Benny Morris e Daniel Blatman riprendono la discussione sulla scia dell’uscita del libro di Adel Manna “Nakba e sopravvivenza”

NOTA REDAZIONALE: riteniamo interessante per il lettore seguire il dibattito storiografico sulla guerra del ’47-’48 da cui è nato lo Stato di Israele che viene proposto ai lettori israeliani dal quotidiano “Haaretz”.

Come in altri articoli[vedi http://zeitun.info/?s=pulizia+etnica ]che abbiamo già tradotto, il principale protagonista è lo storico ebreo- israeliano Benny Morris, autore negli anni ’90 di importanti studi che hanno messo in serio dubbio la narrazione israeliana sugli avvenimenti che portarono all’espulsione di centinaia di migliaia di palestinesi, e che in seguito è passato ad un attivo sostegno delle politiche dei governi israeliani, ed in particolare del Likud. In questo caso se la prende con un suo collega israeliano-palestinese che ha scritto un libro su quelle tragiche vicende. Come in precedenti circostanze, sullo stesso giornale gli risponde un altro storico ebreo- israeliano Daniel Blatman, che si è occupato di studiare l’Olocausto e i movimenti ebraici europei non sionisti, come il Bund, partito socialista ebraico .

Israele non ha messo in atto una “politica di espulsione” contro i palestinesi nel 1948

Il problema dei rifugiati palestinesi fu il risultato di un piano strategico sionista e della “pulizia etnica”, sostiene erroneamente lo storico Adel Manna nel suo libro “Nakba e sopravvivenza”, in cui “strage” ed “espulsione” compaiono in quasi tutte le pagine.

Haaretz

di Benny Morris – 29 luglio 2017

Ho affrontato la lettura del nuovo libro del prof. Adel Manna, “Nakba e sopravvivenza: lo storia dei palestinesi che sono rimasti con qualche speranza ad Haifa e in Galilea, 1948-1956”. Conosco bene la narrazione dei palestinesi – una narrazione di spossessamento e discriminazione, di sventura storica e di infinita ingiustizia senza averne alcuna colpa.

In questa narrazione c’è solo una parte che è nel giusto ed una quantità di cattivi, tra i quali i sionisti sono i più importanti. La narrazione è stata diffusa ormai da decenni dalla dirigenza palestinese e dagli opinionisti arabi, così come dagli storici e studiosi arabi e dai loro sostenitori, tra cui Walid Khalidi e Rashid Khalidi, Edward Said ed Ilan Pappe. I loro libri riempiono gli scaffali delle biblioteche e delle librerie dell’Occidente. In Israele, i loro scritti sono in buona parte introvabili in quanto la maggior parte di essi non è stata tradotta in ebraico.

Questo vuoto non sarà riempito dalla pubblicazione, in ebraico, da parte dell’istituto Van Leer e dalla casa editrice Hakibbutz Hameuchad, di “Nakba e sopravvivenza”, (Nakba significa “catastrofe”, come è nota ai palestinesi la guerra del 1948), ma questo non è il libro che speravo. Manna, un musulmano di Majdal Krum in Galilea, ha studiato all’Università Ebraica di Gerusalemme e per anni ha insegnato in varie università e college. Il suo campo di studi comprende la storia della Palestina, i palestinesi e Gerusalemme nel periodo ottomano e in quello contemporaneo e il conflitto arabo-israeliano.

Da una conoscenza superficiale di Manna, credevo che egli conoscesse la storia della Palestina e dello Stato di Israele. Ho sperato che sarebbe riuscito ad evitare la narrazione palestinese e a costruire una storia basata sulla documentazione e sui fatti, dimostrando un’apertura intellettuale e una visione dei due lati della medaglia. Sono rimasto deluso. A dire la verità, Manna non nasconde il suo punto di partenza. Nella sua introduzione c’è un impegno o una avvertenza che il libro è scritto “dalla prospettiva dei sopravvissuti…Nel mio libro ho scelto di non adottare la posizione dello storico imparziale che nei suoi scritti lascia da parte le proprie posizioni personali ed ideologiche”, (forse tutte o in gran parte già implicite nell’uso della parola “sopravvissuti”- come se gli arabi che rimasero in Israele dopo il 1948 cercassero di sopravvivere ad una continua politica e ad una campagna intese alla loro eliminazione).

Devo avvertire i lettori che le 377 pagine dense e fitte di “Nakba e sopravvivenza” sono affette da innumerevoli ripetizioni, sia di racconti (per esempio, quello dell’esecuzione di cinque giovani arabi a Majdal Krum il 5 novembre del 1948, che è raccontata almeno tre volte) e di varie recriminazioni. La descrizione complessiva di quello che è successo qui nel 1948 come “massacro ed espulsione” o “espulsione e massacro” compare in quasi tutte le pagine almeno una volta, se non varie. Quindi oserei dire che il numero di volte in cui nel libro compare questa frase è superiore al numero di arabi che sono stati uccisi in casi in cui hanno avuto luogo stragi.

Vale la pena notare, peraltro, che massacri di arabi contro ebrei, e ce ne sono stati, sono appena citati nel libro – e quando Manna fa riferimento al massacro nella raffineria di petrolio ad Haifa il 30 dicembre 1947 lo definisce come un “attacco” o un “grave attacco”, non come un massacro. Questo è il modo in cui le cose compaiono in una narrazione rispetto ad un vero saggio storiografico.

Il libro è diviso in due parti. Il primo affronta quello che successe nel 1948 e il secondo si concentra su quello che avvenne tra il 1949 e il 1957 agli arabi che rimasero in Israele, che si definiscono come “abitanti palestinesi dello Stato di Israele” o come “arabi del 1948”. In entrambe le parti l’enfasi è posta sul corso degli eventi nel nord – la Galilea ed Haifa – con pochissimo spazio dedicato a quello che successe nel centro e nel sud del Paese.

Nel suo lavoro Manna fa ampio uso della stampa araba (cosa che approvo), della stampa di sinistra ebraica e dei verbali di processi, soprattutto sentenze dell’Alta Corte di Giustizia, relative alla minoranza araba ed ai partiti politici arabi dal 1948 al 1957.

Buona parte del libro si basa su interviste che lui o altre persone hanno fatto ad arabi che hanno vissuto il 1948 e il primo decennio di vita dello Stato di Israele. Manna difende appassionatamente il valore della “storia orale” come una fonte attendibile per la ricostruzione degli avvenimenti e di sentimenti del passato. Attraverso “Nakba e sopravvivenza” egli “mostra” che quello che la gente ricorda 40 o 50 anni dopo i fatti è coerente con quello che viene raccontato nella documentazione che è arrivata fino a noi da quegli anni (ciò contrariamente alla mia non molto vasta esperienza, che ammetto, secondo cui non c’è una tale coerenza, oppure gli intervistati semplicemente non ricordano niente). Non fornisce dettagli su come le interviste sono state condotte. A volte non dice neppure quando si sono svolte o chi ha fatto l’intervista.

E’ ovvio che Manna ha fatto una ricerca di archivio molto povera (praticamente tutte le sue note sono annotazioni archivistiche approssimative e/o non corrette; per esempio la maggior parte dei riferimenti all’Archivio dell’esercito israeliano). Quasi tutte le citazioni da fonti primarie sono riferite di seconda mano da ricerche di altre persone, compresi libri che ho scritto io (a proposito dei quali Manna fa sia apprezzamenti positivi che riserve, alcune delle quali giustificate). Ha accuratamente scelto cosa inserire nel suo libro e cosa escludere.

Progetto strategico sionista

Per lo più gli storici distorcono la storia non attraverso grossolane falsificazioni ma piuttosto ignorando documenti e fatti importanti. Riguardo alla guerra del 1947-49, la storia di Manna è semplice: gli ebrei espulsero gli arabi dai luoghi in cui vivevano e lo fecero anche negli anni successivi alla guerra; non ci fu un conflitto tra due movimenti nazionali, ognuno dei quali con richieste legittime; di fatto non ci fu neppure una guerra: ci fu solo un’espulsione e nient’altro.

A merito di Manna, egli nota che i dirigenti degli arabi di Palestina e quelli arabi della regione rifiutarono effettivamente il piano di spartizione [della Palestina tra ebrei sionisti e palestinesi, ndt.] (adottato dall’assemblea generale delle Nazioni Unite il 29 novembre 1947, che secondo Manna era immorale), ma dimentica di citare che il giorno seguente alcuni palestinesi aprirono il fuoco e iniziarono attacchi che in alcune settimane si ingigantirono fino a diventare una guerra civile generalizzata – la prima fase della guerra che andò dal novembre 1947 al maggio 1948. Per come la vede Manna, la guerra semplicemente scoppiò; nessuno le diede inizio.

Il suo argomento centrale, di fatto il tema del libro, è che il problema dei rifugiati palestinesi sia nato come conseguenza di un progetto sionista che venne coscientemente adottato fin dall’inizio e in conseguenza di una messa in pratica sistematica di questo progetto: “Il trasferimento degli arabi dalle zone del Paese verso i vicini Stati arabi era diventato un obiettivo dichiarato fin dal rapporto della commissione Peel [commissione del potere mandatario inglese in seguito alla più importante rivolta palestinese contro inglesi e sionisti, ndt.] del 1937. Il piano dell’offensiva ebraica (Piano D), messo in atto nell’aprile 1948, era un importante anello nella pianificazione dell’espulsione dei palestinesi, (ma) la politica di pulizia etnica fu molto più estesa e complessa di qualunque piano scritto… In Galilea una politica di pulizia etnica venne messa in pratica nelle prime fasi della guerra, in zone che erano state destinate allo Stato ebraico in base al piano di spartizione [della Palestina deciso dall’ONU, ndt.].

Manna indica due azioni iniziali dell’Haganah [principale milizia armata sionista, da cui è nato l’esercito israeliano, ndt.] subito nel dicembre 1947 (le azioni a Khisas e a Balad al-Sheikh) come manifestazioni del “desiderio da parte dei dirigenti dell’Yishuv (la popolazione ebraica del Paese prima della fondazione dello Stato di Israele) che nessun palestinese rimanesse nella Galilea orientale e nella pianura costiera.” In seguito menziona come risultato di questa politica l’ “espulsione” degli abitanti di Tiberiade, Safed, Beit She’an, Giaffa, Haifa e Acri nell’aprile e maggio del 1948. Manna continua a dire che durante la seconda metà della guerra, dal maggio 1948 al gennaio 1949 – durante la guerra convenzionale che fece seguito all’invasione della Palestina da parte degli Stati arabi vicini – la politica di Israele fu e rimase l’espulsione della popolazione araba locale. Infine Manna sostiene che questa politica fu ancora perseguita dal 1949 al 1956. Secondo lui il divieto di ritorno dei rifugiati e le espulsioni di massa di “infiltrati” nei primi anni dopo il 1948 furono manifestazioni di questa politica, e nota che la sua stessa famiglia fu era tra le persone espulse da Majdal Krum in Libano nel 1949.

Manna afferma che Israele usò leggi contro l’infiltrazione per espellere quanti più arabi possibile dal nascente Paese, comprese persone che non erano infiltrate ma risultavano non possedere un certificato del registro dell’anagrafe o una carta d’identità israeliana. Indica persino il massacro di Kafr Qasem [in cui, in concomitanza con la guerra contro l’Egitto per il controllo del canale di Suez, 48 ignari contadini palestinesi con cittadinanza israeliana di ritorno dai campi vennero uccisi dall’esercito israeliano che, senza informarli, aveva anticipato il coprifuoco in vigore nelle zone arabe del Paese, ndt.] nella cosiddetta “Zona del Triangolo” del 29 ottobre 1956 come una manifestazione di questa politica.

Le argomentazioni di Manna non sono convincenti. Ha ragione quando dice che c’era una politica di espropriazione delle terre e di discriminazione contro gli arabi che rimasero in Israele (benché il governo militare e l’imposizione di restrizioni alla libertà di movimento fossero misure logiche alla luce dei tentativi di distruggere l’Yishuv e della continua ostilità, compresa la violenza da parte degli arabi nei Paesi limitrofi, tra cui rifugiati dalla Palestina, contro lo Stato di Israele ed i suoi abitanti ebrei). Ma, una politica di espulsione dal 1949 al 1956? Se ci fosse stata una simile politica, perché non venne messa in pratica? Perché il numero di arabi in Israele è aumentato costantemente, in parte per le infiltrazioni di rifugiati all’interno di Israele che, nel corso degli anni, ottenero la carta d’identità?

L’autore sostiene anche che l’intenzione di Israele era di approfittare della campagna del Sinai per espellere la minoranza araba dal Paese, ma il piano è fallito a causa della mancata partecipazione della Giordania alla guerra. Anche questo non ha fondamento. In Israele c’erano sicuramente figure di spicco, tra cui il capo di stato maggiore dell’esercito Moshe Dayan, che negli anni ’50 speravano che scoppiasse un’altra guerra e permettesse a Israele di occupare la Cisgiordania o forse persino di espellere in Giordania gli arabi israeliani. Tuttavia non si trattava di una “politica” statale.

Nessun ordine di espulsione

Torniamo al 1948. Se Manna avesse letto i documenti dell’archivio dell’Haganah, dell’archivio dell’IDF [l’esercito israeliano, ndt.] o degli archivi di Stato di Israele (o la versione aggiornata del 2003 del mio libro sul problema dei rifugiati “La nascita del problema dei rifugiati palestinesi rivisto”), avrebbe scoperto che non ci fu una politica di espulsione dei “palestinesi” e che l’Haganah non espulse arabi prima dell’aprile 1948 (con l’eccezione degli abitanti arabi di Cesarea, in cui le motivazioni non avevano niente a che fare con la lotta contro gli arabi). Avrebbe anche trovato che l’Haganah e i dirigenti dell’Agenzia Ebraica (il governo dell’Yishuv) si attennero alla politica di accettazione del piano di spartizione (benché certamente non ne fossero contenti), che includeva una numerosa minoranza araba nello Stato ebraico che si stava formando. Il 24 marzo 1948 Yisrael Galili, capo del comando nazionale dell’Haganah (e di fatto il vice del ministro della Difesa David Ben-Gurion) emise un ordine generale alle brigate e ai settori dell’Haganah perché si attenessero alla politica del momento di lasciare al loro posto e di garantire la pace e la sicurezza delle comunità arabe nella zona destinata al nascente Stato (salvo che in casi eccezionali per ragioni militari).

Persino nel passaggio dell’Yishuv a una strategia di attacco nell’aprile e maggio 1948 dopo quattro mesi di strategia difensiva, i suoi dirigenti e membri dello Stato Maggiore dell’Haganah non adottarono una politica di “espulsione degli arabi” e le varie unità operarono in modo diverso a seconda della zona. Il “piano D”, dal 10 marzo 1948, non obbligava ad “espellere gli arabi” – anche se ai comandanti di brigata era stato dato il permesso di espellere le popolazioni arabe o di consentire loro di restare. Molto dipendeva dalle caratteristiche degli arabi del posto, dal comportamento degli abitanti e dalla personalità dei comandanti ebrei, oltre che dalle circostanze in ogni singola zona.

Ad Haifa fu la dirigenza araba che chiese ai suoi abitanti di andarsene (il sindaco ebreo, Shabtai Levy, e gli attivisti del sindacato dei lavoratori Histadrut [sindacato sionista, ndt.] chiesero loro di rimanere); a Tiberiade non ci furono espulsioni (benché forse le autorità del mandato britannico incoraggiarono l’esodo degli arabi); a Giaffa la popolazione se ne andò a causa della pressione militare ebraica e della previsione di un’occupazione ebraica dopo il ritiro delle truppe britanniche; a Safed scapparono a causa della conquista della città da parte del Palmach [milizia armata sionista inserita nell’Haganah, ndt.], non in conseguenza di ordini per espellerli; ad Acri non ci fu un ordine di espulsione e la maggioranza degli abitanti rimase in città dopo che venne occupata il 18 maggio.

Manna ha ragione quando dice che durante l’operazione “Hiram” alla fine dell’ ottobre 1948 e nelle settimane successive i soldati dell’IDF misero in atto una serie di massacri (a Saliha, Hula, Jish, Safsaf, Eilabun, Majdal Krum, Arab al-Mawasi e altrove) e qui e là espulsero villaggi (Jish, Eilabun, Birim e altri). Ed è anche vero che il trattamento dei drusi [minoranza religiosa considerata eretica dai musulmani, ndt.](che avevano in effetti stretto un’alleanza con l’Yishuv) e dei cristiani fu diversa da quello dei musulmani, che nei mesi precedenti avevano attaccato l’Yishuv. Tuttavia non ci fu una politica e non ci fu uniformità di comportamento tra le unità e gli ufficiali.

Il 12 novembre Ya’akov Shimoni, un funzionario del ministero degli Esteri (che in precedenza era stato un importante membro del servizio di intelligence dell’Haganàh (lo Sha’i)), visitò la Galilea con altri funzionari del ministero e parlò con i soldati e con altri ufficiali e funzionari sul campo. Scrisse: “Il trattamento (a Hiram) degli abitanti arabi della Galilea come nei confronti dei rifugiati arabi che stavano vivendo nei villaggi della Galilea o nelle loro vicinanze ha riflettuto un comportamento casuale ed è stato diverso da luogo a luogo in base alle iniziative di un comandante o dell’altro o di un ufficiale e dell’altro dei vari dipartimenti del governo: in un luogo hanno espulso e in un altro hanno lasciato la popolazione sul posto; in un posto hanno accettato la resa di un villaggio e in un altro invece no; in un posto hanno favorito i cristiani e in un altro hanno trattato cristiani e musulmani allo stesso modo senza distinzione; in un posto hanno persino consentito ai rifugiati che erano scappati in un primo momento dopo la conquista di tornare alle proprie case, e in un altro non l’hanno permesso.”

E il 18 novembre Shimoni aggiunse: “Troppe mani stanno mescolando la polenta…Loro (i comandanti dell’IDF) non hanno nessun ordine chiaro in mano o una prassi chiara riguardo al modo di comportarsi con gli arabi.”

E’ vero che dopo la visita di Ben-Gurion ai comandi del fronte settentrionale alla fine dell’operazione “Hiram” venne emanato alle brigate dell’esercito un ordine (generico) a nome di Moshe Carmel, comandante del fronte, per “aiutare” gli abitanti ad andarsene, ma la direttiva arrivò troppo tardi e non venne messa in pratica alla lettera. In un posto espulsero [la popolazione araba], in un altro non lo fecero.

L’argomentazione di Manna è che i massacri dell’operazione “Hiram” vennero organizzati “dall’alto” e intendevano far scappare gli arabi. Tuttavia: 1) Manna non ha nessuna documentazione che dimostri un simile rapporto e 2) in molti dei villaggi in questione fughe o espulsioni di massa non avvennero in seguito a massacri, né a Dir al-Assad né a Majdal Krum (qui Manna si sbaglia riguardo al suo villaggio: non ci fu un’espulsione da Majdal Krum), né a Arab al-Mawasi, né a Jish né a Hule. E’ possibile che comandanti sul campo abbiano pensato che un massacro avrebbe portato a una fuga di massa; forse un’ansia di vendetta, o solo semplice crudeltà erano la causa di queste uccisioni. Non ci sono prove in un senso o nell’altro, salvo sul fatto che unità di tre diverse brigare (la Golani, la Settima e la Carmeli) misero in atto una serie di massacri durante quelle settimane.

C’è in effetti il sospetto – ma sulla base del materiale che è a disposizione dell’analisi pubblica è impossibile arrivare alle conclusioni certe nel modo in cui lo fa Manna. Ma è vero che gli esecutori di questi crimini non furono puniti (in apparenza grazie all’intervento del ministro della Difesa).

In più bisogna notare che dal giugno 1948 la politica del governo di Israele fu di proibire ai rifugiati di tornare nel Paese, e che questa politica venne messa in pratica durante tutta la guerra e nel dopoguerra in modo sistematico (benché decine di migliaia di rifugiati riuscirono ad infiltrarsi nel Paese o venne loro consentito di tornare nel quadro di un “ricongiungimento familiare” o con accordi speciali. Per esempio, il vescovo George Hakim e centinaia di altri cristiani, come gli abitanti di Eilabun, tornarono grazie a detti accordi e alla fine ottennero la cittadinanza israeliana, come gli stessi genitori di Manna, che si infiltrarono nel Paese dopo un lungo periodo nel campo di rifugiati di Ain al-Hilweh in Libano).

“Successo parziale”

Per cui è stato così che alla fine della guerra 125.000 arabi rimasero nello Stato di Israele e 160.000 alla fine del 1949, la maggioranza dei quali nel nord. Manna non spiega per niente come ciò accadde, citando solo quelli, tra i 20.000 e i 30.000, che vennero cooptati all’interno della popolazione del Paese nel maggio 1949 con l’annessione allo Stato del “Triangolo”, che va da Umm al-Fahm fino a Kafr Qasem. Egli sostiene che questi individui utilizzarono vari metodi per “sopravvivere” (collaborando con le autorità, nascondendosi in grotte nei pressi dei loro villaggi, e così di seguito). Non spiega perché, se c’era davvero una politica complessiva di espulsione, non sia stata messa in pratica, perché l’esercito e la polizia non espulsero semplicemente gli arabi rimasti, villaggio dopo villaggio, e lasciarono anche un gran numero di arabi ad Haifa, Acri e Giaffa, molti dei quali musulmani.

Riguardo a Nazareth, in cui la maggior parte della popolazione araba rimase, Manna giustamente nota la sensibilità israeliana verso l’opinione pubblica del mondo cristiano. Ma riguardo a Majdal Krum? A chi all’estero sarebbe importato che gli abitanti del villaggio di Manna o di quelli vicini – Sakhnin, Dir Hana, Arrabeh, oggi tutti grandi villaggi o cittadine – venissero espulsi alla fine dell’ottobre 1948? Nell’estate del 1948 l’IDF consigliò al governo che Acri venisse svuotata dei suoi abitanti. Perché, se l’espulsione era la prassi, non vennero espulsi fuori dal Paese, a Giaffa o altrove? Ben-Gurion temeva il suo ministro per le Minoranze, Bechor Sheetrit (che si oppose all’espulsione degli abitanti di Acri)?

Non ci sono spiegazioni per tutto ciò, tranne l’assenza di una qualunque politica di espulsione, anche se Ben-Gurion e molti altri volevano che nello Stato ebraico rimanessero quanti meno arabi possibile, e certamente non ci fu un’ espulsione sistematica come sostiene Manna. Non fu la “tenacia” degli abitanti dei villaggi che impedì la loro espulsione – se ci fosse stato un ordine di espulsione, se ne sarebbero andati (come successe a Caesarea, Eilabun, Lod, Ramle e in altri luoghi in cui agli abitanti venne ordinato di andarsene).

“Nonostante i molti tentativi da parte dell’esercito e di altri elementi di espellere gli arabi dalla zona, il successo fu solo parziale,” scrive Manna. Un’assurdità. Quando qualcuno punta contro di te e contro la tua famiglia un fucile e ti dice di andartene, soprattutto dopo che ha già ucciso alcuni dei tuoi vicini, tu te ne vai. Le spiegazioni di Manna sono semplicemente poco serie.

L’autore ha apportato un significativo contributo al discorso sugli arabi in Israele, sottolineando l’influenza della Nakba sulle loro vite e mentalità negli anni successivi al 1948. Queste cose non sono state interiorizzate da molti ebrei israeliani. Ci sono molti passi del libro in cui Manna critica il suo stesso popolo. Descrivendo le azioni degli arabi nella rivolta del 1936-1939, ad esempio, li accusa di aver commesso “gravi atti di terrorismo contro soldati e civili, incendiando campi e distruggendo proprietà…Il terrorismo venne impiegato anche all’interno della stessa comunità araba, soprattutto contro gli oppositori della rivolta.”

Scrive anche che i dirigenti della rivolta, compreso Haj Amin al-Husseini [Gran Muftì di Gerusalemme e leader politico palestinese, ndt.] assunsero “posizioni estremiste e intransigenti, che causarono gravi danni” ai palestinesi. Tuttavia questi lampi di lucidità critica sono davvero rari. A un certo punto Manna critica i palestinesi (ed i loro storici?) e afferma che non hanno ancora condotto “un dibattito critico e serio sulla storia della Nakba e sulle sue implicazioni.” Si direbbe che ha ragione.

Per la Nakba non c’era bisogno di una “politica di espulsione”

A differenza di quanto sostiene Benny Morris, il saggio di Adel Manna “Nakba e sopravvivenza” è un libro stimolante, degno di nota per il suo approccio metodologico nel presentare una storia credibile e sfaccettata della tragedia palestinese del 1948

Haaretz

Di Daniel Blatman – 4 agosto 2017

Le critiche di Benny Morris all’importante libro “Nakba e sopravvivenza: la storia dei palestinesi che sono rimasti ad Haifa e in Galilea, 1948-1956” di Adel Manna (vedi articolo “Israele non aveva una “politica di espulsione” contro i palestinesi nel 1948,” 29 luglio) sono parte dei tentativi dello storico – durati in modo continuativo per 15 anni – di negare quello che egli sosteneva in passato: che Israele mise in atto una pulizia etnica a tutti gli effetti durante la guerra di indipendenza di Israele del 1948. (“Nakba”, che significa catastrofe, è il termine utilizzato dagli arabi per descrivere la guerra, quando più di 700.000 arabi fuggirono o furono espulsi dalle loro case durante un periodo di circa due anni).

In passato Morris lo ha affermato con encomiabile coraggio. In un dibattito con lo scrittore israeliano Aharon Megged sulle pagine di Haaretz nel 1994 dichiarò: “Il nuovo materiale fattuale che è stato reso pubblico nei documenti (per esempio: dettagli che sono stati celati riguardo a massacri, espulsioni ed espropri condotti dalle forze di difesa ebraiche nel 1948 e negli anni seguenti) hanno dato luogo a una diversa interpretazione dell’impresa sionista. La principale aspirazione del sionismo era di risolvere i problemi del popolo ebraico nella Diaspora con la costruzione di un’entità statale che sarebbe stata un rifugio per gli ebrei e un Paese modello.”

“Ma,” continuava Morris, “i sionisti avevano anche altri obiettivi: prendere il controllo della Terra di Israele dal mare al fiume [Giordano] per sostituire i palestinesi che vi vivevano: per cacciarli fuori dal Paese nel momento decisivo le forze di difesa del movimento sionista diedero espressione al bisogno bellicoso ed espansionista che è sempre stato alla base dell’ideologia sionista, e fecero in modo – sia con mezzi per farli fuggire e espellerli, o impedendo il ritorno dei rifugiati – di spingere fuori dai confini dello Stato in formazione la grande maggioranza degli arabi che vivevano nelle zone che divennero lo Stato di Israele, ed anche di allargare lo Stato oltre le linee disegnate dalla risoluzione dell’Assemblea Generale dell’ONU nel 1947 [che diede il beneplacito alla partizione della Palestina, ndt.].”

Il Benny Morris del 1994 ha fatto un lavoro migliore per spiegare quello che il dott. Manna afferma nel suo libro. Ma negli ultimi anni Morris ha cercato di “correggere un errore” e di dimostrare che le conclusioni a cui è arrivato con le sue ricerche sull’espulsione dei palestinesi erano in realtà sbagliate. Non so cosa gli abbia fatto cambiare le conclusioni riguardo alla catastrofe che Israele inflisse al popolo palestinese nel 1948. Quello che è peggio è il fatto che Morris critichi maliziosamente una ricerca che sta cercando, in modo equilibrato e critico, di affrontare la Nakba e le sue conseguenze da un punto di vista che non corrisponde alla narrazione sionista – una narrazione che anche Morris aveva duramente contestato in passato per i suoi preconcetti ideologici.

Morris nella sua recensione afferma: “Riguardo alla guerra del 1947-49, la storia di Manna è semplice: gli ebrei espulsero gli arabi dai luoghi in cui vivevano e lo hanno fatto anche negli anni successivi alla guerra; non è avvenuto un conflitto tra due movimenti nazionali, ognuno dei quali con richieste legittime; di fatto non c’è neppure stata una guerra: c’è stato solo un’espulsione e nient’altro.” Ma questa non è un’affermazione simile a quelle che egli stesso aveva fatto 23 anni fa?

Nel suo libro Manna fa uno stimolante tentativo di scrivere una storia sfaccettata della tragedia palestinese, e il suo approccio metodologico è degno di nota. Ha ragione quando sostiene che la ricerca israeliana riguardante gli avvenimenti che hanno riguardato il 1948 soffre del problema di una separazione innaturale tra la “ricerca ebraica” e la “ricerca araba”. In altre parole, tra la storia scritta dagli storici ebrei e quella scritta dagli storici arabi. Ci sono molte ragioni di questa divisione, dal fatto di comprendere le lingue pertinenti all’influenza delle narrazioni nazionali sullo storico.

A differenza di molti dei suoi critici, Manna parla correntemente l’arabo, l’ebraico e l’inglese, ed è questa la ragione per cui, per esempio, può leggere ed esaminare non solo documenti ufficiali dell’Haganah (la milizia armata ebraica pre-statale), ma può anche analizzare la stampa araba e altre fonti arabe. In altre parole, a differenza di Morris, le cui ricerche si basano principalmente sui documenti ufficiali degli archivi israeliani ed inglesi, Manna presenta un quadro complesso e più credibile della tragedia palestinese.

La tendenziosità di Morris è chiara, per esempio, anche nelle sue critiche a Banna riguardo alle interviste che ha raccolto dai sopravvissuti della Nakba, che sono ora uomini e donne anziani. Com’è possibile, contesta Morris, che dopo così tanti anni la gente ricordi quello che accadde realmente? Secondo Morris ” Attraverso ‘Nakba e sopravvivenza’ egli «mostra» che quello che la gente ricorda 40 o 50 anni dopo i fatti è coerente con quello che viene raccontato nella documentazione che è arrivata fino a noi da quegli anni (ciò contrariamente alla mia non molto vasta esperienza, che ammetto, secondo cui non c’è una tale coerenza, oppure gli intervistati semplicemente non ricordano niente).”

In altre parole secondo Morris quello che importa realmente per comprendere “quello che accadde realmente” è quello che ha trovato lui negli archivi israeliani o britannici. Strano, dato che in una recensione che scrisse nell’edizione ebraica di Haaretz (“Quei rifugiati non hanno nessun posto in cui tornare, 24 novembre 1992) in una raccolta enciclopedica pubblicata dall’Instituto per gli Studi Palestinesi sui villaggi palestinesi che furono cancellati dalle mappe nel 1948, pensava in modo diverso: “Gli autori non hanno intervistato rifugiati (e tra pochi anni non ne rimarrà nessuno”), affermò.

Benny Morris crede ancora che il ruolo dello storico non sia altro che quello di raccontare ai suoi lettori quello che ha trovato in un archivio e in documenti resi pubblici da qualche organizzazione governativa o meno. Se gli studi sull’Olocausto, per esempio, avessero continuato ad essere basati su un approccio simile – come è stato in realtà il caso della storiografia tedesca negli anni ’70 – non avremmo saputo praticamente niente sulle vite degli ebrei e sui loro tentativi di sopravvivere durante gli anni della loro grande tragedia, come oggi sappiamo grazie alle molte testimonianze degli stessi sopravvissuti.

Ed è proprio quello che fa Manna: propone la storia della tragedia nazionale del suo popolo dal punto di vista della vittima, del sopravvissuto. La politica di Israele sul problema palestinese e la politica di espulsione non sono il cuore del libro: quello che vi si trova è la storia dell’espulsione e della sopravvivenza.

Anche sulla questione dell’espulsione Morris si agita nel tentativo di allontanare se stesso da quello che era una volta. Ma qui cammina su un terreno minato: ricercatori seri del fenomeno della violenza di massa non devono trovare una prova inequivocabile dell’esistenza di una “politica di espulsione” per arrivare alla conclusione che sono stati commessi crimini contro l’umanità. Egli asserisce che non ci fu una politica di questo tipo, e se ci furono direttive emesse per perpetrare massacri nei villaggi palestinesi esse furono comunicate, egli afferma, “attraverso un ordine (generico).”

Si potrebbe pensare che quando gli Ottomani decisero di espellere gli armeni nel 1915 lo abbiano pubblicato sulla stampa ufficiale, o quando Ratko Mladic decise di massacrare oltre 7.000 musulmani bosniaci, uomini e ragazzi, a Srebrenica nel 1995 abbia reso pubblico il suo ordine. Ordini e istruzioni di attuare tali crimini sono dati oralmente, in discussioni riservate e in modo implicito, in un linguaggio ambiguo. Ciò non significa che quelli che li mettono in atto non sappiano esattamente quello che intende la persona che dà questi ordini ambigui.

Morris scopre la prova definitiva della debolezza delle affermazioni di Manna riguardo alle espulsioni nel fatto che alla fine della guerra 160.000 arabi rimasero all’interno di Israele. Questa è un’espulsione? Se ci fosse stata una politica di espulsione, chiede, come è possibile che siano rimasti così tanti palestinesi? Ciò mi ricorda quello che hanno scritto i negazionisti dell’Olocausto nei primi anni dopo la II guerra mondiale. Una soluzione finale? Di cosa state parlando? Com’è possibile che centinaia di migliaia di ebrei siano rimasti in ogni Paese europeo, e milioni in Unione Sovietica? Forse, sostengono questi antisemiti, molte centinaia di migliaia morirono per le dure condizioni in vari posti – ma…camere a gas e uccisioni di massa?

Ovviamente nessuna ricerca è priva di errori e di affermazioni imprecise. Questo è vero anche per la ricerca di Manna, e Morris cita alcune di queste. Ma il libro di Manna è un importante contributo allo studio della tragedia palestinese e soprattutto una rara opportunità per il lettore ebreo di comprendere gli aspetti umani della grande catastrofe che l’indipendenza nazionale del suo popolo ha inflitto a membri di una nazione che ha vissuto in questo Paese per molti anni prima di essa.

(traduzione di Amedeo Rossi)




“Fanculo, spazzate via Gaza”, dice un portavoce della nuova campagna UE

Ali Abunimah e Dena Shunra – 3 agosto 2017, Electronic Intifada

L’Unione Europea ha ingaggiato come volto di una nuova campagna promozionale un israeliano che invoca una violenza genocida contro i palestinesi.

Avishai Ivri compare in un video postato lo scorso mese dall’ambasciata dell’UE a Tel Aviv sulla sua pagina Facebook.

“L’Unione Europea. Pensate che sia contro Israele, vero?” Inizia a dire Ivri. “Lasciate che vi sorprenda.”

Ivri allora elenca statistiche sui rapporti commerciali e turistici, intese a convincere gli spettatori israeliani di quanto l’Unione Europea favorisca Israele. Ha anche vantato che l’UE è un acquirente dell’industria bellica di Israele, sopratutto droni.

L’UE “è il miglior vicino che abbiamo,” ha concluso Ivri.

Appoggio il genocidio

Ivri era un autore di “Latma”, un spettacolo di sketch ormai terminato che rifletteva punti di vista di estrema destra e razzisti, come raffigurare migranti e rifugiati dai Paesi africani come scimmie.

Ma questa è solo la punta dell’iceberg.

Durante l’attacco israeliano del novembre 2012 che uccise 174 palestinesi [si riferisce all’operazione “Pilastro di difesa”, ndt.], Ivri auspicò che fosse ancora più violento.

“C’è una strategia che non è ancora stata sperimentata; 1.000 arabi uccisi per ognuno dei nostri morti,” twittò. “Penso che dalla scorsa settimana siano in debito con noi di 5.000 [morti].”

Durante lo stesso attacco Ivri raccomandò: “Fanculo, spazzate via Gaza.”

Ivri è un convinto sostenitore della soluzione dello Stato unico, ma in cui palestinesi e israeliani non avrebbero gli stessi diritti. Al contrario, appoggia l’eliminazione dei palestinesi come intero popolo – un obiettivo che corrisponde alla definizione del diritto internazionale di pulizia etnica e probabilmente di vero e proprio genocidio.

Nel gennaio 2013 Ivri ha twittato che “Giudea e Samaria” – il nome che Israele utilizza per la Cisgiordania occupata – “possono sempre essere annesse, punto e basta.” Se i palestinesi oppongono resistenza, avverte, “saranno portati via, su camion. La forza è sempre un’opzione, ma preferiamo una soluzione concordata (ma sennò, la forza).”

“Non esiste una cosa come una nazione palestinese e sicuramente non ha interesse in uno Stato,” a twittato in febbraio.

“Nello Stato di Israele a 500 anni da oggi nessuno ricorderà che ci fosse una cosa chiamata palestinesi, ” ha twittato in maggio.

“I palestinesi sono una Nazione?” chiese nel 2012, prima di rispondersi: “Sono merda.”

Ivri vede i continui attacchi israeliani contro i palestinesi come la possibilità per Israele di mettere in atto il suo progetto violento teso ad eliminare la Palestina.

Durante l’attacco israeliano dell’estato 2014 contro Gaza che ha ucciso più di 2.200 palestinesi [si riferisce all’operazione “Margine protettivo”, ndt.], compresi 550 bambini, Ivri ha invocato la conquista totale del territorio costiero – così come della Cisgiordania.

Ivri ha twittato: “In 10 anni, quando Israele sarà il potere sovrano sia a Gaza che in Giudea e Samaria, ci domanderemo a cosa abbiamo pensato per 30 (o 60) anni e perché non lo abbiamo fatto parecchi anni fa.”

“Nessuno governerà Gaza per Israele. Solo Israele lo può fare,” ha twittato durante lo stesso attacco israeliano, aggiungendo che “i giorni al potere” del capo dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas “sono contati, e dopo che se ne sarà andato Israele governerà anche sulla Giudea e Samaria.”

Durante l’attacco Ivri ha anche diffuso un articolo in cui sosteneva che Israele sarebbe stato giustificato se avesse tagliato le forniture idriche ed elettriche a Gaza – cosa che è stata fatta, violando le leggi internazionali.

Disumanizzare i palestinesi

Ivri giustifica questo tipo di violenza che sostiene lo sterminio con la demonizzazione e disumanizzazione totale delle vittime del regime di occupazione e di apartheid israeliano. Ironicamente, a volte riconosce l’esistenza dei palestinesi unicamente per individuarli come demoni.

“I palestinesi sono gli eredi dei nazisti,” ha twittato nel maggio 2016, aggiungendo che la bamdiera palestinese “significa una sola cosa = un appello per uccidere ebrei, ovunque siano.”

Questo è stato un argomento costante. Nell’ottobre 2014 ha offerto una “sintesi: i palestinesi sono nazisti.”

Non hanno ancora costruito camere a gas,” ha affermato, perché “la cosa più moderna che hanno avuto a disposizione sono ordigni esplosivi artigianali. Ma sono assolutamente nazisti.”

Durante l’attacco del 2014 contro Gaza, ha twittato che “Hamas è nazista. Non come loro, non approssimativamente, non qualcosa di simile. Nazisti.”

Nell’ottobre 2015, quando il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha provocato uno scandalo internazionale assolvendo Hitler dall’ideazione dello sterminio di milioni di ebrei europei e accusando invece un palestinesi [il Gran Muftì di Gerusalemme, ndt.], Ivri ha detto la sua appoggiandolo palesemente.

“I palestinesi si sono offerti volontari per aiutare Hitler,” ha affermato Ivri. “E’ una cosa ben nota.”

Di norma, ci si aspetterebbe che la UE rifiutasse paragoni gratuiti di altri avvenimenti con il genocidio nazista. Ma a quanto pare ciò va bene purché il bersaglio siano i palestinesi.

L’istigazione di Ivri non prende di mira solo i palestinesi nella Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Odia anche i palestinesi cittadini di Israele, riferendosi ai beduini come a una “bomba ad orologeria”.

Si fa anche promotore della discriminazione razziale nelle assunzioni: “Un datore di lavoro non può sapere se i suoi dipendenti potenziali sono coinvolti nel terrorismo. Cosa dovrebbe fare? Chiaramente non vorrebbe assumere per niente arabi. Mettetevi per un attimo nei suoi panni.”

Sostegno a favore di crimini di guerra

Il sostegno di Ivri a favore di crimini di guerra contro palestinesi è costante e disinvolto. Quando nel marzo 2016 Elor Azarya ha giustiziato a sangue freddo il palestinese ferito e impossibilitato a nuocere Abd al-Fattah Yusri al-Sharif – un omicidio per cui al medico dell’esercito è stato comunque data una lieve condanna – Ivri l’ha approvato.

“Un esercito veramente etico si assicura che i terroristi siano morti,” ha twittato.

Dal 2016, Israele ha incrementato la sua campagna contro i difensori dei diritti umani. Persino l’UE ha cercato di sollevare una timida protesta contro la cosiddetta legge israeliana della “trasparenza”, che inasprisce i controlli sui gruppi per i diritti umani che ricevono finanziamenti dai governi europei.

Ivri si è unito agli attacchi senza sosta del governo israeliano contro i gruppi, compreso l’israeliano B’Tselem, che documentano soprusi contro i palestinesi.

Lo scorso dicembre ha twittato che “B’Tselem e il resto delle organizzazioni europee operanti in Israele sono un’ulteriore arma nell’arsenale degli odiatori degli ebrei e di Israele nel mondo.”

L’UE promuove l’odio

Una richiesta via mail di “The Electronic Intifada” all’ambasciata UE di Tel Aviv includeva una domanda su quanto denaro dei contribuenti europei abbia ricevuto come compenso Ivri per il video.

L’ambasciata non ha risposto a questa domanda né alle altre sul costante incitamento di Ivri al razzismo ed alla violenza, compresi crimini di guerra.

Ma in precedenza l’ambasciatore dell’UE a Tel Aviv non ha fatto segreto del suo punto di vista estremista a favore di Israele.

In una lettera aperta che riflette sull’imminente fine dei suoi quattro anni come ambasciatore, Lars Faaborg-Andersen ha ricordato che da giovane negli anni ’70 passò un periodo in un kibbutz – una forma di colonia sionista che giocò un ruolo cruciale nella pulizia etnica dei palestinesi, ma che godette di una rosea reputazione progressista tra occidentali ingenui o complici [del sionismo].

“In quei giorni giovani europei e americani affluivano in Israele per partecipare all’esperimento dei kibbutz socialisti e dimostrare la propria solidarietà con David nella sua lotta per la sopravvivenza contro i Golia arabi che lo circondavano, ” ha scritto Faaborg-Andersen, facendo rispuntare la mitologia sionista che toglie di mezzo la Nakba, l’espulsione da parte di Israele della grande maggioranza della popolazione palestinese nel 1948, così come la successiva occupazione e colonizzazione della terra palestinese.

Durante il suo incarico come ambasciatore, Faaborg-Andersen e i suoi colleghi dell’UE hanno fatto tutto il possibile per promuovere la guerra di Israele contro la lotta palestinese per la sopravvivenza e la libertà, compreso il finanziamento dell’industria bellica e i torturatori israeliani, partecipando agli attacchi di Israele contro il movimento nonviolento per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni e continuando ad essere pienamente complici del brutale assedio israeliano contro Gaza.

L’ambasciata dell’UE a Tel Aviv ha anche svolto il ruolo di campo di addestramento per membri della lobby di Israele a Bruxelles.

Ma sicuramente il risultato personale più vergognoso di Faaborg-Andersen sarà di essersi calato nella parte di aperto sostenitore della violenza genocida come il volto dell’Unione Europea e dei suoi molto strombazzati “valori”.

Ofer Neiman ha contribuito alla ricerca.

Ali Abunimah è direttore esecutivo di Electronic Intifada. Dena Shunra è traduttrice ed autrice.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Israele sotto tiro per gli attacchi a giornalisti palestinesi ed agenzie di informazione

30 luglio 2017, Ma’an News

BETLEMME (Ma’an) – Nei giorni scorsi le forze israeliane sono state oggetto di una severa condanna per attacchi a giornalisti palestinesi e agenzie di informazione, in seguito ad un’incursione nella notte di sabato contro una società di produzione mediatica a Ramallah ed a molteplici attacchi a giornalisti che informavano sulle proteste di massa nei territori palestinesi occupati contro le misure di sicurezza, ora ritirate, alla Moschea di Al-Aqsa.

In un raid all’alba di sabato le forze israeliane hanno fatto irruzione nella sede di PalMedia, una società di produzione nel settore dei media, che fornisce servizi di trasmissione a parecchi organi di informazione, tra cui Russia Today, al-Mayadeen, al-Manar e al-Quds News, hanno messo a soqquadro gli uffici e distrutto attrezzature, con l’accusa di presunta “istigazione”.

Hanan Ashrawi, membro del comitato esecutivo dell’OLP, ha denunciato il raid in una dichiarazione in cui ha affermato che “le politiche israeliane di violenza e repressione sono un palese tentativo di spezzare la risolutezza del popolo palestinese” e configurano una violazione delle leggi internazionali sui diritti umani relativamente alla libertà di espressione.

Israele si sta chiaramente impegnando in una costante politica che prende di mira deliberatamente i mezzi di comunicazione ed i giornalisti palestinesi che lavorano con coraggio per rappresentare la narrazione umana palestinese e che informano sull’ occupazione militare israeliana e le sue permanenti politiche di apartheid e di pulizia etnica,” ha detto.

Queste politiche israeliane di violenza e repressione, come anche i recenti attacchi contro esponenti della stampa palestinese all’interno e intorno a Gerusalemme est occupata, sono un palese tentativo di spezzare la tenacia del popolo palestinese.”

Ha invitato la comunità internazionale ad agire immediatamente per “frenare la continua violazione da parte di Israele delle leggi e delle convenzioni internazionali e per sostenere i nostri sforzi nonviolenti e diplomatici per chiedere giustizia e protezione per il popolo palestinese in tutte le sedi giuridiche internazionali.”

Anche il Centro Palestinese per lo Sviluppo e la Libertà dei Media (Mada) domenica ha rilasciato una dichiarazione in risposta al raid contro PalMedia ed a ciò che ha definito un palese incremento degli attacchi contro giornalisti “che svolgono il proprio lavoro informando circa i sit-in pacifici organizzati da abitanti di Gerusalemme.”

La grande quantità di violenti attacchi indiscriminati contro media e giornalisti conferma la persistenza delle violazioni e dell’aggressione dell’occupazione israeliana alle libertà dei mezzi di comunicazione con diversi mezzi violenti”, ha dichiarato l’ONG con sede a Ramallah.

Mada considera questi incidenti come mezzi per impedire che si diffonda al resto del mondo la vera immagine di ciò che sta avvenendo sul terreno e le politiche messe in atto contro i palestinesi, ed inoltre insiste sull’urgente necessità di perseguire i responsabili di tali attacchi, che sono tuttora impuniti.”

Mada ha affermato che, nelle ultime due settimane, ha osservato decine di violazioni commesse dalle forze israeliane nei confronti di giornalisti a Gerusalemme.

Questi attacchi erano di diverso tipo, ma comprendevano arresti, pestaggi, minacce, confisca e distruzione di attrezzature, impedimento di trasmettere gli avvenimenti, interrogatori ed il fatto di prendere di mira giornalisti con pallottole vere e lacrimogeni.”

Il 22 luglio la corrispondente televisiva di Ma’an Mirma al-Atrash è stata colpita da un candelotto di gas lacrimogeno e lievemente ferita al viso durante una protesta nella città di Betlemme, in Cisgiordania.

Mada ha sottolineato il violento arresto, filmato, del fotogiornalista Fayez Abu Rmeila durante una protesta il 25 luglio, aggiungendo che egli è stato sottoposto a due interrogatori dopo che è stato spinto e picchiato da un poliziotto che gli ha anche confiscato la carta di identità e la memory card.

Abu Rmeila ha detto a Mada che “a causa di una disputa insorta tra me ed il poliziotto, lui mi ha aggredito e minacciato di spaccarmi la testa se avessi parlato in malo modo.” In seguito ha detto di essere stato nuovamente picchiato, insultato ed ingiuriato nel centro di detenzione.

Il rapporto di Mada elenca almeno altri 11 giornalisti, inviati di organi locali ed internazionali come la Reuters, aggrediti a Gerusalemme da poliziotti israeliani.

Anche l’Ong “Reporter Senza Frontiere” ha condannato gli ostacoli posti dalle forze israeliane alla copertura mediatica nel corso della crisi di Al-Aqsa, azione che era già stata ampiamente denunciata dal sindacato palestinese dei giornalisti, dal ministero dell’Informazione palestinese, dal “Comitato di Protezione dei Giornalisti” e da altri.

In una dichiarazione rilasciata venerdì, l’organizzazione internazionale per la libertà di stampa ha accusato le forze israeliane di fare uso di “intimidazione, divieto di accesso, violenza ed arresti per limitare o impedire la copertura mediatica delle manifestazioni e degli scontri scatenati dall’introduzione di ulteriori misure di sicurezza intorno alla Moschea di Al-Aqsa nella città vecchia di Gerusalemme.”

In seguito ad un precedente raid contro l’ufficio di PalMedia tre anni fa, “Reporter Senza Frontiere” ha affermato che il raid “si è aggiunto al lungo elenco di violazioni dei diritti dei mezzi di informazione palestinesi da parte delle forze di sicurezza israeliane, attraverso continue minacce, arresti ed operazioni militari.”

Israele è stato accusato di etichettare qualunque mezzo di informazione critico nei confronti di Israele e delle sue politiche nelle comunità palestinesi come “istigazione”, allo scopo di reprimere le critiche alle politiche discriminatorie di Israele, alla sua perdurante occupazione della Cisgiordania giunta al suo cinquantesimo anno e al suo decennale assedio della Striscia di Gaza, che ha precipitato quel territorio in una interminabile crisi umanitaria.

Nel bel mezzo delle proteste a Gerusalemme, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha anche accusato la rete televisiva satellitare Al Jazeera, con sede in Qatar, di aver “incitato deliberatamente alla violenza” ad Al-Aqsa attraverso la sua informazione sugli eventi, ed ha chiesto che gli organi competenti israeliani chiudano i suoi uffici in Israele.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




Quando Israele minaccia i palestinesi di una nuova Nakba, minaccia sé stesso di estinzione

Bradley Burston, 25 luglio 2017 ,Haaretz

C’è una vera e propria operazione di istigazione che le autorità israeliane non hanno affrontato o neanche riconosciuto per decenni. E’ il violento discorso di odio che inizia dall’interno.

Che cosa ci dice riguardo ad Israele il fatto che un importante ministro del governo, che è anche una pappamolla, ritiene necessario, in un momento di tensioni al limite della guerra con i palestinesi, andare alla televisione israeliana e su Facebook a diffondere un messaggio di puro incitamento all’uso delle armi?

Il ministro della Cooperazione Regionale Tzachi Hanegbi, un alleato chiave di Netanyahu che spesso proclama e difende le politiche del primo ministro, è stato per lungo tempo considerato un elemento relativamente moderato nel governo più ferocemente oltranzista nella storia della Nazione.

Eppure, questa settimana, quando Israele si è trovato di fronte ad esplosioni di violenza al suo interno e con i suoi vicini, Hanegbi ha usato uno dei termini più incendiari per avvertire i palestinesi delle possibili conseguenze dei brutali omicidi di tre israeliani, un settantenne e due dei suoi figli adulti, avvenuti sabato sera:

Ecco come inizia una ‘Nakba’”, ha minacciato Hanegbi il giorno dopo sulla sua pagina Facebook.

Esattamente così”, ha scritto, citando il termine arabo per “catastrofe”, che è diventato sinonimo dell’esperienza palestinese della guerra del 1948, in cui centinaia di migliaia di palestinesi fuggirono o furono cacciati dalle forze israeliane dalle loro case nella Terra Santa.

Ricordatevi il ‘48”, ha poi scritto. La guerra, che ha portato alla nascita dello Stato di Israele, ha creato anche circa settecento mila rifugiati palestinesi. La Nakba è un evento profondamente traumatico per i palestinesi. Il dolore e la rabbia che si accompagnano alla Nakba sono stati indirettamente riconosciuti dal governo Netanyahu nei suoi sforzi di impedire che la narrazione palestinese fosse oggetto di insegnamento nelle scuole arabe in Israele.

Ricordatevi il ‘67”, ha continuato. Centinaia di migliaia di palestinesi, alcuni dei quali profughi della guerra del 1948, furono sfollati dalla guerra dei Sei Giorni, in cui le forze israeliane occuparono Gerusalemme est, la Cisgiordania e Gaza.

Hanegbi, che in una precedente intervista nello stesso giorno ha detto che la violenza non stava conducendo ad una terza intifada, ma ad una terza Nakba, ha ribadito il concetto nel post su Facebook: “Quando vorrete fermarla, sarà già stata persa. Sarà già avvenuta la terza ‘Nakba’.”

L’attento uso delle virgolette da parte di Hanegbi per modificare – più precisamente, per attenuare – il termine Nakba non è certamente sfuggito ai lettori palestinesi. Né lo è stato il senso della sua conclusione:

Per due volte avete pagato il prezzo della follia dei vostri dirigenti. Non provocateci nuovamente, perché il risultato non sarà diverso. Siete stati avvertiti!”

Il post di Hanegbi è arrivato in un momento in cui la rabbia covata sotto la cenere dei social media, scaturita da quel vulcano sacro nel cuore di Gerusalemme, stava infiammando gli animi di mezzo mondo.

Arriva anche nel periodo in cui i dirigenti israeliani, da Benjamin Netanyahu in giù, stanno dedicando un’enorme quantità del loro prezioso tempo per parlare di istigazione [all’odio].

Parlano di come l’istigazione può diventare armata, trasformarsi in atti di assassinio, di terrore, di escalation, di intransigenza, di vendetta e di guerra. E non mancano loro gli esempi, dal momento che i social media arabi diffondono innumerevoli esempi di minacce terroristiche e ignobili caricature antisemite.

Ma c’è una vera e propria operazione di istigazione che le autorità israeliane non hanno affrontato e neppure riconosciuto per decenni. E’ il violento discorso di odio che inizia dall’interno. Attacchi verbali vergognosamente fanatici contro i palestinesi. Dichiarazioni di dirigenti israeliani e di rabbini compiacenti che descrivono tutti gli arabi come bestie feroci, esseri subumani, una razza di terroristi sanguinari.

Incoraggiate e appoggiate da mezzi di informazione condiscendenti e scandalistici, le deboli e fragili coalizioni delle politiche israeliane non hanno fatto che accelerare l’istigazione israeliana, mentre i politici fanno a gara su tutti i social media per mostrare quanto può essere distruttiva la loro volontà di rendere le cose sempre più insopportabili.

E così è accaduto che, invece di operare per disinnescare l’atmosfera esplosiva dell’ultima settimana, i politici di estrema destra si sono avvicendati nelle trasmissioni televisive per promuovere misure di ulteriore privazione del diritto dei palestinesi di pregare alla moschea di Al-Aqsa, premendo al tempo stesso per dare via libera agli ebrei per pregare sul Monte del Tempio [la Spianata delle Moschee per i musulmani, ndt.], che è parte dello stesso complesso. In toni che potevano essere seri ma anche non esserlo, il deputato di estrema destra Bezalel Smotrick ha suggerito in un tweet che dovrebbe essere immediatamente costruita una sinagoga sul Monte.

Quando gli attivisti musulmani hanno accusato Israele di pianificare di impadronirsi del sito a proprio uso esclusivo, gli attivisti ebrei sono apparsi fin troppo felici di confermare le accuse.

Al tempo stesso, quando alcuni ministri del governo hanno chiesto l’introduzione della pena di morte, un deputato del partito di Netanyahu, il Likud, li ha superati.

Voglio dire la verità senza sembrare, dio non voglia, troppo estremista”, ha detto il deputato Oren Hazan in un video postato nel weekend.

Ma se fosse dipeso da me, ieri notte sarei andato dalla famiglia dell’assassino, avrei preso lui e i suoi familiari e li avrei ammazzati tutti. Sì, proprio così. Senza alcun rimorso. Li avrei ammazzati.”  

Cosa ci dice questo su Israele? Che se vuoi che la tua voce sia ascoltata, puoi dire – impunemente – “Vedrò la demolizione delle vostre case e la pena di morte per voi, ed aggiungerò l’esecuzione di massa di civili.”

Che cosa ci dice questo sui leaders israeliani? Che per mantenere l’illusione di essere più duri di chiunque altro, possono fare minacce che arrivano fino all’ espulsione di massa e alla pulizia etnica – una nuova Nakba. Proprio il genere di minacce che in un mondo come il nostro possono alla fine offrire il pretesto per minacciare lo stesso Israele di estinzione.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Analisi: le voci palestinesi ed ebree devono sfidare insieme il passato di Israele

Ramzy Baroud, 

24 aprile 2017, Ma’an News

Analisi: le voci palestinesi ed ebree devono sfidare insieme il passato di Israele.

Israele ha fatto ricorso a tre principali strategie per soffocare le richieste palestinesi di giustizia e diritti umani, compreso il diritto al ritorno per i rifugiati.

Una è dedicata a riscrivere la storia; un’altra tenta di sviare l’attenzione dalle varie situazioni nel loro complesso; una terza mira a rivendicare la narrazione palestinese come essenzialmente israeliana.

La riscrittura della storia ha visto la luce molto prima di quanto alcuni storici possano pensare. La macchina della hasbara (propaganda israeliana, ndtr.) israeliana si è messa in movimento quasi contemporaneamente al Piano Dalet (Piano D), che prevedeva la conquista militare della Palestina e la pulizia etnica dei suoi abitanti.

Ma l’attuale narrazione relativa alla “Nakba” – o “Catastrofe” – che ha colpito il popolo palestinese nel 1947 e 1948 è stata orchestrata negli anni ‘50 e ‘60.

In un articolo intitolato: “Il pensiero catastrofico: Ben Gurion ha cercato di riscrivere la storia?”, Shay Hazkani ha rivelato l’interessante processo attraverso cui il primo ministro di Israele, Ben Gurion, ha lavorato a stretto contatto con un gruppo di studiosi ebrei israeliani per sviluppare la versione degli eventi per descrivere ciò che avvenne nel 1947-48: la fondazione di Israele e la distruzione della Palestina.

Ben Gurion intendeva diffondere una versione della storia che coincidesse con la posizione politica di Israele. Aveva bisogno di “prove” per sostenere tale posizione.

Le “prove” alla fine sono diventate “storia” e non è stata permessa nessun’altra narrazione per contestare l’ appropriazione israeliana della Nakba.

Ha scritto Hazkani: “Probabilmente Ben Gurion non ha mai sentito il termine ‘Nakba’, ma ben presto, alla fine degli anni ’50, il primo Primo Ministro di Israele ha compreso l’importanza della narrazione storica”.

Il premier israeliano ha assegnato agli studiosi dipendenti dalla pubblica amministrazione il compito di confezionare una storia alternativa, che continua ancor oggi a permeare il pensiero israeliano.

Sviare l’attenzione dalla storia – o dall’attuale realtà della terribile occupazione della Palestina – è un’operazione che è durata per quasi 70 anni.

Dall’iniziale mito della Palestina come “terra senza popolo per un popolo senza terra” fino all’odierna pretesa che Israele sia un’icona di civiltà, tecnologia e democrazia, circondata da selvaggi arabi e musulmani, le distorsioni ufficiali da parte di Israele sono incessanti.

Perciò mentre i palestinesi si organizzano per commemorare la guerra del 5 giugno 1967, che ha portato, finora, a 50 anni di occupazione militare, Israele sta allestendo una grande festa, un’ imponente “celebrazione” della sua occupazione militare dei palestinesi.

L’assurdità non sfugge a tutti gli israeliani, ovviamente.

Uno Stato che celebra 50 anni di occupazione è uno Stato che ha smarrito la direzione ed ha perso la propria capacità di distinguere il bene dal male”, ha scritto l’opinionista israeliano Gideon Levy su Haaretz.

Che cosa c’è precisamente da celebrare, Israele? Cinquant’anni di spargimenti di sangue, di violenze, di depredazione e sadismo? Solo società che non hanno coscienza celebrano simili anniversari.”

Levy sostiene che Israele ha vinto la guerra del 1967, ma “ha perso quasi tutto il resto.”

Da allora, l’arroganza di Israele, il suo disprezzo per il diritto internazionale, “il perdurante disprezzo per il mondo intero, la presunzione e la prepotenza” hanno raggiunto livelli senza precedenti.

L’articolo di Levy si intitola: “La nostra Nakba.”

Levy non cerca di recuperare la narrazione palestinese, ma dimostra sinteticamente che i trionfi militari di Israele sono stati una disgrazia, specialmente perché non ne è seguito alcun senso di riflessione nazionale o tentativo di correggere le ingiustizie del passato e del presente.

Comunque il processo di rivendicazione del termine “Nakba” è stato perseguito astutamente dagli autori israeliani per molti anni.

Per quegli studiosi, “la Nakba ebraica” si riferisce agli ebrei arabi che sono arrivati nel nuovo Stato indipendente di Israele, in gran parte in seguito alla pressione dei dirigenti sionisti perché gli ebrei di tutto il mondo “facessero ritorno” alla patria biblica.

Un editoriale del Jerusalem Post lamentava che “la macchina propagandistica palestinese ha convinto l’opinione pubblica mondiale che il termine ‘rifugiato’ è sinonimo del termine ‘palestinese’.”

Facendo questo, gli israeliani che tentano di appropriarsi della narrazione palestinese sperano di creare un’equiparazione nel discorso, che ovviamente non corrisponde alla realtà.

L’editoriale fornisce la cifra di 850.000 “rifugiati ebrei” della “Nakba ebraica”, numero di poco superiore a quello dei rifugiati palestinesi espulsi dalle milizie israeliane al momento del processo di fondazione di Israele.

Fortunatamente, queste pretese in malafede sono sempre più smentite anche da voci ebraiche.

Poche, ma significative, voci tra gli intellettuali israeliani ed ebrei in tutto il mondo hanno il coraggio di riconsiderare il passato di Israele.

Si contrappongono giustamente a una versione della storia che è stata accettata in Israele e in Occidente come l’ indiscussa verità che sta dietro la nascita di Israele nel 1948, l’occupazione militare di ciò che rimaneva della Palestina nel 1967 ed altre circostanze storiche.

Questi intellettuali lasciano un segno nel discorso Palestina-Israele dovunque vadano. Le loro voci sono particolarmente significative nel contrastare le verità ufficiali e i miti storici israeliani.

Scrivendo su “Forward” [giornale della comunità ebrea di New York fondato nel 1897, ndtr.], Donna Nevel rifiuta di accettare che la discussione sul conflitto in Palestina abbia inizio con la guerra e l’occupazione del 1967.

Nevel critica i cosiddetti sionisti progressisti, che insistono nell’impostare la discussione solo sul problema dell’occupazione, limitando così ogni possibilità di soluzione alla “soluzione dei due Stati.”

Non solo questa “soluzione” è superata e non è praticamente possibile, ma la discussione esclude la “Nakba”, ossia “Catastrofe”, del 1948.

Ha scritto Nevel: “La Nakba non rientra in queste discussioni perché è la conseguenza e la più chiara manifestazione del sionismo. Chi ignora la ‘Nakba’ – cosa che hanno sistematicamente fatto le istituzioni sioniste ed israeliane – rifiuta di riconoscere il sionismo come illegittimo fin dall’inizio della sua realizzazione.”

Questa è esattamente la ragione per cui la polizia israeliana recentemente ha bloccato la “Marcia del Ritorno”, che i palestinesi svolgono ogni anno in Israele.

Per anni Israele ha temuto che un crescente movimento tra i palestinesi, gli israeliani ed altri nel mondo spingesse per un cambio di paradigma per comprendere le radici del conflitto in Palestina.

Questo nuovo modo di pensare è stato una conseguenza razionale della fine del “processo di pace” e dell’abbandono della soluzione dei due Stati.

Incapace di sostenere i suoi miti fondativi, non in grado nemmeno di offrire un’alternativa, il governo israeliano adesso sta usando misure coercitive per rispondere al nascente movimento: punire chi insiste nel commemorare la “Nakba”, sanzionare le organizzazioni che prendono parte a tali eventi, fino a perseguire come traditori gli individui ed i gruppi di ebrei che si discostano dalle posizioni ufficiali.

In questi casi la coercizione difficilmente funziona.

La Marcia (per il Ritorno) è rapidamente cresciuta di dimensione rispetto agli anni scorsi, nonostante le misure sempre più repressive delle autorità israeliane”, ha scritto Jonathan Cook su Al-Jazeera.

Sembra che 70 anni dopo la fondazione di Israele il passato ancora incomba pesantemente.

Fortunatamente alle voci palestinesi che si sono levate contro la narrazione ufficiale israeliana si sono ora unite in numero crescente voci israeliane.

E’ mediante una nuova narrazione comune che si può ottenere una reale comprensione del passato, insieme alla speranza che la visione di pace per il futuro possa sostituire quella attuale – che può essere sostenuta soltanto con l’oppressione militare, le disuguaglianze e la pura e semplice propaganda.

Ramzy Baroud è un giornalista accreditato a livello internazionale, scrittore e fondatore di PalestineChronicle.com. Il suo ultimo libro è ‘Mio padre era un combattente per la libertà: storia non raccontata di Gaza.’

Le opinioni espresso in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale dell’Agenzia Ma’an News.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




Opinione. Addio al linguaggio ambiguo: la terrificante visone di Israele per il futuro

L’ostinazione di Israele lascia palestinesi e israeliani con un’unica alternativa: uguale cittadinanza in uno Stato unico o un’orrenda apartheid e altra pulizia etnica

di Ramzy Baroud – Counterpunch

Ramallah, 17 febbraio 2017, Nena News

Le prove storiche empiriche combinate con un po’ di buon senso sono abbastanza per dirci il tipo di opzioni future che Israele ha nel cassetto per il popolo palestinese: apartheid perpetua o pulizia etnica, o un mix di entrambe.

L’approvazione della “Regularization Bill” del 6 febbraio è tutto quello di cui abbiamo bisogno per immaginare il futuro ideato da Israele. La nuova legge permette al governo israeliano di riconoscere retroattivamente gli avamposti ebraici costruiti senza permesso ufficiale su terra privata palestinese.

Tutte le colonie – quelle ufficialmente riconosciute e gli avamposti non autorizzati – sono illegali secondo il diritto internazionale. Tale verdetto è passato numerose volte alle Nazioni Unite e, più recentemente, riaffermato con chiarezza inequivocabile dalla risoluzione 2334 del Consiglio di Sicurezza.

La risposta di Israele è stata l’annuncio della costruzione di oltre 6mila nuove case da costruire nei Territori Palestinesi Occupati, la costruzione di una colonia nuova di zecca (la prima in 20 anni) e la nuova legge che pavimenta la strada all’annessione di ampie porzioni della Cisgiordania occupata.

Indubbiamente la legge è “l’ultimo chiodo nella bara della soluzione a due Stati”, ma questo non è importante. Non ha mai interessato Israele, quanto meno. Le chiacchiere su una soluzione sono state mero fumo negli occhi per quanto riguardava Israele. Tutti i “dialoghi di pace” e l’intero “processo di pace”, anche quando era al suo apice, raramente hanno rallentano i bulldozer israeliani, la costruzione di altre case per ebrei o messo fine alla pulizia etnica incessante dei palestinesi.

Su Newsweek Diana Buttu descrive come il processo di costruzione delle colonie è sempre, sempre accompagnato dalla demolizione di case palestinesi. 140 strutture palestinesi sono state demolite dall’inizio del 2017, secondo l’agenzia Onu Ocha.

Da quando Donal Trump ha giurato, Israele si è sentito liberato dell’obbligo del linguaggio ambiguo. Per decenni, i funzionari israeliani hanno parlato appassionatamente di pace e hanno fatto tutto quello che potevano per ostacolare il suo raggiungimento. Adesso, semplicemente se ne fregano. Punto.

Avevano perfezionato il loro comportamento equilibrato semplicemente perché dovevano farlo, perché Washington se lo aspettava, lo chiedeva. Ma Trump gli ha dato un assegno in bianco: fate quello che vi piace; le colonie non sono un ostacolo alla pace, Israele è stato “trattato molto, molto ingiustamente” e io correggerò quest’ingiustizia storica, e così via. Quasi subito dopo l’avvento di Trump alla presidenza il 20 gennaio scorso, le maschere sono cadute.

Il 25 gennaio il vero Benjamin Netanyahu è riemerso, dichiarando con invidiabile sfrontatezza: “Noi stiamo costruendo e continueremo a costruire” colonie illegali.

Cosa c’è altro da discutere con Israele a questo punto? Nulla. La sola soluzione che interessa a Israele è la “soluzione” di Israele, sempre guidata dal cieco supporto americano e l’inutilità europea e sempre imposta ai palestinesi e agli altri paesi arabi, se necessario con la forza.

I guardiani della grande farsa della soluzione dei due Stati, chi astutamente ha costruito il “processo di pace” e ha danzato su ogni ritmo israeliano è ora frastornato. Sono stati esclusi dai terrificanti piani di Israele che spara la sua “soluzione” dritto in mezzo agli occhi, lasciando ai palestinesi la scelta tra l’assoggettamento, l’umiliazione e l’imprigionamento.

Jonathan Cook ha ragione. La nuova legge è il primo passo verso l’annessione della Cisgiordania o, almeno, di buona parte. Una volta che i piccoli avamposti saranno legalizzati, dovranno essere fortificati, (“naturalmente”) espansi e protetti. L’occupazione militare, in auge da 50 anni, non sarà più temporanea e reversibile. La legge civile continuerà ad essere applicata agli ebrei nei Territori Palestinesi Occupati e quella militare ai palestinesi occupati.

È l’esatta definizione di apartheid, nel caso ve lo stesse ancora chiedendo.

Per raggiungere i “bisogni di sicurezza” dei coloni, altre by-pass road per soli ebrei saranno costruite, altri muri eretti, altri cancelli per tenere lontani i palestinesi dalle loro terre, dalle scuole e dalle fonti di sussistenza saranno messi su, altri checkpoint, altra sofferenza, altro dolore, altra rabbia e altra violenza.

Questa è la visione di Israele. Anche Trump è più frustrato dalla sfacciataggine e l’audacia israeliane. Ha chiesto ad Israele in un’intervista con il quotidiano Israel Hayom di “essere più ragionevole con il rispetto per la pace”. “C’è molta terra ancora. E ogni volta che la prendete per le colonie, ce n’è di meno”, ha detto Trump. Ha frenato sulla promessa di trasferire l’ambasciata Usa e l’espansione senza controllo delle colonie, perché realizza che Netanyahu e i suoi sostenitori negli Stati Uniti lo hanno lasciato su un baratro e ora gli chiedono di saltare.

Ma ha poca importanza. Che Trump rimanga sulla sua posizione estremamente pro-israeliana o cambi marcia verso una più annacquata simile a quella del suo predecessore Obama, la realtà probabilmente non cambierà, perché solo Israele è alla fine autorizzato a influenzarne i risultati.

L’approvazione dei parlamentari israeliani della legge è, infatti, la fine di un’era. Abbiamo raggiunto il punto in cui possiamo apertamente dichiarare che il cosiddetto “processo di pace” è stato un’illusione fin dall’inizio, perché Israele non ha mai avuto intenzione di concedere Cisgiordania e Gerusalemme est ai palestinesi.

La leadership palestinese è difficilmente innocente in tutto ciò. Il più grave errore che i leader palestinesi hanno commesso (a parte la loro disgraziata divisione) è stato quello di aver creduto che gli Stati Uniti, il principale sponsor israeliano, avrebbero gestito un “processo di pace” che ha garantito a Israele tempo e risorse per terminare i propri progetti coloniali, devastando i diritti e le aspirazioni politiche palestinesi.

Ritornando agli stessi vecchi canali, usando lo stesso linguaggio, cercando la salvezza nell’altare della stessa vecchia soluzione a due Stati non si otterrà nulla se non lo spreco di altro tempo e altra energia.

Ma le umilianti opzioni di Israele per i palestinesi possono essere anche lette in un altro modo. Infatti, è l’ostinazione di Israele che oggi lascia i palestinesi (e gli israeliani) con un’unica alternativa: uguale cittadinanza in uno Stato unico o un’orrenda apartheid e altra pulizia etnica.

Con le parole dell’ex presidente Jimmy Carter, “Israele non troverà mai la pace fino a quando non permetterà ai palestinesi di esercitare i loro diritti fondamentali umani e politici”. Il “permesso” israeliano è lontano dall’arrivare, lasciando la comunità internazionale con la responsabilità morale di pretenderlo. Nena News

Traduzione a cura della redazione di Nena News




‘Un assassinio’: i palestinesi chiedono di agire contro la legge israeliana del furto di terre

di Sheren Khalel, 7 febbraio 2017,Middle East Eye

Le autorità affermano che lo scopo della legge che consente ad Israele di espropriare le proprietà palestinesi è l’annessione della maggior parte della Cisgiordania, e chiedono sanzioni internazionali.

BETLEMME, Cisgiordania occupata – Martedì la Knesset (parlamento) israeliana è stata accusata di “assassinare” le prospettive di un accordo di pace per due Stati, dal momento che i palestinesi, la comunità internazionale e le associazioni israeliane per i diritti umani hanno condannato l’approvazione del disegno di legge volto a legalizzare l’esproprio di terre di proprietà privata palestinese nella Cisgiordania e a Gerusalemme est, illegalmente occupate.

Il voto, che è passato con 60 a favore contro 52, è stato portato in aula pochi giorni dopo che le forze israeliane avevano evacuato l’avamposto israeliano di Amona, in seguito a una sentenza della Corte Suprema israeliana.

La decisione è stata applaudita da membri della destra israeliana, come Shuli Moalem-Refaeli – capo del partito Casa Ebraica (di estrema destra, ndtr.) ed uno dei co-promotori del disegno di legge – che, come riportato dal quotidiano israeliano Haaretz, ha detto che la legge significa che gli israeliani residenti nelle colonie ‘non saranno più un obbiettivo delle organizzazioni estremiste di sinistra che intendono distruggere e danneggiare le colonie’.

Ma Mustafa Barghouti, leader del movimento ” Iniziativa Nazionale Palestinese”, ha detto a Middle East Eye che la legge ha rappresentato un punto di svolta nei rapporti tra palestinesi e israeliani.

Questa legge è un assassinio della soluzione dei due Stati”, ha detto Barghouti. “E’ un atto che mira all’annessione della maggior parte della terra in Cisgiordania.”

Mentre le autorità israeliane avevano già la possibilità di confiscare terre palestinesi sotto il pretesto della sicurezza, come anche della dichiarazione di utilizzo come terra dello Stato, adesso la nuova legge significa che la terra di proprietà privata palestinese può essere confiscata esclusivamente per la costruzione di colonie, il che è giudicato illegale dal diritto internazionale.

Sono certo che il prossimo passo di Israele sarà l’annessione della colonia di Maale Adumim”, ha detto Barghouti, riferendosi ad una colonia israeliana illegale situata nella zona E1 (a nord est di Gerusalemme, ndtr.) della Cisgiordania occupata.

In altri termini, Israele sta legalizzando le colonie con l’intenzione di annetterle a Israele, che è ciò che avverrà adesso.”

Le previsioni di Barghouti sono in linea con (quanto affermato dal) deputato israeliano Bezalel Smotrich, un altro co-promotore della legge, che l’ha definita “un passo storico verso il completamento di un processo che intendiamo avviare; l’applicazione della piena sovranità israeliana su tutte le città e le comunità in Giudea e Samaria [il termine usato dal governo di Israele per indicare la Cisgiordania].”

L’approvazione della legge segna la prima volta che la Knesset approva una legge che esercita giurisdizione sulla Cisgiordania.

Motivo di sanzioni’

Questa legge è senza dubbio motivo di sanzioni da parte della comunità internazionale”, ha detto Barghouti.

E adesso non vi sono giustificazioni per l’Autorità Nazionale Palestinese per rimandare un deferimento alla Corte Penale Internazionale – davanti a cui Israele dovrebbe comparire –; ogni mancanza di azioni punitive contro Israele dovrebbe ora essere ritenuta un’accettazione delle sue azioni.”

Husam Zumlot, il consigliere per le questioni strategiche del Presidente palestinese Mahmoud Abbas, ha affermato che la prossima mossa a livello politico deve provenire dalla comunità internazionale.

La soluzione dei due Stati è stata sempre un progetto della comunità internazionale che noi abbiamo seguito, ma adesso è necessario che queste questioni, relative a ciò che dovrebbe accadere ora, vengano demandate alla comunità internazionale”, ha detto Zumlot.

La comunità internazionale deve decidere che cosa fare rispetto a questo progetto, perché questa legge è una risposta di Netanyahu alla recente risoluzione delle Nazioni Unite contro le colonie, all’iniziativa della Francia e alla comunità internazionale in generale.”

Zumlot ha aggiunto che l’ Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) ha in programma di “riunirsi immediatamente” per discutere il da farsi.

Quando si riuniranno prenderanno le iniziative necessarie a salvaguardare gli interessi nazionali del popolo”, ha detto.

Abbas, che era a Parigi per colloqui col presidente francese Francois Hollande, ha definito la legge “un attacco contro il nostro popolo”, che va contro gli auspici della comunità internazionale.

Martedì Hanan Ashrawi, membro del comitato esecutivo dell’OLP, ha espresso opinioni analoghe, chiedendo sanzioni ed azioni punitive.

Pulizia etnica’

E’ indispensabile che la comunità internazionale, compresi gli Stati Uniti e l’Unione Europea, assuma le proprie responsabilità morali, umane e giuridiche e metta fine all’illegalità di Israele ed al suo sistema di apartheid e di pulizia etnica”, ha detto.

L’assunzione di responsabilità dovrebbe includere misure punitive e sanzioni, prima che sia troppo tardi.”

Issa Amro, attivista palestinese e fondatore di “Giovani Contro gli Insediamenti”, ha detto a MEE che l’Autorità Nazionale Palestinese dovrebbe intraprendere ogni strada possibile per ottenere appoggio per azioni punitive contro Israele da parte della comunità internazionale, dalla Corte Penale Internazionale alle Nazioni Unite, ed azioni bilaterali degli Stati.

Ha aggiunto che l’ANP dovrebbe anche incoraggiare i palestinesi a manifestare contro la legge nelle strade.

Abbiamo bisogno di praticare la disubbidienza civile”, ha detto Amro. “L’ANP dovrebbe incoraggiare la disubbidienza civile per dimostrare la nostra opposizione alle azioni di Israele.”

L’associazione israeliana per i diritti “B’Tselem” ha definito la legge una “disgrazia per lo Stato e la sua autorità legislativa.”

L’associazione ha dichiarato: “La legge approvata oggi dalla Knesset prova una volta di più che Israele non intende porre fine al suo controllo sui palestinesi o al furto della loro terra”

Approvare la legge poche settimane dopo la risoluzione 2334del Consiglio di Sicurezza [in cui il Consiglio ha condannato l’attività di colonizzazione israeliana come ‘flagrante violazione’ del diritto internazionale] è uno schiaffo in faccia alla comunità internazionale. Se inserire l’esproprio in una legge costituisce uno sviluppo nuovo, in pratica è un altro aspetto del massiccio furto di terra portato avanti sfacciatamente per decenni dichiarandola ‘terra dello Stato’ ”.

Intanto Omar Shakir, direttore per Israele e Palestina di Human Rights Watch, ha affermato che la legge “annulla anni di consolidata legislazione israeliana.”

Intervenendo solo alcune settimane dopo l’unanime approvazione della risoluzione 2334 del Consiglio di Sicurezza sull’illegalità delle colonie, la legge rispecchia il palese disconoscimento del diritto internazionale”, ha detto Shakir.

La legge consolida ulteriormente l’attuale realtà di permanente occupazione de facto in Cisgiordania, in cui i coloni israeliani ed i palestinesi che vivono sulla stessa terra sono soggetti a sistemi giuridici, norme e servizi ‘separati ed ineguali.’ ”

Shakir ha concluso la sua dichiarazione con una frecciata alla nascente relazione del presidente USA Donald Trump con Israele, affermando che “i dirigenti israeliani che guidano la politica di colonizzazione dovrebbero sapere che l’amministrazione Trump non può proteggerli dal controllo della Corte Penale Internazionale, dove il procuratore continua ad esaminare l’illegale attività di colonizzazione di Israele.”

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Fare tanto clamore per avere l’approvazione di Israele: le promesse elettorali di Trump lo perseguiteranno

Maan News Agency 31 gennaio 2017

 Ramzy Baroud

Il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump promette che sarà favorevole ad Israele sotto ogni aspetto.

Io sono la cosa migliore che potrebbe mai accadere ad Israele”, si era vantato al Forum Presidenziale della Coalizione Ebraica Repubblicana a Washington DC, nel dicembre 2015.

Quando nel maggio 2016 il candidato repubblicano alla presidenza si è impegnato alla ‘neutralità’ tra palestinesi ed israeliani,

per un momento è sembrato che Trump rivedesse il suo appoggio incondizionato ad Israele.

Vorrei essere un uomo un po’ neutrale”, ha detto durante un incontro nella sala municipale della MSNBC (canale televisivo statunitense, ndtr.).

Da allora, questa posizione è stata superata dalla retorica più reazionaria, a cominciare, il mese seguente, dal discorso tenuto alla conferenza della lobby israeliana (AIPAC).

Quanto a Israele, le sue aspettative riguardo al Presidente USA sono molto chiare: sostegno incondizionato sul piano finanziario e militare, carta bianca all’espansione delle colonie illegali a Gerusalemme est occupata e in Cisgiordania e la fine di ogni forma di ‘pressione’ politica intesa a risuscitare il cosiddetto ‘processo di pace’.

Non che Trump avesse alcun dubbio circa queste aspettative. La vera sfida era che la sua principale rivale, Hillary Clinton, era un’ardente sostenitrice di Israele come nessun altro prima.

Era assolutamente sfrontata nell’adulare la lobby filoisraeliana. Riflettendo sulla morte dell’ex Presidente di Israele Shimon Peres, ha detto ai leader ebrei: “Quando lui parlava, per me era come ascoltare un salmo e adoravo sedermi ad ascoltarlo, sia che parlasse di Israele, la nazione che amava ed aveva fatto tanto per difendere, o che parlasse della pace o semplicemente della vita stessa.”

Ha promesso loro di “proteggere Israele dalla delegittimazione”, come scrive il quotidiano israeliano Haaretz – intendendo con ‘delegittimazione’ i tentativi dei gruppi della società civile in tutto il mondo di boicottare Israele a causa del suo mancato rispetto delle leggi internazionali e dei diritti dei palestinesi sotto occupazione.

Questo era il panorama politico in cui Trump, fondamentalmente un uomo d’affari e non un politico, doveva muoversi. In un impeto di mosse affrettate ha accettato di concedere ad Israele ciò che voleva, ma è andato anche al di là di quanto avesse fatto nessun altro presidente USA nella storia contemporanea, promettendo di trasferire l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme.

In quel momento è stata una mossa intelligente, sufficiente a contrastare le profferte d’amore della Clinton a Israele ed a fare di Trump il beniamino della destra politica israeliana, che attualmente controlla il governo.

Le conseguenze di quella promessa, se realizzata, comunque si dimostreranno molto costose.

Se Trump proseguirà su questa strada, è probabile che scatenerà il caos in una regione già instabile.

La mossa, che ora a quanto pare è “allo stadio iniziale”, non è semplicemente simbolica, come riferito da qualcuno nei principali media occidentali.

Trump, noto per il suo carattere impulsivo, sta minacciando di eliminare anche il minimo senso comune che storicamente ha governato la politica estera americana in Medio Oriente.

Gerusalemme è stata occupata in due diverse fasi storiche, prima dalle milizie sioniste nel 1948, poi dall’esercito israeliano nel 1967.

Avendo compreso la centralità di Gerusalemme per l’intera regione, i colonialisti britannici, che avevano ricevuto un mandato sulla Palestina dalla Società delle Nazioni nel 1922, erano favorevoli a che Gerusalemme rimanesse sotto protezione internazionale.

Comunque Israele si è impadronito della città con la forza, appellandosi ad un’ interpretazione a proprio vantaggio del testo biblico, che designerebbe Gerusalemme capitale ‘eterna’ del popolo ebreo.

Per lo sgomento della comunità internazionale, che ha sempre rifiutato e condannato l’occupazione israeliana, nel 1980 Israele ha annesso ufficialmente Gerusalemme, in violazione delle leggi internazionali.

Anche i paesi considerati alleati di Israele – compresi gli Stati Uniti – sono contrari alla sovranità israeliana su Gerusalemme e respingono l’invito di Israele a spostare le loro ambasciate da Tel Aviv alla città illegalmente occupata.

Inoltre, dal 1995, la posizione degli Stati Uniti ha oscillato tra quella storicamente filoisraeliana del Congresso e quella egualmente filoisraeliana, ma più pragmatica, della Casa Bianca.

Nell’ottobre 1995 il Congresso statunitense ha approvato il Jerusalem Embassy Act, con maggioranza schiacciante sia alla camera che al senato. Esso definiva Gerusalemme capitale indivisa di Israele e sollecitava il Dipartimento di Stato a spostare l’ambasciata a Gerusalemme.

Le amministrazioni USA dei Presidenti Bill Clinton, George W. Bush e Barack Obama hanno firmato una deroga presidenziale che ha rinviato di volta in volta di sei mesi la decisione del Congresso.

L’ultima volta la deroga è stata firmata dall’ex Presidente Obama il 1° dicembre 2016.

Adesso l’opportunista magnate del settore immobiliare fa il suo ingresso alla Casa Bianca con un allarmante programma che appare identico a quello dell’attuale governo israeliano di destra e ultranazionalista.

Siamo arrivati al punto che i rappresentanti dei due paesi potrebbero quasi scambiarsi il posto”, ha scritto sul New Yorker il professore palestinese Rashid Khalidi.

Questo avviene nel peggior momento possibile, in cui nel parlamento israeliano stanno saltando fuori nuove leggi per annettere anche le colonie ebree considerate illegali dagli stessi criteri israeliani e per eliminare ogni restrizione alla costruzione ed espansione di nuove colonie.

Nel corso di soli pochi giorni dall’insediamento di Trump, il governo israeliano ha ordinato la costruzione di migliaia di nuove unità abitative nella Gerusalemme occupata.

Persino i tradizionali alleati di Stati Uniti ed Israele sono allarmati dalle fosche prospettive aperte dalla nascente alleanza tra Trump ed Israele. Parlando alla conferenza di pace di Parigi il 15 gennaio, il ministro degli esteri francese Jean-Marc Ayrault ha avvertito Trump circa le “conseguenze molto gravi” che si prospettano nel caso che l’ambasciata USA venga effettivamente trasferita a Gerusalemme.

Palestinesi ed arabi capiscono che il trasferimento dell’ambasciata, lungi dall’essere una mossa simbolica, concede carta bianca per completare l’occupazione israeliana della città – inclusi i suoi luoghi santi – e portare a termine la pulizia etnica dei palestinesi musulmani e cristiani.

L’azzardo dell’amministrazione Trump di trasferire l’ambasciata USA probabilmente innescherà un incendio politico in Palestina e nel Medio Oriente con esiti terribili ed irreversibili.

Se si considera il significato che riveste Gerusalemme per i musulmani ed i cristiani palestinesi e per centinaia di milioni di fedeli in tutto il mondo, Trump potrebbe certamente accendere una polveriera che farebbe ulteriormente deragliare la sua presidenza già in difficoltà.

In una recente intervista a Fox News Trump ha ripetuto il frusto ritornello di come è stato trattato “male” Israele e che le relazioni tra Washington e Tel Aviv sono state “risanate”.

Ma poi si è rifiutato di parlare del trasferimento dell’ambasciata perché “è troppo presto”.

Potrebbe essere il suo modo di fare marcia indietro per evitare una crisi. E’ una posizione di profilo più basso rispetto a quella della sua principale consigliera, Kellyanne Conway, che aveva recentemente affermato che il trasferimento dell’ambasciata era “una priorità molto importante”.

Anche se il trasferimento dell’ambasciata venisse rinviato, il danno rimarrà, in quanto le colonie ebree stanno aumentando esponenzialmente, compromettendo in tal modo lo status della città.

Il fatto è che l’assenza di una chiara politica estera da parte di Trump che tenda a creare stabilità – non fatta di decisioni precipitose per ottenere il consenso della lobby – è una strategia politica pericolosa.

Vuole ribaltare l’eredità del suo predecessore, ma non ne ha una sua, il che è proprio la formula necessaria a fomentare nuova violenza ed a precipitare ancor più nel baratro una regione già instabile.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale dell’Agenzia Ma’an News.

Ramzy Baroud è un giornalista internazionalmente accreditato, scrittore e fondatore di PalestineChronicle.com. Il suo ultimo libro è ‘Mio padre era un combattente per la libertà: storia non raccontata di Gaza’.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Basta seminare il panico: in Palestina e Israele un unico Stato democratico è possibile

di Ramzy Baroud, 10 gennaio 2017, Middle East Monitor

Già molto prima del 28 dicembre scorso -quando il Segretario di Stato John Kerry è salito sul palco del Dean Acheson Auditorium di Washington DC per pontificare sull’incerto futuro della soluzione a due Stati e sulla necessità di salvare Israele da se stesso -Il tema della creazione di uno Stato Palestinese è stato di primaria importanza.

Infatti, nonostante ciò che si crede comunemente, lo sforzo per costituire uno Stato palestinese accanto ad uno ebraico risale a molto prima della Risoluzione Onu 181 del novembre 1947. Quella famigerata risoluzione chiedeva la partizione della Palestina in tre entità: uno Stato ebraico, uno palestinese e un controllo internazionale su Gerusalemme.

Una lettura più accurata della storia può mettere in evidenza molti riferimenti allo Stato palestinese (o arabo) tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo.

L’idea dei due Stati è eminentemente occidentale. Nessun partito o leader palestinese ha mai pensato che la divisione della Terra Santa fosse davvero un’opzione. Allora una simile idea è sembrata assurda, in parte perché, come evidenziato da Ilan Pappe nel suo “La Pulizia Etnica della Palestina”, “quasi tutte le terre coltivate in Palestina appartenevano alla popolazione indigena (araba), (mentre) solo il 5.8 % era di proprietà di ebrei nel 1947”.

Un precedente, ma altrettanto importante, rimando ad uno Stato Palestinese fu fatto dalla commissione Peel, una commissione britannica d’inchiesta presieduta da Lord Peel, che venne inviato in Palestina per indagare sulle motivazioni alla base di uno sciopero generale, una rivolta e più tardi di una ribellione armata che iniziò nel 1936 e si protrasse per circa 3 anni.

La commissione stabilì che le “cause sottostanti ai disordini” fossero sostanzialmente due: il desiderio di indipendenza dei palestinesi e l’astio e il timore per la costituzione della patria nazionale per gli ebrei”. Quest’ultima fu promessa dal governo britannico alla Federazione Sionista della Gran Bretagna e dell’Irlanda nel 1917, nota in seguito come la dichiarazione Balfour.

La commissione Peel consigliò la spartizione della Palestina storica in uno Stato ebraico e in uno palestinese, che sarebbe stato incorporato nella Transgiordania [l’attuale Regno di GIordania. Ndtr.], con enclavi riservate al governo mandatario britannico.

Nel lasso di tempo di 80 anni tra quella raccomandazione e l’avvertimento di Kerry secondo cui la soluzione a due Stati sarebbe “seriamente in pericolo”, davvero poco è stato fatto in termini di passi concreti verso la costituzione di uno Stato palestinese. Ancor peggio, gli Stati Uniti hanno fatto uso ripetutamente del loro potere di veto all’ONU per impedire la costituzione dello Stato palestinese, nonché utilizzato il loro potere politico ed economico di intimidazione nei confronti di chi avesse (anche solo simbolicamente) riconosciuto uno Stato palestinese. Hanno giocato inoltre un ruolo chiave nel finanziare gli insediamenti ebraici illegali in Cisgiordania e a Gerusalemme, rendendo l’esistenza di uno Stato palestinese virtualmente impossibile.

Il punto ora è: perché l’Occidente continua ad utilizzare la “soluzione a due Stati” come parametro politico per giungere ad una risoluzione del conflitto israelo-palestinese mentre, allo stesso tempo, assicura che la sua stessa richiesta di risoluzione non diventi mai una realtà?

La risposta sta, parzialmente, nel fatto che fin dall’inizio la “soluzione a due Stati” non è mai stata concepita fin dall’inizio per essere realizzata. Come il “processo di pace” ed altre finzioni, ha avuto lo scopo di promuovere tra i palestinesi e il mondo arabo l’idea che esista un importante obiettivo per cui battersi, nonostante esso sia inattuabile.

Ma anche quell’obiettivo è stato condizionato da una serie di richieste risultate fin dall’inizio irrealistiche. Storicamente, i palestinesi hanno dovuto rinunciare alla violenza (la loro resistenza armata all’occupazione militare israeliana), acconsentire a varie risoluzioni dell’ONU, (benché Israele ancora rifiuti di riconoscerle), accettare il “diritto” di Israele ad esistere in quanto Stato ebraico, e così via. Lo Stato palestinese, prima ancora di essere costituito, avrebbe dovuto essere demilitarizzato, diviso tra Cisgiordania e Gaza ed escludere buona parte di Gerusalemme Est occupata.

Furono offerte numerose soluzioni “creative”, per ridurre ogni timore israeliano che l’inesistente Stato palestinese, nel caso fosse stato creato, potesse costituire una minaccia per Israele. Talvolta, la discussione in corso riguardava l’idea di una confederazione tra Palestina e Giordania, altre volte, come nelle proposte più recenti del capo del Jewish Home Party [La Casa Ebraica, partito di estrema destra dei coloni. Ndtr], il ministro israeliano Naftali Bennett, quella di trasformare Gaza in uno Stato indipendente e di annettere a Israele il 60% della Cisgiordania.

E quando gli alleati di Israele, delusi dall’ascesa della destra ebraica e dall’ostinazione del primo ministro Benjamin Netanyahu, insistono nell’affermare che è giunto il momento della soluzione a due Stati, esprimono i loro timori sotto forma di un amore estremo. L’attività delle colonie israeliane sta infatti “consolidando enormemente l’irreversibile realtà dello Stato unico” ha detto Kerry la settimana scorsa nel suo discorso politico.

Tale realtà dovrebbe costringere Israele o ad un compromesso circa l’identità ebraica dello Stato (come se avere una identità etnico/religiosa in un moderno Stato democratico fosse una precondizione normale) oppure a lottare contro il fatto di diventare uno Stato di apartheid (come se ciò non fosse già una realtà).

Kerry ha messo in guardia Israele circa il fatto che sarebbe rimasta solo l’opzione di porre i palestinesi “sotto occupazione militare permanente” privandoli della maggior parte delle libertà fondamentali”, aprendo così la strada ad uno scenario di “separazione e disuguaglianza”.

Mentre ci si preoccupava della disintegrazione della possibilità della “soluzione a due Stati”, pochi in realtà hanno cercato di comprendere la realtà dal punto di vista palestinese.

Per i palestinesi, il dibattito sulla necessità di Israele di scegliere tra essere uno Stato democratico o confessionale è risibile. Infatti per loro la democrazia israeliana si applica integralmente solo ai cittadini di origine ebraica e a nessun altro, mentre i palestinesi sono sopravvissuti per decenni dietro muri, recinti, prigioni ed enclave assediate, come nella Striscia di Gaza.

E lo scenario di apartheid fatto di “separazione e diseguaglianza” evocato da Kerry, con due ordinamenti giuridici, due diverse normative e due realtà applicate a due diversi gruppi sullo stesso territorio, si è realizzato nel momento stesso in cui lo Stato di Israele è stato fondato nel 1948.

Secondo un recente sondaggio, due terzi dei palestinesi, stanchi delle illusioni della loro stessa leadership fallimentare, concordano oggi sul fatto che la soluzione a due Stati non sia realizzabile. E questo numero tende ad aumentare tanto velocemente quanto le massicce iniziative di colonizzazione illegale che costellano Gerusalemme e la Cisgiordania occupate.

Questo non è un argomento contro la soluzione a due Stati; quest’ultima è esistita semplicemente come espediente per tranquillizzare i palestinesi, prendere tempo e delimitare il conflitto ad un orizzonte politico illusorio. Se gli Stati Uniti fossero stati davvero interessati alla soluzione a due Stati, avrebbero tenacemente combattuto per realizzarla decenni fa.

Dire oggi che la soluzione a due Stati è superata, significa accettare l’illusione che sia mai stata possibile.

Ciò detto, conviene a tutti capire che la coesistenza, in uno Stato democratico, non è uno scenario oscuro che determinerebbe la fine per la regione.

E’ tempo di abbandonare illusioni irrealizzabili e concentrare tutte le energie per promuovere la coesistenza, basata sull’eguaglianza e la giustizia per tutti.

Infatti, ci può essere tra il fiume [Giordano] e il mare [mediterraneo], un unico Stato,che sia uno Stato democratico per tutta la sua popolazione, indipendentemente dall’etnia o dal credo religioso.

Ramzy Baroud è un editorialista internazionalmente riconosciuto, autore e il fondatore di Palestine Chronicle.com. Il suo ultimo libro è “Mio padre è stato un combattente per la libertà: la storia non detta di Gaza”(My FatherWas a Freedom Fighter: Gaza’sUntold Story)

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore stesso e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Ma’an News Agency.

(traduzione di Viviana Codemo)




Shimon Peres: fondatore di Israele, architetto dell’occupazione

Rori Donaghy

Middle East Eye– mercoledì 28 settembre 2016

Per i suoi sostenitori Peres era una colomba della pace, ma per i suoi critici ha giocato un ruolo chiave nella costruzione di uno Stato israeliano che opprime i palestinesi

Shimon Peres, l’ultimo padre fondatore di Israele, è morto mercoledì all’età di 93 anni dopo che le sue condizioni sono rapidamente peggiorate in seguito a un grave ictus due settimane fa.

I leader mondiali hanno riservato elogi a Peres, compreso l’ex presidente americano Bill Clinton, che lo ha descritto come una “colomba della pace” per il suo ruolo negli accordi di Oslo del 1993 – le prime intese tra leader israeliani e palestinesi, che lo hanno portato a vincere il Nobel per la pace collettivo un anno dopo.

Tuttavia gli elogi non sono stati universali, con critiche che hanno sottolineato il suo ruolo nello sviluppo delle prime colonie israeliane e come primo ministro nel 1996, quando le truppe israeliane massacrarono 154 civili libanesi nella cosiddetta “Operazione Grappoli d’ira”.

Il primo ministro palestinese Mahmoud Abbas, del partito Fatah della Cisgiordania, ha osannato Peres come un “coraggioso”, mentre i suoi rivali di Hamas a Gaza lo hanno definito un “criminale”.

Nato Szymon Perski nel 1923, Peres nel 1934, all’età di 11 anni, si spostò con la sua famiglia dalla terra natale in Polonia verso quello che era allora il Mandato Britannico della Palestina. Dopo essere cresciuto in un kibbutz, Peres si unì al connazionale polacco e in seguito sodale politico David Ben-Gurion, che sarebbe poi diventato il primo premier di Israele.

Peres è stato spesso lodato come uomo che ha dedicato la sua vita a cercare la pace tra israeliani e palestinesi, rifiutando di rinunciare a concludere un accordo fin quando ha iniziato il suoi ultimi dieci anni di vita.

Durante un discorso nel 2014 al memoriale di Yitzhak Rabin – l’ex-primo ministro israeliano che fu assassinato nel 1995 per aver firmato gli accordi di Oslo – Peres incitò il popolo a non rinunciare alla pace.

“La pace è diventata una parola offensiva,” ha detto a migliaia di persone che si erano riunite a Tel Aviv. “Ci sono quelli che dicono che chi crede nella pace è un ingenuo, non è un patriota, un illuso. Ma io dico a voce alta che gli illusi sono quelli che rinunciano alla pace.”

Il tono poetico delle parole di Peres ha spesso guadagnato le prime pagine, valendogli un’immagine di voce della ragione in un conflitto apparentemente irrisolvibile. Tuttavia durante la sua lunga vita di dirigente politico l’eredità di Peres si è costruita attraverso il suo coinvolgimento in decisioni e progetti lontano dai riflettori delle riprese televisive.

Prima della fondazione di Israele a danno della Palestina nel 1948, Peres era un membro dell’Haganah – una milizia ebraica clandestina – e nonostante avesse solo 20 anni venne assegnato al ruolo fondamentale di comprare armamenti e munizioni per la guerra che alla fine portò alle uccisioni in massa e all’espulsione di più di 700.000 palestinesi.

La bomba di Israele

Dopo aver svolto egregiamente il suo ruolo nell’Haganah, nel 1953 fu nominato direttore generale del ministero della Difesa di Israele, dove avrebbe continuato a giocare un ruolo cruciale nello sviluppo di un reattore nucleare segreto nella città di Dimona, nel deserto meridionale del Negev.

Anche se un giorno sarebbe diventato il nono presidente di Israele, così come sarebbe stato per due volte primo ministro, il suo ruolo nello sviluppo delle armi nucleari di Israele, che furono testate per la prima volta negli anni ’60, ha consacrato Israele come una importante potenza militare al di fuori di ogni controllo internazionale.

Più tardi, come ministro della Difesa nel 1975, Peres si incontrò con il governo sudafricano dell’apartheid e offrì di vendergli testate nucleari. Desideroso di mantenere nascoste le proprie attività nucleari, nel 1986 Peres autorizzò la caccia ed il rapimento da parte dei servizi segreti israeliani della “gola profonda” Mordechai Vanunu [che rivelò al Sunday Times che Israele aveva la bomba atomica e per questo venne rapito a Roma, portato in Israele e condannato per tradimento e spionaggio . Ndtr.], che avrebbe passato 18 anni di prigione.

L’artefice della colonizzazione

Peres potrebbe un giorno essere visto come un patrimonio nazionale non solo in Israele, bensì anche a livello internazionale, ma ha giocato un ruolo cruciale nello sviluppo delle colonie illegali ebraiche israeliane sulla terra della Cisgiordania palestinese, avendo notoriamente adottato lo slogan “Colonie ovunque” quando era ministro della Difesa negli anni ’70.

Il suo ruolo nell’estensione del controllo israeliano sulla terra palestinese sarebbe continuato con gli accordi di Oslo, perché, benché fossero lodati come un passo verso la pace, la divisione della Cisgiordania in tre zone alla fine ha fornito la base per il controllo israeliano sulla maggior parte di quello che avrebbe dovuto essere lo Stato palestinese.

Gli accordi hanno portato alla divisione della Cisgiordania in tre zone -A, B e C – e si riteneva che sarebbero durati cinque anni. Ma queste zone continuano ad essere la base su cui la Cisgiordania è governata, con l’area C – sotto totale controllo israeliano – che costituisce poco più del 60% del totale della Cisgiordania.

Massacro di Qana

Da molti critici Peres sarà anche ricordato per il suo ruolo nel massacro di 154 civili libanesi in un attacco ad un villaggio durante l’operazione militare di Israele del 1996 contro Hezbollah [milizia sciita libanese. Ndtr.] nota come “Operazione Grappoli d’ira”.

Peres era il primo ministro di Israele quando il suo esercito attaccò il villaggio di Qana il 18 aprile 1996, bombardando un edificio delle Nazioni Unite in cui circa 800 civili si erano rifugiati per sfuggire ai bombardamenti israeliani

Quando gli fu chiesto dell’attacco contro Qana – che egli difese come un errore – Peres più tardi disse: “Tutto è stato fatto in base ad una chiara logica e in modo responsabile. Ho la coscienza a posto.”

E’ questa narrazione alternativa della vita e dell’eredità di Peres che comporta il fatto che egli non sarà elogiato dai palestinesi a da molti altri.

Reazioni arabe

Mentre i media in lingua inglese insistono con l’immagine di Peres come una colomba della pace, mercoledì i mezzi di informazione arabi hanno presentato un’altra immagine quando hanno informato della sua morte.

Sky News in arabo ha descritto Peres come un “padrino” del programma per la produzione delle armi nucleari di Israele e come il “fondatore delle colonie”. Al Jazeera in arabo lo ha etichettato come un “assassino di massa” che è stato “incoronato con il Premio Nobel”.

La dirigenza dell’Autorità Nazionale Palestinese – che Peres ha contribuito a creare – è stata più elogiativa a proposito del defunto leader israeliano: un importante consigliere del presidente Mahmoud Abbas lo ha descritto come un “uomo di pace”.

“Il suo decesso è sicuramente una grande perdita per l’umanità e per la regione,” ha detto al Jerusalem Post [giornale israeliano in lingua inglese. Ndtr.] Majdi al-Kahlidi, consigliere diplomatico di Abbas.

Tuttavia Awni Almashni, membro di Fatah, il partito di Abbas, ha detto a MEE che Peres era “un nemico del popolo palestinese.”

“Peres credeva nella pace, ma nel senso israeliano, che concede a Israele il potere e il controllo sulla terra,” ha affermato. “Non lo vediamo come un pacificatore.”

Il movimento Hamas di Gaza, fiero rivale di Abbas, ha descritto Peres come un “criminale” della cui morte è “molto contento”.

Il portavoce di Hamas Sami Abu Zuhri ha detto all’Associated Press [agenzia di stampa statunitense. Ndtr]: “Shimon Peres è stato l’ultima personalità importante israeliana rimasta ad aver dato vita all’occupazione, e la sua morte rappresenta la fine di un periodo nella storia di questa occupazione e l’inizio di una nuova fase di indebolimento.”

Il funerale di Peres avrà luogo venerdì nel cimitero nazionale israeliano sul monte Herzl a Gerusalemme, a cui si pensa parteciperanno dirigenti politici da tutto il mondo.

Ma uno che non ci sarà è il politico israeliano-palestinese Basil Ghattas, che ha provocato scandalo in Israele quando ha reagito all’ictus di Peres del 14 settembre scrivendo su Facebook che non sarebbe “corso a partecipare” a un ” festival di dolore e di lutto”.

“Peres era uno dei più poderosi pilastri dell’impresa del colonialismo d’insediamento sionista,” ha scritto il deputato della Knesset [il parlamento israeliano. Ndtr.]. “Uno dei più spietati, estremisti e dannosi per la nazione palestinese.”

“Peres è coperto dalla testa ai piedi del nostro sangue.”

Contattato mercoledì da MEE, Ghattas ha detto che non avrebbe potuto aggiungere niente a quello che aveva già detto su Facebook.

Diana Buttu, una ex-negoziatrice palestinese, ha detto a MEE che il torrente di elogi per Peres ignora la sua reale vita – e che le sue azioni rappresentano crimini di guerra.

“Non è abbastanza chiamare Peres un criminale di guerra perché gliela farebbe passare liscia – egli va oltre,” ha affermato. “Peres ha messo in atto tutta una serie di crimini di guerra da parte di Israele avvenuti senza che ne dovesse rispondere.”

“Quello per cui Peres dovrebbe essere ricordato non è solo il fatto di essere un criminale di guerra ma di aver svuotato di ogni significato la parola ‘pace’. Pace ora può significare pulizia etnica, appoggio all’espansione delle colonie, il bombardamento di un edificio dell’ONU e il possesso di un arsenale nucleare senza essere oggetto di alcuna ispezione internazionale.”

“Pace può significare contravvenire alle leggi internazionali – è per questo che Peres dovrebbe essere ricordato.”

La palestinese Nabila Espanioly, un’attivista femminista del partito Hadash, ha detto a MEE che Peres era “innanzitutto un leader sionista.”

“La sua eredità è rappresentata da massacri e discriminazione,” ha affermato. “Ha fatto un passo verso la pace ma non ha cambiato niente in concreto, tranne la confisca di sempre più terra palestinese.”

“Fino ai suoi ultimi giorni Peres ha affermato il suo impegno per la pace, ma ha sempre avuto chiaro in mente che il popolo ebraico era la sua priorità in ogni possibile accordo.”

Nel 2014 ha detto: “La principale priorità è preservare Israele come Stato ebraico. Questo è il nostro principale obiettivo, per il quale stiamo lottando.”

(traduzione di Amedeo Rossi)