Le radici del conflitto:la Nakba palestinese come parte della più vasta “catastrofe” araba

16 maggio, 2016, Maan News

di Ramzy Baroud

Negli ultimi 68 anni, ogni 15 maggio, i palestinesi commemorano il loro esilio collettivo dalla Palestina . La pulizia etnica della Palestina per fare spazio a una ‘patria ebraica’ è avvenuta a prezzo di una implacabile violenza e di una continua sofferenza. I palestinesi fanno riferimento a questa esperienza che dura tuttora come”Nakba” o “Catastrofe”.

Tuttavia, la ‘Nakba’ non è semplicemente un caso palestinese, ma è anche una ferita araba che continua a sanguinare.

La “Nakba” araba è stata precisamente l’accordo Sykes-Picot del 1916, che ha suddiviso gran parte del mondo arabo tra le potenze occidentali in competizione tra loro. Un anno dopo, la Palestina è stata rimossa del tutto dalla questione araba e “promessa” al movimento sionista in Europa, dando luogo ad uno dei conflitti più duraturi della storia moderna.

Come è potuto accadere?

Quando il diplomatico britannico, Mark Sykes, all’età di 39 anni è deceduto a causa dell’epidemia di spagnola, nel 1919, un altro diplomatico, Harold Nicolson, ha descritto la sua influenza sulla regione mediorientale in questo modo:

“E’stato a causa del suo indefesso impulso e della sua perseveranza, del suo entusiasmo e della sua fede, che il nazionalismo arabo e il sionismo sono diventati due delle nostre cause di guerra di maggior successo.

“Retrospettivamente sappiamo che Nicolson ha parlato troppo presto. La caratteristica del”nazionalismo arabo” cui si riferiva nel 1919 era fondamentalmente diversa dai movimenti nazionalisti che hanno fatto presa in diversi paesi arabi negli anni ’50 e ’60. Lo slogan del nazionalismo arabo negli anni successivi fu la liberazione e l’indipendenza dal colonialismo occidentale e dai suoi alleati locali.

Il contributo di Sykes all’avvento del sionismo non ha nemmeno prodotto una maggiore stabilità. Dal 1948, il sionismo e il nazionalismo arabo sono stati in costante conflitto, provocando deprecabili guerre ed altrettanto continui spargimenti di sangue.

Tuttavia, il contributo duraturo di Sykes per la regione araba è stato il suo ruolo di primo piano nella firma dell’accordo Sykes – Picot noto anche come l’ accordo dell’Asia Minore, un centinaio di anni fa. Quel trattato infame tra la Gran Bretagna e la Francia, che è stato negoziato con il consenso della Russia, ha plasmato la geopolitica del Medio Oriente per un intero secolo.

Nel corso degli anni, le sfide allo status quo imposto dall’ [accordo] Sykes -Picot non sono riuscite a modificare radicalmente i confini arbitrariamente disegnati che dividevano gli arabi in “sfere di influenza” amministrate e controllate dalle potenze occidentali.

Eppure, la persistente eredità [dell’accordo] Sykes – Picot potrebbe eventualmente essere messa in dubbio sotto la pressione delle nuove violente circostanze, con il recente avvento di’Daesh’ e la creazione di una sua propria versione di confini altrettanto arbitrari che comprendono ampie zone della Siria e dell’Iraq, come nel 2014, in concomitanza con l’attuale discussione sulla divisione della Siria in una federazione.

Perché l’accordo Sykes Picot?

L’accordo Sykes-Pycot è stato firmato in conseguenza dei violenti avvenimenti che coinvolsero in quegli anni la maggior parte dell’Europa, dell’Asia, dell’Africa e del Medio Oriente.

Tutto è iniziato quando, nel mese di luglio del 1914, è scoppiata la prima guerra mondiale. L’Impero Ottomano immediatamente ha preso parte alla guerra, schierandosi con la Germania, in parte perché era consapevole del fatto che gli alleati – costituiti principalmente dalla Gran Bretagna, Francia e Russia – avevano l’ambizione di prendere il controllo di tutti i territori ottomani, che includevano anche le regioni arabe della Siria, della Mesopotamia, dell’Arabia, dell’Egitto e del Nord Africa.

Nel novembre del 1915 la Gran Bretagna e la Francia hanno avviato seriamente i negoziati, con lo scopo di dividere l’eredità territoriale dell’Impero ottomano nell’eventualità di una conclusione a loro favore della guerra.

Così, una mappa, disegnata con delle linee rette usando una matita Chinagraph, ha condizionato in gran parte il destino degli arabi, dividendoli in base alle varie ipotesi di appartenenze tribali e di confessioni religiose prese a casaccio.

La divisione del bottino

Mark Sykes è stato il negoziatore per conto della Gran Bretagna e François Georges Picot il rappresentante della Francia. I diplomatici convennero che, una volta che gli ottomani fossero stati sonoramente sconfitti, la Francia avrebbe ricevuto le zone contrassegnate con una (a), che comprendevano la regione del sud- est della Turchia, il nord dell’Iraq, la maggior parte della Siria e il Libano.

L’area ( b) è stata contrassegnata come territori sotto il controllo britannico, che includevano la Giordania, l’Iraq meridionale, Haifa e Acri in Palestina, e la fascia costiera tra il Mare Mediterraneo e il fiume Giordano .

Alla Russia, d’altra parte, sarebbero stati concessi Istanbul, l’Armenia e gli strategici stretti turchi.

L’improvvisata mappa consisteva non solo di linee, ma anche di colori, insieme a un linguaggio attestante il fatto che i due paesi consideravano la regione araba in termini puramente convenzionali, senza prestare la minima attenzione alle possibili ripercussioni del fatto di tagliare a fette intere civiltà aventi una multiforme storia di cooperazione e di conflitto.

L’eredità del tradimento

La prima guerra mondiale terminò l’11 novembre 1918, dopo di che ebbe inizio sul serio la divisione dell’Impero Ottomano .

Gli inglesi e i francesi estesero i [loro] mandati su entità arabe divise, mentre al movimento sionista venne concessa la Palestina, su cui tre decenni più tardi venne formato uno Stato ebraico .

L’accordo, che è stato accuratamente progettato per soddisfare gli interessi coloniali occidentali, ha lasciato dietro di sé un’eredità di divisioni, tensioni e guerre.

Mentre lo status quo ha creato una stabile egemonia dei paesi occidentali sul destino del Medio Oriente, non è riuscito invece a garantire un qualche grado di stabilità politica o a creare un sistema di uguaglianza economica.

L’accordo Sykes – Picot è stato siglato segretamente per un motivo preciso: era completamente in contrasto con le promesse fatte agli arabi durante la Grande Guerra. Alla leadership araba, sotto il comando di Sharif Hussein, era stata promessa, in cambio dell’aiuto agli alleati contro gli ottomani, la completa indipendenza dopo la guerra.

Ai paesi arabi ci sono voluti molti anni e successive ribellioni per ottenere la loro indipendenza. Il conflitto tra gli arabi e le potenze coloniali ha determinato l’ascesa del nazionalismo arabo, che è sorto nel bel mezzo di contesti estremamente violenti e ostili, o più precisamente, come un loro risultato.

Il nazionalismo arabo potrebbe essere riuscito a mantenere una parvenza d’identità araba, ma è fallito nel produrre una risposta valida e unitaria al colonialismo occidentale.

Quando la Palestina – che fu promessa già nel novembre del 1917 [la dichiarazione Balfour, ndt] dalla Gran Bretagna come focolare nazionale per gli ebrei- è diventata Israele, ospitando per lo più coloni europei, il destino della regione araba a est del Mediterraneo è stato marchiato come il territorio del conflitto permanente e dell’antagonismo.

È qui, in particolare, che si percepisce soprattutto la terribile eredità dell’accordo Sykes – Picot in tutta la sua violenza, miopia e spregiudicatezza politica.

Cento anni dopo che due diplomatici, un britannico e un francese, hanno diviso gli arabi in sfere di influenza, l’accordo Sykes – Picot rimane una realtà pugnace ma dominante del Medio Oriente.

Dopo cinque anni che la Siria è in preda a una violenta guerra civile, il marchio Sykes – Picot ancora una volta si fa sentire, in quanto la Francia, la Gran Bretagna, la Russia – e ora gli Stati Uniti – stanno prendendo in considerazione quello che il Segretario di Stato americano, John Kerry, ha recentemente definito il ‘ Piano B ‘ – cioè la divisione della Siria sulla base di linee religiose, probabilmente in accordo con una nuova interpretazione occidentale delle “sfere di influenza”.

La mappa Sykes – Picot può anche essere stata un’ idea rozza disegnata frettolosamente nel corso di una guerra globale, ma, da allora, è diventata il principale quadro di riferimento che l’Occidente usa per ridisegnare il mondo arabo e per “controllarlo come desidera e come ritengono eventualmente opportuno.”

La ‘ Nakba ‘ palestinese, pertanto, deve essere intesa come parte integrante dei vasti disegni occidentali sul Medio Oriente di un secolo fa, quando gli arabi erano (e rimangono) divisi e la Palestina era (e rimane ) conquistata .


Ramzy Baroud è un giornalista accreditato a livello internazionale, scrittore e fondatore di Palestine Chronicle.com. Il suo ultimo libro è “Mio padre era un combattente per la libertà: la storia non raccontata di Gaza”


Le opinioni espresse in quest’articolo sono dell’autore e non rispecchiano necessariamente la politica editoriale dell’Agenzia Ma’an News.


(Traduzione di Carlo Tagliacozzo)




L’antisionismo è antisemitismo?

The News Arab – Pubblicato il 29 aprile 2016

di

Hilary Aked

Nelle scorse settimane la stampa inglese è stata inondata da affermazioni secondo cui dirigenti della sinistra avrebbero fatto affermazioni antisemite.

In qualche caso sono persino stati fatti commenti apertamente razzisti e sollevati legittimi timori. Ma di fatto altre sono state manifestazioni di anti-sionismo. Le affermazioni di Malia Bouattia, la nuova presidentessa eletta dell’Unione Nazionale degli Studenti del Regno Unito, in assoluto la prima donna di colore a ricoprire questo ruolo, sono forse il più evidente esempio di quest’ultimo caso.

I media hanno dato spazio a quanti sostengono esplicitamente che l’antisemitismo e l’antisionismo sono “la stessa cosa”. Ma questa commistione è pericolosa e sbagliata. Tende a mascherare un movimento politico (il nazionalismo ebraico) con un’identità etnico- religiosa (l’ebraismo). Oltre ad essere analiticamente sbagliato, ciò è anche privo di una base empirica.

L’ideologia sionista presenta varie tendenze, ma tutte le varianti del sionismo politico sono unificate dalla fede nella giustezza di uno Stato nazionale per gli ebrei. Il trattato di Theodor Herzl [il padre del sionismo. Ndtr.] Der Judenstaat [Lo Stato ebraico] del 1896 fornisce una delle più autorevoli dichiarazioni iniziali di questo movimento, che non è esistito da molto più di un secolo e che è stato, per quasi la metà di questo tempo, un movimento politico veramente marginale all’interno delle comunità ebraiche.

Benché oggi sia vero che la maggioranza degli ebrei probabilmente affermi di appoggiare il sionismo, ci sono ancora importanti minoranze che non lo fanno e che non lo hanno mai fatto, per una vasta gamma di ragioni, sia religiose che politiche.

Oltretutto, la generazione più giovane si sta sempre più allontanando dal sionismo persino nelle sue forme teoretiche ed astratte, proprio a causa di quello che il sionismo attualmente esistente – incarnato nel moderno Stato di Israele – sta facendo e che ha continuato a fare in concreto per decenni. Lo testimonia, ad esempio, la recente crescita negli Stati Uniti di “Jewish Voice for Peace” [“Voci ebraiche per la pace”], che appoggia il Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS) per far pressione su Israele affinché rispetti i diritti dei palestinesi.

In particolare negli Stati Uniti, oggi il movimento politico sionista si fonda in larga misura sul Sionismo cristiano. Come ha concisamente sintetizzato il “Gruppo di Ebrei socialisti” [collettivo di ebrei socialisti nato in Gran Bretagna negli anni ’70. Ndtr.]: non tutti gli ebrei sono sionisti e non tutti i sionisti sono ebrei.

Proprio per aver fatto una distinzione tra Ebraismo e Sionismo, Bouattia è stata accusata da Hannah Weisfeld, del gruppo sionista liberale “Yachad”, di dimostrare una “mancata comprensione dell’identità ebraica”. Si tratta di una versione attenuata della tesi secondo cui i due concetti sono sinonimi. Purtroppo sono invece le affermazioni di Weisfeld che rischiano di fomentare l’antisemitismo, in quanto sembrano implicitamente insinuare che tutto il popolo ebraico è in qualche modo intrinsecamente legato alle azioni oppressive di Israele.

Questo concetto è stato in realtà già smentito da un tribunale britannico. Quando il professor Ronnie Fraser ha sostenuto che il suo sindacato era antisemita per aver preso in considerazione il boicottaggio di Israele, le sue argomentazioni sono state rigettate e il tribunale ha osservato che “credere nel progetto sionista o il legame con Israele…non fa intrinsecamente parte dell’Ebraismo.”

Quindi, se l’antisionismo non è antisemitismo, che cos’è?

Nella sua originaria incarnazione, il movimento sionista – che si è sviluppato nel contesto dell’imperialismo britannico ed europeo in Medio Oriente – si è identificato come un movimento coloniale; una delle sue prime istituzioni, per esempio, era denominata “Autorità per la colonizzazione ebraica”. Nel contempo, lo stesso Herzl scrisse al colonialista inglese Cecil Rhodes – la cui statua all’università di Oxford era diventata il simbolo di un nascente movimento antirazzista – chiedendogli di appoggiare il suo progetto, che egli definì “coloniale”.

Ma quando si svilupparono e conquistarono la libertà movimenti anti-colonialisti in tutto il mondo i gruppi a favore di Israele sentirono la necessità di dare una nuova etichetta al sionismo. Lo hanno fatto in modo molto efficace; oggi il sionismo è presentato come un “movimento di liberazione” e l’antisionismo è accusato di negare “il diritto all’esistenza” di Israele, benché non esista un simile concetto nelle leggi internazionali.

Tutto ciò nonostante il fatto che i diritti fondamentali del popolo palestinese – tra molti altri, quelli alla vita, al ritorno alle proprie case, alla libertà di movimento – siano, e siano stati per decenni, negati. Incredibilmente, siamo spinti a credere che non sia pericoloso lo Stato nazione etnicamente esclusivista responsabile di queste violazioni, ma che lo siano quelli che criticano l’ideologia sionista che è alla base di questo regime.

Significativamente, ciò non implica che gli antisionisti non possano essere antisemiti. A volte le due cose si sovrappongono. Ciò non esclude neppure la comprensione del fatto che, dopo gli orrori dell’Olocausto, il crescente appoggio al sionismo in linea di principio fosse per molti versi comprensibile.

Ma il sionismo non è solo una questione astratta e la maggior parte degli antisionisti non stanno cercando “di negare il diritto dei popolo ebraico all’autodeterminazione”, come spesso viene sostenuto oggi. Semplicemente essi fanno notare il dato storico per cui ciò è stato realizzato, attraverso la creazione dello Stato di Israele, e conservato a spese degli abitanti nativi del territorio.

Mentre i palestinesi si preparano a celebrare i 68 anni della Nakba, è tempo che più persone in Occidente imparino che uno dei principali ‘successi’ del sionismo è stata la pulizia etnica di 700.000 palestinesi, che sono ancora oggi rifugiati, così come i loro discendenti.

Di fronte alla fine del paradigma dei due Stati e alla riemersione dell’idea di una soluzione per uno Stato unico – che significherebbe la fine del progetto sionista – così come alla crescita del BDS, il rinnovato tentativo di equiparare antisionismo ed antisemitismo è una mossa fondamentalmente disperata da parte dei sostenitori di Israele.

In effetti le testimonianze di forte antirazzismo di gente come Malia Bouattia sono assolutamente coerenti con l’opposizione al sionismo. I palestinesi sono esplicitamente oppressi dallo Stato di Israele in base alla loro identità etnica. Dalle strade esclusivamente per ebrei agli insediamenti illegali (colonie), il sionismo concreto ha significato una società basata sui privilegi etnici di un gruppo e sulla subordinazione dell’altro. Oggi l’antisionismo non è né più né meno che l’opposizione a Israele in quanto Stato coloniale di insediamento.

Hilary Aked è un’analista e ricercatrice i cui studi di dottorato riguardano l’influenza della lobby israeliana nel Regno Unito.

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità dell’autrice e non riflettono necessariamente quelle di “The News Arab”, del suo comitato editoriale o della sua redazione.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Analisi: gli arabi hanno tradito la Palestina?

30 aprile 2016, aggiornato 2 maggio 2016, Ma’an News

Di Ramzy Baroud

Ramzy Baroud è un giornalista accreditato a livello internazionale, scrittore e fondatore di PalestineChronicle.com. Il suo ultimo libro è “Mio padre era un combattente per la libertà: la storia non detta di Gaza”

All’età di 21 anni ho attraversato il confine da Gaza all’Egitto per conseguire una laurea in scienze politiche. Il momento non avrebbe potuto essere peggiore. L’invasione irachena del Kuwait nel 1990 aveva condotto ad una coalizione internazionale guidata dagli USA e ad un grave conflitto, che alla fine ha spianato la strada all’invasione dell’Iraq da parte degli Stati Uniti nel 2003. Mi resi conto che i palestinesi vennero da subito “odiati” in Egitto a causa dell’appoggio di Yasser Arafat all’Iraq a quell’epoca. Solo non conoscevo la portata di quel presunto “odio”.

E’ stato in un modesto albergo del Cairo, dove ho pian piano speso i pochi denari egiziani che avevo a disposizione, che ho incontrato Hajah Zainab, una gentile vecchia custode che mi ha trattato come un figlio. Aveva un aspetto malsano, camminava zoppicando e si appoggiava ai muri per prendere fiato prima di proseguire nei suoi incessanti lavori domestici. I tatuaggi sul suo viso, un tempo disegnati accuratamente, erano diventati macchie di inchiostro raggrinzito che deturpava la sua pelle. Eppure la gentilezza dei suoi occhi aveva la meglio e appena mi vedeva mi abbracciava e piangeva.

Hajah Zainab piangeva per due motivi: aveva pena per me perché avevo a che fare con un ordine di deportazione del Cairo – per la sola ragione che ero un palestinese nel momento in cui Arafat appoggiava Saddam Hussein, mentre Hosni Mubarak sceglieva di allearsi con gli Stati Uniti. La mia disperazione cresceva e mi angosciava la possibilità di affrontare l’intelligence israeliana, lo Shin Bet, che poteva convocarmi nei suoi uffici una volta che avessi attraversato il confine per tornare a Gaza. L’altro motivo era che l’unico figlio di Hajah Zainab, Ahmad, era morto combattendo gli israeliani nel Sinai.

La generazione di Zainab considerava le guerre dell’Egitto con Israele, quella del 1948, del 1956 e del 1967, come guerre in cui una delle cause principali era la Palestina. Nessuna politica egoista e nessun condizionamento mediatico avrebbe potuto modificare ciò. Ma la guerra del 1967 fu quella della totale sconfitta. Con l’appoggio diretto e massiccio degli Stati Uniti e di altre potenze occidentali, gli eserciti arabi furono sonoramente sconfitti, battuti su tre differenti fronti. Gaza, Gerusalemme est e la Cisgiordania furono perdute, insieme alle Alture del Golan, la Valle del Giordano ed anche il Sinai.

Fu allora che i rapporti di alcuni paesi arabi con la Palestina iniziarono a cambiare. La vittoria di Israele ed il costante appoggio di Stati Uniti e dell’ occidente convinsero alcuni governi arabi ad abbassare le loro pretese e auspicavano che anche i palestinesi facessero lo stesso. L’Egitto, che era stato il portabandiera del nazionalismo arabo, cedette ad un senso collettivo di umiliazione ed in seguito ridefinì le sue priorità con l’obbiettivo di liberare la propria terra dall’occupazione israeliana. Privi della cruciale leadership egiziana, gli stati arabi si divisero in campi differenti, ogni governo con la propria strategia. La Palestina intera era allora sotto controllo israeliano e gli arabi lentamente si allontanarono da una causa che un tempo era considerata la causa principale della nazione araba.

La Guerra del 1967 pose anche fine al dilemma di un’azione indipendente palestinese, di cui si appropriarono quasi del tutto vari paesi arabi. Inoltre la guerra spostò l’attenzione sulla Cisgiordania e Gaza e consentì alla fazione palestinese Fatah di rafforzare la propria posizione alla luce della sconfitta araba e della conseguente divisione.

Tale divisione venne alla luce pienamente al summit di Khartoum dell’agosto 1967, in cui i leaders arabi si scontrarono su priorità e definizioni. Le conquiste territoriali di Israele dovrebbero ridefinire lo status quo? Gli arabi dovrebbero concentrarsi sul ritorno alla situazione precedente il 1967 o a quella precedente il 1948, quando la Palestina storica fu occupata per la prima volta ed i palestinesi furono fatti oggetto di una pulizia etnica?

Il 22 novembre 1967 il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite adottò la Risoluzione 242, che rispecchiava il desiderio dell’amministrazione americana Johnson di avvantaggiarsi del nuovo status quo: il ritiro di Israele “dai territori occupati” in cambio della normalizzazione con Israele.

Il nuovo linguaggio del periodo immediatamente successivo al 1967 allarmò i palestinesi, che si resero conto che qualunque assetto politico futuro avrebbe ignorato la situazione preesistente alla guerra.

Infine, l’Egitto combatté e celebrò la sua vittoria nella Guerra del 1973, che gli consentì di consolidare il controllo sulla maggior parte dei suoi territori perduti. Alcuni anni dopo, gli accordi di Camp David nel 1979 divisero ancor di più le fila degli arabi e posero fine alla solidarietà ufficiale dell’Egitto con i palestinesi, garantendo allo stato arabo più popoloso un controllo condizionato sul proprio territorio nel Sinai. Le ripercussioni negative di quell’accordo non possono essere sopravvalutate. Comunque il popolo egiziano, nonostante il passare del tempo, non ha mai veramente normalizzato i rapporti con Israele.

In Egitto esiste ancora una frattura tra il governo, il cui comportamento si basa sull’urgenza politica e sull’autoconservazione, ed il popolo che, nonostante una campagna anti-palestinese imposta su vari media, è come sempre determinato a rifiutare la normalizzazione con Israele finché la Palestina non sia libera. A differenza del ben finanziato circo mediatico che negli ultimi anni ha demonizzato Gaza, gli amici di Hajah Zainab dispongono di pochissimi programmi in cui possono apertamente esprimere la loro solidarietà con i palestinesi. Nel mio caso, sono stato abbastanza fortunato da imbattermi nella vecchia custode che piangeva per la Palestina e per il suo unico figlio tanti anni fa.

Tuttavia quello stesso spirito, di Zainab, mi si è presentato nuovamente nel mio percorso di viaggi, diverse volte. Lo incontrai in Iraq nel 1999. Era incarnato in una vecchia venditrice di verdura che viveva a Sadr City. Lo incontrai in Giordania nel 2003. Si trattava di una taxista, con una bandiera palestinese che sventolava dal suo specchietto retrovisore. Era anche una giornalista saudita in pensione che incontrai a Gedda nel 2010, e una studentessa marocchina incontrata in un giro di conferenze a Parigi nel 2013. Aveva poco più di vent’anni. Dopo il mio intervento, mi disse piangendo che la Palestina per il suo popolo era come una ferita aperta. “Prego ogni giorno per una Palestina libera”, mi disse, “come facevano i miei defunti genitori in ogni preghiera.”

Hajah Zainab è anche l’Algeria, tutta l’Algeria. Quando la nazionale di calcio palestinese ha incontrato la squadra algerina, lo scorso febbraio, si è verificato uno strano fenomeno mai visto prima, che lasciò molti attoniti. I tifosi algerini, tra i più accesi amanti del calcio di ogni dove, hanno tifato per i palestinesi, per tutta la partita. E quando la squadra palestinese ha segnato un goal, è stato come se gli spalti si incendiassero. L’affollato stadio è esploso in un canto entusiasta per la Palestina e solo per la Palestina. Allora, gli arabi hanno tradito la Palestina? La domanda si sente spesso ed è spesso seguita da un affermativo “si, lo hanno fatto”. I media egiziani che fanno dei palestinesi dei capri espiatori a Gaza, i palestinesi perseguitati ed affamati a Yarmouk in Siria, la scorsa guerra civile in Libano, le vessazioni dei palestinesi in Kuwait nel 1991 e più tardi in Iraq, sono esempi spesso citati. Adesso alcuni sostengono che la cosiddetta “primavera araba” sia stata l’ultimo colpo di grazia alla solidarietà araba con la Palestina.

Vi prego di non fare confusione. Il risultato della sfortunata “primavera araba” è stato una grandissima delusione, se non un tradimento, non solo per i palestinesi, ma per la maggior parte degli arabi. Il mondo arabo è diventato il terreno per sporche politiche tra vecchi e nuovi avversari. Se i palestinesi ne sono stati vittime, i siriani, gli egiziani, i libanesi, gli yemeniti ed altri lo stanno diventando anche loro.

Si deve fare una chiara distinzione politica del termine “arabi”. Arabi possono essere dei governi non eletti altrettanto quanto lo può essere una gentile vecchietta che guadagna due dollari al giorno in un infimo albergo del Cairo. Arabe sono le potenti elites che si preoccupano solo dei propri privilegi e ricchezze, mentre non gli importa né dei palestinesi né delle loro proprie nazioni, ma lo sono anche tanti popoli, differenti, unici, emancipati, oppressi, che si trovano in questo momento storico a consumarsi per la propria sopravvivenza e lottano per la libertà.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale dell’Agenzia Ma’an News.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




La disgregazione politica, la cultura e l’identità nazionale palestinese

16 marzo 2016

Al-Shabaka

di Jamil Hilal

Al-Shabaka è un’organizzazione indipendente no-profit il cui obiettivo è di stimolare e far progredire il dibattito pubblico sui diritti umani e l’autodeterminazione dei palestinesi nel quadro delle leggi internazionali.

Il commentatore politico di Al-Shabaka Jamil Hilal è un sociologo indipendente e scrittore palestinese ed ha pubblicato molti libri e numerosi articoli sulla società palestinese, il conflitto arabo-israeliano e sui problemi del Medio Oriente.

Il campo politico palestinese, dominato dall’Organizzazione della Liberazione della Palestina (OLP) fin dalla fine degli anni ’60, è stato disintegrato da quando in base agli accordi di Oslo è stata fondata l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP). Qual è stato l’impatto della supremazia dell’OLP e quali sono state le ripercussioni della sua disgregazione per la classe politica palestinese? E fino a che punto la disgregazione del campo politico ha colpito quello culturale e il suo contributo all’identità nazionale palestinese? Queste sono le questioni affrontate in questo articolo.

Il predominio dell’OLP nel contesto politico palestinese è iniziato nel 1968 dopo la battaglia di Al-Karameh [città giordana in cui avvenne uno scontro tra l’esercito israeliano, quello giordano e i guerriglieri palestinesi e fu considerato una sconfitta per gli israeliani. Ndtr.], che le ha permesso di istituire un relazione centralizzata con le comunità palestinesi nella Palestina storica, in Giordania, in Siria, in Libano, nel Golfo, in Europa e nelle Americhe. Queste comunità hanno sostanzialmente accettato l’OLP come proprio unico rappresentante legittimo, nonostante le influenze esterne su di essa, compresa la sua pesante dipendenza da aiuti esterni, gli alti e bassi dei suoi rapporti con il Paese di residenza e le sue relazioni regionali ed internazionali. In conseguenza di ciò, le condizioni e caratteristiche specifiche di ogni comunità sono state ignorate, così come le prerogative nazionali, sociali e organizzative.

Dalla sua posizione dominante, l’OLP è stata anche in grado di consolidare le pratiche delle elite politiche comuni al mondo arabo e a livello internazionale, ma che non avrebbero dovuto mettere radici all’interno del popolo palestinese a causa della sua dispersione territoriale e della lotta per la liberazione. Il fatto che l’OLP sia emersa ed abbia funzionato in un contesto regionale ed internazionale ostile alla democrazia sia in teoria che in pratica ha contribuito a questo sviluppo. La regione araba è stata dominata da regimi con un’ideologia totalitaria e nazionalistica, così come da monarchie ed emirati teocratici autoritari; la democrazia era vista come un concetto occidentale estraneo e colonialista. Allo stesso tempo, l’OLP e le sue fazioni hanno formato alleanze con i paesi socialisti e del Terzo Mondo, pochi dei quali godevano della democrazia politica. La natura parassitaria delle istituzioni e delle fazioni dell’OLP e la dipendenza dall’aiuto e dal sostegno di Paesi arabi e socialisti non democratici ha rafforzato un approccio elitario e non-democratico alla politica.

Un terzo aspetto dell’egemonia dell’OLP è stato che le sue fazioni sono state sottoposte a una militarizzazione formale fin dall’inizio, in parte a causa dei conflitti armati dell’OLP con regimi arabi ostili e in parte per il fatto di essere costantemente attaccate da Israele. Questa militarizzazione formale, opposta alle tattiche belliche della guerriglia, ha aiutato a giustificare la relazione estremamente centralizzata tra la dirigenza politica e i suoi sostenitori.

Tra gli anni ’70 e i ’90 le fazioni e le istituzioni dell’OLP hanno sofferto molti duri colpi a causa dei cambiamenti della situazione regionale e internazionale. Questi hanno incluso l’espulsione dalla Giordania in seguito agli scontri armati nel 1970-71; la guerra civile scoppiata in Libano nel 1975, l’invasione israeliana nel 1982, l’espulsione dell’OLP dal Paese e i massacri di Sabra e Shatila; la guerra contro i campi palestinesi in Libano del 1985-86. La Prima Intifada (la rivolta popolare) contro Israele in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza alla fine del 1987 è stata anche il periodo nel quale l’islam politico per la prima volta ha occupato il contesto politico palestinese (1988). Il collasso dell’Unione Sovietica alla fine del 1989, la prima guerra del Golfo nel 1990-91 e il conseguente isolamento finanziario e politico dell’OLP hanno notevolmente eroso le sue alleanze e le sue fonti di finanziamento.

Le ripercussioni della disgregazione

Durante la Prima Intifada, l’elite politica palestinese non ha capito l’importanza di riorganizzare il movimento nazionale palestinese né di ricostruire le relazioni tra la dirigenza centralizzata e le varie comunità palestinesi. Inoltre l’OLP non ha trovato un modo per affrontare l’islamismo politico quando è emerso sulla scena palestinese come una filiazione della “Fratellanza musulmana” e non ha integrato Hamas nelle istituzioni politiche palestinesi. Allo stesso tempo, Hamas non si è ridefinito come un movimento nazionale. Il movimento politico palestinese, che è stato in un primo tempo indicato come un movimento nazionale o come una rivoluzione ha iniziato a essere citato come “il movimento nazionale ed islamico.”

Infatti la Prima Intifada ha portato la dirigenza politica a centralizzare ulteriormente i processi decisionali: ha firmato gli accordi di Oslo senza consultare le forze politiche e sociali all’interno o fuori dalla Palestina. Oslo ha fornito all’OLP la razionalizzazione politica, organizzativa ed ideologica per marginalizzare le istituzioni rappresentative nazionali palestinesi che esistevano, con l’argomento che stava costruendo il nucleo di uno Stato palestinese. L’ANP è stata esclusa dall’occuparsi dei palestinesi in Israele ed ha perso interesse fin da subito verso i palestinesi in Giordania. I suoi rapporti con loro, così come con i palestinesi in Libano, in Siria, nei Paesi del Golfo, in Europa e in America sono stati largamente ridotti a formalità burocratiche attraverso le sue ambasciate e gli uffici di rappresentanza in quei Paesi.

Quando la definizione dell’ANP come un’autorità con un autogoverno limitato su alcune parti della Cisgiordania e della Striscia di Gaza non ha portato ad uno Stato palestinese, le elite politiche sono state private di un potenziale centro di sovranità statale; ciò ha accelerato la disgregazione del movimento nazionale. La vittoria di Hamas nelle elezioni legislative del 2006 ed il suo controllo sulla Striscia di Gaza nel 2007 hanno contribuito alla frammentazione dell’autorità di auto-governo in due entità sovrane, una rimasta su una parte della Cisgiordania e l’altra nella Striscia di Gaza. Entrambe queste autorità rimangono sottoposte all’occupazione ed al controllo di uno Stato coloniale d’insediamento che continua a colonizzare in modo aggressivo la terra e ad espellere palestinesi dai due lati della Linea Verde [il confine tra Israele e la Giordania precedente all’occupazione del 1967. Ndtr.]

La disgregazione del campo politico nazionale ha avuto una serie di ripercussioni. Le istituzioni rappresentative nazionali sono svanite e le elite politiche locali sono diventate dominanti. I dirigenti hanno derivato la loro “legittimazione” dalla loro posizione del passato nel partito o nell’organizzazione e dalla loro interazione diplomatica con Stati regionali ed istituzioni internazionali. Il discorso che è prevalso localmente ed internazionalmente ha ridotto la Palestina ai territori occupati nel 1967 e il popolo palestinese a quelli che vivono sotto l’occupazione israeliana, marginalizzando quindi i rifugiati e gli esiliati così come i palestinesi con cittadinanza israeliana. L’apparato di sicurezza in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza è cresciuto considerevolmente come dimensioni e come destinatario di risorse nel bilancio generale. La natura parassitaria delle autorità nelle due aree era legata alla dipendenza dagli aiuti esterni e dal trasferimento di fondi, e l’influenza dei capitali privati nelle loro economie si è accresciuta.

Ci sono stati anche significativi mutamenti fondamentali nella struttura sociale in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Questi mutamenti includono la comparsa di una classe media relativamente estesa che fornisce di personale le istituzioni e le agenzie dell’ANP in aree come l’educazione, la salute, la sicurezza, le finanze e la pubblica amministrazione, così come nei settori di nuovi servizi, in quelli bancari e nelle molte ONG che sono state fondate. Intanto la classe lavoratrice si è ridotta di dimensioni. Le disuguaglianze tra diversi segmenti della società sono aumentate e il tasso di disoccupazione è rimasto alto, soprattutto tra i giovani ed i neolaureati. La mentalità dell’ “impiego pubblico” si è diffusa, sostituendo la forma mentis del combattente per la libertà. Benché Fatah e Hamas si autodefiniscano come movimenti di liberazione, sono stati trasformati in strutture gerarchiche e burocratiche e mirano in buona misura alla propria sopravvivenza.

Le elite politiche ed economiche non si vergognano di ostentare i propri privilegi ed il proprio benessere nonostante continui l’occupazione coloniale repressiva. La classe media in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza sa molto bene che i propri standard e stili di vita sono legati all’esistenza di queste due autorità di auto-governo. Tuttavia la maggior parte della popolazione rimane sottoposta all’oppressione ed all’umiliazione da parte delle forze militari israeliane e dei coloni armati, e non patisce solo per la mancanza di una vita decente e di un futuro lavorativo, ma anche della mancanza di una qualunque soluzione nazionale in futuro. L’assedio draconiano di Israele ed Egitto contro Gaza rimane più che mai pesante, punteggiato di devastanti guerre israeliane, e la pulizia etnica dei palestinesi da Gerusalemme continua inesorabile, per mezzo di espulsioni, cancellazione di permessi e una vasta gamma di altre modalità.

Queste condizioni costituiscono la premessa per una situazione esplosiva nei territori occupati nel 1967. Però, poiché l’OLP, i partiti politici, il settore privato e la maggior parte delle organizzazioni della società civile non si sono mobilitati o non hanno potuto mobilitarsi contro l’occupazione, gli scontri con le forze di occupazione militare di Israele e con i coloni nell’”ondata di collera” in corso dall’ottobre 2015 sono rimasti per lo più atti individuali, con caratteristiche locali, senza una visione unitaria e una dirigenza nazionale.

La disgregazione del campo politico palestinese ha anche portato ad una crescente oppressione e discriminazione contro le comunità palestinesi in tutta la Palestina storica così come nella diaspora. I cittadini palestinesi nella parte di Palestina che è diventata Israele nel 1948 devono far fronte a una serie crescente di leggi discriminatorie. Anche i rifugiati palestinesi in e da Siria, Libano, Giordania ed altrove devono affrontare discriminazioni ed abusi. Soprattutto, lo status della causa palestinese ha conosciuto un passo indietro nel mondo arabo e a livello internazionale, una situazione esacerbata dalle guerre interne ed esterne in alcuni Paesi arabi.

Eppure la cultura fiorisce e alimenta l’identità nazionale

Oggi il popolo palestinese non ha né uno Stato sovrano né un efficace movimento di liberazione nazionale. Tuttavia c’è un considerevole rafforzamento dell’identità nazionale palestinese, dovuto in buona parte al ruolo del settore culturale nel mantenimento e nell’arricchimento della narrazione palestinese. Il ruolo della cultura per alimentare l’identità ed il patriottismo palestinesi ha una lunga storia. Dopo la creazione dello Stato di Israele nel 1948 e la sconfitta delle elite politiche dell’epoca e del movimento nazionale, la minoranza palestinese in Israele ha sostenuto l’identità nazionale attraverso un significativo fiorire culturale: poesia, narrativa, musica e cinema.

Lo scrittore e giornalista palestinese Ghassan Kanafani lo ha colto nel suo notevole libro sulla letteratura resistenziale palestinese (al-adab al-mukawim fi filistin al-muhtala 1948-1966 [Letteratura della resistenza nella Palestina occupata. Ndtr.]), pubblicato a Beirut nel 1968. Altre figure letterarie fondamentali comprendono i poeti Mahmoud Darwish e Samih Al Qasim, il sindaco di Nazareth e poeta Tawfik Zayyad e lo scrittore Emile Habibi, sia nelle sue opere, come il “Pessottimista”, che attraverso il giornale comunista Al-Ittihad, di cui è stato uno dei fondatori.

Negli anni ’50 e ’60, quando gli israeliani hanno mantenuto i cittadini palestinesi sotto governo militare, la letteratura, la cultura e le arti sono servite a rafforzare e proteggere la cultura e l’identità arabe e la narrazione nazionale palestinese. Questi lavori sono stati letti in tutto il mondo arabo e altrove, e hanno permesso ai rifugiati palestinesi e agli esiliati di conservare la propria identità attraverso i continui legami con la cultura e l’identità della propria patria.

I “palestinesi del 1948”, come sono spesso definiti nel discorso palestinese, hanno giocato anche un ruolo nell’informare gli altri palestinesi ed arabi sul modo in cui l’ideologia sionista modella la politica israeliana e sui meccanismi di controllo repressivo. Molti degli studiosi ed intellettuali palestinesi del ’48 sono approdati nei centri di ricerca palestinesi ed arabi a Beirut, a Damasco e altrove ed hanno aiutato a sviluppare questa comprensione.

Da allora, soprattutto in periodi di crisi politica, il settore culturale ha offerto ai palestinesi maggiori possibilità rispetto alla sfera politica per unirsi in attività che trascendessero i confini geopolitici con forme e generi culturali ed ogni sorta di produzione intellettuale. Letteratura, cinema, musica e arte continuano ad essere prodotti, ed in misura sempre maggiore, andando da scrittori, registi ed artisti noti in tutto il mondo fino ai giovani artisti e scrittori di oggi a Gaza, in Cisgiordania e tra i palestinesi all’estero. Tutto ciò viene diffuso in moltissimi modi, comprese le reti sociali, favorendo e rafforzando i legami tra palestinesi e tra arabi e l’interazione al di là dei confini.

La vitalità del patriottismo palestinese è radicata nella narrazione storica palestinese e si basa sulle esperienze quotidiane delle comunità che affrontano la spoliazione, l’occupazione, la discriminazione, l’espulsione e la guerra. E’ forse questa vitalità che porta i giovani palestinesi, molti dei quali nati dopo gli accordi di Oslo del 1993, ad affrontare i soldati israeliani ed i coloni in ogni parte della Palestina storica. Ciò spiega anche le grandi folle che partecipano ai cortei funebri dei giovani palestinesi uccisi dai soldati e dai coloni israeliani e nella raccolta di fondi per ricostruire le case demolite dai bulldozer israeliani come punizione collettiva delle famiglie di quanti sono stati uccisi nell’attuale rivolta giovanile.

Tuttavia evidenziare l’importanza e la vitalità del settore culturale non colma l’assenza di un valido movimento politico, costruito su solide basi democratiche. Dobbiamo imparare dalle lacune delle istituzioni originali del movimento e superarle, piuttosto che sprecare forze, tempo e risorse per recuperare un quadro politico disintegrato e decaduto. Dobbiamo anche andare oltre quei concetti e quelle pratiche che l’esperienza ci ha mostrato aver fallito, come l’altissimo livello di centralizzazione: le politiche devono essere affidate al popolo ed alla base. Dobbiamo anche salvaguardare la nostra cultura nazionale da concetti ed approcci che asserviscono le menti, paralizzano il pensiero e il libero arbitrio, promuovono l’intolleranza, santificano l’ignoranza e nutrono i miti. Dovremmo piuttosto favorire i valori di libertà, giustizia e uguaglianza.

Abbiamo bisogno di una visione totalmente nuova dell’azione politica. Una tale visione può essere intravista nel linguaggio che sta prendendo forma tra i gruppi di giovani e nei rapporti tra le forze politiche palestinesi all’interno della Linea Verde, che riflettono una profonda coscienza dell’impossibilità di convivere con il sionismo in quanto ideologia razzista e regime coloniale di insediamento che criminalizza la narrazione storica palestinese.

Al cuore di questa emergente coscienza politica si trova la necessità di coinvolgere le comunità palestinesi nel processo di discussione, stesura e adozione di politiche nazionali inclusive: si tratta sia di un loro diritto che di un loro dovere. E’ ugualmente importante riconoscere il diritto di ogni comunità a definire la propria strategia nell’affrontare gli specifici problemi che deve affrontare mentre partecipa all’autodeterminazione di tutto il popolo palestinese.

Costruire un nuovo movimento politico non sarà facile a causa dei crescenti interessi di fazione e il timore di principi e pratiche democratici. Quindi è necessario incoraggiare iniziative di base per creare leadership locali, con la più ampia partecipazione possibile da parte di individui e istituzioni della comunità, seguendo il promettente esempio dei palestinesi del ’48 nell’ organizzare l'”Alto Comitato di Monitoraggio per i cittadini arabi di Israele” per difendere i loro diritti ed interessi, e dei palestinesi della Cisgiordania e di Gaza nella Prima Intifada. Anche il movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) è un esempio di successo di questo nuovo tipo di consapevolezza politica e di organizzazione, che riunisce diverse fazioni politiche, organizzazioni della società civile e sindacati dietro una visione ed una strategia unitarie.

Qualcuno potrà pensare che questa discussione è utopica o idealista, ma noi abbiamo disperatamente bisogno di ideali nell’attuale caos e faziosità distruttiva. E abbiamo una ricca storia di attivismo politico e di creatività culturale a cui attingere.

(Traduzione di Amedeo Rossi)




I giovani palestinesi soffrono di un continuo disagio, l’occupazione israeliana.

Parlando di Terza Intifada, i palestinesi con meno di 30 anni discutono su chi vedono alla testa delle ultime violenze.

Al Jazeera

Mentre le prime pagine dei media si concentrano sui drammatici attacchi all’arma bianca da parte di palestinesi e israeliani, gli uni contro gli altri, contemporaneamente nelle ultime settimane migliaia di giovani palestinesi sono scesi in strada in Israele, a Gerusalemme est, in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza per chiedere la fine della pluridecennale occupazione israeliana, per protestare contro le violenze delle forze di sicurezza israeliane e dei coloni e per chiedere il riconoscimento dei loro diritti umani.

Ovviamente gli accoltellamenti sono una novità, mentre le proteste sono di lunga data – tranne per il fatto che oggi coinvolgono una nuova generazione di palestinesi, quelli che sono cresciuti nell’epoca del processo di pace di Oslo e delle conseguenti frustrazioni e fallimenti. Come le proteste della prima Intifada nel 1987, alcune delle manifestazioni di oggi sono pacifiche, mentre altre si sono trasformate in scontri con le forze di sicurezza israeliane.

Mentre i veterani palestinesi e gli analisti affrontano la questione se gli attuali avvenimenti presentino le caratteristiche di una nuova intifada, Al Jazeera si è messa in contatto con un certo numero di palestinesi con meno di 30 anni in tutta la regione. Abbiamo posto loro due domande:

1) Chi pensi che diriga l’attuale rivolta?

2) Se queste proteste e questi scontri continueranno, come ti aspetti che risponderanno le forze di sicurezza israeliane, i coloni e l’Autorità Nazionale Palestinese?

Alcune delle loro risposte sono state tradotte dall’arabo, altre sono state espresse in inglese ma sono state corrette.

Lema Nazeeh

Avvocata di 27 anni di Ramallah, Cisgiordania

Questa sollevazione popolare è spontanea e chi la guida è la nuova generazione – soprattutto studenti medi ed universitari. Questa volta siamo scesi in strada e abbiamo raddoppiato la resistenza ovunque, a cominciare da Gerusalemme fino alla Cisgiordania e a Gaza. Stanno partecipando anche i palestinesi che vivono nei territori del ’48 [in Israele]. Il messaggio della nuova generazione è che la Palestina sarà libera e che siamo determinati a porre fine all’occupazione e al terrorismo dei coloni in Cisgiordania e a Gerusalemme.

Per continuare, abbiamo bisogno di creare un comitato unitario in cui il popolo si possa organizzare e dirigere il movimento al di fuori dell’establishment politico.

I palestinesi di qualunque parte devono essere uniti nella resistenza contro l’occupazione – manifestando a Gaza, Gerusalemme, Haifa, Ramallah, Betlemme, Yaffa ed Hebron. Finché continuerà l’occupazione dobbiamo continuare a resistere per una vita di libertà e dignità.

Le forze di sicurezza israeliane ed i coloni continueranno con la loro violenza e il terrorismo contro di noi, ma noi, il popolo, abbiamo una sola voce, che il governo israeliano, i gruppi sionisti e i membri della comunità internazionale complici dei crimini israeliani contro i palestinesi non potranno mai far tacere. Non è il momento di aver paura.

Fadi Salah Al Shaik Yousef

28 anni, specialista in sviluppo infantile a Gaza City, Gaza

Questa intifada popolare, che non è organizzata né diretta da nessuna autorità, è una reazione normale a tutti gli anni di ingiustizia, di crimini e di umiliazioni perpetrati da Israele contro il popolo palestinese. Considerando il grande numero di palestinesi uccisi e feriti per mano delle forze di sicurezza israeliane si tratta di una reazione assolutamente normale.

Queste proteste e questi scontri accadono perché il popolo palestinese ha perso ogni speranza nei propri dirigenti, persino nell’umanità. Abbiamo scoperto che le soluzioni pacifiche non stanno portando alla fine dell’occupazione – per cui dobbiamo continuare a resistere.

La gente di Gaza ormai non ha più niente da perdere, per cui siamo pronti ad aiutare in ogni caso la Cisgiordania. Noi marciamo fino alla frontiera con Israele e protestiamo per dire ai nostri fratelli in Cisgiordania che siamo solidali con loro e respingeremo ogni attacco israeliano contro di loro.

Israele e l’Autorità Nazionale Palestinese possono tentare di controllare la situazione, ma non ci riusciranno. Nessuno lo può fare. E’ anche difficile prevedere dove porterà tutto questo. Siamo abituati al fatto che Israele commetta dei crimini e poi faccia la parte della vittima. Non mi aspetto che questo cambi. Da parte sua l’Autorità Nazionale Palestinese deve cessare ogni forma di coordinamento in materia di sicurezza con l’occupante.

Come questo finirà dipenderà dalla volontà del popolo e dal livello di sostegno diretto o indiretto che riceveremo dalle varie fazioni palestinesi.

Nadine Khoury

16 anni, studentessa di scuola superiore a Taybeh, in Cisgiordania

Vorrei puntualizzare che questo non sta succedendo solo da una settimana. Ho vissuto qui in Palestina da circa tre anni e mezzo e mi sono resa conto che questi atti inumani sono molto comuni nella vita palestinese (il che non li rende meno tragici).

Penso effettivamente che i palestinesi stiano cercando di iniziare una terza intifada perché ne hanno abbastanza di vivere accanto a questa gente che continua a prendersi la loro terra, a uccidere i loro figli ed hanno realmente il coraggio di fare e giustificare tutto ciò. Tuttavia, anche se sono d’accordo che una terza insurrezione può essere la nostra unica possibilità di liberarci dell’occupazione israeliana, non penso che ora sia il momento migliore. I palestinesi non hanno la tendenza a pensare ed agire tutti insieme, per cui, finché non troveranno un’unità, personalmente non penso che ci sarà un’intifada. Vivendo in Palestina, posso notare la brutalità da ambo le parti per cui, per il momento, non vedo che la situazione si possa calmare  a breve.

Se e finché questi scontri continueranno, credo che le forze di sicurezza israeliane ed i coloni seguiteranno ad usare la forza, in ogni modo possibile, per reprimere una terza intifada. Israele vuole solo mantenere il controllo sul popolo palestinese e sulla indebolita Autorità Nazionale Palestinese. So che il popolo palestinese continuerà a lottare ardentemente per la propria terra, i propri diritti e la propria libertà. Una kefiah (hatta, copricapo palestinese, ndt.) e una pietra non sono niente rispetto a un giubbotto antiproiettile e a un cecchino. Purtroppo è una lotta impari e il mondo sta a guardare quello che succede.

Omar Daraghmeh

27 anni, traduttore a Tubas, Cisgiordania

La recente violenza è il risultato dell’assenza di un qualunque orizzonte politico tra i palestinesi e le autorità d’occupazione israeliane a causa della continua aggressione israeliana (dell’esercito e dei coloni) contro i palestinesi in generale e la profanazione della sacra moschea di Al-Aqsa in particolare.

Le tensioni spariranno e la tranquillità verrà gradualmente ripristinata a meno che la più ampia maggioranza della popolazione palestinese si unisca alla sollevazione, sopratutto i gruppi armati palestinesi nei campi di rifugiati della Cisgiordania o nella Striscia di Gaza sotto assedio.

Ci si aspetta che Israele scateni una guerra contro Gaza mentre darà mano libera ai coloni e chiuderà Gerusalemme e la Cisgiordania e intensificherà la campagna di arresti.

D’altra parte l’Autorità Nazionale Palestinese se ne verrà fuori con le sue inutili dichiarazioni, terrà qualche “riunione d’emergenza” e chiederà una “protezione internazionale” per i palestinesi mentre contemporaneamente reprimerà ogni protesta palestinese contro l’occupazione.

Tarek Bakri

29 anni, ingegnere e ricercatore a Gerusalemme

Forse quello che è successo alla moschea di Al-Aqsa ha spinto molti altri a partecipare alla rivolta, ma la vedo come qualcosa di più grande. Riguarda l’occupazione e le sue politiche. A un certo punto crediamo che ci sia  una parte che sta eliminando l’altra. Gli israeliani stanno portando avanti una sorta di lenta pulizia etnica a Gerusalemme  attraverso esecuzioni immediate e seminando la paura per fare in modo che i palestinesi lascino la città. Israele vuole che Gerusalemme abbia una maggioranza ebraica.

Non possiamo rimanere in silenzio di fronte a queste umiliazioni quotidiane. Succederà che i palestinesi alzeranno il livello della resistenza. Nel frattempo aumenterà la violenza dei coloni. Ma le forze di sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese rimarranno a guardare.

Raya Shamali

17 anni, studentessa di scuola superiore ad Arraba, Israele

La tensione tra le due parti è sempre stata  alta ed ogni tanto qualcosa la scatena e la rende più evidente. L’attuale situazione sta portando a scontri ancora peggiori tra i sionisti e i palestinesi e tra i cittadini palestinesi di Israele e il governo.

Ciò che sta avvenendo ora, i giovani palestinesi che lottano contro l’occupazione, è simile a quello che è successo nella seconda intifada, durante la quale questa generazione è cresciuta. Purtroppo è probabile che ciò porti a molti morti da entrambe le parti e colpisca in tutti gli ambiti della vita.

Finché le proteste continuano, mi aspetto che le forze di sicurezza israeliane continueranno nella repressione e nel razzismo verso i palestinesi. Mi aspetto anche che i coloni israeliani intervengano in modo più deciso.

E’ difficile dire cosa faranno le forze di sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese. O cercheranno di porre fine a quello che stanno facendo quelle israeliane, cosa che ci potrebbe portare a una guerra, o reprimeranno i manifestanti in modo che la situazione non diventi ancora peggiore.

Mustafa Staiti

29 anni, fotografo cinematografico a Jenin, Cisgiordania

Per la mia generazione – nata a metà degli anni ’80 durante la prima rivolta e che ha vissuto la seconda in tutti i suoi aspetti – è più facile avere un’opinione su quando tutto ciò diventerà quello che chiamiamo intifada. Una nuova azione può obbligare il mondo a trovare una soluzione finale per i palestinesi, o terminare con un altro disastro ad aggiungersi alla pulizia etnica a danno dei palestinesi. Quelli che scendono in strada adesso sono di una generazione più giovani di me. Sono nati nel culmine della violenza durante la seconda intifada – sono arrabbiati, senza paura e non gli importa quello che gli possa succedere. Non hanno niente da perdere; hanno sempre vissuto in guerra.

L’Autorità Nazionale Palestinese è instabile perché è legata ad accordi che dovrebbe mandare al diavolo, ma ciò porterebbe a una divisione o ad una violenza tra palestinesi. Israele cercherà di occupare più terra e continuerà ad usare la mano pesante. I coloni saranno i più soddisfatti se l’esercito israeliano invaderà la Cisgiordania e se si avanzerà verso l’idea di un unico Stato di Israele [compresi i Territori Occupati].

Mariam Barghouti

22 anni, studentessa universitaria a Ramallah, Cisgiordania

Credo ci sia una grande discrepanza tra il dibattito in corso all’estero sul fatto  se questa sia una terza intifada o no e la realtà sul terreno, dove questa discussione appare insensata. Al di là delle etichette, i giovani palestinesi stanno esprimendo il proprio malessere contro l’aggressione israeliana e i fallimenti della dirigenza palestinese per trovare una concreta soluzione per il popolo palestinese.

La grande maggioranza dei giovani che scendono in piazza ha tra i 13 e i 27 anni. E’ importante notarlo perché questa è la generazione di Oslo. E’ una generazione che non conosce una realtà oltre il muro dell’apartheid o le tattiche repressive dell’Autorità Nazionale Palestinese. Quello a cui stiamo assistendo non sono solo casuali atti di violenza, questa frustrazione ha infettato il popolo palestinese ormai da anni, stiamo lentamente implodendo. Piccoli atti di protesta in Cisgiordania, razzi da Gaza, scontri nella Palestina storica [Israele], tutto questo va a braccetto. Non possiamo decontestualizzare la situazione attuale dal passato. Ogni reazione è stata preceduta da un’azione, sia che si tratti del progressivo aumento dell’aggressione israeliana o della repressione da parte dell’Autorità Nazionale Palestinese. Non è solo uno scontro  nei confronti dell’aggressione israeliana, ma un messaggio all’Autorità Nazionale Palestinese che si creerà una rivolta se continueranno la normalizzazione dell’occupazione, tenendo tranquillo Israele grazie al coordinamento per la sicurezza, pretendendo contemporaneamente di parlare in nome dei palestinesi.

Questo è un momento cruciale, in cui i giovani diventano protagonisti. Le voci che erano rimaste assenti dalle politiche israelo-palestinesi stanno erompendo attraverso il suono di cori, pietre, accoltellamenti e qualunque altro metodo disponibile. Non si può dire dove finirà tutto ciò, ma non credo che adesso sia importante. La situazione potrebbe benissimo terminare con l’aiuto dell’Autorità Nazionale Palestinese, succube di Israele; oppure l’escalation potrebbe continuare ad aumentare finché formeremo una dirigenza dal basso che possa iniziare a formulare delle richieste. Comunque il messaggio chiaro è che per ogni azione c’è una reazione e questa è la reazione della gioventù palestinese al  fallimento dei negoziati e alle continue aggressioni israeliane.

Finché gli scontri continueranno da parte dei giovani palestinesi, le forze di sicurezza israeliane risponderanno nell’unico modo che conoscono, cioè con la violenza. E’ insito nella loro struttura coloniale opprimere e opporsi ad ogni forma di resistenza palestinese. E’ una tattica istituzionalizzata e non una reazione alle manifestazioni palestinesi. Le vite dei coloni sono state turbate dai palestinesi, non si sentono più a loro agio nella loro opera di colonizzazione e ciò potrebbe avere uno di questi due risultati, potrebbero accentuare  la violenza contro i palestinesi (come vediamo attualmente), o capire che la colonizzazione non gli conviene economicamente o socialmente e questo potrebbe obbligarli a voler lasciare le loro colonie. La differenza tra i giovani palestinesi e i coloni israeliani è che i giovani palestinesi non hanno dietro di loro un appoggio, si sostengono uno con l’altro. D’altra parte i coloni hanno il sostegno dell’esercito israeliano e naturalmente del sistema giudiziario israeliano, che non li incolperà né li condannerà per le continue violenze perpetrate contro i palestinesi.

Quanto alle forze di sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese, non agiranno senza un ordine della dirigenza dell’Autorità Nazionale Palestinese. Attualmente stanno permettendo ai giovani palestinesi di scontrarsi con le forze di sicurezza israeliane non per un sincero appoggio al popolo palestinese, ma perché stanno attenti a che la rabbia  in piazza non si rivolga contro di loro. D’altro canto ho detto “permettono” ai giovani, perché l’Autorità Nazionale Palestinese ha ancora il potere di placare l’ira dei giovani che scendono in strada. Il silenzio dell’Autorità Nazionale Palestinese potrebbe benissimo essere un metodo per lasciare che i giovani che manifestano si stanchino invece di cercare di tranquillizzare le masse come fanno di solito. Quello che è orribile comunque è la possibilità che l’Autorità Nazionale Palestinese utilizzi lo spirito dei giovani in piazza come una merce di scambio con Israele per rafforzare la propria legittimità in Cisgiordania come l’unica autorità in grado di ottenere la calma e controllare le masse palestinesi e obbligare Israele a tornare al tavolo dei negoziati.

Stilato da Renee Lewis, Ehab Zahriyeh, Nadeem Muaddi e Nadia AbuShaban

(Traduzione di Amedeo Rossi)




Il regime israeliano di apartheid ordina la demolizione della scuola a Ein Samiya

28 agosto 2022 – Stop the wall

Mentre gli studenti in tutto il mondo aspettano la riapertura della scuola quelli palestinesi di Ein Samiya attendono con angoscia l’imminente demolizione della loro da parte di Israele. Se non si interviene per sventare questo piano per questi alunni i sogni di un futuro migliore attraverso l’accesso all’istruzione potrebbero finire sepolti dalle macerie della loro scuola se i bulldozer israeliani la abbatteranno.

All’inizio di questo mese il tribunale distrettuale israeliano a Gerusalemme, su richiesta dell’Amministrazione Civile dell’esercito di occupazione israeliano, ha emanato un ordine di demolizione contro la scuola di Ein Samiya. L’edificio è stato costruito nel gennaio 2022 su terreni privati donati da un palestinese di Kafr Malik (Ramallah).

Secondo Montaser Al- Malki, un attivista di movimenti di base a Ein Samiya: “Gli studenti della comunità beduina di Ein Samiya una volta andavano a piedi lontano, fino al villaggio di Kufr Malik, percorrendo strade insicure e fangose, specialmente in inverno. Erano spesso oggetto di attacchi dei coloni, sotto il sole d’estate e nei freddi inverni. La costruzione della scuola ha risparmiato agli alunni tutte queste traversie”. E aggiunge: “Noi crediamo che la sua presenza nella zona proteggerebbe i terreni dalla confisca e sarebbe uno dei fattori che rinforzerebbe la determinazione della comunità a resistere all’espansione delle colonie israeliane.”

La demolizione della scuola al servizio dell’espansione coloniale

La demolizione che incombe sulla scuola di Ein Samiya fa parte della sistematica pulizia etnica da parte di Israele dei palestinesi della zona e specialmente delle comunità beduine. Il sistema israeliano di apartheid sta usando politiche di apartheid contro gli studenti dell’Area C [in base agli accordi di Oslo sotto il pieno controllo israeliano, ndt]. Negare ai palestinesi uno dei diritti umani, quello all’istruzione, crea un contesto coercitivo per costringere i palestinesi ad andarsene dalle proprie terre e impossessarsene a favore dei coloni illegali.

La scuola Ras Al-Tin a Ein Samiya è l’esempio perfetto delle politiche israeliane di pulizia etnica attuata privando i palestinesi del loro diritto all’istruzione. La scuola Ras Al-Tin, edificata nel 2020, è stata utilizzata solo per un mese poiché poco dopo i bulldozer l’hanno ridotta in macerie. La distruzione, che ha coinciso ed è stata seguita dall’intensificarsi delle demolizioni di abitazioni e dalla sistematica violenza dell’esercito, si è conclusa nel 2022 con lo sfratto della comunità di Ras Al-Tin. Per il regime di apartheid di Israele i 120 palestinesi che ci vivevano erano stati per decenni un ostacolo all’espansione delle colonie israeliane.

Il valore economico di Ein Samiya l’ha resa vulnerabile a fronte dell’espansione delle colonie israeliane e delle strade di collegamento solo per ebrei. Ein Samiya è una zona agricola di 58.000 dunam [5.800 ettari]. Ha anche abbondanti risorse idriche grazie alle sei sorgenti che soddisfano le necessità delle migliaia di palestinesi residenti nei villaggi situati a nord del distretto di Ramallah.

Questo è il motivo per cui, come parecchie comunità beduine palestinesi nell’Area C, anche quella di Ein Samiya è vittima di varie pratiche e politiche israeliane di apartheid delle risorse idriche. Inoltre la comunità di Ein Samiya affronta continuamente la riduzione delle proprie terre, specialmente quelle da pascolo, come anche sistematici attacchi dei coloni.

Scuole in pericolo nell’Area C

Il caso della scuola di Ein Samiya non è l’unico di questo tipo.  Parecchie scuole nell’Area C sono minacciate da imminenti abbattimenti da parte delle autorità israeliane di occupazione.  Un totale di 51 edifici scolastici palestinesi sono costantemente minacciati di demolizione. Dal 2019 a oggi 43 scuole situate nell’Area C e 8 a Gerusalemme Est hanno ricevuto un ordine di demolizione parziale o totale.

Per esempio nella valle del Giordano cinque scuole ne hanno ricevuti parecchi e potrebbero essere rase al suolo in qualsiasi momento. Si stanno distruggendo edifici scolastici palestinesi a rischio nella valle del Giordano e un tendone sul terreno della scuola a Khirbet Al-Maleh. Questa sovraffollata scuola che va fino alla quarta elementare consiste di quattro aule per oltre 40 studenti di Khirbet Al-Maleh e delle due comunità beduine dei dintorni, Ein Al-Helweh e Al-Farsiya. 

Nel 2020 Stop the Wall ha lanciato, sul posto e internazionalmente, la campagna per il Diritto all’istruzione volta a sostenere il diritto all’educazione dei palestinesi nell’Area C. Nel corso del 2020 Stop the Wall ha operato per migliorare l’ambiente educativo e renderlo più adatto ai bambini nella scuola e nell’asilo del villaggio arabo di Al-Ka’abneh. Abbiamo anche ristrutturato e costruito altre scuole e asili nella valle del Giordano. 

(tradotto dall’inglese da Mirella Alessio)