Secondo il partito Laburista il mio operato come attivista antirazzista e antisionista fa di me un antisemita

Haim Bresheeth

14 febbraio 2020 – Mondoweiss

A Jennie Formby

Partito Laburista

Southside 105 Victoria Street

London SW1E 6QT

11/2/2020

Cara Jennie Formby,

le scrivo in seguito ai recenti avvenimenti – l’espulsione di Jo Bird e l’eccellente lettera di Natalie Strecker [scrittrice laburista che ha mandato in precedenza una lettera simile, ndtr.] -, in quanto le vorrei chiedere, per le ragioni che dettaglierò qui sotto, di deferirmi cortesemente alla commissione dei probiviri per “antisemitismo”.

Per supportare la mia richiesta vorrei raccontarle i miei trascorsi. Sono un accademico, scrittore e regista, e un ebreo ex-israeliano che è stato attivo per oltre cinquant’anni come socialista, antisionista e antirazzista. I miei genitori erano ebrei polacchi, sopravvissuti ad Auschwitz e ad altri campi. Finirono per essere obbligati a seguire le marce della morte verso l’interno del Terzo Reich dopo che il campo di Auschwitz venne svuotato dalle SS a metà gennaio del 1945. Mia madre venne liberata dall’esercito inglese a Bergen-Belsen, mio padre dalle forze statunitensi a Mauthausen. Sono nato in un campo per sfollati in Italia e sono arrivato in Israele da neonato, nel giugno 1948, in quanto allora nessun Paese europeo accettava sopravvissuti all’Olocausto.

Ho fatto il servizio militare nell’esercito israeliano (IDF) come giovane ufficiale di fanteria ed ho preso parte a due guerre, nel 1967 e nel 1973, dopo di che sono diventato un pacifista impegnato. Sono venuto a studiare in Gran Bretagna nel 1972, e poco dopo ho imparato molto più sul sionismo di quando ero in Israele, diventando quindi un acceso sostenitore dei diritti dei palestinesi e un attivista antisionista. Come iscritto al partito Laburista, negli anni ’70 sono stato un attivo sostenitore del movimento contro l’apartheid e in tutta la mia vita ho lottato contro le organizzazioni razziste. I miei film, libri e articoli riflettono le stesse opinioni politiche qui evidenziate, compresi, tra gli altri, un libro di successo sull’Olocausto (Introduction to the Holocaust [Introduzione all’Olocausto], con Stuart Hood, 1994, 2001 2014) un documentario della BBC (State of Danger [Condizione di pericolo], con Jenny Morgan, BBC2, marzo 1988) sulla Prima Intifada e un volume in uscita sull’esercito israeliano (An Army Like No Other [Un esercito senza pari], May 2020). Quando Jeremy Corbyn è stato eletto alla direzione del partito, dopo decenni sono tornato nel partito Laburista in quanto, dopo anni di blairismo, ho riacquistato speranza in un programma progressista per il partito.

È chiaro che, secondo le conclusioni del partito Laburista in base all’errata “definizione” di antisemitismo dell’IHRA, o piuttosto alla versione brandita come un’arma dalla propaganda sionista, intesa a colpire i sostenitori dei diritti umani e politici dei palestinesi, il mio passato mi rende un antisemita. Ma vorrei aggiungere qualche altra prova a carico, in modo da rendere, se possibile, il caso inoppugnabile.

Nel corso dei decenni in vari Paesi – in Israele, in Europa e negli USA – ho partecipato a centinaia di manifestazioni contro la brutalità israeliana ed ho agito contro le atrocità commesse dall’occupazione militare. Ho pubblicato articoli, fatto film e contribuito a molti libri, ho parlato ampiamente in molti Paesi contro la colonizzazione israeliana militarizzata della Palestina, la negazione di qualunque diritto alla maggior parte dei palestinesi, le gravissime violazioni dei diritti umani e politici dei cittadini palestinesi di Israele e l’impatto brutale delle IDF [Israeli Defence Forces, l’esercito israeliano, ndtr.] sulla società ebraica israeliana. In un recente articolo, scritto da una prospettiva antisionista e per i diritti umani, ho anche analizzato la falsa natura della campagna IHRA. Sono attivo in molti gruppi politici affiliati o vicini al partito Laburista, che appoggiano i diritti dei palestinesi – Jewish Voice for Labour [Voce ebraica per il partito Laburista] e Jewish Network for Palestine [Rete ebraica per la Palestina], di cui sono un membro fondatore.

Sono consapevole che, in base alle regole del partito Laburista, quanto detto finora costituisce quello che voi definite antisemitismo.

Personalmente mi è chiaro che tali accuse sono false ed esecrabili, ma nessuno ha interpellato gli iscritti sull’adozione della definizione dell’IHRA e dei suoi esempi. La definizione adottata rende Israele l’unico Stato al mondo che non si può criticare, a meno che non si voglia andare incontro ad accuse di antisemitismo. Criticare l’Impero britannico, ad esempio, non è antibritannico e in questo preciso momento è ancora permesso dalle norme del partito Laburista. Criticare il governo USA per i suoi attacchi contro l’Iraq nel 1991 e nel 2003 non è antiamericano, ed è ancora consentito dalle leggi USA. Criticare il colonialismo di apartheid israeliano non è antisraeliano, né antisemita, ovviamente. Ciò che è antisemita e razzista sono le attuali regole del partito, e finché non saranno modificate, ebrei e altri che appoggiano la Palestina non hanno ragioni per appoggiare un partito che li tratta in questo modo.

Le norme del partito Laburista sono quello che sono. Tuttavia non ho intenzione di interrompere le mie attività, di ridurle o di abbandonare i miei principi per soddisfare la logica distorta del partito Laburista. Insisto sul mio diritto, anzi, sul mio dovere come ex-israeliano, come ebreo, come cittadino, come socialista e, infine ma non meno importante, come essere umano di agire apertamente contro l’apartheid israeliano e di criticare questo e le ingiustizie finché sarò in grado di farlo. Credo anche che come membro di un partito che pensavo fosse diventato un’organizzazione politica progressista, questo debba essere mio diritto e dovere, ma ho compreso che le mie attività sono contro il dogma, le norme e gli attuali interessi del partito Laburista, per cui attraverso questa lettera mi autoaccuso apertamente e le chiedo di deferirmi alla commissione dei probiviri in modo che venga fatta giustizia e che io venga trattato come i miei molti amici che si sono trovati nella stessa difficile situazione – il professor Moshe Machover, Jackie Walker, Elleanne Green, Tony Greenstein, Glyn Secker e molti altri che si sono trovati di fronte al sistema inquisitorio stalinista messo in atto dal partito Laburista. Se voi volete separare gli “ebrei buoni” da quelli “cattivi”, la prego di includermi in quest’ultimo gruppo, perché niente della mia produzione accademica, storia di insegnante, bibliografia o attività politica può sostenere l’affermazione che non sono antisemita in base alle vostre norme. Chiedo che sia fatta giustizia.

Sono fiducioso che la mia richiesta verrà presa seriamente in considerazione e che le venga dato seguito, con lo stesso insieme di fretta, fanatismo e pregiudizi dimostrato nei confronti di altri membri già accusati di questa trasgressione. Non farlo equivarrà ad evidenziare che i criteri per giudicare l’esistenza dell’antisemitismo non sono applicati in modo uniforme.

Sono pronto a fornire tutte le prove richieste dagli inquirenti della commissione dei probiviri per dimostrare la mia colpevolezza. Vi prego di non esitare a chiedere collaborazione sui punti che rimangono poco chiari.

Con i miei ossequi.

Prof. Haim Bresheeth

Il professor Haim Bresheeth è docente e ricercatore associato della SOAS, School of Interdisciplinary Studies [Scuola di Studi Interdisciplinari] e direttore di Camera Obscura Films [casa cinematografica di produzione e distribuzione, ndtr.].

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




L’ONU ha reso nota una lista di imprese che hanno rapporti con le illegali colonie israeliane

Areeb Ullah

12 febbraio 2020 – Middle East Eye

Airbnb, Booking.com, Expedia, JCB, Opodo, TripAdvisor e Motorola sono tra le 112 imprese citate dal Consiglio per i Diritti Umani

Il Consiglio per i Diritti Umani dell’ONU (OHCHR) ha pubblicato una lista a lungo attesa di imprese che operano nelle illegali colonie israeliane.

Nel documento sono elencate più di 100 aziende, comprese 18 imprese internazionali, che stanno lavorando nelle colonie della Cisgiordania e a Gerusalemme est occupate.

Le imprese internazionali inserite nel documento includono Airbnb, Booking.com, Expedia, JCB, Opodo, TripAdvisor e Motorola Solutions. 

Michelle Bachelet, alta commissaria ONU per i diritti umani, ha affermato che la lista è stata stilata “dopo un approfondito e accurato processo di controllo”.

Sono consapevole che questo problema è stato e continuerà ad essere molto controverso,” ha affermato Bachelet in un comunicato.

Tuttavia, dopo un approfondito e accurato processo di controllo siamo convinti che questo rapporto basato su dati di fatto rifletta la seria attenzione che è stata dedicata a questo incarico senza precedenti e molto complesso, e che risponda in modo adeguato alla richiesta del Consiglio per i Diritti Umani contenuta nella risoluzione 31/36.”

Imprese che l’ONU mette in relazione con le illegali colonie israeliane

Impresa

Paese coinvolto

1

Afikim Public Transportation Ltd.

Israele

2

Airbnb Inc.

Stati Uniti

3

American Israeli Gas Corporation Ltd.

Israele

4

Amir Marketing and Investments in Agriculture Ltd.

Israele

5

Amos Hadar Properties and Investments Ltd.

Israele

6

Angel Bakeries

Israele

7

Archivists Ltd.

Israele

8

Ariel Properties Group

Israele

9

Ashtrom Industries Ltd.

Israele

10

Ashtrom Properties Ltd.

Israele

11

Avgol Industries 1953 Ltd.

Israele

12

Bank Hapoalim B.M.

Israele

13

Bank Leumi Le-Israel B.M.

Israele

14

Bank of Jerusalem Ltd.

Israele

15

Beit Haarchiv Ltd.

Israele

16

Bezeq, the Israel Telecommunication

Corp Ltd.

Israele

17

Booking.com B.V.

Olanda

18

C Mer Industries Ltd.

Israele

19

Café Café Israel Ltd.

Israele

20

Caliber 3

Israele

21

Cellcom Israel Ltd.

Israele

22

Cherriessa Ltd.

Israele

23

Chish Nofei Israel Ltd.

Israele

24

Citadis Israel Ltd.

Israele

25

Comasco Ltd.

Israele

26

Darban Investments Ltd.

Israele

27

Delek Group Ltd.

Israele

28

Delta Israel

Israele

29

Dor Alon Energy in Israel 1988 Ltd.

Israele

30

Egis Rail

Francia

31

Egged, Israel Transportation Cooperative Society Ltd.

Israele

32

Energix Renewable Energies Ltd.

Israele

33

EPR Systems Ltd.

Israele

34

Extal Ltd.

Israele

35

Expedia Group Inc.

Stati Uniti

36

Field Produce Ltd.

Israele

37

Field Produce Marketing Ltd.

Israele

38

First International Bank of Israel Ltd.

Israele

39

Galshan Shvakim Ltd.

Israele

40

General Mills Israel Ltd.

Israele

41

Hadiklaim Israel Date Growers Cooperative Ltd.

Israele

42

Hot Mobile Ltd.

Israele

43

Hot Telecommunications Systems Ltd.

Israele

44

Industrial Buildings Corporation Ltd.

Israele

45

Israel Discount Bank Ltd.

Israele

46

Israel Railways Corporation Ltd.

Israele

47

Italek Ltd.

Israele

48

JC Bamford Excavators Ltd.

Regno Unito

49

Jerusalem Economy Ltd.

Israele

50

Kavim Public Transportation Ltd.

Israele

51

Lipski Installation and Sanitation Ltd.

Israele

52

Matrix IT Ltd.

Israele

53

Mayer Davidov Garages Ltd.

Israele

54

Mekorot Water Company Ltd.

Israele

55

Mercantile Discount Bank Ltd.

Israele

56

Merkavim Transportation Technologies Ltd.

Israele

57

Mizrahi Tefahot Bank Ltd.

Israele

58

Modi’in Ezrachi Group Ltd.

Israele

59

Mordechai Aviv Taasiot Beniyah 1973 Ltd.

Israele

60

Motorola Solutions Israel Ltd.

Israele

61

Municipal Bank Ltd.

Israele

62

Naaman Group Ltd.

Israele

63

Nof Yam Security Ltd.

Israele

64

Ofertex Industries 1997 Ltd.

Israele

65

Opodo Ltd.

Regno Unito

66

Bank Otsar Ha-Hayal Ltd.       

Israele

67

Partner Communications Company Ltd.

Israele

68

Paz Oil Company Ltd.

Israele

69

Pelegas Ltd.

Israele

70

Pelephone Communications Ltd.

Israele

71

Proffimat S.R. Ltd.

Israele

72

Rami Levy Chain Stores Hashikma Marketing 2006 Ltd.

Israele

73

Rami Levy Hashikma Marketing Communication Ltd.

Israele

74

Re/Max Israel

Israele

75

Shalgal Food Ltd.

Israele

76

Shapir Engineering and Industry Ltd.

Israele

77

Shufersal Ltd.

Israele

78

Sonol Israel Ltd.

Israele

79

Superbus Ltd.

Israele

80

Supergum Industries 1969 Ltd.

Israele

81

Tahal Group International B.V.

Olanda

82

TripAdvisor Inc.

Stati Uniti

83

Twitoplast Ltd.

Israele

84

Unikowsky Maoz Ltd.

Israele

85

YES

Israele

86

Zakai Agricultural Know-how and inputs Ltd.

Israele

87

ZF Development and Construction

Israele

88

ZMH Hammermand Ltd.

Israele

89

Zorganika Ltd.

Israele

90

Zriha Hlavin Industries Ltd.

Israele

91

Alon Blue Square Israel Ltd.

Israele

92

Alstom S.A.

Francia

93

Altice Europe N.V.

Olanda

94

Amnon Mesilot Ltd.

Israele

95

Ashtrom Group Ltd.

Israele

96

Booking Holdings Inc.

Stati Uniti

97

Brand Industries Ltd.

Israele

98

Delta Galil Industries Ltd.

Israele

99

eDreams ODIGEO S.A.

Lussemburgo

100

Egis S.A.

Francia

101

Electra Ltd.

Israele

102

Export Investment Company Ltd.

Israele

103

General Mills Inc.

Stati Uniti

104

Hadar Group

Israele

105

Hamat Group Ltd.

Israele

106

Indorama Ventures P.C.L.

Thailandia

107

Kardan N.V.

Olanda

108

Mayer’s Cars and Trucks Co. Ltd.

Israele

109

Motorola Solutions Inc.

Stati Uniti

110

Natoon Group

Israele

111

Villar International Ltd.

Israele

112

Greenkote P.L.C.

Regno Unito

Il rapporto evidenzia anche che 60 imprese sono state tolte da un precedente elenco compilato dall’OHCHR.

La lista è stata pubblicata dopo che nel 2016 il Consiglio per i Diritti Umani ha approvato la risoluzione 31/36 ed ha richiesto informazioni su imprese “coinvolte in alcune specifiche attività legate alle colonie israeliane nei Territori Palestinesi Occupati.”

Anche l’ex alto commissario ONU Zeid Raad al-Hussein ha confermato che la lista delle imprese è stata ricavata da informazioni di dominio pubblico e da una serie di fonti. Secondo il Consiglio per i Diritti Umani, le imprese elencate hanno agevolato la costruzione di colonie, fornito loro apparecchiature per la sorveglianza o servizi per la sicurezza alle imprese che vi lavorano.

In base alle leggi internazionali le colonie israeliane su terre conquistato da Israele nella guerra del 1967 in Medio Oriente sono considerate illegali.

Altre categorie citate nel rapporto includono la fornitura di macchinari per la demolizione di edifici e la partecipazione ad attività che “danneggiano” le attività economiche palestinesi attraverso l’applicazione di restrizioni agli spostamenti.

Commentando la pubblicazione della lista, il movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni guidato dai palestinesi ha affermato che l’ONU è stata “significativa” ma “incompleta”.

La banca dati è incompleta. Deve essere aggiunta qualunque impresa che sia complice del regime di apartheid israeliano e delle sue gravi violazioni dei diritti dei palestinesi in base al diritto internazionale, per assicurare il fatto che ne paghi le conseguenze,” ha affermato il BDS in un comunicato. 

Bruno Stagno, vice direttore esecutivo di Human Rights Watch per la difesa ha affermato che l’elenco dovrebbe “mettere in guardia” tutte le imprese che intendano lavorare con le colonie israeliane. “La pubblicazione a lungo attesa dei dati dell’ONU sulle attività economiche con le colonie dovrebbe mettere in guardia le imprese: avere rapporti economici con colonie illegali significa collaborare con la perpetrazione di crimini di guerra,” ha sostenuto Stagno in un comunicato.

La banca dati segna un notevole progresso negli sforzi internazionali per fare in modo che le attività economiche interrompano ogni complicità con le violazioni dei diritti e rispettino le leggi internazionali. La principale istituzione per i diritti dell’ONU dovrebbe garantire che la banca dati sia regolarmente aggiornata per agevolare le imprese nel rispetto dei loro obblighi in base al diritto internazionale.”

Lo scorso anno molti gruppi per i diritti avevano criticato il ritardo “inspiegabile” e “a tempo indefinito” nella pubblicazione della banca dati dell’ONU. Tuttavia il Consiglio per i Diritti Umani non aveva fornito nessuna ragione che determinava il continuo rinvio della pubblicazione della lista nera.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




“Queste catene saranno spezzate”: il libro di Ramzy Baroud sui prigionieri palestinesi – Recensione del libro

Michael Lescher

10 febbraio 2020 – Palestine Chronicle

(These Chains Will Be Broken: Palestinian Stories of Struggle and Defiance in Israeli Prisons [Queste catene verranno spezzate: storie palestinesi di lotta e resistenza nelle carceri israeliane], di Ramzy Baroud, Clarity Press, Inc., 2020)

Fyodor Dostoevsky ha scritto che “il grado di civiltà in una società può essere giudicato visitando le sue prigioni” – un’osservazione in nessun luogo più tristemente vera che in una società la cui stessa esistenza comporti il confinamento di un altro popolo. Il nuovo libro di Ramzy Baroud, “These Chains Will Be Broken: Palestinian Stories of Struggle and Defiance in Israeli Prisons”, illustra con una straziante immediatezza il motivo per cui la Palestina contemporanea si riveli nel modo più chiaro all’interno delle prigioni che Israele ha costruito per coloro che resistono alla sua occupazione della loro terra. Viste attraverso il libro di Baroud, queste gabbie raccontano una doppia storia: da un lato, lo squallore di una società eretta sulle fondamenta di un’espropriazione; dall’altro, l’aspra determinazione dei palestinesi che, contro ogni previsione, si rifiutano di essere cancellati dalla storia.

“These Chains Will Be Broken” è una raccolta di testimonianze di prima mano che descrivono le esperienze dei detenuti palestinesi, prese o dai prigionieri stessi o da altri che li conoscono da vicino. (La storia di Faris Baroud, argomento del capitolo finale del libro e di un lontano parente dell’autore, è raccolta dagli scritti di sua madre Ria, morta nel 2017; suo figlio è morto quasi due anni dopo, ancora dietro le sbarre.)

Baroud, giornalista, studioso e consulente nel settore dei media, ha dedicato diversi precedenti libri alla lotta palestinese vista dal punto di vista degli stessi palestinesi. In “These Chains Will Be Broken”, fa un ulteriore passo avanti, tenendo sospesa la propria voce narrante in modo che i detenuti possano raccontare la propria storia a modo loro, trasportando così il lettore direttamente nella loro esperienza. Il risultato è un toccante e profondamente inquietante promemoria su come, in fondo, la storia della Palestina sia un costante ripetersi di prigionia e resistenza.

“La prigionia”, scrive Khalida Jarrar (lei stessa una dei protagonisti del libro) con una premessa illuminante, “rappresenta una posizione morale che deve essere presa ogni giorno e non può mai essere lasciata alle proprie spalle”. Che sia un avvertimento: il lettore di “These Chains Will Be Broken” è ripetutamente costretto ad assumere tale posizione morale mentre, capitolo dopo capitolo, i prigionieri palestinesi mettono a nudo le loro privazioni, le loro speranze, le loro delusioni e la loro determinazione a resistere.

Perfino quelli che hanno familiarità con le realtà della lotta possono trovarsi impreparati alle sue asprezze se le percepiscono, come accade a questi palestinesi, dietro le mura della prigione piuttosto che sepolte dentro la rete della propaganda israeliana. In un articolo denigratorio pubblicato (ahimè) dalla prestigiosa Yale University Press nel 2006, il portavoce della WINEP [organizzazione di esperti americana con sede a Washington DC che si occupa della politica estera degli Stati Uniti in Medio Oriente, ndtr.] Matthew Levitt ha liquidato con poche parole Majdi Hamad definendolo “un terrorista di Hamas condannato all’ergastolo per aver ucciso a Gaza dei compagni palestinesi, presumibilmente sospetti informatori.” Ma quando Hamad compare per la prima volta nel libro di Baroud attraverso gli occhi del compagno prigioniero Mohammad al-Deirawi, dà un’impressione molto diversa: “Veniva trascinato nella sua cella nel carcere sotterraneo di Nafha da un buon numero di guardie armate. Lo picchiavano e lo prendevano a calci dappertutto e, nonostante le sue catene, reagiva come il leone che era. Il suo volto era coperto di sangue. “(Apprendiamo dal libro che questo “leone” è anche “dolce e gentile con i suoi compagni”.)

Allo stesso modo i lettori occidentali possono essere sorpresi della dignità dello stesso al-Deirawi, a cui, dopo aver ricevuto una condanna a 30 anni in un tribunale militare israeliano, viene chiesto dal giudice non se abbia qualcosa da dire ma se sia disposto a “chiedere scusa”.

“Non ho nulla di cui scusarmi”, così al-Deirawi riferisce di aver risposto al giudice. “Non mi scuserò mai per aver resistito all’occupazione, per aver difeso il mio popolo, per aver lottato per i miei diritti rubati. Ma dovete scusarvi voi, e devono scusarsi coloro che demoliscono le case mentre i loro proprietari sono ancora dentro. Coloro che uccidono i bambini, che occupano la terra e commettono crimini contro persone disarmate e innocenti, sono loro che devono scusarsi.” “La mia risposta non gli è piaciuta”, aggiunge al-Deirawi, in uno dei rari momenti di ironia del libro.

I racconti nella raccolta di Baroud contengono descrizioni inevitabili di torture e maltrattamenti, ma alcuni dei dettagli più sconvolgenti riguardano atti di sadismo del tutto gratuito. Una guardia si offre di portare una tazza di tè a un prigioniero e poi versa acqua bollente sulla sua mano tesa. Una caviglia ridotta in frantumi viene “trattata” con un impacco di ghiaccio. Ad un minore incarcerato viene falsamente detto, la notte prima della sua liberazione, che sta per essere condannato all’ergastolo. Una donna tenuta in isolamento è costretta ad osservare un gatto con cui ha stretto amicizia mentre muore insieme ai suoi cuccioli dopo che sono stati avvelenati dalle guardie.

Per di più, i racconti dei prigionieri confermano che queste non sono azioni isolate; nascono dalla logica di un sistema progettato per disumanizzare le sue vittime e anche per intimidirle. Prigioniero dopo prigioniero, per esempio, offrono una descrizione orribile della “bosta” – il veicolo speciale usato per trasportare i palestinesi dalla prigione al tribunale militare e viceversa. La stravagante crudeltà di questa prigione su ruote non ha uno scopo dal punto di vista giudiziario; evidentemente per i loro carcerieri tenere i palestinesi rinchiusi in posizioni anguste, ammanettati e incatenati, dentro minuscole gabbie di metallo surriscaldate per 8-12 ore ogni volta, è fine a se stesso.

Ma tutto questo è solo una parte della storia raccontata nella raccolta di Baroud. Ci sono momenti notevoli di bellezza e coraggio. Un prigioniero separato dalla sua giovane figlia per decenni descrive la felicità provata nel sentire che sua figlia, frequentando la prima elementare, ha appreso la vera ragione della sua prigionia. Sottoposti a continui tormenti, alcuni prigionieri riescono a conseguire il diploma di scuola superiore. Una donna detenuta insulta “un omone” che le guardie hanno fatto entrare nella sua cella: “Se vuoi violentarmi, vai avanti; hai violentato la mia terra e la mia gente, quindi vai avanti e violentami.” La sua sfida mette fine alle minacce sessuali anche se le guardie hanno continuato a torturarla, dice, con sigarette e scosse elettriche sul seno.

Un altro prigioniero dedica quasi tutto il suo tempo allo studio delle lingue, traducendo libri e articoli su una vasta gamma di argomenti politici – un compito che persegue con immutato zelo anche dopo che il suo intero negozio di 4.000 articoli è stato confiscato (senza spiegazione) dalle guardie israeliane con un’incursione. Ancora, un altro prigioniero descrive come lui e i suoi compagni hanno perseverato nello sciopero della fame, nonostante le aggressioni e l’alimentazione forzata, fino a quando le loro richieste sono state finalmente soddisfatte.

La decisione di Baroud di non suddividere i suoi protagonisti in base alla natura dell’azione di resistenza per la quale sono stati imprigionati, violenta o non violenta, messa in atto all’interno di Israele o nei Territori Palestinesi Occupati, metterà a disagio alcuni lettori. Ciò è chiaramente intenzionale. Nella sua introduzione, Baroud insiste sul fatto che “sarebbe assolutamente ingiusto ingabbiare i prigionieri palestinesi in comode categorie di vittime o terroristi, in quanto le classificazioni rendono un’intera Nazione sia vittima che terrorista, un concetto che non riflette la vera natura della pluridecennale lotta palestinese contro il colonialismo, l’occupazione militare e il radicato apartheid israeliano”.

La spietata forma in prima persona di queste narrazioni conferma l’intuizione di Baroud. In mezzo alle ineludibili abiezioni e ai diritti violati della reclusione prolungata, le convinzioni politiche sono destinate a essere vissute in termini di passione condivisa, non di dettagli. Questo libro sostiene che chiunque ricerchi dei parametri diversi per comprendere la Palestina e le prassi dei suoi difensori deve prima distruggere le gabbie che pongono dei confini all’agire dei palestinesi. Fintanto che l’occupazione israeliana renderà la Palestina una vasta prigione, la resistenza sarà in ogni caso l’unico criterio in base al quale una vita palestinese possa essere valutata.

E i prigionieri qui rappresentati ne sono ben consapevoli. Come la poetessa (ed ex prigioniera) Dareen Tatour esclama alla fine del suo capitolo in “These Chains Will Be Broken”:

Lo spirito non si inchinerà,

la sua tenacia non morirà…

Per lune che sorgeranno nei nostri cieli

Dobbiamo vivere in questa oscurità.

Michael Lesher, scrittore e avvocato, ha pubblicato numerosi articoli che trattano di abusi sessuali su minori e altri argomenti, incluso il conflitto Israele-Palestina. È autore del recente libro Sexual Abuse, Shonda and Concealment in Orthodox Jewish Communities (McFarland & Co., Inc.) [Abuso sessuale, vergogna e copertura nelle comunità ebree ortodosse, ndtr.], incentrato sulla copertura di casi di abuso tra ebrei ortodossi. Vive a Passaic, nel New Jersey.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Israele blocca le esportazioni agricole palestinesi

Redazione di MEE

8 febbraio 2020 – Middle East Eye

In seguito alla presentazione dell’“accordo del secolo” Israele e l’Autorità Nazionale Palestinese hanno intensificato le sanzioni economiche

Sabato l’agenzia di notizie ufficiale dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) Wafa ha informato che le autorità israeliane hanno bloccato le esportazioni palestinesi verso l’estero che passano dalla Giordania, in quanto le tensioni sono notevolmente cresciute da quando il 28 gennaio il presidente Donald Trump ha presentato la sua tanto criticata proposta per la soluzione del conflitto israelo-palestinese.

Mentre secondo il quotidiano israeliano Haaretz è prevista l’applicazione di un divieto ufficiale israeliano alle esportazioni palestinesi a partire da domenica, in un comunicato pubblicato dalla Wafa il ministero dell’Economia dell’ANP ha affermato che parecchi camion carichi di prodotti agricoli palestinesi sono già stati fatti tornare indietro dalle autorità israeliane dal valico con la Giordania.

L’unico posto di frontiera tra la Cisgiordania occupata e la Giordania è presidiato dalle autorità israeliane, che controllano l’entrata e l’uscita di persone e prodotti nei e dai territori palestinesi occupati.

L’iniziativa è arrivata dopo che all’inizio di questa settimana l’ANP ha annunciato che avrebbe vietato l’ingresso sul mercato palestinese di un certo numero di prodotti israeliani, come reazione per la decisione del ministro della Difesa Naftali Bennett del 31 gennaio di interrompere l’importazione in Israele di prodotti della Cisgiordania.

Nel contempo l’ordine di Bennett è una conseguenza del fatto che l’ANP ha boicottato per tre mesi l’importazione di bovini israeliani.

Con tutti i confini controllati da Israele, l’economia palestinese è molto vulnerabile alle sanzioni israeliane. Secondo la Wafa, nel 2018 le esportazioni agricole palestinesi, due terzi delle quali dirette in Israele, sono state del valore di 130 milioni di dollari.

La guerra commerciale arriva in un momento in cui la dirigenza palestinese ha categoricamente respinto il piano di Trump “pace per la prosperità”, che propone che Israele annetta formalmente Gerusalemme est e circa due terzi della Cisgiordania in cambio di uno Stato palestinese frammentato e smilitarizzato con un diritto al ritorno solo ridotto per i rifugiati palestinesi attualmente all’estero.

Chi ha criticato il cosiddetto “accordo del secolo” ha sostenuto che in effetti il piano intende ufficializzare un sistema di apartheid.

Come reazione il presidente dell’ANP Mahmoud Abbas ha minacciato di porre fine al coordinamento per la sicurezza con Israele, anche se l’ANP deve ancora mettere in atto questa iniziativa.

Da quando gli USA hanno presentato il piano completo, almeno cinque palestinesi sono stati uccisi dalle forze israeliane. Mentre giovedì un palestinese cittadino di Israele è stato ucciso nella Città Vecchia di Gerusalemme dopo che aveva tentato di sparare a poliziotti israeliani, la maggioranza delle vittime stava partecipando a manifestazioni contro le proposte USA.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Elogi prudenti, silenzio e rifiuto: i gruppi ebraici americani divisi sull’ “accordo del secolo”

Richard Silverstein

giovedì 6 febbraio 2020 – Middle East Eye

Le organizzazioni di destra hanno elogiato il piano di Trump per Israele e la Palestina, mentre quelle di sinistra e di centro l’hanno criticato

Mentre l’“accordo del secolo” del presidente americano Donald Trump è stato quasi universalmente criticato nei circoli politici al momento della sua presentazione pubblica la settimana scorsa, le reazioni delle organizzazioni di ebrei statunitensi sono state piuttosto contraddittorie e moderate.

Le dichiarazioni comprendono l’insieme dello spettro dei soliti noti, dalla destra alla sinistra. La lobby filo-israeliana AIPAC ha salutato il tentativo dell’amministrazione Trump di “lavorare di concerto con i dirigenti dei due principali partiti politici israeliani per presentare delle idee per risolvere il conflitto in modo da riconoscere le imperiose necessità in materia di sicurezza del nostro alleato” ed ha esortato i palestinesi a “unirsi agli israeliani al tavolo dei negoziati.”

È tipico di questa lobby individuare fino a che punto questo piano sia utile agli interessi di Israele omettendo al contempo ogni riferimento agli interessi palestinesi.

Strane reazioni

La Coalizione degli Ebrei Repubblicani, formata in gran parte da ricchi uomini d’affari e da miliardari di Wall Street filo-israeliani, ne ha fatto ossequiosamente le lodi, definendolo una “proposta coraggiosa ed equilibrata, profondamente ancorata ai valori fondamentali dell’America, che sono la libertà, le opportunità e la speranza nel futuro.”

Chi non ne sapesse abbastanza potrebbe pensare che il piano stilato dal genero di Trump, Jared Kushner, sia l’equivalente attuale della Dichiarazione d’Indipendenza e della Magna Carta messe insieme.

I deputati ebrei del Congresso, che sono in maggioranza democratici e stretti alleati della lobby israeliana, hanno avuto reazioni stranamente apatiche, moderando i loro elogi. Eliot Engel, presidente della commissione Affari Esteri della Camera dei Rappresentanti ha dichiarato: “Come mi piace dire, il diavolo sta nei dettagli. Abbiamo visto la proposta. Non l’ho studiata attentamente. Ci sono buone ragioni per sperare.”

Anche Ted Deutch, altro rappresentante ebreo vicino alla lobby, ha fatto commenti positivi, dichiarando che l’accordo di Trump “sembra garantire la possibilità di una soluzione a due Stati…Penso e spero che il dialogo continui e porti a negoziati tra le parti.”

Il capo della minoranza democratica al Senato, Chuck Schumer, nelle sue considerazioni al riguardo stranamente non ha espresso nessun parere sul piano di Trump. Si è limitato a ripetere il proprio sostegno a una soluzione a due Stati, senza pronunciarsi nel merito dell’accordo. È una dichiarazione senza esserlo.

Rispondere alla lobby filoisraeliana

Ciò che è curioso riguardo a queste reazioni è che, nel momento stesso in cui i democratici sono nel pieno della procedura per la destituzione del presidente, i democratici ebrei si pronunciano a favore di un piano che quasi tutti, dai candidati democratici alle elezioni presidenziali al principale giornale progressista israeliano, Haaretz, hanno universalmente condannato.

È possibile che questi politici non si preoccupino di quello che la comunità ebraica americana pensa di questo piano. Un sondaggio condotto l’anno scorso da J Street [associazione di ebrei americani moderatamente critici con l’occupazione, ndtr.] presso potenziali elettori alle primarie democratiche ha rilevato che solo il 12% di chi ha risposto aveva una buona opinione del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, mentre un altro sondaggio della Commissione Ebraica Americana che ha interpellato americani di religione ebraica ha concluso che il 59% di loro disapprova la gestione dei rapporti israelo-americani da parte di Trump.

Tuttavia i democratici filoisraeliani non rispondono all’elettorato ebraico medio, ma piuttosto alla lobby filoisraeliana e ai suoi ricchi donatori, che finanziano le loro campagne elettorali. Non ci sono altre spiegazioni logiche al fatto che manifestino un sostegno, pur se modesto, a una proposta così mal formulata da parte di un presidente repubblicano in disgrazia.

L’Unione per la Riforma dell’Ebraismo da parte sua ha pubblicato questo timido comunicato: “Salutiamo ogni tentativo per riportare la pace e pensiamo fermamente che un Israele sicuro da una costa all’altra con uno Stato palestinese vitale sia nell’interesse della politica estera americana e, ovviamente, del futuro di Israele in quanto Stato democratico ed ebraico.”

Continua esprimendo delle “preoccupazioni” relative alla promessa di Netanyahu di “imporre, unilateralmente, il diritto degli ebrei su tutte le colonie della Cisgiordania e della Valle del Giordano proposte per lo status finale in base al piano di Trump”, definendo l’iniziativa “pericolosa per l’avvenire di Israele e per la stabilità e la pace nella regione.”

Al contempo diversi gruppi dal centro alla sinistra hanno unanimemente criticato l’accordo. I sionisti liberal di J Street, rigorosamente schierati con il partito Democratico, l’hanno definito l’“apogeo logico delle ripetute misure in malafede che questa amministrazione ha preso per confermare il programma della destra israeliana, per impedire la realizzazione di una soluzione dei due Stati praticabile e negoziata e per assicurarsi che l’illegale occupazione dei territori palestinesi in Cisgiordania da parte di Israele diventi permanente.”

Hanno cercato di utilizzare l’annuncio a proprio vantaggio, come uno strumento dell’organizzazione per rafforzare la propria base di appoggio. Hanno persino lanciato su Twitter l’hashtag #peacesham (pace truffa).

Piano dell’apartheid”

Jewish Voice for Peace [Voce Ebraica per la Pace], la più grande organizzazione progressista del Paese, ha condannato il piano in modo ancora più deciso, definendolo “piano dell’apartheid” e “un diversivo di due guerrafondai che danno la priorità alle proprie campagne elettorali personali su qualunque parvenza di capacità politica.”

Il candidato ebreo alla presidenza, Bernie Sanders, è parso esitare a inserire la sua risposta nella sua campagna elettorale, che è in pieno svolgimento con le primarie in Iowa. Il suo ufficio al Senato ha pubblicato il seguente comunicato: “Ogni accordo di pace accettabile deve corrispondere al diritto internazionale e alle molteplici risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Deve porre fine all’occupazione israeliana iniziata nel 1967 e permettere l’autodeterminazione dei palestinesi nel loro Stato indipendente, democratico ed economicamente sostenibile accanto a uno Stato israeliano sicuro e democratico. Il cosiddetto ‘accordo di pace’ di Trump è ben lontano da ciò e non farà altro che perpetuare il conflitto.”

Paragonata alle sue veementi denunce contro le “élite imprenditoriali miliardarie”, questa risposta è stranamente moderata per Sanders. Ciò potrebbe riflettere la sua convinzione che un atteggiamento realmente progressista verso Israele e la Palestina non sarebbe altrettanto ascoltato dall’elettorato che un’analisi economica di classe. Ma almeno è più consistente [di quella] di Chuck Schumer.

– Richard Silverstein è l’autore del blog « Tikum Olam » che mette in evidenza gli eccessi della politica della sicurezza nazionale israeliana. Il suo lavoro è stato pubblicato da “Haaretz”, “Forward”, “Seattle Times” e “Los Angeles Times”. Ha collaborato alla raccolta di saggi dedicati alla guerra del Libano del 2006 “A Time to speak out” [Il momento di parlare forte] (Verso) ed è l’autore di un altro saggio di una futura raccolta: “Israel and Palestine: Alternate Perspectives on Statehood” [Israele e Palestina: prospettive alternative di statualità] (Rowman & Littlefield).

Le opinioni espresse in questo articolo non impegnano che il suo autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)




Perché l’Autorità Nazionale Palestinese non è in grado di mobilitare il suo popolo?

Mariam Barghouti

4 febbraio 2020 – Al Jazeera

Per decenni l’ANP ha represso le proteste palestinesi e minato la mobilitazione di massa palestinese.

Con l’annuncio il 28 gennaio dell’ “accordo del secolo” dell’amministrazione Trump, l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) è entrata in azione. A poche ore dalla cerimonia alla Casa Bianca, durante la quale il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha divulgato i dettagli del suo piano, il presidente palestinese Mahmoud Abbas ha dichiarato “mille no all’accordo del secolo”.

L’ANP ha quindi proceduto a rilasciare una serie di minacce, tra cui ancora una volta quella di rompere gli accordi con i corpi di sicurezza israeliani, e un appello a manifestazioni di massa contro l’accordo proposto.

Nonostante tutti i suoi affanni retorici, tuttavia, la leadership palestinese non è riuscita a radunare una forte reazione all’oltraggiosa violazione dei diritti dei palestinesi che è in realtà la proposta di Trump. Non è riuscita nemmeno a mobilitare la propria gente. Perché?

Perché da oltre 20 anni l’ANP ha partecipato attivamente alla repressione del popolo palestinese, mantenendo uno stretto rapporto con le forze di sicurezza israeliane. Il suo atteggiamento, i suoi discorsi e le politiche passate e presenti sono sempre stati diretti non a proteggere i diritti e il benessere del popolo palestinese, ma a mantenere il potere a tutti i costi.

L’ “accordo del secolo” ha smascherato la duplicità dell’ANP e il costo che ha rappresentato per la mobilitazione di massa palestinese.

Reprimere il dissenso palestinese

Dalla sua istituzione nel 1994 a seguito dei disastrosi accordi di Oslo, l’ANP ha fatto poco altro che aiutare Israele a pacificare i palestinesi mentre la loro terra, proprietà e risorse venivano confiscate dai coloni ebrei. Per garantirsi il potere, la leadership palestinese ha portato avanti una stretta cooperazione con Israele, torturando i dissidenti palestinesi e fornendo informazioni sugli attivisti palestinesi.

Ha anche represso violentemente qualsiasi protesta pubblica che minacciasse la sua stretta sul potere o fosse considerata una “minaccia” dagli israeliani. Ha ripetutamente schierato la guardia nazionale, la polizia antisommossa e gli scagnozzi fedeli a Fatah, il partito che controlla l’ANP, per reprimere il dissenso.

La mia prima esperienza con le maniere forti dell’ANP è stata nel 2011, durante una manifestazione in piazza Manara a Ramallah di solidarietà con le rivoluzioni dei vicini Paesi arabi. Centinaia di giovani si sono riuniti pacificamente, scandendo slogan politici, chiedendo l’unità tra Fatah e Hamas contro le regole di Oslo. Nel giro di poche ore siamo stati attaccati, malmenati e arrestati.

Nel 2012, siamo scesi in strada per una protesta contro la prevista visita a Ramallah del vice primo ministro israeliano Shaul Mofaz, un uomo accusato di aver commesso innumerevoli crimini contro i palestinesi, incluso il massacro di Jenin durante la seconda Intifada e l’assassinio di vari leader palestinesi.

Abbiamo considerato il suo incontro con Abbas un altro atto di complicità dell’ANP con il progetto di insediamento coloniale israeliano. Siamo usciti in massa per protestare, ma siamo stati duramente picchiati dalla polizia dell’ANP. Più tardi, l’intelligence dell’ANP ci ha seguiti e assaliti per strada, ha chiamato le nostre famiglie minacciandole. Peggio ancora, siamo stati calunniati dai lealisti dell’ANP sulle piattaforme dei social media come “traditori” che avrebbero lavorato per una “agenda straniera”.

Nel 2018, siamo scesi in strada per manifestare contro la complicità dell’ANP nel blocco israeliano su Gaza, che ormai ha reso la Striscia invivibile. L’ANP aveva tagliato lo stipendio ai dipendenti di Gaza, cancellato i trasferimenti per cure mediche e l’assistenza finanziaria a centinaia di famiglie bisognose. A causa dei loro meschini interessi di parte, due milioni di palestinesi soffrono condizioni di vita insopportabili. La nostra protesta è stata di nuovo brutalmente attaccata, siamo stati picchiati, trascinati per le strade di Ramallah e arrestati mentre cercavamo di farci curare le ferite in ospedale.

Questi sono solo alcuni esempi della campagna sistematica dell’ANP per mettere a tacere e placare i palestinesi in modo da fornire a Israele un “senso di sicurezza”. Questo non vuol dire che Hamas sia un attore senza colpe; anch’esso ha commesso la sua buona parte di repressione contro la popolazione palestinese a Gaza e ha cercato di mettere a tacere le critiche.

Basta leadership palestinese

Oltre a reprimere il dissenso palestinese, la leadership palestinese, sia in Cisgiordania che a Gaza, ha cercato anche di strumentalizzare la mobilitazione di massa per i suoi miopi obiettivi politici.

Ogni volta che c’è la dichiarazione di un organismo internazionale che minacci la posizione dell’Autorità Nazionale Palestinese come rappresentante del popolo palestinese (e non è stata eletta), assistiamo a una serie di discorsi e dichiarazioni di politici palestinesi che chiamano alla protesta.

L’ANP e le altre fazioni e partiti politici palestinesi considerano la protesta palestinese un’arma che possono usare ogni volta che lo desiderano. Vogliono una mobilitazione di massa solo quando gli fa comodo, non quando è meglio per l’interesse del popolo palestinese.

Il problema è che questo atteggiamento, insieme ad anni di repressione del dissenso e angherie nei confronti della società civile, ha aggiunto un altro livello di repressione – oltre all’occupazione israeliana – lasciando i palestinesi disillusi e danneggiando la loro capacità di mobilitarsi efficacemente per la loro lotta.

Nel corso degli anni, molti hanno smesso di vedere una ragione per scendere in piazza, perché la loro protesta sarebbe stata brutalmente repressa o cooptata da forze politiche che considerano illegittime.

Non c’è da stupirsi quindi se, quando l’ANP ha chiesto la mobilitazione di massa nelle strade contro “l’accordo del secolo”, sono arrivati in pochi. Oggi l’ANP è in grado di mobilitare solo chi è fedele alle sue strutture politiche e al suo braccio armato – Fatah. Per radunare una folla a Ramallah, deve portare in bus le persone da fuori città.

Ormai molti palestinesi hanno perso fiducia nella loro leadership. Molti sanno che le minacce dell’ANP di tagliare i legami con le agenzie di intelligence israeliane sono false. L’ultima volta che l’ha fatto, nel 2017, è venuto poi fuori che il 95% del coordinamento per la sicurezza con Israele era stato mantenuto.

Ma nonostante il fallimento politico e morale dei loro leader, i palestinesi non sono disperati. Continuano la loro lotta per la giustizia, i diritti e la fine dell’occupazione israeliana e dell’apartheid. Continuano a mobilitarsi nonostante i loro leader e la loro complicità con Israele.

Lo spirito della piazza palestinese è vivo, ma non può più essere invocato da forze politiche disoneste. Si manifesterà solo in difesa della legittima lotta del popolo palestinese.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autrice e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera.

Mariam Barghouti è una scrittrice palestinese americana residente a Ramallah.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Come possono le università contrastare le minacce della lobby israeliana?

Nora Barrows-Friedman

23 gennaio 2020 – Electronic Intifada

Un gruppo di destra di sostegno a Israele ha accusato di antisemitismo professori progressisti del college comunitario di Brooklyn, New York.

Sta minacciando di azioni legali i docenti in base al loro percepito sostegno ai diritti dei palestinesi.

Tali accuse fanno parte di un attacco in espansione contro studenti e docenti presso università statunitensi da parte di gruppi della lobby israeliana al fine di criminalizzare l’organizzazione di solidarietà con la Palestina facendo una cosa sola della critica di Israele e del fanatismo antiebraico.

Il Lawfare Project rappresenta un professore di destra del Kingsborough Community College che nel 2016 aveva collaborato con il gruppo per avviare una causa legale contro il college.

Il Lawfare Project ha anche minacciato di citare in giudizio docenti nell’ottobre del 2018.

Il gruppo mira a mettere a tacere attivisti, docenti e studenti, avviando cause legali contro di loro e diffamando quali antisemiti i sostenitori dei diritti dei palestinesi.

Il direttore del gruppo, Brooke Goldstein, ha affermato che “non esiste qualcosa come una persona palestinese”.

Il mese scorso ha presentato una denuncia federale contro la Columbia University per conto di uno studente ebreo israelo-statunitense.

La denuncia afferma che lo studente è stato vittima di “discriminazione antisemita” a causa di attività di studenti e docenti che sostengono i diritti dei palestinesi.

In particolare, la denuncia invoca il decreto presidenziale firmato a dicembre dal presidente Donald Trump che consente che mere accuse di antisemitismo contro critici di Israele nei campus determinino lunghe inchieste da parte del governo e possibili restrizioni dei finanziamenti.

Nel frattempo Anthony Alessandrini, uno dei professori accusati a Kingsborough e membro del Progressive Faculty Caucus (PFC), è stato oggetto di molestie e diffamazioni.

Nel marzo del 2019 Alessandrini, che insegna letteratura, ha ricevuto una lettera anonima nella casella del suo college che diceva: “Questo è un avvertimento per te e altri del PFC. Guardati le spalle!!!”

Ha dichiarato a The Electronic Intifada di aver anche trovato una scritta su un volantino alla porta del suo ufficio che diceva “Od Kahane Chai”: Kahane vive ancora.

Meir Kahane, che aveva fondato la violenta Jewish Defense League di destra, promuoveva la totale espulsione dei palestinesi dalla loro patria.

Il partito israeliano fondato da Kahane – Kahane Chai, o Kach – è classificato dal Dipartimento di Stato USA come un’organizzazione terroristica straniera.

Ad Alessandrini è stata assegnata una scorta del campus, che è continuata fino alla fine del semestre. La polizia del campus gli ha chiesto se volesse avanzare querele, ma poiché le scritte erano anonime, era difficile accusare direttamente qualcuno.

Ma invece di concentrarsi su chi potesse aver minacciato Alessandrini e i suoi colleghi, l’amministrazione di Kingsborough e la sua casa madre, l’Università della Città di New York (CUNY), ha intensificato una serie di indagini sul Progressive Faculty Caucus.

I docenti ritengono che esse siano state avviate in seguito alle minacce del Lawfare Project.

La CUNY ha recentemente assunto uno studio legale esterno per gestire l’attuale tornata delle indagini.

Alessandrini ha dichiarato a The Electronic Intifada che lui e diversi colleghi di Kingsborough sono stati convocati tre volte per interrogatori a proposito di “accuse molto simili, e totalmente infondate” di antisemitismo.

Con l’aiuto di legali, Alessandrini sta chiedendo di incontrare gli amministratori per affrontare quello che definisce un “processo di molestie” da parte del Lawfare Project e dei docenti e amministratori di destra che collaborano con esso.

L’amministrazione del college, non ha mostrato, se mai l’ha mostrata, grande spina dorsale nell’affrontare Lawfare”, ha aggiunto.

Alessandrini ha detto che c’è stato un unico gruppo di discussione riguardo all’organizzazione sulla Palestina nei 15 anni nei quali egli fa parte del corpo docente. Non c’è alcuna sezione di Students for Justice in Palestine [Studenti per la giustizia in Palestina] a Kingsborough.

Kingsborough è forse un precedente giudiziario su quanto in là possono spingersi gruppo lobbistici israeliani nel molestare preventivamente docenti e studenti per ridurli al silenzio, specialmente alla luce dell’intensificazione da parte del governo statunitense degli attacchi contro istituzioni pubbliche.

Se questo è un precedente, è un precedente per capire quale effetto agghiacciante si possa creare in una università pubblica affinché amministratori già pavidi dovranno preoccuparsi che il parlamento statale, o il governatore, ci attacchino”, ha detto Alessandrini.

Diffamazioni e attacchi

Il Progressive Faculty Caucus di Kingsborough è nato dopo l’elezione di Trump nel 2016 per sostenere le cause di professori e progressisti di sinistra di fronte al crescente clima politico e sociale di destra.

Alessandrini ha detto che membri di destra del corpo docente hanno cominciato ad accusare il caucus di discriminazione e ne hanno incolpato i membri di diversi atti di vandalismo antisemita contro professori ebrei.

Il caucus, che include membri ebrei, ha pubblicamente condannato il vandalismo.

Media di destra locali e nazionali – e gruppi di sostegno a Israele come StandWithUs – sono balzati sulla vicenda alimentando le diffamazioni contro i docenti.

Michael Goldstein, un amministratore di Kingsborough che è stato dietro a molte delle accuse, ha descritto Alessandrini come il “burattinaio” del caucus progressista.

Il Jewish Journal ha additato il coinvolgimento di Alessandrini in Students for Justice in Palestine, il suo sostegno alla campagna Boicottaggio, Disinvestimenti e Sanzioni (BDS) per i diritti dei palestinesi e la sua critica dell’apartheid israeliano come prova di antisemitismo.

Professori di tutto il sistema della CUNY hanno denunciato le accuse contro i docenti progressisti e si sono schierati a sostegno del diritto dei loro colleghi di “organizzarsi, ricercare e scrivere a proposito dei temi urgenti del nostro tempo.

L’antisemitismo di destra “ottiene un lasciapassare”

A novembre è stato rivelato che un ex docente di Kingsborough e di altre istituzioni della CUNY è un nazionalista bianco ed è stato un frequente co-conduttore di un podcast con il notorio neonazista Richard Spencer.

Spencer ha detto in un’occasione che si rivolge a Israele per guida e ha fatto riferimento al suo desiderio di uno stato etnico europeo in America del Nord come a “sionismo bianco”.

Amministratori del college hanno dichiarato al gruppo Right Wing Watch [Osservatorio della destra] che il professor Joshua Dietz “non lavora attualmente per Kingsborough” e non hanno detto se il college era a conoscenza della sua ideologia quando vi era impiegato.

Kingsborough non ha risposto alle richieste di commenti da parte di Electronic Intifada.

Quando Alessandrini e altri hanno cominciato a chiedere risposte riguardo alla posizione di Dietz presso il college, egli ha detto che la presidente di Kingsborough, Claudia Schrader, li ha criticati come “non professionali” e “non collegiali”.

È indicativo del clima attuale che accuse contro professori di sinistra siano “prese sul serio e perseguite quanto più duramente possibile” mentre “l’antisemitismo di destra è semplicemente cancellato del tutto dalla conversazione”, ha detto Alessandrini.

Le minacce legali, ha detto, hanno determinato paura di discutere di qualsiasi questione personale: il Lawfare Project “ha scoperto che le minacce di una causa legale, nel clima attuale, che ci siano o no basi per essa, che qualcuno ritenga o no che possa essere vinta, sono una cosa realmente potente oggi”.

È inaccettabile in un luogo come la CUNY che non ci sia stata una reazione più forte”, ha aggiunto Alessandrini.

Contrastare le minacce

Kingsborough non è la sola istituzione di New York nel mirino degli attacchi della lobby israeliana e di pressioni di donatori che vogliono proteggere Israele da critiche.

In precedenza in questo mese un insegnante di storia delle superiori, JB Brager, è stato licenziato dal suo posto presso la Ethical Culture Fieldston School del Bronx per tweet critici di Israele e del sionismo.

In una lettera pubblicata martedì sul The New York Times Brager ha scritto di “non credere che sia diritto di una qualsiasi sigla o fazione della comunità ebrea dichiararsi opinione prevalente”.

Non c’è un solo modo di essere ebrei e il sionismo è sempre più riconosciuto come una politica di fatto razzista. Io sono un orgoglioso insegnante ebreo antisionista e appartengo alla mia classe scolastica”, ha aggiunto Brager.

Quasi 80 leader spirituali ebrei hanno condannato il licenziamento di Brager e hanno sollecitato la scuola a riassumerlo. “È irresponsabile e pericoloso fare una cosa sola delle critiche di Israele e dell’antisemitismo”, dicono i leader.

Gli insegnanti non dovrebbero aver timore di perdere il posto per criticare Israele o semplicemente per insegnare riguardo ai diritti umani dei palestinesi. Questo non è un ambiente che contribuisce all’apprendimento”, ha detto Radhika Sainath, capo dello staff legale del gruppo per i diritti civili Palestine Legal, che sta offrendo assistenza legale a Brager.

Nel giugno del 2018 una scuola privata d’élite di New York ha cancellato un corso di un insegnante di storia sulla Palestina, inducendo l’insegnante veterano, che è ebreo, a dimettersi.

Un altro insegnante della stessa scuola è stato punito dopo aver apposto sulla porta della sua classe i nomi dei palestinesi colpiti dall’esercito israeliano.

Assistiti dall’American Jewish Committee, un importante gruppo lobbistico israeliano, genitori della Riverdale Country School hanno diffamato insegnanti quali antisemiti e suprematisti bianchi. Una persona risulta aver evocato il movimento #MeToo, paragonando gli insegnanti a predatori sessuali.

Alessandrini ha detto che dopo il decreto presidenziale di Trump e le montanti minacce della lobby israeliana, è imperativo che le amministrazioni dei college sostengano gli studenti e il loro diritto di organizzarsi.

Anche il corpo docente “ha una quantità di auto-organizzazione da realizzare”, ha aggiunto.

Quelli di noi che oggi sono di ruolo e hanno una relativa sicurezza istituzionale dovrebbero cercare di creare una rete per proteggere i professori non di ruolo, gli assistenti e i laureandi che vogliono organizzarsi per i diritti dei palestinesi”.

Parte di tale lavoro organizzativo consisterebbe nel condurre ricerche su gruppi quali Lawfare Project e nell’informare gli amministratori universitari circa le loro intenzioni, anziché assumere posizioni difensive.

Ricordo i giorni realmente iniziali del movimento BDS, quando stava appena decollando”, ha detto.

Se mi aveste detto all’epoca che il presidente degli Stati Uniti avrebbe fatto valere il suo peso su questo, scrivendo un decreto presidenziale, vi avrei detto che eravate pazzi, che sarebbe stato sorprendente se si fosse potuti arrivare a quel punto. Ma è successo”.

Ciò ha avuto a che fare con l’effetto avuto dalle campagne BDS, ha affermato Alessandrini.

Ma ha anche a che fare con il fatto che il movimento BDS fa parte di movimenti globali della società civile “che stanno spaventando quelli al potere. E se stiamo facendo questo, stiamo facendo il nostro lavoro. Questa non è una cattiva notizia”.

Nora Barrows-Friedman è redattrice associata di The Electronic Intifada.

 

tratto da: Z NET ITALY




La diplomazia di Trump / Netanyahu: Orientalismo con un altro nome [intervista a Richard Falk]

Javad Heiran-Nia

1 febbraio 2020 – wordpress.com

Articolo basato sull’intervista di Javad Heiran-Nia a Richard Falk [professore emerito di diritto internazionale presso la Princeton University, ex relatore delle Nazioni Unite per i diritti umani nei territori occupati e autore di numerosi libri, tra cui Chaos e Counterrevolution: After the Arab Spring, ndtr.] sull’ “accordo del secolo”.

1-Trump l’ha dichiarato alla presentazione dell’ “accordo del secolo” e ha insistito sul fatto che queste proposte siano un equo piano per la pace. Pensa che il piano soddisfi gli interessi dei palestinesi?

Questo cosiddetto contributo alla “pace” richiede che la Palestina rinunci ai suoi diritti fondamentali e accetti una condizione permanente di sottomissione e vittimizzazione. È talmente a favore di Israele da far pensare che sia stato ideato per garantirne il rifiuto immediato e definitivo da parte dei rappresentanti del governo e dell’opinione pubblica palestinesi. Il piano non è altro che un gioco di potere geopolitico sotto mentite spoglie, orchestrato da Netanyahu e Trump per promuovere i propri programmi politici e salvaguardare le proprie posizioni di governo, attualmente sotto attacco sia in Israele che negli Stati Uniti.

Il piano di Trump perpetua, istituzionalizza, acuisce e cerca di legittimare l’attuale stato di apartheid israeliano, e pretende anche di estenderne la protezione legale conferendo la sovranità israeliana alle terre rubate, quei territori palestinesi che hanno languito sotto l’occupazione e una continua serie di usurpazioni israeliane dal 1967. Il piano riduce la legittima presenza palestinese dal 22% sotto occupazione dopo la guerra del 1967 a un residuo 15%, essenzialmente le comunità palestinesi nelle città della Cisgiordania e alcune terre inabitabili nel Negev occidentale. 

2-Uno degli obiettivi di Trump nel proporre il piano è di aiutare Netanyahu a risolvere i propri problemi interni. Può aiutare Netanyahu a mantenere il potere in Israele, visto che potrebbe essere processato?

Sembra esprimere l’opinione, probabilmente popolare presso alcuni elettori in Israele, che Netanyahu è stato in grado di forzare la mano a Trump come nessun altro politico israeliano avrebbe potuto fare, abbastanza da raggiungere quasi tutto ciò che il movimento sionista avrebbe mai sognato di realizzare: una soluzione di fatto con uno Stato unico che sottopone permanentemente tutta la Palestina al controllo diretto e indiretto di Israele, dichiarato dalla Legge Fondamentale israeliana del 2018 Stato-Nazione esclusivamente del popolo ebraico, cancellando i diritti e la parità per le minoranze non ebree. Quello che viene chiamato “uno Stato” nel testo del piano non è uno Stato come previsto dalla diplomazia, in quanto vi vengono negati i diritti elementari di uno Stato sovrano ai sensi del diritto internazionale, costringendo i palestinesi che vivono sotto l’occupazione a condizioni permanenti come quelle di Gaza ed escludendo cinque milioni di rifugiati palestinesi, negando loro il diritto al ritorno ovunque abitassero prima di diventare profughi. 

3-Cosa dovrebbero fare i palestinesi per opporsi a questo piano?

Alzare la voce alle Nazioni Unite e altrove per chiarire che il piano è una farsa e una frode e, peggio ancora, un crimine internazionale; manifestare con risolutezza e con slogan efficaci, anche sulla vergogna dei Paesi arabi che hanno mostrato sostegno all’accordo; incoraggiare la campagna BDS a esercitare la massima pressione; chiedere ai governi e alle Nazioni Unite di imporre sanzioni; chiedere la conferma legale dei diritti dei palestinesi presso la Corte Penale Internazionale dell’Aia; insistere su un nuovo quadro diplomatico per affrontare il conflitto israelo-palestinese senza la guida distorta e assurdamente di parte fornita dagli Stati Uniti per molti anni, compreso il periodo pre-Trump. È più che mai chiaro che i diritti dei palestinesi saranno ottenuti solo attraverso una lotta risoluta, isolando Israele, con le pressioni della solidarietà globale e accusando il governo israeliano e i suoi leader di avere imposto politiche criminali.

4-Perché Paesi arabi come Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Oman, Bahrein, Egitto hanno accettato il piano? 

Per due ragioni principali: 1) quei governi arabi sono minacciati dai movimenti per la democrazia, in particolare tra gli arabi, e temono che il raggiungimento dell’autodeterminazione palestinese destabilizzi i loro oppressivi sistemi di governo; 2) per assicurarsi il sostegno continuo alle priorità regionali sunnite e anti-iraniane da parte della presidenza Trump.

Tale accordo tra le élite al governo non riflette affatto i sentimenti popolari in quei Paesi, i cui popoli continuano a sostenere fortemente la lotta palestinese, ma non sono in grado di influenzare i loro governi autocratici. 

5. Questo piano è in contraddizione con le risoluzioni delle Nazioni Unite e non vi è stata alcuna consultazione con la parte palestinese. In che modo gli Stati Uniti e Israele lo faranno accettare alla Palestina?

 Il piano Trump non solo ignora il diritto internazionale, ma contempla proposte che violano in modo flagrante e sprezzante disposizioni fondamentali come il divieto di acquisizione di territorio con la forza, ribadito nella risoluzione 242 del Consiglio di sicurezza. Inoltre, istituzionalizzando un regime di governo oppressivo che si basa sulla discriminazione razziale, il piano istituzionalizza l’apartheid, definito come “un crimine contro l’umanità” nell’articolo 7 (j) dello Statuto di Roma che regola le attività della Corte Penale Internazionale.

Israele e gli Stati Uniti dovranno prima accettare di smantellare le caratteristiche di apartheid dello Stato israeliano come presupposto essenziale del processo diplomatico verso una pace sostenibile e giusta, che rifletta un impegno per la parità di ebrei e arabi, di israeliani ebrei e palestinesi. Senza soddisfare questa condizione preliminare ad un processo di pace, è illusorio aspettarsi la fine di un conflitto su terra e diritti che dura da più di un secolo. 

 6. Trump definisce giusto il piano, anche se viola i diritti del popolo palestinese. Questo piano è concretizzabile?

Il piano è così evidentemente ingiusto che si potrebbe pensare sia stato progettato per fallire, un risultato già prefigurato dal rifiuto quasi unanime dei palestinesi. Pertanto, l’approccio di Trump / Netanyahu si basa apparentemente sulla capacità di imporre una soluzione al popolo palestinese e di etichettarla come “pace”. Visto più realisticamente, il piano è un mero tentativo di dichiarare unilateralmente la vittoria israeliana e di far credere al mondo che la lotta palestinese sia una causa persa, sperando che una specie di provvedimento truffaldino faccia sì che se i palestinesi ammetteranno la sconfitta e faranno una dichiarazione formale di resa politica, la loro vita migliorerà se misurata in base alla situazione economica. Le misure offerte ai palestinesi nel loro complesso assomigliano a ciò che il popolo di Gaza ha sopportato dal 2007 e a ciò che è stato tentato dall’apartheid sudafricano nelle sue ultime fasi attraverso l’istituzione di bantustan assediati e impotenti in aree remote del Paese in cui alla popolazione africana era richiesto di vivere nella miseria e nell’umiliazione. Nel mondo post-coloniale un tale progetto è la ricetta per una lotta violenta e non deve essere confuso con autentici tentativi di passare di comune accordo dalla guerra alla pace o dall’oppressione alla democrazia costituzionale. L’” accordo del secolo” si rivela essere orientalismo coi muscoli!

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




I palestinesi non hanno altra scelta: restare e lottare

David Hearst

29 gennaio 2020 – Middle East Eye

Una nuova ondata di lotte deve ora iniziare per ottenere la parità dei diritti in uno Stato che comprenda tutta la Palestina storica

Per anni sulla strada dei piani messianici di Benjamin Netanyahu per stabilire lo Stato di Israele fra il fiume e il mare, c’è stata una trappola per elefanti.

Si tratta del dato demografico secondo il quale, in quello spazio, c’erano più palestinesi che ebrei. Secondo i dati dell’Ufficio Centrale di Statistica (CBS) del 2016 forniti alla Commissione di Difesa e Affari Esteri della Knesset israeliana, fra il fiume Giordano e il mar Mediterraneo c’erano 6,5 milioni di mussulmani e 6,44 milioni di ebrei, anche se quei dati ora sono superati. La commissione si riferiva ai musulmani, non ai palestinesi, escludendo perciò i palestinesi cristiani.

Ciò significa che il piano di annessione di Netanyahu da solo non può funzionare. Le enormi infrastrutture di calcestruzzo con cui Israele ha cosparso di cemento la Cisgiordania che occupa – colonie, muri, strade e tunnel – e lo stato di apartheid imposto, crudele e totale più di quello messo in pratica in Sud Africa, sono tutti palliativi – medicine con cui ridurre il dolore di uno Stato a maggioranza ebrea, senza eliminarne la causa.

Un’altra Nakba

Si può annunciare quante volte si vuole, come ha fatto ieri Donald Trump, che Israele occuperà la valle del Giordano e quindi circa il 30% della Cisgiordania e imporre la legge israeliana sulle colonie, ma senza spostare fisicamente numeri sempre maggiori di palestinesi fuori da uno Stato di Israele ingrandito, poco cambia. L’annessione diventa solo un’altra forma di occupazione.

Perciò al centro della “visione” di pace di Trump e Netanyahu sta un trasferimento di popolazione, in massa, un’altra Nakba o Catastrofe.

Questa è una pace per modo di dire. È il silenzio che si sente nei villaggi palestinesi nel 1948, a Beit Hanoun nel 2014, quando nel nord di Gaza Israele ha bombardato una scuola dell’ONU affollata di centinaia di civili sfollati, uccidendone 15 e ferendone 200, o ad Aleppo est o a Mosul, dopo averle bombardate, una dopo l’altra, fino a ridurle in macerie. È la pace creata dalla totale e completa sconfitta della lotta dei palestinesi per costruire uno Stato sulla propria terra.

Il piano segreto

Per me quindi il centro della visione apocalittica non sta nei discorsi suprematisti di Trump o Netanyahu, in cui entrambi proclamano “missione compiuta”, e la vittoria totale del movimento sionista sui palestinesi. Sta invece in un paragrafo ben sepolto nelle 180 pagine del documento, il documento più dettagliato, si vanta Trump, mai prodotto prima su questo conflitto. Esattamente.

È il paragrafo che dice che lo scambio di terre fatto dagli israeliani potrebbe includere le ” aree popolate e non popolate “. Il documento è preciso sulla popolazione a cui si riferisce, è la popolazione palestinese del 1948 del cosiddetto triangolo settentrionale di Israele – Kafr Qara, Baqa-al-Gharbiyye, Umm al-Fahm, Qalansawe, Tayibe, Kafr Qasim, Tira, Kafr Bara e Jaljulia.

Il documento continua: “La Visione contempla la possibilità, soggetta all’accordo delle parti, che i confini di Israele vengano ridisegnati in modo che le comunità del Triangolo vengano a far parte dello Stato di Palestina. In questo accordo, i diritti civili degli abitanti delle comunità del Triangolo saranno assoggettate alle leggi, ove applicabili, e alle decisioni giudiziarie delle autorità competenti.”

Questa è la parte nascosta ma più pericolosa di questo piano. Il Triangolo ospita circa 350.000 palestinesi, tutti cittadini israeliani, abbarbicati sul confine nord-occidentale della Cisgiordania. Umm al-Fahm, la città principale, ha dato i natali ad alcuni dei più attivi difensori di Al Aqsa.

Yousef Jabareen, un membro della Knesset della Lista Araba Unita [formata da partiti arabi di Israele e terza forza nel parlamento israeliano, ndtr.] mi ha detto: “Umm al-Fahm è la mia città, Wadi Ara è la mia anima. Il Triangolo è la patria di centinaia di migliaia di cittadini arabo-palestinese che vivono sulla propria terra. Il programma di annessione e trasferimento di Trump e Netanyahu ci strappa dalla nostra patria e revoca la nostra cittadinanza; un danno esistenziale a tutti i cittadini della minoranza araba. Ora è il momento per gli ebrei e gli arabi che hanno a cuore democrazia e uguaglianza di schierarsi e lavorare insieme contro questo pericoloso piano.” 

‘Pulizia etnica’ ufficiale

Per anni i leader israeliani di centro o di destra hanno giocherellato con il “trasferimento statico” di queste popolazioni fuori da Israele. All’idea di uno scambio di popolazione e territori avevano alluso gli ex primi ministri Ehud Barak e Ariel Sharon. Ma è stato solo Avigdor Lieberman ad aver sposato la causa dell’espulsione dei palestinesi. 

Egli propugna di privare un numero ipotetico di 350.000 palestinesi del Triangolo della loro cittadinanza israeliana e costringere l’altro 20% della popolazione israeliana non ebrea a fare un “giuramento di lealtà” a Israele quale ” Stato Sionista Ebraico ” o affrontare l’espulsione in uno Stato palestinese.

Due anni fa Netanyahu aveva suggerito a Trump che Israele avrebbe dovuto liberarsi del Triangolo. Oggi questi piani di pulizia etnica sono stati suggellati in un documento ufficiale della Casa Bianca. 

Ayman Odeh, un membro palestinese della Knesset, ha twittato che l’annuncio di Trump dà “il semaforo verde alla revoca della cittadinanza a centinaia di migliaia di cittadini arabo- palestinesi che vivono nel nord di Israele”.

Sostegno a Trump

L’altro aspetto notevole dell’annuncio di martedì alla Casa Bianca è stata la presenza nell’uditorio degli ambasciatori degli Emirati, Bahrain e Oman. Arabia Saudita, Egitto ed Emirati Arabi Uniti hanno accolto il piano senza riserve. Anche il Qatar lo ha fatto, sebbene abbia aggiunto che lo Stato palestinese dovrebbe essere negoziato con i confini del 1967 e i palestinesi dovrebbero mantenere il diritto al ritorno.

Trump ha detto di essere stato stupito dal numero di chiamate che ha ricevuto dai leader di tutto il mondo a sostegno del suo piano, incluso il Primo Ministro britannico, Boris Johnson.

Buttando al vento quattro decenni di politica estera britannica sulla soluzione dei due Stati, Johnson ha sostenuto il piano di Trump con tutto il peso del Regno Unito. Anche il ministro degli esteri Dominic Raab ha dato appoggio all’accordo “chiaramente una proposta seria che riflette i grandi sforzi e il lungo tempo richiesto.” ha detto.

“Non riesco a credere alle dimensioni del sostegno ricevuto stamattina.” si è vantato Trump. “Mi hanno chiamato dei leader, Boris [Johnson] ha chiamato; così tanti hanno chiamato. Tutti mi dicono ‘cosa possiamo fare per aiutare’”.

Ci sono alcuni comunque che si sono resi conto del pericolo di questo piano. Il Senatore Chris Murphy è uno di loro. Ha twittato: “L’annessione unilaterale della valle del fiume Giordano e delle colonie esistenti, dichiarata illegale dalle leggi USA e internazionali, riporta indietro di decenni il processo di pace. E pone un rischio reale di violenze e un’enorme destabilizzazione in luoghi come la Giordania.”

 A casa da soli

Nessuno dovrebbe sottovalutare la portata storica della dichiarazione appena fatta. La soluzione dei due Stati o l’idea che uno Stato palestinese contiguo sia attuabile e possa essere creato a fianco di uno Stato a maggioranza ebraica è morta. Ed era morta ben prima degli accordi di Oslo. 

Ai sostenitori arabi come il re di Giordania Hussein venne detto sia dai sovietici, Yevgeny Primakov, che da James Baker, l’allora Segretario di Stato, che non si sarebbe mai ottenuto uno Stato palestinese indipendente. E questo ben prima della conferenza di Madrid che precedette Oslo. Il re non aveva bisogno di presenziare al funerale del suo amico Yitzhak Rabin, assassinato nel 1995, per rendersene conto. Lo sapeva già. Ma adesso è veramente morto. 

Gli USA ora hanno dato il loro imprimatur ufficiale ai confini orientali dello Stato di Israele. La mappa (vedi map Middle East Eye published) dice tutto. Lo Stato palestinese immaginato dal piano sembra la TAC del cervello di una vittima dell’Alzheimer. Lo Stato palestinese è interamente divorato.

Il messaggio di questa mappa per i palestinesi di qualsiasi fazione è ora totalmente chiaro. Dimenticate le vostre divisioni, dimenticate cosa è successo tra Fatah e Hamas a Gaza nel 2007, accantonate pretese di colpi di stato e unitevi. Unitevi contro una minaccia esistenziale.

I palestinesi sono completamente soli. Tutti i punti fermi delle loro posizioni di negoziazione sono spariti. Non hanno Gerusalemme, niente diritto al ritorno, nessun rifugiato può ritornare, niente Alture di Golan e ora niente Valle del Giordano. Non hanno alleati arabi. La Siria è distrutta, l’Iraq diviso, Egitto e Arabia Saudita sono ora fantocci nelle mani di Israele. I palestinesi hanno perso il supporto della più popolosa e ricca Nazione araba.

Non hanno un posto dove fuggire. L’Europa è chiusa per ogni futura migrazione di massa. Hanno una sola alternativa: restare e lottare. Uniti possono annullare i piani israeliani suprematisti di pulizia etnica. L’hanno fatto in precedenza e lo possono fare di nuovo.

Una nuova lotta

Ora i palestinesi devono far fronte a questa situazione. Il riconoscimento di Israele da parte dell’OLP nel 1993 è finalmente arrivato a fine corsa, come si poteva immaginare. Le leggi USA e internazionali e le risoluzioni ONU non sarebbero mai venute in loro soccorso e, ma solo in questo senso, il brutale piano di Trump ha fatto un favore ai palestinesi. Ha fugato fantasie durate decenni.

Quella che deve cominciare ora è una nuova ondata di lotte per l’uguaglianza dei diritti in uno Stato su tutto il territorio della Palestina storica. Questo comporterà una lotta enorme. Nessuno dovrebbe sottostimare cosa succederà se i palestinesi insorgeranno ancora una volta. Ma nessuno dovrebbe aver alcun dubbio sulle conseguenze dell’accettazione.

Questa è la prima volta dal 1948 che tutti i palestinesi possono unirsi per farlo. Devono cogliere questa opportunità o scomparire e diventare una nota a piè pagina della storia.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente le opinioni editoriali di Middle East Eye.




L’“accordo del secolo” di Trump non porterà la pace, e quello era previsto

Jonathan Cook

29 gennaio 2020 – Palestine Chronicle

Buona parte dell’“accordo del secolo” di Trump a lungo rinviato non è stata una sorpresa. Nel corso degli ultimi 18 mesi fonti ufficiali israeliane hanno fatto filtrare molti dei suoi dettagli..

La cosiddetta “visione per la pace” svelata martedì ha semplicemente confermato che il governo USA ha pubblicamente adottato ciò che da molto tempo è accettato da tutti in Israele: che quest’ultimo ha il diritto di tenersi per sempre le aree di territorio che ha illegalmente sottratto nel corso degli ultimi 50 anni negando ai palestinesi una qualunque speranza di avere uno Stato.

La Casa Bianca ha scartato la tradizionale posizione USA come “mediatore neutrale” tra Israele e i palestinesi. I dirigenti palestinesi non sono stati invitati alla cerimonia e non ci sarebbero andati se lo fossero stati. Questo è un accordo concepito più a Tel Aviv che a Washington – e il suo obiettivo era di garantire che non ci sarebbe stata nessuna controparte palestinese.

Cosa più importante per Israele, esso avrà il permesso di Washington per annettersi tutte le colonie illegali, ora disseminate in tutta la Cisgiordania, così come la vasta area agricola della Valle del Giordano. Israele continuerà ad avere il controllo militare su tutta la Cisgiordania. Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha annunciato la sua intenzione di portare il prima possibile davanti al suo governo un simile piano di annessione. Ciò rappresenterà senza dubbio l’asse centrale del suo tentativo di vincere le elezioni politiche molto incerte previste per il 2 marzo.

L’accordo di Trump approva anche la già esistente annessione di Gerusalemme est a Israele. Prevede che i palestinesi facciano finta che la loro capitale sia un villaggio della Cisgiordania fuori città, chiamando “Al Quds” [Gerusalemme in arabo, ndtr.] la loro capitale. Ci sono indicazioni con effetti fortemente provocatori che ad Israele sarà consentito di dividere il complesso della moschea di Al Aqsa per creare una zona di preghiera per ebrei estremisti, come è avvenuto ad Hebron.

Oltretutto sembra che l’amministrazione Trump stia prendendo in considerazione l’approvazione delle speranze di lunga data della destra israeliana di ridefinire gli attuali confini in modo tale da trasferire potenzialmente in Cisgiordania centinaia di migliaia di palestinesi che attualmente sono cittadini di Israele. Ciò rappresenterebbe quasi sicuramente un crimine di guerra.

Il piano non prevede nessun diritto al ritorno e sembra che il mondo arabo dovrebbe pagare il conto per indennizzare milioni di rifugiati palestinesi.

Una mappa USA distribuita martedì mostra enclave palestinesi collegate da un labirinto di ponti e tunnel, compreso uno tra la Cisgiordania e Gaza. L’unico incentivo concesso ai palestinesi sono le promesse USA di rafforzare la loro economia. Date le difficili condizioni finanziarie dei palestinesi dopo decenni di furto di risorse da parte di Israele, questa non è molto più di una promessa.

Tutto ciò è stato mascherato da “realistica soluzione dei due Stati”, che offre ai palestinesi circa il 70% dei territori occupati, che a loro volta rappresentano il 22% della loro patria originaria. Detto in altro modo, ai palestinesi viene richiesto di accettare uno Stato sul 15% della Palestina storica, dopo che Israele si è impossessato di tutte le migliori terre agricole e risorse idriche.

Come tutti gli accordi prendere o lasciare, questo “Stato” rappezzato, senza un esercito e in cui Israele controllerebbe la sicurezza, i confini, le acque territoriali e lo spazio aereo, ha una scadenza. Deve essere accettato entro quattro anni. In caso contrario Israele avrà la mano libera per iniziare a depredare ancora più territorio. Ma la verità è che né Israele né gli USA si aspettano o vogliono che i palestinesi collaborino.

Per questo il piano include, oltre all’annessione delle colonie, una miriade di precondizioni irrealizzabili prima che ciò che rimane della Palestina venga riconosciuto: le fazioni palestinesi devono deporre le armi, ed Hamas si deve sciogliere; l’Autorità Nazionale Palestinese, guidata da Mahmoud Abbas, deve elimnare i sussidi alle famiglie dei prigionieri politici; i territori palestinesi devono essere reinventati come una Svizzera del Medio Oriente, una fiorente democrazia e una società aperta, tutto ciò sotto il dominio israeliano.

Al contrario il piano Trump pone fine alla farsa per cui il processo di Oslo, durato 26 anni, ha avuto come obiettivo nient’altro che la resa dei palestinesi. Gli Usa si allineano totalmente con i tentativi di Israele, perseguiti per molti decenni da tutti i suoi principali partiti, di porre le basi per un’apartheid permanente nei territori occupati.

Trump ha invitato per la presentazione sia Netanyahu, il primo ministro israeliano ad interim, che il suo principale avversario politico, l’ex-generale Benny Gantz. Entrambi erano ansiosi di esprimere il proprio appoggio incondizionato.

Tutti e due insieme rappresentano i 4/5 del parlamento israeliano. Il principale campo di scontro delle elezioni di marzo sarà chi dei due potrà sostenere di essere più in grado di mettere in atto il piano e quindi sferrare un colpo mortale ai sogni palestinesi di avere uno Stato.

Nella destra israeliana ci sono state manifestazioni di dissenso. Gruppi di coloni hanno descritto il piano come “lungi dall’essere perfetto”, un’opinione quasi sicuramente condivisa in privato da Netanyahu. L’estrema destra israeliana è contraria a qualunque discorso riguardo alla costituzione di uno Stato palestinese, per quanto illusorio.

Ciononostante Netanyahu e la sua coalizione di destra sarà ben contenta di cogliere i benefici offerti dall’amministrazione Trump. Nel contempo l’inevitabile rifiuto del piano da parte della dirigenza palestinese servirà d’ora in avanti come giustificazione per il furto da parte di Israele di altra terra. Ci sono altri, più immediati vantaggi dell’“accordo del secolo”.

Consentendo a Israele di raccogliere illeciti vantaggi dalla conquista nel 1967 dei territori palestinesi, Washington ha ufficialmente appoggiato una delle più grandi aggressioni coloniali dell’epoca contemporanea. L’amministrazione USA ha di conseguenza dichiarato una guerra aperta ai già deboli limiti imposti dalle leggi internazionali.

Anche Trump ne beneficia di persona. Ciò fornirà un diversivo dalle udienze per il suo impeachment così come una consistente offerta per corrompere, durante la corsa alle elezioni presidenziali, la sua base evangelica ossessionata da Israele e importanti finanziatori, come il magnate USA dei casinò Sheldon Adelson.

E il presidente USA è corso in aiuto a un utile alleato politico. Netanyahu spera che questo sostegno da parte della Casa Bianca possa promuovere la sua coalizione ultra-nazionalista al potere in marzo e intimidire i tribunali israeliani quando prenderanno in considerazione le accuse penali contro di lui.

Martedì è risultato evidente quanto egli preveda di ricavare un vantaggio personale dal piano di Trump. Ha rimproverato la procura generale di Israele per aver presentato le accuse di corruzione, sostenendo che è stato messo a repentaglio un “momento storico” per lo Stato di Israele.

Nel contempo Abbas ha accolto il piano con “un migliaio di no”. Trump lo ha messo totalmente in pericolo. O l’ANP abbandona il suo ruolo di subappaltante della sicurezza a favore di Israele e si scioglie, o continua come prima ma privato ora esplicitamente dell’illusione che si possa perseguire la sua trasformazione in uno Stato.

Abbas cercherà di resistere con le unghie e con i denti, sperando che Trump in questo anno di elezioni venga spodestato e che una nuova amministrazione USA ritorni alla finzione di far avanzare il processo di pace di Oslo ormai da molto tempo arrivato a scadenza. Ma se Trump vince le difficoltà aumenteranno rapidamente.

Nessuno, ancora meno l’amministrazione Trump, crede che questo piano porterà alla pace. Una preoccupazione più realistica è con quale rapidità preparerà la strada per uno spargimento di sangue ancora più grande.

– Jonathan Cook ha vinto il premio speciale di giornalismo “Martha Gellhorn”. Tra i suoi libri “Israel and the Clash of Civilisations: Iraq, Iran and the Plan to Remake the Middle East” [Israele e lo scontro di civiltà: Iraq, Iran e il piano per ridisegnare il Medio Oriente] (Pluto Press) e “Disappearing Palestine: Israel’s Experiments in Human Despair” [Palestina che sparisce: gli esperimenti israeliani sulla disperazione umana] (Zed Books). Ha contribuito con questo articolo a The Palestine Chronicle.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)