, Middle East Monitor

Questa settimana il ministro ombra laburista della Giustizia Richard Burgon si è rammaricato per aver affermato qualche anno fa in un discorso che il sionismo è il “nemico della pace”. Non avrebbe dovuto scusarsi. Le sue considerazioni del 2014 erano un semplice dato di fatto storico, ed avrebbe dovuto difenderle.

I sionisti liberal e “di sinistra” affermano che il governo sempre più di estrema destra del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu è una “degenerazione” del cosiddetto sogno sionista. Ci viene detto che questa progetto rappresenta un paradiso egualitario per i popoli ebraici oppressi del mondo.

Si tratta di una fantasia antistorica.

Il movimento per creare uno “Stato ebraico” in Palestina – un Paese per la stragrande maggioranza non ebreo – fu, fin dalla sua ideazione, un progetto esclusivista e razzista. Dai suoi primi giorni il sionismo è stato permeato degli stessi atteggiamenti razzisti di altri movimenti europei di colonialismo di insediamento. In realtà la concezione progressista sionista di eguaglianza all’interno della Palestina esclude gli arabi palestinesi, il popolo indigeno del territorio. Una simile cecità intenzionale è una caratteristica comune dei movimenti colonialisti. Come l’illustre studioso palestinese Nur Masalha ha spiegato decenni fa nel suo studio magistrale “Espulsione dei palestinesi”, in realtà il movimento sionista ha compreso che effettivamente c’era già una popolazione che viveva in Palestina. Tuttavia scelse di non vedere queste persone come esseri umani a pieno titolo degni degli stessi diritti dei coloni ebrei.

Masalha ha scritto che l’ignobile slogan del sionista dei primordi Israel Zangwill “una terra senza popolo per un popolo senza terra” non era inteso come un giudizio demografico letterale. I sionisti “non intendevano dire che non ci fosse un popolo in Palestina, ma che non c’era un popolo degno di essere preso in considerazione all’interno del quadro di concezioni della supremazia europea che all’epoca dominavano incontrastate.”

Questi concetti di suprematismo bianco, che in quel periodo per le élite europee erano indiscutibili, erano una caratteristica comune dei progetti colonialisti di ogni tipo. Come avrebbe quindi potuto essere diverso per il sionismo?

La risposta è che non lo era, indipendentemente da quanta immagine “di sinistra” i sionisti laburisti abbiano inserito nel loro movimento colonialista. Dopo tutto i movimenti laburisti dell’Europa occidentale nelle metropoli coloniali erano spesso esplicitamente di orientamento favorevole all’impero; probabilmente nessuno più del partito laburista britannico. In realtà la storia dell’appoggio ad alcuni dei fondamentali diritti umani dei palestinesi da parte di Jeremy Corbyn rappresenta una rottura storica con la lunga serie praticamente ininterrotta di virulente politiche anti-palestinesi del partito laburista.

Prendete per esempio Richard Crossman, ministro del governo di Harold Wilson negli anni ’60 e in seguito editorialista del “New Statesman” [rivista politica inglese di sinistra, ndt.]. All’epoca era una figura di spicco della sinistra laburista, eppure in tutto il partito era uno dei più fanatici tra i sionisti. Nel 1959, in una conferenza in Israele, affermò che “nessuno, fino al XX° secolo, aveva seriamente messo in dubbio” il “diritto” o il “dovere” di quello che definì “l’uomo bianco” in Africa e nelle Americhe “di civilizzare questi continenti con la loro occupazione fisica, anche a costo di spazzare via la popolazione nativa.”

In altre parole, il genocidio.

Crossman lamentò inoltre che “i coloni ebrei” in Palestina non avessero “raggiunto la maggioranza prima del 1914,” e che i palestinesi “li vedessero come ‘coloni bianchi’, venuti ad occupare il Medio Oriente.” Si noti che questo decano della sinistra laburista non condannava “i coloni bianchi” che di fatto avevano occupato la Palestina con la forza cacciando la popolazione indigena. Si rammaricava solo che i palestinesi avessero riconosciuto il movimento sionista per quello che realmente era e quindi vi si fossero opposti.

Non c’è quindi da stupirsi che il governo laburista del 1945 avesse, come parte del proprio programma elettorale, un punto che chiedeva esplicitamente la pulizia etnica dei palestinesi dalla Palestina per far posto a uno “Stato ebraico”. Il documento sosteneva che in Palestina “il trasferimento di popolazione è una necessità. Che gli arabi siano incoraggiati ad andarsene, e che vi entrino gli ebrei.”

Il documento andò persino oltre, invocando la futura espansione dei confini del previsto “Stato ebraico” con l’annessione di parti della Transgiordania, dell’Egitto o della Siria “attraverso un accordo”. In realtà, l’Egitto e il futuro Stato di Giordania all’epoca erano regimi fantoccio della Gran Bretagna.

Ben Pimlott, biografo dell’ex-ministro delle Finanze Hugh Dalton, descrisse questa posizione come “ultra sionismo” – moderato rispetto a un progetto ancora più estremista che lo stesso Dalton avrebbe preferito e che chiedeva di “aprire la Libia o l’Eritrea alla colonizzazione ebraica, come satelliti o colonie della Palestina.”

Non dovrebbe quindi sorprendere che Dalton fosse, come molti colonialisti, un razzista esplicito. Utilizzò un linguaggio apertamente segnato dall’odio nei confronti delle persone di colore e degli ebrei, deridendo un deputato del partito Laburista che era ebreo per la sua presunta “ideologia”.

Allora come adesso il sionismo spesso e volentieri è andato mano nella mano con l’antisemitismo. Molti razzisti bianchi che detestano gli ebrei spesso non hanno avuto nessun problema con il concetto di “Stato ebraico” in Palestina – dopotutto esso prospetta la cancellazione degli ebrei dall’Europa.

Come ha scritto, pur negando di essere un antisemita, il presunto autore dei massacri nella moschea di Christchurch nel suo “manifesto”: “Un ebreo che vive in Israele non è un mio nemico, finché non cerca di sovvertire o danneggiare il mio popolo (bianco).”

Per tutte queste ed altre ragioni, il sionismo è sempre stato un movimento razzista – e non lo è stato meno nella sua versione “sionista laburista”.

Oggi il sionismo laburista è morto come forza politica all’interno della Palestina occupata. Il partito Laburista – i cui predecessori politici fondarono lo Stato di Israele e nel 1948 perpetrarono la Nakba, in cui 750.000 palestinesi vennero espulsi con la forza – ora è relegato a una manciata di sei seggi nella Knesset [il parlamento israeliano, ndt.].

La principale utilità del laburismo sionista per il complessivo movimento sionista è in quanto arma ideologica contro la sinistra globale e il movimento di solidarietà con la Palestina in tutto il mondo, come si vede nel ruolo divisivo che gruppi come il “Jewish Labour Movement” [Movimento Ebraico Laburista] (JLM) e i “Labour Friends of Israel” [Amici Laburisti di Israele] hanno giocato nella lunga campagna contro Jeremy Corbyn.

Come ha spiegato un importante leader di JLM lo stesso mese in cui Corbyn è stato eletto per la prima volta segretario del partito Laburista britannico nel 2015: “Abbiamo costruito un forte discorso politico, radicato nella politica della sinistra e utilizzato nel suo stesso cortile di casa.” Questo progetto è stato messo in atto in modo che “la questione di Israele” non fosse “persa per definizione”. La crisi dell’“antisemitismo” nel partito Laburista è, in realtà, una campagna di razzisti per diffamare in quanto “razzisti” gli anti-razzisti.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Israele vieta a centinaia di cristiani palestinesi di viaggiare per Pasqua

Henriette Chacar

19 aprile 2019,  +972

Con una decisione senza precedenti le autorità israeliane hanno negate a centinaia di cristiani palestinesi il diritto di andare a Gerusalemme per le feste, bloccando nel contempo ogni movimento tra la Cisgiordania e Gaza.

Per le celebrazioni pasquali si attendono che vadano a Gerusalemme migliaia di pellegrini cristiani da tutto il mondo. Tuttavia per i cristiani palestinesi che vivono a non più di qualche ora dalla Città Santa i progetti per i giorni di festa sono condizionati dai capricci dell’esercito israeliano. Quest’anno, con una decisione senza precedenti, l’esercito sta negando a centinaia di palestinesi gli spostamenti e ha vietato ogni movimento tra la Cisgiordania e Gaza.

L’esercito israeliano ha limitato la quota di viaggi per le festività a 200 cristiani di Gaza che hanno più di 55 anni e solo per spostamenti fuori da Palestina/Israele. Solo 120 dei 1.100 cristiani di Gaza rispondono a questo requisito arbitrario. I palestinesi che stavano pianificando di visitare i luoghi santi o le proprie famiglie in Cisgiordania e in Israele, di per sé un’occasione rara, non potranno farlo.

Ho fatto richiesta per un permesso negli ultimi tre anni, ma senza alcun risultato,” dice Samir Abu Daoud, 65 anni, di Gaza, che ha un figlio e nipoti a Ramallah. Benché rispetti i criteri israeliani per viaggiare, sta ancora aspettando una risposta riguardo alla sua richiesta di un permesso.

Nonostante l’esercito abbia concesso una quota doppia per i palestinesi della Cisgiordania – a cui verrà permesso di recarsi in Israele e a Gerusalemme – ciò consente solo a circa l’1% della popolazione cristiana di viaggiare per la festività. Non possono visitare i parenti a Gaza.

L’imposizione di tali radicali restrizioni agli spostamenti non può essere giustificata da necessità legate alla sicurezza,” dice Miriam Marmur, una coordinatrice per i media di “Gisha”, un gruppo israeliano per i diritti umani che si concentra sulla libertà di movimento in entrata ed in uscita da Gaza. La decisione si basa su considerazioni politiche, aggiunge Marmur, e le restrizioni sono parte della politica israeliana di “separazione”, che intende accentuare la divisione tra comunità palestinesi geograficamente non collegate tra loro.

Israele sta sempre più restringendo gli spostamenti tra Gaza e la Cisgiordania in modo da approfondire la separazione tra palestinesi in parti del territorio palestinese occupato, e così facendo prosegue e legittima l’annessione della Cisgiordania,” ha scritto questa settimana Gisha in una comunicato.

Contattato per avere una spiegazione, il “Coordinator of Government Activities in the Territories” [il Coordinamento delle Attività Governative nei Territori] dell’esercito israeliano (COGAT) – l’ente militare israeliano responsabile di amministrare l’occupazione e l’assedio di Gaza – ha rinviato la rivista +976 all’ufficio del primo ministro, che ha citato indicazioni relative alla sicurezza come la ragione della decisione.

Ci sono circa 400.000 cristiani palestinesi [sparsi]nel mondo, molti dei quali sono rifugiati che sono scappati o sono stati espulsi dalle forze israeliane durante la Nakba [la pulizia etnica che ha consentito la nascita di Israele, ndt.] del 1948 e ora vivono fuori dalla Palestina e da Israele. Circa 123.000 sono cittadini israeliani e 50.000 o poco più vivono nei territori palestinesi occupati.

Mentre ufficialmente Israele si è ritirato da Gaza nel 2005, ha sottoposto la Striscia a un rigido assedio, controllando molti aspetti della vita, compreso lo spostamento delle persone e dei prodotti. I palestinesi possono entrare ed uscire in uno dei due modi seguenti: attraverso il valico di Rafah con l’Egitto o quello di Erez con Israele. Fino a poco tempo fa l’Egitto ha aperto Rafah solo in modo intermittente e in marzo, per la prima volta dal dicembre 2014, ha consentito ai musulmani di Gaza di recarsi alla Mecca per il pellegrinaggio della Umrah attraverso Rafah.

Secondo “Gisha”, già lo scorso mese il COGAT ha ricevuto una lista di persone che desideravano lasciare Gaza per Pasqua. Tuttavia solo pochi giorni fa l’esercito ha annunciato il numero di persone – anche se non chi – a cui avrebbe consentito di viaggiare durante le festività, negando la possibilità di opporsi a questa decisione ricorrendo ai tribunali.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Il ‘kahanismo’: la logica conclusione del sionismo

Asa Winstanley

2 aprile 2019, Middle East Monitor

Tutti sanno che Kahane aveva ragione’

Nelle elezioni israeliane che si terranno questo mese una coalizione di estrema destra, guidata dall’attuale primo ministro Benjamin Netanyahu, sarà probabilmente vincente.

L’attuale compagine di parlamentari probabilmente includerà i kahanisti del partito ‘Otzma Yehudit’ (Potere Ebraico).

Il rabbino Meir Kahane era un fanatico razzista antiarabo e antipalestinese. Chiedeva esplicitamente che i palestinesi fossero espulsi dalla Palestina storica – che definiva la “terra di Israele”, dal fiume (Giordano) al mare (Mediterraneo).

Il suo libro del 1981 era un sermone diretto e vero e proprio che sosteneva la pulizia etnica esplicitamente razzista della Palestina. Si intitolava “Devono andarsene”.

Kahane, come molti sionisti, era talmente razzista che si rifiutava di usare il termine “palestinesi”, sostenendo che essi non esistevano realmente ed erano semplicemente “arabi” che erano arrivati nella terra di Israele in periodi successivi – un comune mito sionista.

“Gli ebrei e gli arabi della terra di Israele sostanzialmente non possono coesistere”, ha scritto. “Per noi c’è solo una strada percorribile: il trasferimento immediato degli arabi da Eretz Yisrael, la Terra di Israele, verso le loro terre.”

A New York nel 1968 aveva fondato la cosiddetta “Jewish Defence League” [Lega di Difesa Ebraica] (JDL). Questo gruppo di estremisti sionisti era violentemente razzista nei confronti degli afro-americani, dei palestinesi e degli altri arabi.

Per anni ha condotto una campagna interna di terrore contro obbiettivi civili – soprattutto palestinesi, altri arabi e sovietici – ma a volte anche contro altri ebrei e addirittura sionisti, quando doveva risolvere conflitti intestini.

Furono presi di mira gli uffici del famoso intellettuale palestinese Edward Said. E’ stata messa una bomba nell’ufficio dell’attivista palestinese-americano per i diritti civili Alex Odeh, provocando l’uccisione di Odeh.

I principali sospettati dall’FBI fuggirono in Israele, dove alcuni di loro sono tuttora nascosti.

Nel 1971 Kahane si trasferì in Israele, dove fondò il partito Kach ed iniziò a partecipare alle elezioni. Kahane affermò che il Kach era la sezione israeliana della JDL. Questa venne infine giudicata un’organizzazione terroristica dall’FBI e il Kach venne messo fuorilegge persino da Israele.

Alla fine nel 1984 Kahane entrò alla Knesset, il parlamento israeliano. Probabilmente il suo partito avrebbe guadagnato più seggi nelle elezioni del 1988, ma gli fu proibito di presentarsi dopo essere stato messo fuorilegge.

Kahane fu assassinato a New York nel 1990, ma il suo pensiero politico sopravvive oggi in molti partiti politici israeliani. Non si tratta solo di ‘Potere ebraico’, benché sia già abbastanza cattivo.

I capi di ‘Potere ebraico’ sono Michael Ben-Ari e Baruch Marzel.

Marzel è uno dei coloni israeliani più violentemente radicali della Cisgiordania. Vive nella colonia di Tel Rumeida, nella città occupata di Hebron, ed ha partecipato alla creazione di molte colonie simili, espellendo con la violenza i palestinesi e colonizzando la loro terra.

I sostenitori di Marzel hanno scritto che lui è stato, per 25 anni, “la mano destra del rabbino Meir Kahane”, entrando nel Kach quando era giovane e fungendo da suo portavoce per un decennio.

Ha anche “guidato il fronte militare in Giudea e Samaria (la Cisgiordania), agendo con mano ferma e senza compromessi contro il nemico arabo”, come si è vantato un tempo in un “Curriculum Vitae ed esposizione delle attività pubbliche”, ora cancellato.

Marzel per decenni ha celebrato una commemorazione presso la tomba di Baruch Goldstein – un noto seguace americano di Kahane, che massacrò 29 civili palestinesi nel 1994 nella moschea di Ibrahim a Hebron.

Questi sono i sionisti estremisti che adesso pare che Netanyahu farà entrare nel governo. Netanyahu ha spinto perché ‘Potere ebraico’ venisse integrato in un’ampia coalizione di estrema destra, rendendone molto più probabile la partecipazione nel suo governo di coalizione.

Le lobby israeliane negli Stati Uniti hanno stranamente condannato ‘Potere ebraico’. Per esempio, l’“American Jewish Committee” [Commissione Ebraica Americana] ha affermato che “le opinioni di ‘Potere ebraico’ sono deplorevoli. Non rispecchiano i valori fondamentali che stanno alla base della creazione dello Stato di Israele.”

Quest’ultima affermazione è tuttavia palesemente falsa, considerando il fatto che lo Stato di Israele è stato fondato sulla pulizia etnica di oltre 750.000 palestinesi espulsi dalla Palestina.

A quanto pare, solo la “Zionist Organisation of America” [Organizzazione Sionista Americana] (ZOA) di Morton Klein, apertamente razzista nei confronti dei palestinesi, ha spalleggiato Netanyahu sulla questione di ‘Potere ebraico’.

Secondo il quotidiano liberale israeliano Haaretz, questo è dovuto al fatto che la ZOA ha rapporti finanziari più stretti e diretti con il donatore miliardario sionista americano di estrema destra antipalestinese Sheldon Adelson.

Benché la dichiarazione di ZOA – che di per sé è palesemente razzista– non vada presa del tutto sul serio, bisogna riconoscere che il presidente di ZOA Morton Klein ha ragione quando afferma che la condanna da parte di AIPAC, ADL, AJC e delle altre lobby filoisraeliane è “ipocrita”.

Assomiglia alla condanna fatta a marzo nei confronti di Netanyahu per aver detto che Israele non è uno Stato per tutti i suoi cittadini, ma solo per gli ebrei. In entrambi i casi, l’indignazione non si riferisce alla sostanza del razzismo israeliano, ma al fatto che i leader dell’estrema destra israeliana accampano la pretesa e la finzione che Israele non sia uno Stato razzista e che il sionismo non sia razzismo.

Sono menzogne difficili da sostenere quando i tuoi politici seguono come un guru l’uomo che ha asserito che gli arabi se ne debbano andare.

Uno degli slogan popolari tra i coloni israeliani è “Oggi tutti sanno che Kahane aveva ragione”. Non c’era bisogno che Netanyahu togliesse il bando sul partito Kach, perché la maggior parte di ciò che Kahane sosteneva è stata adottata in toto dai principali partiti politici israeliani.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Trump e annessione israeliana del Golan

Il via libera di Trump sul Golan prepara l’annessione della Cisgiordania da parte di Israele

Mondoweiss

Jonathan Cook – 26 marzo 2019

 

Quando lo scorso anno il presidente Donald Trump ha spostato l’ambasciata USA a Gerusalemme occupata, sabotando di fatto ogni speranza di costituzione di uno Stato palestinese sostenibile, ha stracciato le regole internazionali.

La scorsa settimana ne ha calpestato le pagine spiegazzate che rimanevano. Naturalmente lo ha fatto su Twitter.

In riferimento a una grande parte del territorio che Israele ha tolto alla Siria nel 1967, Trump ha scritto: “Dopo 52 anni è ora che gli Stati Uniti riconoscano in pieno la sovranità di Israele sulle Alture del Golan, che sono di fondamentale importanza strategica e riguardo alla sicurezza per lo Stato di Israele e per la stabilità regionale.”

Israele espulse 130.000 siriani dalla Alture del Golan nel 1967, con il pretesto della Guerra dei Sei Giorni, e poi 14 anni dopo annesse il territorio in violazione delle leggi internazionali. Una piccola popolazione di drusi siriani è l’unica sopravvissuta da quell’operazione di pulizia etnica.

Replicando le sue azioni illegali nei territori palestinesi occupati, subito Israele spostò coloni e attività economiche ebraici nel Golan.

Finora nessun Paese aveva riconosciuto l’appropriazione del bottino da parte di Israele. Nel 1981 gli Stati membri dell’ONU, compresi gli USA, dichiararono i tentativi di Israele di cambiare lo status del Golan “nulli e privi di valore”.

Ma negli ultimi mesi il presidente israeliano Benjamin Netanyahu ha iniziato a intensificare i tentativi di rompere questo consenso di lunga data ed è riuscito ad avere dalla sua parte l’unica superpotenza mondiale.

Si è dato da fare quando Bashar Al Assad – aiutato dalla Russia – ha iniziato a recuperare in modo decisivo le perdite territoriali che il governo siriano aveva patito durante gli otto anni di guerra del Paese.

La lotta ha coinvolto una serie di altri Paesi. Lo stesso Israele ha utilizzato il Golan come base da cui lanciare operazioni sotto copertura per aiutare gli oppositori di Assad, compresi i combattenti dello Stato Islamico, nella Siria meridionale. L’Iran e le milizie libanesi di Hezbollah, nel contempo, hanno cercato di limitare lo spazio di manovra di Israele a favore del leader siriano.

Netanyahu ha giustificato pubblicamente con la presenza dell’Iran nelle vicinanze la necessità per Israele di prendere possesso permanente del Golan, definendolo una zona cuscinetto vitale contro i tentativi iraniani di “utilizzare la Siria come base per distruggere Israele.”

Prima di questo, quando Assad stava perdendo terreno a favore dei suoi nemici, il leader israeliano ne aveva fatto una questione diversa. Allora aveva sostenuto che la Siria stava andando in pezzi e che il suo presidente non sarebbe mai stato in grado di reclamare il Golan.

L’attuale ragione [addotta da] Netanyahu non è più convincente della precedente. La Russia e le Nazioni Unite sono già molto avanti nel ridefinire una zona smilitarizzata sul lato siriano della linea di separazione dei contendenti. Ciò garantirebbe che l’Iran non possa schierarsi vicino alle Alture del Golan.

Lunedì notte, durante un incontro tra Netanyahu e Trump a Washington, il presidente ha convertito il suo tweet in un decreto esecutivo.

Il tempismo è significativo. È un altro goffo tentativo da parte di Trump di immischiarsi nelle elezioni israeliane, previste per il 9 aprile. Fornirà a Netanyahu una notevole spinta nel momento in cui lotta contro incriminazioni per corruzione e una effettiva minaccia da parte del partito rivale, “Blu e Bianco” [coalizione di centro, ndt.], guidata da ex-generali dell’esercito.

Netanyahu ha controllato a stento la sua esultanza dopo il tweet di Trump, e lo avrebbe chiamato per dirgli: “Tu hai fatto la storia!”

Ma, in verità, non si è trattato di un capriccio. Israele e Washington sono andati in questa direzione da parecchio.

In Israele, c’è un appoggio condiviso tra tutti i partiti al fatto che Israele si impossessi del Golan.

Michael Oren, ex ambasciatore israeliano negli USA e consigliere di Netanyahu, lo scorso anno ha formalmente lanciato un piano per quadruplicare in un decennio le dimensioni della popolazione di coloni nel Golan, portandola a 100.000 persone.

Lo scorso mese il Dipartimento di Stato USA ha offerto il proprio palese visto di approvazione quando ha incluso per la prima volta le Alture del Golan nella sezione “Israele” del suo rapporto annuale sui diritti umani.

Questo mese il senatore repubblicano Lindsey Graham ha fatto una vera e propria visita pubblica nel Golan su un elicottero militare israeliano, insieme a Netanyahu e a David Friedman, l’ambasciatore di Trump in Israele. Graham ha detto che lui e il suo amico senatore Ted Cruz avrebbero fatto pressione perché il presidente USA cambiasse lo status del territorio.

Nel contempo Trump non ha fatto segreto del suo disprezzo nei confronti delle leggi internazionali. Questo mese i suoi funzionari hanno vietato l’ingresso negli USA a personale della Corte Penale Internazionale, con sede all’Aia, che sta facendo un’inchiesta su crimini di guerra USA in Afghanistan.

La CPI si è inimicato sia Washington che Israele nei suoi iniziali, e scarsi, tentativi di obbligare entrambi a rispondere delle loro azioni.

Qualunque siano le piroette di Netanyahu riguardo alla necessità di scongiurare una minaccia iraniana, Israele ha altre, e più concrete, ragioni per tenersi stretto il Golan.

Il territorio è ricco di sorgenti d’acqua e fornisce ad Israele il controllo decisivo sul Mare di Galilea, un grande lago di acqua dolce che è di fondamentale importanza in una regione che deve affrontare una sempre maggiore carenza d’acqua.

I 1.200 km2 di terra rubata sono stati sfruttati in modo aggressivo, dai fiorenti vigneti e meleti all’industria turistica che, in inverno, include le pendici coperte di neve del monte Hermon.

Come ha notato “Who Profits”, un’organizzazione israeliana per i diritti umani, in un rapporto dello scorso mese, imprese israeliane e statunitensi stanno anche installando impianti di energia eolica per vendere elettricità.

E Israele ha collaborato in silenzio con il gigante USA dell’energia “Genie” per sfruttare le potenzialmente grandi riserve di petrolio sotto il Golan. Il consigliere e genero di Trump Jared Kushner ha investimenti di famiglia in “Genie”. Ma estrarre il petrolio sarà difficile finché Israele non potrà sostenere in modo plausibile di avere sovranità sul territorio.

Per decenni gli USA hanno regolarmente cercato di obbligare Israele a iniziare colloqui di pace pubblici e riservati con la Siria.   Solo tre anni fa Barack Obama ha appoggiato una condanna del Consiglio di Sicurezza dell’ONU a Netanyahu per aver affermato che Israele non avrebbe mai restituito il Golan.

Ora Trump ha dato il via libera a Israele perché se ne impossessi per sempre.

Ma, qualunque cosa egli dica, la decisione non porterà sicurezza ad Israele, o stabilità regionale. Di fatto rende insensato l’“accordo del secolo” di Trump, un piano di pace regionale a lungo rimandato per porre fine al conflitto israelo-palestinese che, secondo indiscrezioni, dovrebbe essere svelato poco dopo le elezioni israeliane.

Al contrario, il riconoscimento da parte degli USA si dimostrerà una manna per la destra israeliana, che chiede a gran voce l’annessione di vaste zone della Cisgiordania e piantare di conseguenza l’ultimo chiodo sulla bara della soluzione dei due Stati.

La destra israeliana può ora plausibilmente sostenere: “Se Trump ha accettato il fatto che ci siamo impossessati illegalmente del Golan, perché non [accetterebbe] anche il nostro furto della Cisgiordania?”

Una versione di questo articolo è comparsa per la prima volta su “The National”, Abu Dhabi.

 

Su Jonathan Cook

 

Jonathan Cook ha vinto il Premio Speciale Martha Gellhorn per il giornalismo. Tra i suoi libri: “Israel and the Clash of Civilisations: Iraq, Iran and the Plan to Remake the Middle East” [“Israele e il crollo della civiltà: Iraq, Iran ed il piano per rifare il Medio Oriente”] (Pluto Press), e “Disappearing Palestine: Israel’s Experiments in Human Despair” [“Palestina scomparsa: esperimenti israeliani in disperazione umana”] (Zed Books).

 

 

(traduzione di Amedeo Rossi)




Perché Benny Gantz è più pericoloso dei kahanisti

Tom Mehager

10 marzo 2019, + 972

Nonostante si mostri orgoglioso di aver bombardato Gaza fino a ridurla all’età della pietra, Benny Gantz è ancora dipinto dai media israeliani come una colomba che vuole porre fine al conflitto. Niente di più lontano dalla verità.

L’alleanza tra il partito Likud al potere e il partito kahanista “Otzma Yehudit” [“Potere ebraico”] è un esempio lampante di quanto negli ultimi anni il razzismo sia stato legittimato nel discorso pubblico israeliano. Se in passato il Likud ha apertamente condannato Meir Kahane [rabbino e politico americano-israeliano ultranazionalista e razzista, ndt.] e i suoi discepoli, oggi quella linea rossa non esiste più. Persino il leader del Shas [partito religioso ultraortodosso degli ebrei di origine araba, ndt.] Aryeh Deri ha mostrato disponibilità ad allearsi con Itamar Ben-Gvir di “Otzma”, una cosa che in passato sarebbe stata inaccettabile per il suo partito. Di punto in bianco l’ormai famoso avvertimento di Netanyahu nel giorno delle elezioni [del 2014, ndt.], “Gli arabi stanno andando a votare in massa”, è diventato una realtà terrificante. Il primo ministro ha effettivamente spianato la strada a sfrenate espressioni di razzismo ai più alti livelli della società israeliana.

Eppure il momento più orribile di questa tornata elettorale è stato indubbiamente il lancio della campagna elettorale dell’ex-capo di stato maggiore dell’IDF [l’esercito israeliano, ndt.] Benny Gantz, in cui si è vantato di aver “fatto regredire parti di Gaza all’età della pietra”. In questo senso Gantz e l’umore popolare che rappresenta sono molto più pericolosi del razzismo esplicito dei kahanisti.

Sono pericolosi proprio perché si possono trasformare molto più facilmente in politiche concrete che potrebbero danneggiare materialmente il diritto delle persone alla vita, ad avere un rifugio e all’accesso all’acqua, all’elettricità e alle infrastrutture. Se è in questo modo che misuriamo il pericolo, allora Benny Gantz è una delle persone più pericolose in Israele – molto più di kahanisti come Ben-Gvir.

È importante evidenziare le differenze tra la violenza di un leader politico come Gantz e quella dei partiti israeliani di estrema destra. Mentre c’è un’unanime condanna dell’estrema destra da ogni settore dello spettro politico, così come dalla comunità internazionale, Gantz rappresenta la tendenza israeliana prevalente – corretta, moderata, etica, ed ha conquistato l’appoggio dei principali media israeliani, con partiti di sinistra come il Meretz [partito della sinistra sionista, ndt.] che hanno manifestato il proprio sostegno alla sua candidatura.

Le affermazioni di Gantz riflettono una violenza che è legittimata ed accettata in Israele – il tipo di violenza delle cui vittime non parliamo né ci preoccupiamo. Se Gantz si inorgoglisce veramente di aver portato avanti una simile politica nel passato – ed è chiaro che non solo la società israeliana manca di ogni meccanismo o voce alternativa per evitarlo in futuro (dato che dà i suoi frutti per un’ampia schiera dell’elettorato) – allora una vittoria di Gantz pone un pericolo reale.

Nel discorso prevalente in Israele, il partito “Blue e Bianco” di Gantz è universalmente visto come di centro sinistra, che lavorerà in prospettiva di una soluzione del conflitto israelo-palestinese – in quanto opposto a quello della destra e dei coloni. Ma questo è esattamente il tipo di autonegazione collettiva che ci è già scoppiato in faccia in precedenza: Ehud Barak, un tempo leader della sinistra israeliana, tornò dai negoziati con i dirigenti palestinesi a Camp David dichiarando che “non c’erano partner” per la pace. Fino da quello stesso giorno le sue affermazioni sono state utilizzate dalla destra ogni volta che è sorta la possibilità di colloqui. Ed hanno ragione: “Se la sinistra ha guidato negoziati, fatto varie proposte di pace e tuttavia dice che non ci sono partner per la pace, allora ovviamente non ci sono alternative all’uso della forza,” si pensa.

Inoltre, se Benny Gantz, il politico moderato accolto dalla sinistra israeliana, si vanta della violenza che ha inflitto agli abitanti di Gaza, allora Netanyahu e la destra chiederanno semplicemente di usare ancora più violenza in ogni futuro scontro militare. Nel contempo i gazawi saranno costretti a pagare il pezzo dell’ingannevole dibattito pubblico israeliano.

Quindi, com’è possibile che Gantz sia visto come una valida alternativa al governo della destra? Perché la sua identità ashkenazita [ebreo di origine europea, ndt.] incanta ancora gran parte dell’opinione pubblica israeliana. Gantz porta con sé il capitale culturale del fatto di essere “il sale della terra” – un comandante in capo dell’esercito israeliano alto e con gli occhi azzurri. La versione di Yitzhak Rabin nel 2019. Ma, proprio come la violenza dei padri fondatori di Israele è ignorata da molti nella sinistra israeliana, che vedono le radici del conflitto nell’occupazione del 1967, nonostante innumerevoli ricerche e testimonianze sulla pulizia etnica commessa dal movimento sionista nel 1948, lo è anche la violenza commessa da Benny Gantz. Non c’è da stupirsi allora che sia così facile per la sinistra adirarsi per l’accordo di Netanyahu con i fascisti.

Tom Mehager è un attivista mizrahi [ebreo di origine araba, ndt.]. Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta su “Haokets” [sito di controinformazione israeliano, ndt.] in ebraico.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Luoghi comuni antipalestinesi

Donald Johnson

10 marzo 2019,MondoWeiss

Ho cercato con Google la frase “luoghi comuni anti-palestinesi”. Quasi tutti gli articoli riguardavano il presunto antisemitismo di Omar [deputata USA di origine somala accusata di antisemitismo per le sue affermazioni contro la lobby filoisraeliana, ndt.].

Allora ho utilizzato la funzione di ricerca avanzata ed ho trovato una conversazione di Yousef Munayyer [scrittore a analista politico palestinese con cittadinanza israeliana e statunitense, ndt.] su “luoghi comuni antipalestinesi”.

Si può affermare con certezza che la preoccupazione per il razzismo contro i palestinesi e per i luoghi comuni antipalestinesi è praticamente inesistente nel dibattito politico prevalente e nei media statunitensi. In quei contesti le persone sembrano inconsapevoli che tali concetti possano esistere, figuriamoci [se hanno] il dubbio che loro stessi possano esserne influenzati. La maggior parte delle persone che scrive o legge giornali come il NYT [New York Times] è probabilmente della classe medio-alta o anche più in alto e vede se stessa come progressista e raffinata. Giudica gli altri in base ai propri standard e non gli viene in mente di poter avere propri punti deboli etici o tabù, alcuni giustificabili e altri no.

Ilhan Omar non fa parte della loro cerchia. Ha detto cose che li hanno turbati, per cui per loro il problema è se lo ha fatto per deliberata cattiveria o si è sbagliata a questo proposito per ignoranza. Il fatto che li abbia turbati due volte in un mese ha provocato un certo scompiglio.

Si trovano progressisti che hanno difeso Omar trattandola come un’immigrata sempliciotta che non sa che questo argomento rappresenta un campo minato. Ciò da parte di persone che vedono se stesse come suoi difensori critici frustrati con molte sfumature, come Michelle Goldberg [editorialista del NYT critica nei confronti di Israele, ndt.].

Anche Nancy Pelosi [presidentessa democratica della Camera dei Rappresentanti USA, ndt.] ha adottato questo atteggiamento.

Potrebbe essere utile pensare a cosa dire agli opinionisti e ai progressisti americani in generale che vivono all’interno di questa campana di vetro, che in modo compiacente presumono di avere la comprensione e l’autorità morale di decidere come dovrebbe essere discussa la questione israelo-palestinese. Anch’io mi trovo in questa campana di vetro e potrei ancora essere sotto la sua influenza. Comunque ecco i miei suggerimenti agli americani riguardo ai luoghi comuni antipalestinesi da evitare quando si scrive dei luoghi comuni antisemiti da evitare. Se uno cade in questi luoghi comuni, corre il rischio di incoraggiare il razzismo antipalestinese. Un sincero progressista non dovrebbe volerlo fare. Potrebbe cadere nell’uso di luoghi comuni antipalestinesi quando pensa che la gente meno colta possa fare una gaffe dicendo qualcosa di antisemita, ma dovrebbe evitare di dirlo. Ovviamente qualcuno o molti dei critici di Omar sono fanatici antipalestinesi che non vogliono cambiare, ma questo articolo è scritto per progressisti che non seminerebbero razzismo se fossero consapevoli di quanto probabilmente lo stiano facendo.

Dovreste leggere la lista di argomenti di Munayyer citata sopra. Poi c’è la mia, senza un ordine particolare.

Luogo comune 1. “Israele ha il diritto di esistere”.

Boom. Siete appena saltati su una mina. È possibile dire ciò senza intendere niente di antipalestinese. Potreste sostenere, come ha fatto qualcuno, che Israele ha il diritto giuridico (come qualunque altra Nazione, indipendentemente dalle sue violazioni dei diritti umani) di esistere all’interno di confini ben definiti senza essere invaso, sebbene potremmo allora continuare su questo argomento delle violazioni dei diritti umani. Ci sarebbe da discutere su tutto questo. Sembra bizzarro, detto da un qualunque americano, parlare della natura inviolabile dei confini, considerando quanto spesso invadiamo o bombardiamo o appoggiamo attacchi terroristici contro altri, e considerando anche la vaga definizione dei confini israeliani. Ma non c’è bisogno di discuterne, perché poche persone la pensano in questo modo.

Quello che la frase effettivamente significa in molti casi è che i palestinesi non hanno il diritto di esistere nella propria patria, quindi non tirate fuori questo argomento o siete antisemiti. La frase intende bloccare qualunque giudizio etico riguardo alla Nakba, o, meglio ancora, non citarla affatto. Si può ricorrere al concetto senza utilizzare proprio questa frase. Si veda, per esempio, il recente attacco di Roger Cohen [opinionista del New York Times, ndt.] contro Jeremy Corbyn, in cui Cohen ha detto di essere orgogliosamente sionista e propone una storia unilaterale del 1948, con tanto di frase tra parentesi sull’invasione degli eserciti arabi (Gli eserciti arabi fecero la guerra contro il compromesso territoriale – dell’ONU – tra palestinesi ed ebrei e persero).

Si dovrebbe dire qualcosa su questa invasione, che avvenne settimane dopo il massacro del 9 aprile [1948] a Deir Yassin e la creazione di 300.000 rifugiati palestinesi, e che nel caso della Transgiordania fu un’invasione di terre che dovevano essere concesse allo Stato palestinese – ma lasciamo perdere.

Qui il vero problema è che Roger Cohen esclude la Nakba [la catastrofe, cioè l’espulsione di buona parte della popolazione palestinese da territorio che diventò lo Stato di Israele, ndt.]. Cohen vuole perorare la causa del sionismo sulla base della minaccia dell’antisemitismo. Se mi chiedesse cosa avrebbero dovuto fare gli ebrei negli anni ’30 di fronte alla minaccia nazista, non saprei cosa rispondergli. La minaccia era reale e divenne un genocidio. Persino i Paesi che si opponevano al nazismo erano permeati in vario grado di antisemitismo. In quel periodo c’era chiaramente una necessità estremamente urgente di un rifugio per gli ebrei.

Ma so che la Nakba è stato un crimine gravissimo, due cose sbagliate non fanno una cosa giusta, ed è impossibile avere una seria discussione sul sionismo senza nemmeno menzionare la Nakba. Qualcuno potrebbe cercare di giustificarla. Il signor Cohen, suppongo, capisce di non poter arrivare fino a questo punto, per cui risolve il problema non menzionandola.

A un certo livello gli argomenti sionisti sono convincenti per i cristiani occidentali a causa del senso di colpa dei cristiani. I cristiani sanno che gli ebrei furono perseguitati per secoli a causa dell’antisemitismo cristiano. Appoggiare il sionismo e ignorare i crimini commessi da Israele rappresenta un modo a buon mercato per fare ammenda. I palestinesi sono diventati i capri espiatori dei crimini altrui. Ovviamente, dato che non sono disposti ad essere capri espiatori, devono essere demonizzati per giustificare il modo in cui sono trattati.

Luogo comune 2. “Israele ha il diritto di difendersi”.

Ciò viene sempre affermato dopo che Israele ha commesso qualche crimine di guerra. I politici americani citano questo come una sorta di mantra. È immorale utilizzare questo luogo comune per giustificare crimini di guerra. Ma invariabilmente, ogniqualvolta Israele uccide civili, si troveranno politici americani dire che Israele ha il diritto di difendersi. Obama lo disse durante la guerra a Gaza nel 2014, in cui Israele si difese uccidendo circa 1.500 civili, compresi 500 minorenni. Morì qualche decina di israeliani, tra cui sei civili. I più importanti politici USA sembrano non avere problemi a chiamare tutto ciò “autodifesa”.

Israele continua a sparare contro manifestanti palestinesi disarmati. Lo scorso anno il New York Times ha pubblicato quattro articoli per difendere questo modo di agire ed ha dato tutta la colpa delle morti ad Hamas.

Due di questi opinionisti, Bret Stephens e Tom Friedman [entrambi noti giornalisti filoisraeliani, ndt.], ora condannano [Ilhan] Omar.

Ci si potrebbe mai immaginare il New York Times che pubblica un articolo che difenda come giustificabile un attacco terroristico palestinese contro civili perché i palestinesi hanno il diritto di difendersi, che dica che la colpa debba cadere interamente su Israele? Quale sarebbe la reazione se lo facesse?

Ci sarebbe una rivolta in tutto il Paese, perché la difesa dell’uccisione di civili israeliani ebrei sarebbe giustamente vista come una vergogna morale, ma l’uccisione di palestinesi è solo un problema di immagine per Israele e in nessun modo una vergogna morale. Se qualcuno lo difende, ha lo spazio sul New York Times per farlo e ciò non desta assolutamente alcun clamore.

Cohen e Goldberg lavorano lì. Ne deduco che a quanto pare è in atto una politica che proibisce agli editorialisti del New York Times di criticarsi a vicenda per nome, o di criticare i direttori.

Ma potrebbero scrivere articoli criticando il cinico disprezzo di alcuni dei sostenitori americani di Israele senza nominare i loro colleghi. Lo faranno? Non lo so.

Luogo comune 3. “Si può criticare Israele duramente quanto si vuole, ma nel farlo bisogna evitare luoghi comuni antisemiti.”

Sono d’accordo. Ma per la maggior parte di quelli che lo dicono, si tratta di vuota retorica. Quante delle persone che lo affermano riguardo ad Omar scrivono effettivamente articoli che condannano l’apartheid o i crimini di guerra di Israele e l’oscenità di quanti li difendono? E cos’ha esattamente detto Omar che sia scorretto riguardo alla lobby [Omar ha detto che la lobby israeliana paga deputati per avere l’appoggio USA, ndt.]? È praticamente certo che parte del delitto di Omar sia stato di criticare la lobby essendo lei musulmana. Ma persino Bret Stephens condanna l’islamofobia.

Bret Stephens, l’onesto critico di Israele e avversario dell’islamofobia, di fatto si spinge ad attaccare quella posizione sullo stesso giornale che pubblica la sua difesa dell’uccisione di manifestanti:

Kamala Harris, Bernie Sanders e Warren [tutti e tre candidati alle primarie democratiche per le elezioni del 2020, ndtr.] hanno espresso la loro posizione con dichiarazioni che hanno dipinto Omar come vittima di islamofobia – cosa che è vera – senza menzionare che anche lei è dispensatrice di fanatismo antisemita – che lei allo stesso modo sicuramente è.

E si noti che nel momento in cui viene fatta un’accusa di antisemitismo, questa prende immediatamente il centro della scena, mentre i diritti dei palestinesi, che già in partenza non sono mai molto importanti, scompaiono a livello di argomento secondario, sempre che vengano citati. Sì, ci viene detto in teoria, si può esprimere qualche critica sulle colonie e su Netanyahu. Non farebbe nessuna differenza per il nostro appoggio verso Israele se semplicemente Israele se ne liberasse, ovviamente. Non lo ha mai fatto. Le persone hanno criticato Israele per decenni e continuiamo ad appoggiarle. É teatro kabuki. Andiamo avanti. Goldberg è arrabbiata per il fatto che repubblicani, che sono molto più intolleranti di Omar (secondo lei Omar un po’ intollerante lo è), possano farla franca.

Questo è il modo sicuro per difendere Omar. Per Goldberg, gli altri democratici, che cercano di scoprire come punire Omar per il suo “antisemitismo morbido” (parole di Goldberg, non la mia opinione), non lasciando che i fanatici repubblicani la passino liscia, sono gli eroi della vicenda. Ci potrebbe essere fanatismo antipalestinese tra i parlamentari di entrambi i partiti che ogni anno elargiscono miliardi a Israele, a prescindere da quanto Israele tratti male i palestinesi? Queste persone dovrebbero essere criticate per la loro ignavia o apatia o fanatismo? Non sembra essere una domanda che qualcuno dei critici di Omar intenda porre. Omar non fa parte del ‘club’, quindi può essere definita fanatica.

A quanto pare, lei [Goldstein, ndt.] ha sostenitori nel Congresso, per cui il Congresso ha deciso di condannare ogni forma di intolleranza tranne quella che quasi tutti praticano, che è essere contro i palestinesi. Qui sembro sarcastico, eppure che lo crediate o no sto cercando di evitare ogni ironia a buon mercato. Molte delle nostre discussioni politiche in America hanno senso se le pensate come il comportamento di gruppi di liceali. Ciò va ben oltre questo argomento, ma sto divagando.

Luogo comune 4. “Cosa dite di X? Come potete essere spinti da altro che non sia l’intolleranza se vi concentrate solo su Israele e ignorate X?”

Non ho obiezioni riguardo al “benaltrismo” in generale. Lo uso anch’io. “Quando è onesto il “benaltrismo” mette in evidenza l’ipocrisia. Uno dei primi esempi noti viene dalla Bibbia quando il profeta Nathan affronta re David a causa del suo complotto per uccidere Uriah e coprire l’adulterio di David con Betsabea.

(É affascinante e toccante attraversare millenni e vedere che David sente una sincera vergogna in nome del povero il cui cucciolo è stato trucidato dal ricco. Il “benaltrismo” funziona meglio con le persone che hanno una coscienza).

Ma quando lo si usa, il “benaltrismo” deve essere appropriato.

Il “benaltrismo” è stato utilizzato parecchie volte contro Omar. In un tweet cancellato e per cui si è scusata, Julia Ioffe [nota giornalista ebrea statunitense di origine russa, ndt.] ha detto che Omar avrebbe dovuto criticare i sauditi. La gente che usa questo argomento sta facendo una supposizione inconsciamente intollerante secondo cui, poiché Omar è musulmana, deve essere un’ipocrita fanatica antisemita che non critica nessuno Stato musulmano.

Tom Friedman ha fatto ricorso a questo argomento, anche se ha utilizzato invece la Siria.

Quando vedo l’accusa di doppia lealtà che arriva da una deputata che sembra essere ossessionata dalle malefatte di Israele come il principale problema del Medio Oriente – non l’occupazione di fatto di quattro capitali arabe da parte dell’Iran, il suo appoggio alla pulizia etnica e il suo uso di gas velenosi in Siria e il fatto che stia distruggendo la democrazia libanese – mi fa sospettare delle sue motivazioni.”

Non poteva citare i sauditi, perché Friedman è stato uno dei maggiori sostenitori in circolazione di bin Salman [principe saudita che di fatto governa il Paese, ndt.] e dopo l’uccisione del suo amico Khashoggi ha detto che il suo assassinio, in linea di principio se non come numeri, è stato peggio della guerra in Yemen, una guerra che ha in grande misura ignorato. Il “benaltrismo” è anche utilizzato in modo singolare con i palestinesi. Non ci sono altri gruppi per i quali, se si sostengono i loro diritti, puoi star sicuro che qualche progressista dirà che dovresti guardare prima ad altri cinquanta gruppi. Il presupposto implicito, in molti casi probabilmente a livello inconscio, è che i palestinesi non contano niente e quindi l’unica ragione per cui a qualcuno possono importare debba essere l’antisemitismo.

Luogo comune 5. “Pioggia di razzi”

Nessuno con un minimo senso di correttezza potrebbe confrontare il lancio di razzi di Hamas con quello che Israele fa a Gaza. Ma non c’è nessun altro cliché più ampiamente utilizzato per descrivere le azioni molto più distruttive di Israele che “Israele ha il diritto di difendersi”.

Non importa neanche chi abbia sparato per primo o se il blocco di Gaza in sé sia una guerra contro la popolazione. Il lancio di razzi di Hamas è per definizione la giustificazione della brutalità di Israele, non importa quale sia stato l’ordine degli avvenimenti.

Luogo comune 6. Apologia di piccoli Hitler.

Ciò in realtà non riguarda la questione dei palestinesi, ma qualche settimana fa Ilhan Omar si è scontrata con Elliot Abrams [attuale consigliere di Trump per l’America latina, ndt.], un noto difensore di alleati centroamericani omicidi e persino genocidi negli anni ’80. Parecchi membri della “comunità” della politica estera sono corsi in difesa di Abrams, compresi alcuni progressisti. È interessante vedere lo scarso interesse che ciò ha creato tra la maggior parte di quanti ora criticano Omar. Se uno fa parte della banda, può in realtà avere una storia di apologia di piccoli Hitler, e ciò non importa.

Si può continuare. Il punto è che abbiamo disumanizzato i luoghi comuni antipalestinesi che sono utilizzati in continuazione e, per quanto ne so, a nessuno dei progressisti più in voga che criticano Omar non è mai avvenuto di scrivere di questi.

Devono uscire dalla loro campana di vetro, voltarsi e vedere come appare da fuori. Secondo me sembra un gruppo di liceali, ma con un potere enormemente amplificato di ostracizzare e intimorire e mettere all’indice, così come di bombardare, invadere, bloccare e occupare. Se fai parte dell’impero americano, forse puoi imparare qualcosa da Ilhan Omar, nata in Somalia, su come questo appare a qualcuno che è nato all’estero.

Intendo questo come una sorta di colpo basso melodrammatico? No. I membri dell’istruita classe di professionisti americani (di ogni religione o di nessuna) devono smettere di pensare a se stessi come gli arbitri morali finali di cosa è giusto o sbagliato.

Guardate cosa ha fatto l’America in Medio Oriente negli ultimi decenni sotto [i governi di] entrambi i partiti. Sembriamo persone che possano dare lezioni a qualcuno?

Donald Johnson è un commentatore fisso di questo sito come “Donald”.

(traduzione di Amedeo Rossi)