Il BDS ha bisogno di una visione politica sulla costruzione di uno Stato palestinese

Haidar Eid

24 gennaio 2020 – Al Jazeera

Finora la campagna del BDS ha evitato questa questione, ma prima o poi dovrà fare una scelta.

Sono passati quasi 15 anni da quando il movimento per il Boicottaggio, Disinvestimento, Sanzioni (BDS) è stato promosso dalla Campagna palestinese per il boicottaggio accademico e culturale di Israele (PACBI).

L’obiettivo della campagna è costringere Israele e i suoi sostenitori a riconoscere che lo status quo nelle terre palestinesi e in Israele non è sostenibile a lungo termine e che non può esserci soluzione senza rispetto del diritto internazionale, della civiltà e della democrazia. Ciò significa porre fine all’occupazione illegale della Cisgiordania e all’assedio di Gaza, garantire uguali diritti all’interno di Israele per i suoi cittadini palestinesi e concretizzare il diritto di tornare alle loro case per i palestinesi cacciati durante la diaspora.

Oggi la campagna del BDS gode del sostegno della stragrande maggioranza della società civile palestinese. La tendenza sta cambiando anche in Occidente, dove il sistema di oppressione a più livelli da parte di Israele, in particolare l’occupazione, la colonizzazione e l’apartheid, sono sempre più condannati.

La società civile internazionale sembra aver raggiunto la conclusione che, come per il Sudafrica, il sistema di oppressione israeliano non può essere arrestato senza che si ponga fine alla complicità internazionale e si intensifichi la solidarietà globale, in particolare attraverso il BDS. Pertanto, la campagna si sta rapidamente avvicinando al modello sudafricano per maturità e impatto.

Personalmente, sono stato coinvolto nel BDS sin dalle sue origini e lo sostengo con tutto il cuore. Tuttavia, sono anche preoccupato che l’attenzione del pubblico si limiti alle richieste immediate della campagna a spese dello sviluppo di un piano coerente per il futuro politico della Palestina. In altre parole, poiché la campagna si limita a garantire il rispetto dei diritti dei palestinesi, manca una visione della realtà politica all’interno della quale tali diritti saranno collocati.

La campagna del BDS è stata volutamente ambigua sulla forma che lo Stato palestinese dovrebbe prendere e ci sono ragioni tattiche per questo – evitare principalmente disaccordi all’interno del movimento.

Tuttavia, sono del parere che optare per il silenzio su importanti questioni politiche sul futuro della Palestina sia una tattica sbagliata. Concentrarsi sulla fine dell’occupazione, i diritti dei palestinesi in Israele e il diritto al ritorno deve essere inserito in un programma politico che promuova la soluzione dello Stato unico.

Questo è il motivo per cui ho co-fondato, con un gruppo di accademici e attivisti, il One Democratic State Group [Organizzazione per lo Stato unico democratico]. Il gruppo, che fa parte della One State Campaign [ODSC, Campagna per lo Stato unico democratico, organizzazione con adesioni palestinesi e israeliane fondata nel 2017, ndtr.], ha presentato un programma che non solo ribadisce il diritto al ritorno, i diritti dei cittadini palestinesi di Israele e la fine dell’occupazione, ma propone anche una visione riguardo a un’organizzazione statale, uno sviluppo economico, una giustizia sociale e una politica internazionale responsabile.

La premessa centrale è che la soluzione dei due Stati è morta e dovrebbe essere dichiarata tale, nonostante l’attaccamento che molti gruppi, specialmente quelli di sinistra, [continuano ad] avere.

È tempo che tutti coloro che nella discussione pubblica in Palestina e all’estero continuano a proporre la soluzione dei due Stati si rendano conto che la strategia israeliana di colonizzazione della Cisgiordania e la graduale espulsione dei residenti palestinesi col proposito di una futura annessione l’ha resa impossibile.

A questo punto, attenersi alla visione dei due Stati – una soluzione impossibile – significa semplicemente la continuazione dell’occupazione, della colonizzazione e dell’apartheid.

Anche se capisco perfettamente la posizione assunta dai difensori dell’approccio basato sui diritti, penso ancora che vi sia un urgente bisogno di una visione politica che aiuti a portare una luce alla fine del tunnel per quei milioni di persone che vivono tra il fiume Giordano e il Mediterraneo e per gli oltre cinque milioni di rifugiati palestinesi sparsi in tutto il mondo.

Secondo me, il diritto all’autodeterminazione non dovrebbe tradursi in una soluzione razzista in cui vi siano due Stati, uno dei quali viola i diritti dei due terzi del popolo palestinese. Vale a dire, uno Stato israeliano continuerebbe a trattare i suoi cittadini palestinesi come di seconda classe e continuerebbe a negare il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi.

Non sarebbe diverso dal Sudafrica del governo bianco, uno Stato che ha concesso diritti esclusivi a una razza escludendone tutte le altre. Se vogliamo imparare dal movimento anti-apartheid sudafricano, allora dovremmo prestare attenzione alla sua visione politica: democrazia, uguaglianza razziale e fine della segregazione.

Questa strategia ha portato alla creazione di uno Stato laico e democratico nella terra del Sudafrica, che appartiene a tutti i sudafricani, proprio come previsto dalla Carta della libertà dell’Alleanza congressuale sudafricana [The Congress South African Alleance è un’organizzazione anti-apartheid fondata in Sud Africa, su iniziativa dell’African National Congress, negli anni ‘50 del secolo scorso ndtr.].

È incredibile che alcune persone che hanno sostenuto la fine dell’apartheid non vedano la contraddizione intrinseca nel loro sostegno a uno Stato etnico palestinese, che soddisferebbe il diritto all’autodeterminazione solo di quei palestinesi che risiedono in Cisgiordania e a Gaza e priverebbe di questo diritto la diaspora e i cittadini palestinesi di Israele.

Ciò equivale a sostenere il “diritto” dei quattro famigerati Bantustan [i Bantustan, vere e proprie riserve per le popolazioni di colore, conseguenza delle politiche di aparheid portate avanti in Sud Africa dal 1948 al 1991 dal National Congress, ndtr.], Transkei, Bophuthatswana, Venda e Ciskei, all’ “indipendenza”

La soluzione dei due Stati non garantirà la democrazia, la fine della segregazione e i pieni diritti politici per tutti i palestinesi. Non fornirà l’autodeterminazione per tutti i palestinesi. In realtà, escluderà milioni di palestinesi che vivono in Israele sia nella diaspora dalla cittadinanza palestinese sia dal riconoscimento dei diritti.

Dobbiamo andare oltre il dibattito sulla soluzione tra uno e due Stati e cercare di perseguire un approccio più accurato : la lotta basata sui diritti unita a una visione politica ben definita che può essere realizzata nel quadro di uno Stato unitario con garanzia di uguaglianza per tutti i suoi cittadini, indipendentemente dalla religione, dall’etnia o dal genere.

Per il momento la campagna del BDS potrebbe attendere nel prendere una posizione, ma prima o poi dovrà farlo.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera

Haidar Eid è professore associato presso l’Università Al-Aqsa di Gaza.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Isolate e dimenticate: cosa bisogna sapere sulle “zone di tiro” di Israele in Cisgiordania

 Ramzy Baroud

14 gennaio 2020  palestinechronicle

Una notizia apparentemente ordinaria, pubblicata sul giornale israeliano Haaretz il 7 gennaio, ha fatto luce su un argomento da tempo dimenticato ma cruciale: le cosiddette “zone di tiro” di Israele in Cisgiordania.

Secondo Haaretz “Israele ha sequestrato l’unico veicolo disponibile di una equipe medica che fornisce assistenza a 1.500 palestinesi residenti all’interno di una zona di tiro militare israeliana in Cisgiordania”.

La comunità palestinese a cui è stato negato l’unico servizio medico disponibile è Masafer Yatta, un piccolo villaggio palestinese sulle colline a sud di Hebron.

Masafer Yatta, in completo e assoluto isolamento dal resto della Cisgiordania occupata, si trova nell’”Area C”, la più grande zona territoriale, circa il 60%, della Cisgiordania. Ciò significa che il villaggio, insieme a molte città, villaggi e piccole comunità isolate palestinesi, è sotto il totale controllo militare israeliano.

Non fatevi ingannare dalla fumosa logica degli Accordi di Oslo; tutti i palestinesi, in tutte le zone della Cisgiordania occupata, a Gerusalemme est e nella Striscia di Gaza assediata, sono sotto il controllo militare israeliano.

Tuttavia, sfortunatamente per Masafer Yatta e per gli abitanti dell'”Area C”, il grado di controllo vi è così soffocante che ogni aspetto della vita palestinese – libertà di movimento, istruzione, accesso all’acqua potabile e così via – è controllato da un complesso sistema di ordinanze militari israeliane che non hanno alcun riguardo per il benessere delle comunità assediate.

Non sorprende quindi che l’unico veicolo di Masafer Yatta, il disperato tentativo di realizzare un ambulatorio mobile, sia stato già confiscato in passato, e recuperato solo dopo che gli abitanti impoveriti sono stati costretti a pagare una multa ai soldati israeliani.

Non esiste una logica militare al mondo che possa giustificare razionalmente il blocco dell’accesso alle cure mediche per una comunità isolata, specialmente quando una potenza occupante come Israele è legalmente obbligata, ai sensi della Quarta Convenzione di Ginevra, a garantire l’accesso all’assistenza medica ai civili che vivono in un territorio occupato.

È naturale che la comunità di Masafer Yatta, come tutti i palestinesi nell'”Area C” e nell’intera Cisgiordania, si senta trascurata – e apertamente tradita – dalla comunità internazionale e dalla propria leadership collaborazionista.

Ma c’è qualcosa di più che rende il villaggio di Masafer Yatta veramente unico, guadagnandogli la sfortunata definizione di bantustan [territori formalmente autogovernati dalla popolazione di colore nel Sudafrica dell’apartheid, ndtr.] all’interno di un bantustan, poiché sopravvive sottoposto ad un sistema di controllo molto più complesso rispetto a quello imposto al Sud Africa nero durante il regime dell’apartheid.

Poco dopo aver occupato la Cisgiordania, Gerusalemme est e Gaza, Israele ideò uno stratagemma a lungo termine per mantenere il controllo sui territori appena occupati. Ha destinato alcune aree alla futura ricollocazione dei propri cittadini – che ora costituiscono la popolazione di coloni ebrei illegali ed estremisti in Cisgiordania – e si è anche riservato ampie parti dei territori occupati come zone di sicurezza e aree cuscinetto.

Ciò che è molto meno noto è che, durante gli anni ’70, l’esercito israeliano ha dichiarato circa il 18% della Cisgiordania “zona di tiro”.

Queste “zone di tiro” erano presumibilmente destinate ad essere campi di addestramento per i soldati dell’esercito israeliano di occupazione – sebbene i palestinesi intrappolati in quelle regioni riferiscano spesso che all’interno delle cosiddette “zone di tiro” non si svolge quasi alcun addestramento militare.

Secondo l’Ufficio di Coordinamento delle Nazioni Unite per gli Affari Umanitari (OCHA) in Palestina, ci sono ancora circa 5.000 palestinesi, divisi in 38 comunità, che vivono in circostanze veramente terribili all’interno delle cosiddette “zone di tiro”.

L’occupazione del 1967 portò a una massiccia ondata di pulizia etnica che vide l’espulsione forzata di circa 300.000 palestinesi dai territori appena conquistati. Fra le molte vulnerabili comunità ripulite etnicamente c’erano anche i beduini palestinesi, che continuano a pagare il prezzo dei progetti coloniali israeliani nella Valle del Giordano, nelle colline a sud di Hebron e in altre parti della Palestina occupata.

La loro vulnerabilità è aggravata dal fatto che l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) agisce con poco riguardo per i palestinesi che vivono nell'”Area C”, lasciati da soli a sopportare e resistere alle pressioni israeliane, ricorrendo spesso all’ingiusto sistema giudiziario di Israele per riconquistare alcuni dei propri diritti fondamentali.

Gli Accordi di Oslo, firmati nel 1993 tra la leadership palestinese e il governo israeliano, dividevano la Cisgiordania in tre regioni: “Area A”, teoricamente sotto controllo palestinese autonomo e costituita dal 17,7% della dimensione complessiva della Cisgiordania; “Area B”, 21% e sotto il controllo condiviso di Israele-ANP; “Area C”, il resto della Cisgiordania sotto il totale controllo di Israele.

L’accordo avrebbe dovuto essere temporaneo, e terminare nel 1999 una volta conclusi i “negoziati sullo status finale” e firmato un accordo di pace complessivo. Invece, è diventato a priori lo status quo.

Per quanto sfortunati siano i palestinesi che vivono nell'”Area C”, quelli che vivono nella “zona di tiro” all’interno dell'”Area C” affrontano difficoltà ancora maggiori. Secondo le Nazioni Unite, le loro traversie includono “la confisca delle proprietà, la violenza dei coloni, i maltrattamenti da parte dei soldati, le restrizioni di accesso e movimento e/o la scarsità d’acqua”.

Come ci si poteva aspettare, nel corso degli anni molti insediamenti ebraici illegali sono sorti in queste “zone di tiro”, un chiaro segno del fatto che queste aree non hanno mai avuto uno scopo militare, ma erano destinate a fornire una giustificazione legale a Israele per confiscare quasi un quinto della Cisgiordania per una futura espansione coloniale.

Nel corso degli anni, Israele ha messo in atto la pulizia etnica di tutti i palestinesi che rimanevano in queste “zone di tiro”, lasciandone solo 5.000, che probabilmente subiranno lo stesso destino se l’occupazione israeliana dovesse continuare lungo la stessa direttrice di violenza.

Questo rende la storia di Masafer Yatta un microcosmo della più ampia e tragica storia di tutti i palestinesi. È anche un riflesso della maligna natura del colonialismo israeliano e dell’occupazione militare, per cui i palestinesi sotto occupazione perdono la loro terra, la loro acqua, la loro libertà di movimento e, infine, persino le cure mediche di base.

Secondo le Nazioni Unite, queste dure “condizioni creano un ambiente coercitivo che fa pressione sulle comunità palestinesi affinché abbandonino quelle aree”. In altre parole, pulizia etnica, da sempre l’obiettivo strategico di Israele.

Ramzy Baroud è giornalista ed editore di The Palestine Chronicle. È autore di cinque libri. Il suo ultimo è These Chains Will Be Broken: Palestinian Stories of Struggle and Defiance in Israeli Prisons [Queste catene saranno spezzate: storie palestinesi di lotta e sfida nelle carceri israeliane], (Clarity Press, Atlanta). Baroud è ricercatore senior non residente presso il Center for Islam and Global Affairs (CIGA), dell’Università Zaim di Istanbul (IZU).

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Sostenere la Palestina: come combattere l’uso improprio di “anti-semitismo” da parte di Israele

Ramzy Baroud

1 gennaio 2020 – Middle East Monitor

In un discorso tenuto nel nord dell’Inghilterra nel marzo 2018, ho proposto che la migliore risposta alle false accuse di antisemitismo, che spesso vengono scagliate contro comunità e intellettuali pro-palestinesi di tutto il mondo, fosse quella di avvicinarsi ancora di più alla narrazione palestinese.

In effetti, la mia proposta non voleva essere in alcun modo una risposta dettata dal sentimento.

“La rivendicazione della narrazione palestinese” è stato negli ultimi anni il filo conduttore nella maggior parte dei miei discorsi pubblici e dei miei scritti. Tutti i miei libri e gran parte dei miei studi e delle ricerche accademiche si sono fortemente concentrati sulle posizioni del popolo palestinese – i suoi diritti, la storia, la cultura e le aspirazioni politiche – al centro di ogni vera comprensione della lotta palestinese contro il colonialismo e l’apartheid israeliani.

È vero, non c’era nulla di particolarmente originale nel mio discorso nell’Inghilterra settentrionale. Avevo già tenuto una versione di quel discorso in altre parti del Regno Unito, in Europa e altrove. Ma ciò che ha reso memorabile quell’evento è una conversazione che ho avuto con un appassionato attivista, che si è presentato come consigliere dell’ufficio del capo del Partito laburista britannico, Jeremy Corbyn.

Sebbene l’attivista fosse d’accordo con me sulla necessità di sostenere la narrazione palestinese, ha insistito sul fatto che il modo migliore per Corbyn di allontanare le accuse antisemite, che hanno perseguitato la sua leadership fin dal primo giorno, è che il partito Laburista emettesse una condanna radicale e decisiva dell’antisemitismo, in modo che Corbyn potesse mettere a tacere i suoi critici e fosse finalmente in grado di concentrarsi sul tema impellente dei diritti dei palestinesi.

Io ero dubbioso. Ho spiegato all’acceso attivista molto sicuro di sé che la manipolazione sionista e l’uso improprio dell’antisemitismo sono dei fenomeni che hanno preceduto Corbyn di molti decenni e che saranno sempre presenti finché il governo israeliano avrà la necessità di distogliere l’attenzione dai suoi crimini di guerra contro i palestinesi e di reprimere la solidarietà filo-palestinese in tutto il mondo.

Gli ho spiegato che, mentre il razzismo anti-ebraico è un fenomeno reale che deve essere affrontato, l’ “antisemitismo”, come definito da Israele e dai suoi alleati sionisti, non è una questione morale che debba essere risolta con un comunicato stampa, non importa quanto incisivo. Piuttosto è una cortina di fumo, con l’obiettivo finale di distrarre dalla vera questione, che è il crimine dell’ occupazione militare, del razzismo e dell’apartheid in Palestina.

In altre parole, nessuna mole di parole, discussioni o autodifese può verosimilmente convincere i sionisti che le richieste della fine dell’occupazione militare israeliana in Palestina o dello smantellamento del regime di apartheid israeliano o qualsiasi critica aperta alle politiche del governo della destra israeliana non siano, in effetti, atti di antisemitismo.

Ahimè, l’attivista insisteva sul fatto che una solida dichiarazione che chiarisse la posizione del partito Laburista sull’antisemitismo avrebbe finalmente assolto Corbyn e protetto la sua eredità contro la macchia immeritata.

Il resto è storia. Il partito Laburista è andato a caccia delle streghe per individuare i “veri” antisemiti tra i suoi membri. L’ epurazione senza precedenti ha colpito molte brave persone che hanno dedicato anni al servizio delle loro comunità e alla difesa dei diritti umani in Palestina e altrove.

La dichiarazione per porre fine a tutte le dichiarazioni è stata seguita da molte altre. Numerosi articoli sono stati scritti e discussioni sono state fatte in difesa di Corbyn – senza risultati. Solo pochi giorni prima che i laburisti perdessero le elezioni generali a dicembre il Simon Wiesenthal Centre [Centro Simon Wiestenthal, ONG con sede a Los Angeles intitolata al famoso cacciatore di nazisti. Fondata nel 1977 per combattere l’antisemitismo, si propone di difendere i diritti umani “affrontando l’antisemitismo, l’odio e il terrorismo, promuovendo i diritti umani e la dignità, stando a fianco di Israele, difendendo gli ebrei in tutto il mondo e insegnando le lezioni dell’Olocausto per le future generazioni”, ndtr.] ha proclamato Corbyn, uno dei leader più sinceri e ben intenzionati della Gran Bretagna nell’era contemporanea, il “maggiore antisemita del 2019″. Questo a proposito dell’impegno dei sionisti.

Non importa se il partito di Corbyn abbia perso le elezioni in parte a causa delle diffamazioni sioniste e accuse infondate di antisemitismo. Ciò che conta davvero per me come intellettuale palestinese che ha sperato che la leadership di Corbyn potesse costituire un cambiamento di paradigma riguardo l’atteggiamento del paese nei confronti di Israele e Palestina, è il fatto che i sionisti siano effettivamente riusciti a mantenere il dibattito focalizzato sulle priorità israeliane e sulle sensibilità sioniste. Mi rattrista il fatto che, mentre la Palestina avrebbe dovuto occupare il centro della scena, almeno durante gli anni della leadership di Corbyn, sia rimasta in realtà marginale, denotando ancora una volta come la solidarietà con la Palestina sia diventata un ostacolo politico per chiunque speri di vincere un’elezione – nel Regno Unito e ovunque in Occidente.

Trovo sconcertante, anzi inquietante, che Israele, direttamente o meno, sia in grado di determinare la natura di qualsiasi discussione sulla Palestina in Occidente, non solo all’interno delle tipiche piattaforme tradizionali, ma anche dei circoli filo-palestinesi. Ad esempio, ho ascoltato ripetutamente attivisti che si chiedevano se la soluzione dello Stato unico fosse mai possibile, per il fatto che “Israele semplicemente non l’accetterebbe mai”.

Sfido spesso il mio pubblico a fondare la loro solidarietà con la Palestina sull’ amore, sul sostegno e sull’ammirazione reali per il popolo palestinese, per la sua storia, per la sua lotta anti-colonialista e per le migliaia di eroi ed eroine che hanno sacrificato la propria vita perché il loro popolo possa vivere in libertà.

Quanti di noi sanno fare i nomi dei migliori poeti, artisti, femministe, calciatori, cantanti e storici della Palestina? Che reale familiarità possediamo con la geografia palestinese, con le complessità della sua politica e con la ricchezza della sua cultura?

Anche all’interno di piattaforme che sono solidali con la lotta palestinese, c’è una paura intrinseca che tale simpatia possa essere fraintesa come antisemitismo, fino al punto che le voci palestinesi vengono spesso trascurate, se non completamente sostituite da voci ebraiche antisioniste. Vedo che ciò accade abbastanza spesso anche nei media mediorientali che si presume sostengano la causa palestinese.

Questo fenomeno è in gran parte collegato alla Palestina e solo alla Palestina. Mentre la lotta anti-apartheid in Sudafrica e la lotta per i diritti civili negli Stati Uniti – come nel caso di molti autentici movimenti di liberazione anti-coloniale nel mondo – hanno utilizzato strategicamente l’intersezionalità per collegarsi con altri gruppi, a livello locale, nazionale o internazionale, i movimenti in sé si reggevano su voci nere come realmente rappresentative delle lotte dei loro popoli.

Storicamente i palestinesi non sono sempre stati emarginati all’interno del loro stesso discorso. Una volta l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) [Fondata a Gerusalemme nel 1964 con l’obiettivo di liberare la Palestina, nel 1993 ha riconosciuto lo Stato di Israele. Attualmente gode dello status permanente di “osservatore” presso l’Assemblea generale dell’ONU, ndtr.] nonostante le sue numerose carenze, indicava una posizione politica unitaria palestinese che serviva da cartina di tornasole per qualsiasi individuo, gruppo o governo in merito alla sua posizione sui diritti e sulla libertà dei palestinesi.

Gli accordi di Oslo hanno posto fine a tutto ciò – hanno frammentato il discorso palestinese così come hanno diviso il popolo palestinese. Da allora, il messaggio proveniente dalla Palestina è diventato confuso, frazionato e spesso autolesionistico. Il movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) ha fatto un lavoro straordinario nel portare un po’ di chiarezza nel tentativo di articolare un discorso palestinese universale.

Tuttavia, il BDS deve ancora proporre una strategia politica centralizzata che venga trasmessa attraverso un organo palestinese eletto democraticamente. Finché l’OLP persisterà nella sua inerzia e con l’assenza di un’alternativa veramente democratica, è probabile che la crisi del discorso politico palestinese continui.

Allo stesso tempo, ai sionisti non deve essere permesso di determinare la natura della nostra solidarietà con il popolo palestinese. Mentre la vera solidarietà palestinese richiede il completo rifiuto di tutte le forme di razzismo, incluso l’antisemitismo, il campo filoisraeliano deve essere completamente escluso da qualsiasi conversazione relativa ai valori e alla moralità di ciò che significa essere “pro-Palestina”.

L’ essere anti-sionisti non è sempre lo stesso dell’essere pro-Palestina, in quanto il primo [atteggiamento] deriva dal rifiuto delle idee razziste e sioniste e il secondo implica una reale connessione e un legame con la Palestina e il suo popolo.

Essere pro-Palestina significa anche rispettare la centralità della voce palestinese, perché senza la narrazione palestinese non può esserci solidarietà reale e significativa, e anche perché, alla fine, saranno palestinesi stessi a liberarsi.

“Non sono un liberatore”, ha detto il leggendario rivoluzionario sudamericano Ernesto Che Guevara. “I liberatori non esistono. Le persone si liberano da sole”.

Perché i palestinesi “si liberino” dovranno rivendicare la loro centralità nella lotta per i diritti dei palestinesi ovunque, per esprimere chiaramente il proprio discorso e per essere i fautori della propria libertà. Nient’altro sarà sufficiente.

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Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




L’antisemitismo è stato utilizzato per calunniare la sinistra, mentre la destra prende di mira gli ebrei

Jonathan Cook

30 dicembre 2019 – Middle East Eye

Israele potrebbe uscire rafforzato usando politicamente l’antisemitismo, ma non senza gravi conseguenze per gli ebrei dell’Occidente.

L’anno è finito con due terribili battute d’arresto per quanti chiedono giustizia per il popolo palestinese. Una è stata la sconfitta nelle elezioni politiche britanniche di Jeremy Corbyn – il leader europeo più solidale con i palestinesi. Ha subito le conseguenze di quattro anni di continui insulti da parte dei media, che hanno ridefinito il suo attivismo come prova di antisemitismo.

L’antisemitismo è una calunnia estremamente difficile da controbattere

Il crollo elettorale del partito Laburista non è direttamente attribuibile alle calunnie di antisemitismo. Riguarda piuttosto principalmente l’incertezza del partito nel formulare una risposta convincente alla Brexit. Ma le accuse di antisemitismo sono riuscite ad alimentare profonde divisioni all’interno del partito di Corbyn, facendolo sembrare debole e, per la prima volta, ambiguo. Ha scorrettamente seminato dubbi persino tra i suoi sostenitori: se non è stato in grado di risolvere quel problema nel suo partito, come avrebbe potuto guidare il Paese?

Qualunque futuro leader politico, in Gran Bretagna o altrove, che prenda in considerazione una posizione filo-palestinese – o un programma economico radicale in contrasto con i principali mezzi di comunicazione – ne dovrà tener conto. L’antisemitismo è una calunnia estremamente difficile da controbattere.

Definire l’antisemitismo

La seconda sconfitta è stata il nuovo decreto esecutivo emanato dal presidente USA Donald Trump, che ha accolto una nuova e controversa definizione di antisemitismo, che intende assimilare le critiche a Israele, l’attivismo filopalestinese e la difesa delle leggi internazionali all’odio nei confronti degli ebrei.

La lezione su dove ciò intenda portare è stata evidenziata dall’esperienza di Corbyn. Prima il suo partito è stato obbligato ad accettare la stessa definizione formulata dalla International Holocaust Remembrance Alliance [Alleanza Internazionale per il Ricordo dell’Olocausto, organizzazione internazionale a cui aderisce una trentina di Paesi, ndtr.] (IHRA), nel tentativo di placare le critiche. Invece ha scoperto che questo ha fornito ancora più armi per attaccarlo.

Il decreto esecutivo di Trump intende bloccare il dibattito nei campus, uno dei pochi spazi pubblici rimasti negli USA in cui le voci dei palestinesi possono ancora farsi sentire. Ciò viola in modo palese il Primo Emendamento, che protegge il diritto di parola. Il governo federale ora si è schierato con i 27 Stati in cui i lobbysti di Israele sono riusciti a far passare leggi che penalizzano quanti sostengono i diritti dei palestinesi.

Tali iniziative sono state replicate altrove. Questo mese il parlamento francese ha dichiarato che l’antisionismo – o l’opposizione a Israele come Stato ebraico che nega uguali diritti ai palestinesi – equivale all’antisemitismo. 

E ancor prima il parlamento tedesco aveva approvato una risoluzione che dichiara antisemita l’appoggio al crescente movimento internazionale che sollecita il boicottaggio di Israele, sul modello delle iniziative che hanno posto fine all’apartheid in Sud Africa. I parlamentari tedeschi hanno persino equiparato gli slogan del movimento per il boicottaggio alla propaganda nazista.

All’orizzonte ci sono molte altre limitazioni alle libertà fondamentali, tutte in appoggio a Israele.

Far tacere le critiche

Il primo ministro inglese, il conservatore Boris Johnson, ha promesso di impedire alle autorità locali di appoggiare il boicottaggio di Israele, mentre John Mann, suo cosiddetto zar dell’antisemitismo, sta minacciando di far tacere i media in rete che criticano Israele, di nuovo con il pretesto dell’antisemitismo. Sono gli stessi media che avevano appoggiato Corbyn, l’avversario politico di Johnson.

Ironicamente tutte queste leggi, decreti e risoluzioni, emanate apparentemente in nome dei diritti umani, stanno soffocando il lavoro concreto delle organizzazioni per i diritti umani. In assenza di un processo di pace, devono scontrarsi con il carattere ideologico di Israele in maniera inedita.

Mentre Trump, Johnson ed altri erano impegnati a ridefinire l’antisemitismo per aiutare Israele, questo mese Human Rights Watch (HRW) ha reso pubblico un rapporto che rivela che Israele – lo Stato che sostiene di rappresentare tutti gli ebrei – per più di 50 anni ha utilizzato gli ordini militari per violare i più basilari diritti dei palestinesi. Nella Cisgiordania occupata, ai palestinesi vengono negate “libertà basilari come sventolare bandiere, protestare pacificamente contro l’occupazione, unirsi ai principali movimenti politici e diffondere materiale politico.”

Al contempo la Commissione ONU per l’Eliminazione delle Discriminazioni Razziali è andata anche oltre, condannando Israele per i suoi soprusi verso tutti i palestinesi sottoposti al suo potere, senza distinguere tra quelli sotto occupazione e quelli con una cittadinanza di serie B all’interno di Israele.

Il gruppo di esperti giuridici sui diritti ha di fatto riconosciuto che le violazioni di Israele a danno dei palestinesi sono insite nell’ideologia sionista dello Stato, e non sono una caratteristica dell’occupazione. È stato un modo tutt’altro che velato di dichiarare che uno Stato che privilegia strutturalmente gli ebrei e opprime sistematicamente i palestinesi ha un “comportamento razzista” – una formulazione ora ridicolmente definita dall’IHRA come prova di antisemitismo.

Clamoroso fallimento

Nell’ultimo rapporto di HRW la direttrice per il Medio Oriente Sarah Elah Whitson ha osservato: “I tentativi di Israele di giustificare la privazione dei diritti civili fondamentali per i palestinesi per più di 50 anni in base delle esigenze di un’eterna occupazione militare ormai non funzionano più.”

Ma è proprio quello che la nuova ondata di leggi e di decreti è destinata a garantire. Mettendo a tacere le critiche contro le violazioni israeliane contro i diritti dei palestinesi con il pretesto che tali critiche siano antisemitismo mascherato, alcuni governi occidentali possono sostenere che queste violazioni non stanno avvenendo.

Di fatto ci sono due raggruppamenti politici molto diversi che sostengono l’attuale repressione di ogni solidarietà verso i palestinesi – e per ragioni molto diverse. Nessuno dei due si preoccupa della protezione degli ebrei. Una fazione include i partiti di centro dell’Occidente che avrebbero dovuto controllare per un quarto di secolo il processo di pace in Medio Oriente. Essi vogliono impedire ogni critica che osi considerarli responsabili del loro clamoroso fallimento – un fallimento ancora più evidente ora che Israele non è più disposto a sostenere di essere interessato alla pace e cerca invece di annettere il territorio palestinese.

Non è fallita, come era destinata a essere, solo la versione della pace molto limitata e focalizzata su Israele dei centristi, ma si è ottenuto l’esatto contrario dell’obiettivo dichiarato. Israele ha sfruttato la passività e l’indulgenza occidentali per rafforzare ed estendere l’occupazione, così come per intensificare le leggi razziste all’interno di Israele.

Ciò si è materializzato nel 2018 con l’approvazione da parte del governo del primo ministro Benjamin Netanyahu della legge sullo Stato-Nazione, che dichiara non solo lo Stato di Israele, ma un’indefinitamente estesa “Terra di Israele” come la patria storica di tutto il popolo ebraico.

Smascherare l’ipocrisia

Ora, i centristi sono determinati a schiacciare quanti desiderano evidenziare la loro ipocrisia e la loro costante alleanza con uno Stato apertamente razzista e risolutamente contrario all’autodeterminazione del popolo palestinese.

Quindi hanno utilizzato l’antisemitismo come arma con tale successo che la scorsa settimana studiosi dei diritti umani hanno accusato la Corte Penale Internazionale dell’Aia – che dovrebbe difendere le leggi internazionali – di tirarla per le lunghe indefinitamente per evitare di aprire un’inchiesta equa sui crimini di guerra di Israele. I procuratori della CPI sembrano timorosi di finire loro stessi sotto accusa.

L’altra componente dietro la repressione delle critiche contro Israele sono le rinascenti destra ed estrema destra razziste, che hanno sempre più successo nello sconfiggere i centristi screditati nella politica di USA ed Europa.

Amano Israele perché offre un alibi al loro nazionalismo bianco. Difendendo Israele dalle critiche – definendole antisemitismo – cercano una patina di moralità per il proprio suprematismo bianco.

Se gli ebrei sostengono legittimamente di essere il popolo eletto in Israele, perché i bianchi non possono affermare altrettanto di se stessi negli USA e in Europa? Se Israele tratta i palestinesi non come nativi ma come immigrati intrusi in terra ebraica, perché Trump o Johnson non possono allo stesso modo definire i non bianchi come infiltrati ed usurpatori di terra bianca?

Più la destra esalta il nazionalismo bianco, il fervore contro gli immigrati, più è in grado di minare le soluzioni politiche offerte dai suoi oppositori di centro e di sinistra.

Avventato errore di valutazione

Cosa ancora più sorprendente, buona parte dei dirigenti ebrei negli USA e in Europa ha attivamente aiutato la destra in questo progetto politico, tanto sono accecati dal loro impegno nei confronti di Israele come Stato ebraico.

Quindi, dove va a parare questa politica dell’Occidente? I centristi hanno fatto uscire dalla lampada il genio dell’antisemitismo per danneggiare la sinistra, ma è la destra populista che ora si attiva per perfezionarne l’uso come arma e promuovere i propri fini. Alimenteranno paura e odio contro le minoranze, compresi palestinesi, arabi e musulmani, tutto a beneficio dell’ideologia di Israele.

Tuttavia anche gli ebrei dell’Occidente ne pagheranno il prezzo. I discorsi di Trump hanno ripetutamente imputato agli ebrei americani motivazioni malvage, avidità e doppia lealtà. Tuttavia, di fronte al tenace sostegno di Trump nei confronti di Israele, negli USA i dirigenti ebrei conservatori hanno preferito rimanere quasi totalmente in silenzio riguardo al fatto che il presidente alimenti sentimenti nativisti.

Si tratta di un avventato errore di valutazione. La finta battaglia per combattere un presunto antisemitismo di sinistra ha già distratto l’attenzione e le energie dalla lotta contro la concretissima rinascita dell’antisemitismo di destra.

Israele potrebbe uscire rafforzato usando a scopo politico l’antisemitismo, ma in conseguenza di ciò gli ebrei dell’Occidente si potrebbero trovare esposti all’odio più che in qualunque altro periodo dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.

Le opinioni espresse in questo articolo impegnano solo il suo autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Jonathan Cook è un giornalista britannico residente dal 2001 a Nazareth. Ha scritto tre libri sul conflitto israelo-palestinese. Ha vinto il Martha Gellhorn Special Prize for Journalism [il premio speciale Martha Gellhorn per il giornalismo].

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Sulla via di Gaza: La Freedom Flotilla salperà ancora

Ramzy Baroud

23 dicembre 2019 – Middle East Monitor

Che cosa è Gaza per noi se non un missile israeliano, un razzo rudimentale, una casa demolita, un bambino ferito che viene portato via dai suoi coetanei sotto una grandinata di pallottole? Ogni giorno, Gaza ci viene presentata sotto forma di un’immagine di sangue o un video drammatico, nessuno dei quali può davvero cogliere la realtà quotidiana della Striscia – la sua formidabile risolutezza, gli atti quotidiani di resistenza e il genere di sofferenza che non potrebbe mai essere realmente compreso attraverso un’abituale occhiata ad un post dei social media.

Finalmente la procuratrice capo della Corte Penale Internazionale (CPI) Fatou Bensouda, ha dichiarato la propria “convinzione” che “in Cisgiordania, compresa Gerusalemme est, e nella Striscia di Gaza sono stati commessi, o vengono commessi, crimini di guerra”. Appena è stata fatta la dichiarazione della CPI il 20 dicembre, le organizzazioni filo palestinesi hanno vissuto un raro momento di gioia. Alla fine Israele verrà messo sotto accusa, pagando potenzialmente per i continui bagni di sangue nella isolata ed assediata Striscia di Gaza, per l’occupazione militare e l’apartheid in Cisgiordania e per molto altro ancora.

Però potrebbero volerci anni perché la CPI inizi le sue procedure legali ed emetta la sentenza. Inoltre non ci sono garanzie politiche che una sentenza della CPI che incrimina Israele sarà mai rispettata, tanto meno applicata.

Nel frattempo l’assedio di Gaza continua, per essere interrotto solo da una guerra massiccia, come quella del 2014, o da una meno devastante, simile all’ultimo attacco di Israele in novembre. E ad ogni guerra vengono prodotte ulteriori terribili statistiche, altre vite vengono stroncate ed altre storie dolorose vengono nuovamente raccontate.

Per anni le associazioni della società civile in tutto il mondo hanno faticosamente lavorato per destabilizzare questo orrendo status quo. Hanno organizzato e svolto veglie, scritto lettere ai propri rappresentanti politici e via dicendo. Non è servito a niente. Frustrato dall’inazione dei governi, nell’agosto 2008 un piccolo gruppo di attivisti è salpato per Gaza su una piccola imbarcazione, riuscendo in ciò che le Nazioni Unite non sono riuscite a fare: hanno spezzato, seppur fugacemente, l’assedio israeliano dell’impoverita Striscia.

Questa azione simbolica del movimento ‘Liberare Gaza’ ha avuto un enorme impatto. Ha inviato un chiaro messaggio ai palestinesi nella Palestina occupata: che il loro destino non è determinato solo dal governo israeliano e dalla macchina militare; che ci sono altri soggetti capaci di sfidare il tremendo silenzio della comunità internazionale; che non tutti gli occidentali sono complici come i propri governi delle interminabili sofferenze del popolo palestinese.

Da allora molte altre missioni di solidarietà hanno tentato di seguire questo esempio, giungendo attraverso il mare a bordo di flottiglie o attraverso il deserto del Sinai con grandi convogli. Alcune sono riuscite a raggiungere Gaza, distribuendo medicinali ed altri prodotti. Tuttavia in maggioranza sono state respinte o hanno avuto le loro navi sequestrate in acque internazionali da parte della marina israeliana.

Il risultato di tutto ciò è stato aver scritto un nuovo capitolo della solidarietà con il popolo palestinese che è andato oltre le occasionali manifestazioni e le classiche firme su una petizione.

La seconda Intifada palestinese, la rivolta del 2002, aveva già ridefinito il ruolo dell’“attivista” in Palestina. La creazione dell’“International Solidarity Movement” (ISM) ha permesso a migliaia di attivisti internazionali da tutto il mondo di partecipare all’“azione diretta” in Palestina – ricoprendo così, seppur simbolicamente, il ruolo tipicamente svolto da una forza di protezione delle Nazioni Unite.

Gli attivisti dell’ISM tuttavia usavano i mezzi non violenti di testimonianza del rifiuto della società civile dell’occupazione israeliana. Prevedibilmente, Israele non ha rispettato il fatto che molti di questi attivisti provenissero da Paesi considerati “amici” in base agli standard di Tel Aviv. Le uccisioni di cittadini come l’americana Rachel Corrie e il britannico Tom Hurndall a Gaza, rispettivamente nel 2003 e 2004, è stata solo un prodromo della violenza israeliana che sarebbe seguita.

Nel maggio 2010 la marina israeliana ha attaccato la Freedom Flotilla formata dalla nave di proprietà turca ‘MV Mavi Marmara’ ed altre, uccidendo dieci operatori umanitari disarmati e ferendone almeno altri 50. Come nei casi di Rachel e Tom, non vi è stata una vera attribuzione di responsabilità per l’attacco israeliano alle navi della solidarietà.

Occorre capire che la violenza israeliana non è casuale né è solo un riflesso del noto disprezzo israeliano per il diritto internazionale ed umanitario. Con ogni episodio di violenza Israele spera di dissuadere i soggetti esterni dall’occuparsi degli “affari israeliani”. Eppure, di volta in volta il movimento di solidarietà ritorna con un messaggio di sfida, ribadendo che nessun Paese, nemmeno Israele, ha il diritto di commettere impunemente crimini di guerra.

Dopo un recente incontro nella città olandese di Rotterdam, la coalizione internazionale della Freedom Flotilla, che consta di molti gruppi internazionali, ha deciso di salpare ancora una volta per Gaza. La missione di solidarietà è prevista per l’estate del 2020 e, come nella maggior parte dei 35 tentativi precedenti, è probabile che la Flotilla venga intercettata dalla marina israeliana. Ma probabilmente seguirà un altro tentativo, ed altri ancora, fino a quando l’assedio di Gaza sarà completamente tolto. È diventato chiaro che lo scopo di queste missioni umanitarie non è di consegnare un po’ di farmaci ai circa due milioni di gazawi sotto assedio, ma di sfidare la narrazione israeliana che ha riportato l’occupazione e l’isolamento dei palestinesi allo status quo precedente, cioè un “affare israeliano”.

Secondo l’ufficio delle Nazioni Unite nella Palestina occupata, il tasso di povertà a Gaza sembra si stia incrementando alla velocità allarmante del 2% all’anno. Alla fine del 2017 il 53% della popolazione di Gaza viveva in stato di povertà, e due terzi di essa in “povertà assoluta”. Questo terribile dato include oltre 400.000 bambini.

Una fotografia, un video, un grafico o un post sui social media non potranno mai trasmettere la sofferenza di 400.000 bambini che soffrono la fame ogni giorno della loro vita, affinché il governo israeliano possa soddisfare i suoi scopi militari e politici a Gaza. Certo, Gaza non è soltanto un missile israeliano, una casa demolita ed un bimbo ferito. È una nazione intera che sta soffrendo e resistendo, nel quasi totale isolamento dal resto del mondo.

La vera solidarietà dovrebbe avere l’obbiettivo di costringere Israele a porre fine alla protratta occupazione e all’assedio del popolo palestinese, navigando in alto mare, se necessario. Per fortuna i bravi attivisti della Freedom Flotilla stanno facendo proprio questo.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




L’antisionismo riguarda la correzione di errori storici, non l’incoraggiamento all’antisemitismo

Ran Greenstein

23 dicembre 2019 – +972

Il dibattito sul sionismo è fondamentale, ma non deve diventare anche un test di purezza che indebolisca la solidarietà dove può essere costruita.

Il decreto del presidente Trump dell’11dicembre non cita sionismo o antisionismo, Israele o Palestina. Eppure ha determinato un acceso dibattito su tutte e quattro le questioni, in particolare sul rapporto tra antisionismo e antisemitismo. Buona parte di questo dibattito si sta svolgendo come se avessimo una comprensione condivisa di questi termini e come se fossero interconnessi. Sarebbe opportuno riflettere su questi problemi per chiarire le questioni che ci troviamo ad affrontare oggi.

Il sionismo – l’ideologia, il movimento politico e il progetto di insediamento nato nell’Europa centro-orientale alla fine del XIX° secolo – nella sua essenza vedeva gli ebrei come un gruppo nazionale che necessitava di una propria patria o un proprio Stato indipendente in cui essere al sicuro dalle persecuzioni. Questa patria doveva essere il loro “vecchio-nuovo” territorio ancestrale: la storica terra di Israele, che allora era la terra di Palestina abitata da arabi.

Comprendere il sionismo, così come l’atteggiamento internazionale nei suoi confronti, richiede di guardare al contesto storico in cui è nato, con tre dimensioni fondamentali. La prima è l’emergere dell’etno-nazionalismo negli imperi territoriali in declino, in cui all’epoca viveva la maggior parte degli ebrei – gli imperi russo, austro-ungarico e ottomano – che videro minoranze cercare l’indipendenza dai loro dominatori imperiali. La seconda è l’ultimo stadio dell’espansione coloniale degli imperi marittimi – in particolare di Gran Bretagna e Francia – che videro vaste parti dell’Asia e dell’Africa cadere sotto la dominazione straniera. La terza, che si sviluppò in seguito, è la decolonizzazione dei domini coloniali degli imperi e il sorgere di nuove forme di potere imperialista, che hanno portato alla Guerra Fredda e alle sue conseguenze.

Nei suoi primi decenni il sionismo non riuscì a conquistarsi l’adesione della maggior parte degli ebrei. Alcuni di loro adottarono esplicite posizioni antisioniste e rifiutarono l’appello alla concentrazione territoriale degli ebrei in un proprio Stato. Queste posizioni erano variamente motivate da visioni del mondo religiose, di sinistra e liberali.

La maggioranza degli ebrei non era attivamente contraria al sionismo, ma non lo seguì ideologicamente o nella pratica. Privilegiavano invece altre possibilità: l’integrazione come uguali nei propri Paesi di residenza (su base individuale o collettiva); l’assimilazione nelle culture dominanti; l’immigrazione in luoghi più favorevoli, dove gli ebrei potessero vivere liberi dai vecchi pregiudizi europei contro di loro, come il Nord e il Sud America e il Sudafrica.

In contrasto con questa linea di condotta, il sionismo chiese agli ebrei di tutto il mondo di insediarsi in Palestina. Alcuni lo fecero durante le prime fasi del movimento sionista, ma non necessariamente per un impegno ideologico. Di fatto molti immigrati ebrei si spostarono e si insediarono là perché costretti e in mancanza di alternative migliori – in particolare gli ebrei polacchi negli anni ’20 e quelli tedeschi negli anni ’30, il cui viaggio verso l’ovest era stato bloccato da leggi restrittive.

Comunque centinaia di migliaia di ebrei si spostarono in Palestina, incrementando la popolazione ebraica locale da 50.000 alla fine della Prima Guerra Mondiale nel 1918 a 450.000 alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale, nel 1939. Non era solo il numero crescente che importava: durante quel periodo sotto la direzione delle agenzie sioniste gli ebrei comprarono grandi appezzamenti di terra, fondarono decine di nuovi insediamenti urbani e rurali e costruirono vaste infrastrutture economiche ed istituzionali.

Naturalmente gli arabi palestinesi si opposero all’immigrazione, all’acquisto di terre e allo sviluppo politico sulla loro terra guidati fin dalla nascita dal movimento dai sionisti. Tuttavia avevano scarso interesse nel sionismo come l’ideologia della costruzione dello Stato e dell’identità ebraici: il movimento nazionale palestinese si è sempre concentrato sulle conseguenze pratiche dell’insediamento sionista, su come lo colpiva direttamente. Che ciò fosse messo in pratica in particolare dagli ebrei era una preoccupazione molto marginale, ed è lo stesso ora. Alcuni atteggiamenti negativi verso gli ebrei potrebbero essere emersi come conseguenza dello scontro con il sionismo, ma questi furono un risultato, non una causa, della resistenza ad un progetto politico visto come intenzionato a cacciarli e a sostituirli.

Negli anni ’40, in seguito alla Seconda Guerra Mondiale e all’Olocausto, il principio fondante del sionismo – la necessità di una patria sicura o di uno Stato per gli ebrei – conquistò un vastissimo appoggio internazionale e divenne la posizione maggioritaria tra gli ebrei. Anche allora la maggioranza di quanti emigrarono nel nuovo Stato di Israele continuò a farlo per mancanza di opzioni migliori, in particolare a causa dell’espulsione fisica e di condizioni politiche difficili nell’Europa orientale del dopoguerra e della crescente sensazione di insicurezza e di esclusione politica in Medio Oriente e in Nord Africa. L’impegno politico giocò ancora un ruolo secondario in questo processo. La percezione del sionismo come la possibilità di un rifugio per gli ebrei in circostanze disperate e di fare tutto quanto fosse possibile per garantire la loro sopravvivenza alla fine si consolidò nelle menti degli stessi ebrei e nel resto del mondo.

Tuttavia questa forma di sopravvivenza degli ebrei comportò un prezzo notevole. Israele venne edificato sulle rovine della società arabo-palestinese e la sua creazione diede come risultato la pulizia etnica, la frammentazione e l’esilio su larga scala. Quindi l’opposizione a Israele divenne molto vasta nel mondo arabo e islamico. Parte di questa opposizione venne occasionalmente espressa in discorsi e azioni antisemiti, ma fu quasi sempre un risultato dell’indignazione per l’espulsione dei palestinesi, non la sua causa. Così è in buona misura ancora ai giorni nostri.

Globalmente il sionismo è stato visto contemporaneamente come una forma di autodeterminazione nazionale e come una forma di dominio colonialista sulla popolazione indigena del territorio. Per i palestinesi, sionismo significa spoliazione e privazione dei diritti; per la maggior parte degli ebrei, significa appoggiare il concetto di uno Stato ebraico. Le precise implicazioni del carattere ebraico dello Stato, la sua relazione con l’ebraismo come religione, le conseguenze pratiche per i cittadini ebrei e non ebrei e i suoi confini e le sue politiche sono tutti messi in discussione all’interno. Non c’è una posizione sionista unitaria su questi argomenti, e non c’è mai stata.

Di fronte a questo scenario, per la maggioranza degli attivisti della solidarietà di oggi, antisionismo significa il rifiuto della nozione di Israele come Stato esclusivamente ebraico in cui i palestinesi sono sottoposti a una posizione di inferiorità o ne sono del tutto esclusi. In pratica antisionismo significa appoggiare l’uguaglianza, la giustizia e il risarcimento per i palestinesi che vivono come cittadini di seconda classe, soggetti all’occupazione o rifugiati senza Stato. Ciò significa appoggiare i diritti degli ebrei di vivere come uguali in Israele-Palestina, e in qualunque altro luogo di residenza, senza particolari privilegi o obblighi. Ciò va oltre la contrapposizione rispetto a politiche specifiche, come l’occupazione del 1967 o l’assedio di Gaza, che non richiedono una posizione antisionista.

Le principali obiezioni nel dibattito interno tra gli ebrei sul sionismo nel periodo precedente al 1948 sono di grande interesse per gli accademici. Tuttavia sono diventate marginali nel discorso pubblico a causa della concentrazione di molti attivisti sulle sole politiche israeliane. Queste questioni rimangono rilevanti oggi: gli ebrei sono una Nazione, una religione o una combinazione di entrambe? Hanno bisogno di uno Stato solo per loro? La diaspora è un’anomalia o una caratteristica permanente, forse desiderabile, dell’esistenza ebraica?

In questo contesto di solidarietà e di lotta, la divisione tra prospettive liberali e radicali si basa sulla questione dello Stato ebraico, che tende a separare i sionisti dagli antisionisti. Ma ciò non dovrebbe essere un ostacolo per la mobilitazione su preoccupazioni pratiche condivise: opposizione all’occupazione del 1967 e alle politiche di colonizzazione, uguaglianza per i cittadini palestinesi, e via di seguito. Qui la regola pratica è costruire un vasto fronte basato su quello che abbiamo in comune, facendo nel frattempo attivismo in modo separato per pubblici diversi su questioni che ci dividono. La questione del sionismo, per quanto fondamentale, non deve diventare un test di purezza che indebolisca la solidarietà dove può essere costruita.

Un modo per garantire questo è l’adozione di un linguaggio strategico semplice. Le forze che mettono in atto l’assedio di Gaza, spogliano il popolo della propria terra su entrambi i lati della Linea Verde [il confine tra Israele e la Cisgiordania, ndtr.] e tengono i palestinesi sotto occupazione sono lo Stato di Israele e i suoi organi militari e civili. Sono aiutati e spalleggiati da sostenitori (sia ebrei che non ebrei) che agiscono come agenti dell’hasbara [propaganda israeliana, ndtr.] all’estero. Non sono i “sionisti” genericamente etichettati (per non parlare degli “zios” [termine spregiativo per indicare i sionisti, ndtr.]) che lo fanno. Semmai è una concreta serie di forze affiliate in vario modo all’apparato statale israeliano.

Più prendiamo di mira individui, istituzioni e politiche concreti ed evitiamo di usare termini vaghi e fumosi, meglio possiamo concentrare gli sforzi di solidarietà e resistenza e contrastare con efficacia accuse di antisemitismo come armi utilizzate contro il movimento per porre fine all’apartheid israeliana e ottenere giustizia ed uguaglianza per tutti.

Ran Greenstein è professore associato di sociologia all’università del Witwatersrand a Johannesburg, in Sudafrica. Tra le sue opere ci sono “Zionism and its Discontents: A Century of Radical Dissent in Israel/Palestine [Il sionismo e i suoi dissidenti: un secolo di dissenso radicale in Israele/Palestina], (Pluto, 2014) e “Identity, Nationalism, and Race: Anti-Colonial Resistance in South Africa and Israel/Palestine [Identità, Nazionalismo e Razza: resistenza anticolonialista in Sudafrica e in Israele/Palestina] (Routledge, in uscita).

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Gli studenti della York chiedono di mettere al bando la violenta JDL

Nora Barrows-Friedman

20 dicembre 2019 – Electronic Intifada

In seguito agli attacchi contro attivisti antirazzisti dello scorso mese nell’università canadese di York, alcuni studenti hanno chiesto che due gruppi estremisti vengano esclusi dal campus: la Jewish Defense League of Canada [Lega di Difesa Ebraica del Canada, gruppo sionista di estrema destra dichiarato terrorista dall’FBI nel 2001, ndtr.] ed Herut, sezione canadese di un partito israeliano di estrema destra. Ciò avviene dopo che l’università di Toronto ha ceduto alle pressioni di politici di destra e di gruppi della lobby israeliana ed ha sospeso il riconoscimento formale di Herut che del gruppo universitario Students Against Israeli Apartheid [Studenti contro l’Apartheid Israeliana] (SAIA).

I membri del SAIA sono stati aggrediti mentre protestavano contro un evento del 20 novembre, che ospitava soldati israeliani nel loro campus. Poi sono stati calunniati in quanto antisemiti da Herut e dalla JDL del Canada. Invece di prendere iniziative contro i gruppi antipalestinesi e proteggere i suoi studenti contro tali attacchi, l’amministrazione della York ha proposto un processo di mediazione tra Herut e SAIA. Mercoledì la rettora dell’università, Rhonda Lenton, ha annunciato che il prossimo mese inizierà un’ “analisi indipendente” dell’incidente.

Ma l’inchiesta non sarà così imparziale come sostiene l’università.

Secondo i suoi criteri di riferimento, l’indagine non potrà “attribuire responsabilità a gruppi o individui.”

Ciò di fatto protegge Herut e la JDL dall’essere chiamati a rispondere del loro comportamento, perché molte prove indicano che i loro membri sono stati responsabili di soprusi e violenze.

In una recente dichiarazione Michael Levitt, capo del Gruppo Interparlamentare Canada-Israele, si è vantato di aver incontrato Lenton lunedì.

Levitt, parlamentare del partito Liberale del primo ministro Justin Trudeau al governo, ha ripetuto accuse senza fondamento di antisemitismo contro i sostenitori dei diritti dei palestinesi, ed ha chiesto che Herut venga immediatamente reinserito come associazione del campus.

Lo scorso mese Lenton ha denunciato una risoluzione da parte della Federazione degli Studenti della York che ha difeso il diritto degli studenti a mobilitarsi contro la guerra, l’occupazione e l’estrema destra, compresi i rappresentanti di Israele “o di qualunque altro potere imperialista”.

JDL ha fatto da sicario per Herut

Il 20 novembre il gruppo propagandistico dell’esercito israeliano “Reservists on Duty” [Riservisti in servizio] ha tenuto un incontro ospitato alla York da Herut.

Students Against Israeli Apartheid” ha affermato di aver deciso di protestare contro l’evento perché, ha sostenuto, “l’esercito israeliano, utilizzando Herut come tramite, è stato visto fare attivamente opera di reclutamento nei campus di tutto il Canada, cosa che di fatto è illegale.”

E quando gli studenti si sono presentati per manifestare a favore dei diritti dei palestinesi sono stati accolti con la violenza e l’intimidazione.

I membri della Jewish Defense League hanno aggredito gli studenti che protestavano e poi hanno inventato accuse di antisemitismo, nonostante non abbiano presentato nessuna prova credibile.

Importanti politici canadesi hanno ripetuto queste calunnie senza alcuna prova.

Il Jerusalem Post [giornale israeliano di destra, ndtr.] ha alimentato queste accuse con la provocatoria affermazione secondo cui i sostenitori dei diritti dei palestinesi avrebbero scandito verso gli ebrei “Intifada, Intifada, tornate nei forni.”

In seguito il giornale è stato obbligato ad ammettere di non avere prove di questa grave accusa, nonostante ci siano decine di video dell’evento.

Il quotidiano ha semplicemente ripetuto un’accusa fatta da un ex-membro di uno squadrone della morte dell’esercito israeliano che ora fa parte di “Riservisti in Servizio”.

Prima dell’evento e della protesta, l’amministrazione dell’università aveva scritto a Meir Weinstein, il capo di JDL Canada, mettendo in guardia i suoi membri dal mettere in atto “minacce o intimidazioni”. Secondo un’intervista che egli ha rilasciato in aprile, in precedenza a Weinstein era stato vietato l’accesso all’università di York.

Ma il 20 novembre ai membri della JDL, compreso Weinstein, è stato consentito di entrare nel campus. L’avvocato Dimitri Lascaris, che rappresenta i militanti del SAIA, afferma che “teppisti della violenta Jewish Defense League hanno partecipato all’avvenimento e agito come sicari per conto di Herut.” La lettera della York a Weinstein dimostra che l’università era consapevole che la Jewish Defense League stava progettando di partecipare all’evento, “e che la JDL rappresenta una seria minaccia per la sicurezza degli attivisti del SAIA,” dice Lascaris a The Electronic Intifada.

Nel recente passato membri della JDL sono stati imputati per crimini di odio e aggressioni,” afferma Lascaris. “Anche questo molto probabilmente è noto all’amministrazione dell’università York. Nonostante questi fatti, la York ha consentito ai membri della JDL di partecipare all’evento.”

Peggio ancora, sottolinea, “le guardie della sicurezza sono rimaste inerti sia prima che dopo gli attacchi contro gli attivisti solidali con i palestinesi.”

L’avvocato sostiene che l’università di York “è quindi responsabile per il danno recato a questi attivisti.”

Students Against Israeli Apartheid’ sta prendendo in considerazione le sue alternative legali, ma nel frattempo, afferma Lascaris, il gruppo attenderà i risultati dell’inchiesta della York e della mediazione.

Alcuni studenti stanno chiedendo che l’università garantisca la loro sicurezza e consideri responsabili la JDL ed Herut, anche vietando il loro ingresso nel campus.

Nel contempo secondo Lascaris la sospensione del SAIA “trasmette un terribile messaggio”. “Comunica agli attivisti antirazzisti che, se si oppongono ad attori potenti ed influenti che si impegnano o promuovono gravi violazioni dei diritti umani, l’amministrazione dell’università non solo non li proteggerà, ma li prenderà di mira con misure punitive,” ha affermato.

Oltretutto le azioni e le dichiarazioni di Levitt, di Trudeau, del primo ministro dell’Ontario Doug Ford e di altri politici “mettono assolutamente in chiaro che Israele e i suoi sostenitori sono tenuti in altissima considerazione in questo Paese.”

Questi politici hanno ripetutamente lanciato gravissime accuse contro i miei clienti senza la minima prova che le giustificasse,” afferma Lascaris.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Le prospettive di un’indagine formale della CPI sulla situazione della Palestina sono nulle

John Dugard

9 dicembre 2019 – The Right Forum

C’è qualche possibilità di un’indagine sulla “situazione in Palestina” sotto la supervisione dell’attuale procuratrice della CPI, Fatou Bensouda? No, non ce n’è nessuna, spiega John Dugard, per ragioni che potrebbero essere considerate scioccanti.

Ho una breve e semplice risposta alla domanda posta. No, non c’è nessuna possibilità di una simile inchiesta sotto la supervisione dell’attuale procuratrice della CPI [Corte Penale Internazionale, ndtr.], Fatou Bensouda, il cui incarico scade nel 2021.

Perché lo dico?

È diventato assolutamente chiaro che l’ufficio della procuratrice è deciso a non aprire un’indagine sui crimini commessi da Israele in Palestina e contro il popolo palestinese. Il 16 gennaio 2015 la procura ha iniziato un esame preliminare sulla situazione in Palestina. Il 15 maggio 2018 la stessa Palestina ha deferito la questione alla CPI.

Tuttavia già nel 2009 la procuratrice aveva condotto un esame preliminare sulla situazione in Palestina, interrotto nell’aprile 2012, e dal 2013 sulla situazione della ‘Flotilla’ per Gaza. Ciò significa che per 10 anni la procura ha condotto un esame preliminare su una situazione sulla quale ci sono quattro rapporti della commissione d’inchiesta indipendente del Consiglio per i Diritti Umani [dell’ONU], un’opinione consultiva della Corte Internazionale di Giustizia, risoluzioni del Consiglio di Sicurezza e dell’Assemblea Generale, rapporti di numerose Ong israeliane, palestinesi e internazionali, ampia copertura televisiva e video che descrivono e testimoniano di crimini di guerra e crimini contro l’umanità.

E finora [la Procura] non ha trovato nessuna base per procedere alla fase successiva dell’inchiesta – cosa che è stata riconfermata dalla procuratrice nel suo ultimo rapporto sulle indagini preliminari. Un rapporto che, come al solito, non dà una onesta e ragionevole spiegazione del fatto che non abbia iniziato un’indagine.

A ciò si unisce il persistente rifiuto della procuratrice ad aprire un’inchiesta sul caso delle Comore (della Mavi Marmara, ndr.), nonostante gli inviti da parte dei giudici della Corte. Secondo me l’unica spiegazione di questo rifiuto a indagare sulla situazione in Palestina e su quella delle Comore è che la Procura è guidata nella sua presa di decisioni da considerazioni extragiudiziarie e politiche.

Sono convinto che ci siano prove più che sufficienti per sostenere che Israele ha commesso crimini di guerra usando una forza e una violenza eccessive e sproporzionate contro civili a Gaza e in Cisgiordania. Sono anche convinto che ci siano prove certe che l’impresa di colonizzazione israeliana costituisca apartheid e abbia dato come risultato l’espulsione forzata e il trasferimento di migliaia di palestinesi dalle loro case, il che significa che ha commesso crimini contro l’umanità.

Tuttavia sono poco propenso ad accettare che ci possa mai essere ragionevolmente una discussione sulla legge e le prove relative al fatto che siano stati commessi questi crimini. Quindi mi si lasci invece spiegare il fondamento della mia affermazione secondo cui fattori extragiudiziari guidano la procura riguardo al crimine di trasferimento da parte della potenza occupante – Israele – di settori della propria popolazione civile nei territori occupati della Cisgiordania e di Gerusalemme est.

Qui le leggi e i fatti sono chiari e non consentono alcuna possibile discussione o dibattito di sorta. La legge è chiara. L’articolo 8(2)(viii) dello Statuto di Roma definisce questo comportamento come un crimine di guerra. Così fanno gli articoli 49(6) della Quarta Convenzione di Ginevra e 85(4) del protocollo aggiuntivo alle Convenzioni di Ginevra del 1977. Così fa il diritto internazionale consuetudinario (1).

I fatti sono chiari. Circa 700.000 coloni ebrei israeliani vivono in circa 130 colonie in Cisgiordania e a Gerusalemme est. Questi insediamenti sono chiaramente all’interno del territorio palestinese occupato – come stabilito dalla Corte Internazionale di Giustizia nel 2004 (2). Israele continua ad espandere il suo impero coloniale. Questi fatti sono stati ripetutamente portati all’attenzione della Procura della CPI dal governo della Palestina e da ong.

Le prove forniscono chiaramente una base ragionevole per credere che sia stato commesso un crimine che rientra nell’ambito di competenza della Corte, come richiesto dallo Statuto della CPI (3). Non agire in queste circostanze, quando le prove dei crimini di Israele riguardo all’espansione delle colonie aumentano, non solo elimina ogni pretesa di deterrenza, ma in più contribuisce alla commissione del reato. La colpevole mancanza di iniziative per interrompere il crimine quando si ha l’obbligo di farlo rende la procuratrice complice della perpetrazione del reato.

C’è uno schiacciante e autorevole sostegno per arrivare alla conclusione che le colonie siano illegali in base alle leggi internazionali. La Corte Internazionale di Giustizia ha sostenuto all’unanimità che le colonie sono state edificate in violazione del diritto internazionale (4). Il Consiglio di Sicurezza in molte occasioni ha condannato le colonie come illegali, di recente con la risoluzione 2334 del 2016. Ogni anno l’Assemblea Generale [dell’ONU] ha condannato le colonie come illegali. L’UE e quasi tutti gli Stati hanno condannato le colonie come illegali. Il Comitato Internazionale della Croce Rossa è d’accordo. Persino lo stesso consulente legale di Israele: quando Israele iniziò questa impresa di colonizzazione Theodor Meron avvertì che erano illegali. (Ovviamente il presidente Trump ha un’opinione diversa, ma questa è solo una prova a favore della posizione contraria).

Tutto ciò mi porta a concludere che fattori politici e non giuridici guidino la presa di decisioni dalla procura. Ma come questi fattori hanno determinato le decisioni della procura? Per come la vedo io, ci sono due possibilità: una deliberata decisione collettiva della procuratrice, del suo vice e dei funzionari più importanti di non procedere, oppure fattori non esplicitati che hanno portato la procuratrice e la sua équipe ad essere prevenute a favore di Israele.

La prima spiegazione prospetta una deliberata decisione collettiva da parte della procuratrice e dei suoi principali collaboratori di non aprire un’inchiesta. La ragione più probabile per una simile decisione sarebbe il timore di ritorsioni da parte di Israele e degli Stati Uniti. O potrebbe essere la suscettibilità all’opinione diffusa, prevalente tra gli Stati europei, secondo cui la CPI è troppo fragile come istituzione da resistere alle reazioni che potrebbero seguire a una simile inchiesta. Benché una decisione collettiva di questo genere sia possibile, non penso che sia la spiegazione più probabile. La seconda, che fattori non esplicitati abbiano determinato la decisione, richiede qualche spiegazione.

I realisti giuridici americani, una rispettabile scuola di filosofia del diritto, sostengono che la decisione giudiziaria sia il risultato di tutta la storia personale del giudice: che le norme di legge e spinte nascoste, come i pregiudizi politici e morali del giudice, interagiscano nel produrre la decisione giudiziaria. Il giudice della Corte Suprema [USA] Benjamin Cardozo avvertiva che “molto al di sotto della coscienza ci sono…forze, le simpatie e antipatie, le predilezioni e i pregiudizi, il complesso degli istinti ed emozioni e abitudini e convinzioni” di un giudice che contribuiscono alla decisione giudiziaria.

Questi fattori inespressi contribuiscono ancor di più nel processo decisionale dei pubblici ministeri. Fattori non esplicitati sono molto significativi nel contesto della discrezionalità dell’azione penale – un’ampia concessione di autorità discrezionale con scarso controllo e poca trasparenza. È molto più facile per un procuratore soccombere a indebite influenze non formalizzate quando crede che non dovrà giustificare pubblicamente la propria posizione.

Benché la decisione di avviare un’inchiesta spetti principalmente alla procuratrice, è strano che nessun membro del suo staff abbia pubblicamente sollevato obiezioni contro la decisione di non indagare. Ci si sarebbe aspettato che qualcuno anonimamente denunciasse la decisione presa dalla procuratrice e dal suo gruppo di esperti. L’unica spiegazione di ciò è che anche loro abbiano ragioni non esplicitate per adeguarsi alla decisione.

Poiché la maggior parte dei membri della procura ha un mandato limitato e la necessità di tener conto del proprio futuro professionale, c’è inevitabilmente il timore che future possibilità di lavoro possano essere pregiudicate dalla decisione di avviare un’inchiesta su Israele, che sarebbe interpretata da potenziali datori di lavoro come un indicatore di antisemitismo. C’è anche la paura che ciò possa portare a un divieto d’ingresso negli Stati Uniti. La maggior parte degli Stati europei vede Israele come parte dell’alleanza europea (da qui la sua inclusione nel WEOG, il gruppo dei Paesi dell’Europa Occidentale ed Altri Paesi alle Nazioni Unite) e quindi come uno Stato esentato dalle indagini da parte della CPI. Il fatto di non rispettare questo “dato di fatto” può comprensibilmente essere visto come un ostacolo per un futuro impiego.

Il presupposto non esplicitato della procuratrice è di importanza fondamentale. Ci sono fattori nella sua storia personale, in particolare in Gambia, che potrebbero fornire qualche indicazione sulle ragioni inespresse della sua decisione di proteggere Israele dalle indagini?

Tra il 1987 e il 2000 Fatou Bensouda è stata consigliera principale dello Stato, vice direttrice dei pubblici ministeri, avvocatessa generale, ministra della Giustizia e capo dei consiglieri giuridici del presidente e del governo della repubblica del Gambia. Dal 1994 al 2016 il Gambia è stato sottomesso alla brutale dittatura di Yahya Jammeh. La repressione era all’ordine del giorno, mentre i diritti umani vennero duramente eliminati. La ministra della Giustizia non poteva rimanere indifferente a ciò. Che lei fosse coinvolta in questo processo di repressione è diventato chiaro dalle prove di fronte alla Commissione Gambiana per la Verità, la Riconciliazione e il Risarcimento (TRRC). Due uomini, Batch Samba Jallow e Sainey Faye, recentemente hanno testimoniato che fu complice della loro brutale tortura, lunga detenzione senza processo e negazione di una difesa legale (5). Ciò ha portato due avvocati venezuelani a presentare una denuncia al capo del Meccanismo Indipendente di Supervisione (IOM) della CPI in cui si afferma che lei è inadeguata a ricoprire l’incarico di procuratrice. Non risulta che Fatou Bensouda abbia criticato o preso le distanze da Yahya Jammeh.

Queste denunce richiedono un’indagine seria e urgente sull’adeguatezza della procuratrice a ricoprire il suo incarico. E il timore che da parte di Israele possano essere rivelati ulteriori abusi se avviasse un’inchiesta potrebbe benissimo essere il fattore non esplicitato della sua decisione di non aprire un procedimento su Israele.

Durante il periodo dell’apartheid, in Sudafrica i giuristi invocavano i metodi dei realisti giuridici americani per denunciare le premesse sottaciute dei giudici bianchi che regolarmente emanavano sentenze razziste e a favore del governo (7). Ciò portò a un’accentuata consapevolezza da parte dei giudici sulla natura delle sentenze e diede come risultato decisioni più corrette e indipendenti. Il realismo giuridico americano è un potente antidoto in un sistema ingiusto e corrotto. Potrebbe essere proficuamente utilizzato nell’esame del lavoro dell’Ufficio della Procura della CPI.

L’intenzione del mio intervento di stanotte è di rendere consapevoli la procuratrice e la sua équipe dei pericoli di essere guidate dai loro presupposti non esplicitati, che hanno portato al fatto di non garantire giustizia per il popolo palestinese. Ho cercato di evidenziare il tipo di fattori extragiudiziari che probabilmente hanno portato la procuratrice e il suo staff a dimostrarsi di parte a favore di Israele. Spero che facciano un serio esame di coscienza e mettano in discussione i loro motivi nascosti per non aver fatto giustizia a favore del popolo palestinese.

Questo testo è stato presentato da John Dugard ad un evento parallelo dell’assemblea degli Stati membri dello Statuto di Roma, l’Aia, 5 dicembre 2019. Dugard è membro del consiglio consultivo di The Right Forum [una rete di ex- ministri e docenti di diritto internazionale che intendono promuovere una soluzione giusta e durevole al conflitto israelo-palestinese, ndtr.].

John Dugard è professore emerito di Diritto presso le università di Leida e Witwatersrand, relatore speciale sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati dal 2001 al 2008, ex giudice speciale della Corte Internazionale di Giustizia e membro del comitato consultivo di The Right Forum.

(1) J-M Henkaerts e L Doswald-Beck, Customary International Humanitarian Law [Diritto Internazionale Umanitario Consuetudinario], Vol I: Rules, ICRC, CUP, 2005, Rule 130, p. 462.

(2) Legal Consequences of the Construction of a Wall in the Occupied Palestinian Territory [Conseguenze giuridiche della costruzione di un muro nei territori palestinesi occupati] , 2004 ICJ Reports 136, paras 78, 122.

(3) Articolo 53(1)(a) dello Statuto di Roma.

(4) Ibid, para 120. Il giudice statunitense Buergenthal ha contribuito a questi dati.

(5) Thierry Cruvellier e Mustapha K Darboe, ‘Will Fatou Bensouda Face the Truth Commission in Gambia?’ [Fatou Bensouda affronterà la commissione per la verità in Gambia?], JusticeInfo.Net, Fondation Hirondelle, https://www.justiceinfo.net/en/truth-commission/4/1906-will-fatou-bensouda-face-the-truth- commission-trrc-gambia.html

(6) Carlos Ramirez Lopez e Walter Marquez, ex deputato dell’Assemblea Nazionale del Venezuela e presidente della Fondazione Amparo IAP. Denuncia del 2 agosto 2019.

[7] Vedi J. Dugard, Human Rights and the South African Legal Order [Diritti umani e sistema giudiziario sudafricano], Princeton University Press, 1978, pp 366-388; J Dugard, ‘The Judicial Process, Positivism and Civil Liberty’ (1971) [Il processo giudiziario, positivismo e libertà civili], South African Law Journal 181; J Dugard, Confronting Apartheid. A Personal History of South Africa, Namibia and Palestine [Paragonare l’aprtheid. Una storia personale del Sudafrica, della Namibia e della Palestina], Jacana 2019, pp 52-53.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Come rispondere a questa domanda: “Riconosci ad Israele il diritto di esistere?”

Steven Salaita

10 dicembre 2019 – Mondoweiss

Quando gli antisionisti discutono di Medio Oriente, raramente si pone la questione dell’esistenza di Israele. È quasi esclusivamente un argomento dei filoisraeliani. Noi ci concentriamo sulla liberazione nazionale, su come sopravvivere alla repressione, sulle strategie della resistenza, sul recupero delle storie rimosse, sulle complesse (e a volte delicate) relazioni all’interno di una popolazione indigena disgregata da decenni di aggressione. Che uno Stato colonialista – o qualunque Stato, in realtà – non possieda alcun diritto ontologico è un assunto non esplicitato.

“Riconosci il diritto di Israele ad esistere?” simula un rispetto per gli oppressi, ma è un’asserzione del tutto differente, che trasforma complesse idee di liberazione in un grossolano test di correttezza politica. Dare priorità allo Stato come degno di rilievo, come qualcosa a cui automaticamente dobbiamo rispetto, riconduce la vita agli imperativi del capitale.

Lo scopo principale della domanda è attribuire una posizione bieca ai dissidenti. Essa raggiunge tale obbiettivo anche quando i dissidenti non ne hanno sostenuto la distruzione. La mera difesa della vita dei palestinesi è sufficiente ad evocare il timore dei coloni per la propria esistenza. Per gente cresciuta nel dogma ortodosso, Israele è sinonimo di progresso, tecnologia e produzione. Affermare la sua esistenza è un sostegno allo status quo; non importa quanto sia assurda come premessa morale, negli ambienti capitalisti è una domanda del tutto sensata.

Ci sono tantissime ragioni per evitare la domanda. La prima ragione è pratica: noi non promuoviamo la distruzione di comunità umane, ma di ideologie che portano al razzismo e all’ineguaglianza. Confondere il popolo ebraico (o di qualunque nazionalità) con l’esistenza di un regime violento e rapace è sia insidioso che immorale. Quel genere di confusione è un grave danno per gli attivisti e gli intellettuali che si impegnano per un mondo migliore – e per le comunità per le quali un mondo migliore è una necessità per sopravvivere. Nessuno mi ha mai chiesto di ribadire l’esistenza di un altro Stato-Nazione, una richiesta che avrei analogamente rifiutato. I sionisti pretendono continuamente per Israele un trattamento speciale.

Inoltre è una grave impudenza per gli alfieri di uno Stato fondato sulla distruzione della Palestina e che da 80 anni compie una pulizia etnica chiedere alle vittime della sua crudeltà di essere riconosciuto. Ancor peggio, il riconoscimento non è che la punta dell’iceberg della domanda. Ci viene chiesto anche di legittimare l’apartheid e di ignorare la costante perpetrazione di crimini di guerra. La conclusione è avallare Israele come una componente militarizzata dell’imperialismo occidentale – in altri termini, affermare l’esistenza di un’entità profondamente disumana.

Prendiamo in considerazione la domanda nel contesto del Nord America, dove viene posta più frequentemente. Quelli tra noi che operano in questa area geografica non hanno l’autorità di rinunciare a circa l’80% (e probabilmente al 100%) della Palestina storica. Non vi è alcun diritto per un occidentale di abbandonare la Palestina dietro pressione di un’insistenza falsamente umanitaria da parte dei sionisti, secondo cui la loro perfidia è giustificata perché ci renderà in qualche modo cittadini più responsabili.

Sono felice, anzi ansioso, di affermare il diritto del popolo ebraico di vivere in pace e sicurezza ovunque, un diritto che spetta ad ogni essere umano senza ordine di priorità. Ma non intendo ratificare la fondazione cruenta di Israele o il suo culto della supremazia razziale. In fin dei conti, quando i sionisti chiedono di affermare il diritto di Israele ad esistere, ciò che in realtà chiedono è l’affermazione della non esistenza dei palestinesi.

Al di là di questi fattori filosofici, politici e pratici, vi è una valida ragione psicologica per respingere la domanda. In questo presunto conflitto i sionisti sono gli oppressori e godono di un sostegno pressoché universale nei centri del potere politico ed economico. Hanno più finanziamenti, l’accesso ai principali media e l’appoggio dell’esercito USA. Tuttavia i palestinesi hanno un unico tipo di potere che non necessita di denaro, di piattaforme o di armamenti: la capacità di negare legittimità a Israele. È un piccolo potere, privo di strumenti concreti, ma è comunque potere, del tipo che solo un pazzo o un opportunista potrebbe cedere. Quando un oppressore fa della sottomissione la base della responsabilità civile, l’insolenza è l’unica risposta dignitosa.

Steven Salaita

Il più recente libro di Steven Salaita è ‘Inter/nationalism: decolonizing native America and Palestine’ [Inter/nazionalismo: decolonizzare l’America dei nativi e la Palestina].

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Come le tecnologie dello spionaggio israeliano penetrano in modo molto intrusivo nelle nostre vite

Jonathan Cook

 

Martedì 26 novembre 2019 – Middle East Eye

Israele normalizza nei Paesi occidentali l’uso di tecnologie invasive e oppressive di cui i palestinesi sono vittime da decine di anni

Le armi dell’era digitale sviluppate da Israele per opprimere i palestinesi sono rapidamente riutilizzate in un campo di applicazione molto più ampio, e ciò contro le popolazioni occidentali che considerano tuttavia le loro libertà come acquisite.

Se a Israele già da parecchi anni è stato concesso lo status di “Nazione delle start up”, la sua reputazione nel campo delle innovazioni di tecnologia avanzata si è sempre basata su un aspetto oscuro che è vieppiù difficile nascondere.

Qualche anno fa l’analista israeliano Jeff Halper avvertì che Israele aveva giocato un ruolo centrale sulla scena internazionale nella fusione tra le nuove tecnologie digitali e dell’industria della sicurezza interna. Secondo lui il pericolo era che saremmo tutti quanti diventati progressivamente dei palestinesi.

Egli notava che Israele ha effettivamente trattato milioni di palestinesi sottoposti al suo regime militare come delle cavie in laboratori a cielo aperto – e ciò senza doverne rendere conto. I territori palestinesi occupati sono serviti come banco di prova per la messa a punto non solo dei nuovi sistemi d’arma convenzionali, ma anche di nuovi strumenti per la sorveglianza ed il controllo di massa.

Come ha recentemente osservato un giornalista di Haaretz [giornale israeliano di centro sinistra, ndtr.], l’operazione di sorveglianza condotta da Israele contro i palestinesi figura “tra le più vaste di questo tipo al mondo. Include la sorveglianza dei media, delle reti sociali e della popolazione nel suo insieme.”

 

Il Grande Fratello fa affari

Tuttavia quello che è iniziato nei territori occupati non doveva affatto essere limitato alla Cisgiordania, a Gerusalemme est e a Gaza. C’erano semplicemente troppo denaro e influenza da guadagnare commercializzando queste nuove forme ibride di tecnologia digitale offensiva.

Per quanto piccolo sia, Israele è da molto tempo uno dei leader mondiali sul mercato estremamente lucrativo degli armamenti e vende a regimi autoritari i suoi sistemi d’arma “testati sul campo di battaglia”, cioè sui palestinesi.

Ora, questo commercio di materiale militare è sempre più eclissato dal mercato dei programmi digitali bellici, cioè gli strumenti che servono a condurre guerre informatiche.

Queste armi di nuova generazione sono molto richieste dagli Stati, che possono utilizzarle non solo contro nemici esterni, ma anche contro dissidenti interni, che siano difensori dei diritti umani o semplici cittadini. Israele può presentarsi a giusto titolo come un’autorità mondiale in questa materia, nella misura in cui controlla ed opprime le popolazioni che vivono sotto il suo dominio. Ma il Paese ha fatto attenzione a non lasciare le sue impronte digitali su gran parte di questa nuova tecnologia degna del Grande Fratello, scegliendo di esternalizzare lo sviluppo di questi strumenti informatici affidandoli agli ufficiali di alto rango delle sue tristemente celebri unità per la sicurezza e l’intelligence militare.

Tuttavia Israele approva implicitamente queste attività fornendo licenze d’esportazione alle imprese che le gestiscono. D’altro canto i maggiori responsabili della sicurezza del Paese sono spesso strettamente legati al lavoro di queste aziende.

 

Tensioni con la Silicon Valley

Una volta smessa l’uniforme, questi israeliani possono trarre profitto dai loro anni d’esperienza nel campo dello spionaggio a danno dei palestinesi, creando società il cui obiettivo è sviluppare dei programmi informatici per delle applicazioni più generali.

Queste app, che utilizzano una tecnologia di sorveglianza sofisticata di origine israeliana, sono sempre più frequenti nelle nostre vite digitali. Alcune sono state utilizzate in modo relativamente innocuo. “Waze”, che sorveglia gli ingorghi del traffico, permette ai conducenti di raggiungere la propria destinazione più rapidamente, mentre “Gett” attraverso il loro telefono mette i clienti in contatto con i taxi che si trovano nei dintorni.

Ma alcune delle tecnologie più segrete prodotte dagli sviluppatori israeliani rimangono molto più vicine al loro format militare originario.

Questi programmi offensivi sono venduti ai Paesi che desiderano spiare i loro stessi cittadini o Stati nemici, come anche a società private che sperano così di conquistarsi un notevole vantaggio sui concorrenti o di manipolare e sfruttare meglio dal punto di vista commerciale i loro clienti.

Una volta integrati nelle piattaforme delle reti sociali, che contano miliardi di utenti, questi programmi spionistici offrono ai servizi statali della sicurezza un raggio d’azione potenziale quasi universale. Ciò implica una relazione a volte tesa tra le società israeliane e la Silicon Valley [centro di ideazione e produzione delle innovazioni digitali negli USA, ndtr.], con quest’ultima che lotta per prendere il controllo di questi programmi “malintenzionati” – come dimostrano due esempi diversi dell’attualità recente.

 

“Sistema di spionaggio” per telefonini

Indice di queste tensioni, WhatsApp, una piattaforma di reti sociali appartenente a Facebook, molto di recente ha intentato il primo processo di questo tipo davanti a un tribunale californiano contro NSO, la più grande impresa di sorveglianza israeliana.

WhatsApp accusa NSO di attacchi informatici. Nel lasso di tempo di sole due settimane fino all’inizio di maggio esaminato da WhatsApp, NSO avrebbe preso di mira i telefonini di più di 1.400 utenti in 20 Paesi.

Il programma di spionaggio digitale di NSO, chiamato “Pegasus”, è stato utilizzato contro difensori dei diritti umani, avvocati, responsabili religiosi, giornalisti e operatori umanitari. La Reuter [agenzia di stampa inglese, ndtr.] ha rivelato alla fine di ottobre che alti responsabili di Paesi alleati degli Stati Uniti sarebbero stati anche loro presi di mira da NSO.

Dopo aver preso il controllo del telefono di un utente a sua insaputa, “Pegasus” ne copia i dati e attiva il microfono dell’apparecchio al fine di controllarlo. La rivista “Forbes” [rivista USA di economia, ndtr.] lo ha descritto come “il sistema di spionaggio mobile più invasivo al mondo”.

NSO ha concesso la licenza di utilizzazione del programma a decine di governi, in particolare a regimi noti per le violazioni dei diritti umani come l’Arabia Saudita, il Bahrein, gli Emirati Arabi Uniti, il Kazakistan, il Messico e il Marocco. Amnesty International si è lamentata che i suoi funzionari figurano tra le persone prese di mira dal programma spia di NSO. L’Ong per la difesa dei diritti dell’uomo attualmente sostiene un’azione legale contro il governo israeliano perché ha concesso alla società una licenza d’esportazione.

 

Rapporti con i servizi di sicurezza israeliani

NSO è stata fondata nel 2010 da Omri Lavie e Shalev Hulio, entrambi ufficiali della famosa Unità 8200 di intelligence militare israeliana. Nel 2014 degli informatori che hanno lanciato l’allarme hanno rivelato che l’unità spiava regolarmente i palestinesi, cercando nei loro telefoni e computer delle prove di comportamenti sessuali devianti, di problemi di salute o di difficoltà finanziarie che potevano essere utilizzate per spingerli a collaborare con le autorità militari israeliane.

I soldati hanno scritto che i palestinesi erano “totalmente esposti allo spionaggio e alla sorveglianza dei servizi di intelligence israeliani. Questi sono utilizzati per perseguitare gli avversari politici e per creare divisioni all’interno della società palestinese reclutando collaboratori e spingendo le diverse componenti della società palestinese le une contro le altre.”

Benché le autorità abbiano concesso a NSO delle licenze d’esportazione, Ze’ev Elkin [del partito di destra Likud, ndtr.], ministro israeliano per la Protezione dell’Ambiente, per Gerusalemme e per l’Integrazione, ha negato “il coinvolgimento del governo israeliano” nello spionaggio di WhatsApp. “Tutti capiscono che non si tratta dello Stato d’Israele,” ha dichiarato a una radio israeliana all’inizio di novembre.

 

Inseguiti dalle telecamere

La settimana in cui WhatsApp ha lanciato la sua azione legale, la catena televisiva americana NBC ha rivelato che la Silicon Valley intende comunque lavorare con delle start-up israeliane profondamente coinvolte negli abusi legati all’occupazione.

Microsoft ha investito parecchio in AnyVision, una società che sviluppa una sofisticata tecnologia di riconoscimento facciale usata dall’esercito israeliano per opprimere i palestinesi.

I rapporti tra AnyVision e i servizi di sicurezza israeliani sono a malapena nascosti. Il consiglio consultivo della società conta tra i suoi membri Tamir Pardo, ex-capo del Mossad, l’agenzia di spionaggio israeliana. Il suo presidente, Amir Kain, era in precedenza alla testa del “Malmab”, il dipartimento del ministero della Difesa israeliano incaricato della sicurezza.

Il principale programma di AnyVision, “Better Tomorrow” [Futuro Migliore], è stato soprannominato “Google dell’Occupazione”, perché la società sostiene che può identificare e seguire qualunque palestinese grazie alle immagini prodotte dalla vasta rete di telecamere di sorveglianza sistemate dall’esercito israeliano nei territori occupati.

A dispetto degli evidenti problemi etici, l’investimento di Microsoft suggerisce che il suo obiettivo potrebbe essere integrare questo programma all’interno dei suoi. Ciò ha provocato viva preoccupazione tra i gruppi di difesa dei diritti umani.

Shankar Narayan, dell’American Civil Liberties Union [ACLU, ong Usa per la difesa dei diritti e delle libertà individuali, ndtr.], ha messo in guardia in particolare contro un avvenire fin troppo familiare ai palestinesi che vivono sotto il controllo di Israele: “L’uso generalizzato della sorveglianza facciale sovverte il principio di libertà e genera una società in cui tutti sono seguiti in continuazione, indipendentemente da quello che fanno,” ha dichiarato alla NBC.

“Il riconoscimento facciale è forse lo strumento più perfetto per il controllo totale del governo nei luoghi pubblici.”

Secondo Yael Berda, ricercatore dell’università di Harvard, Israele dispone di una lista di circa 200.000 palestinesi in Cisgiordania che desidera sorvegliare 24 ore al giorno. Le tecnologie come AvyVision sono considerate essenziali per mantenere questo vasto gruppo sotto una sorveglianza continua.

Un ex dipendente di AvyVision ha dichiarato alla NBC che i palestinesi sono stati trattati come cavie. “La tecnologia è stata testata sul terreno in uno dei contesti della sicurezza più esigenti al mondo, e ora noi la utilizziamo sul resto del mercato,” ha dichiarato.

Il 15 novembre Microsoft ha annunciato il lancio di un’indagine sulle accuse secondo cui la tecnologia di riconoscimento facciale messa a punto da AnyVision violerebbe il suo codice etico a causa del suo utilizzo in operazioni di sorveglianza nella Cisgiordania occupata.

 

Interferenza nelle elezioni

Utilizzare queste tecnologie di spionaggio negli Stati Uniti e in Europa interessa sempre di più il governo israeliano stesso, nella misura in cui l’occupazione dei territori palestinesi è ormai oggetto di una polemica e di un controllo minuzioso nel discorso politico prevalente.

In gran Bretagna i cambiamenti di clima politico sono stati messi in evidenza dall’elezione alla testa del partito Laburista di Jeremy Corbyn, militante di lunga data per i diritti dei palestinesi. Negli Stati Uniti un piccolo gruppo di parlamentari che appoggiano in modo palese la causa palestinese ha di recente fatto il suo ingresso al Congresso, in particolare Rashida Tlaib, la prima donna americana-palestinese a occupare tale ruolo.

Più in generale Israele teme il BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni), movimento di solidarietà internazionale che chiede un boicottaggio di Israele, sul modello del boicottaggio contro il Sud Africa durante l’apartheid, finché non cesserà la repressione del popolo palestinese. Il BDS è in piena espansione, soprattutto negli Stati Uniti, dove si è notevolmente sviluppato in molti campus universitari.

Di conseguenza le imprese informatiche israeliane sono state coinvolte sempre di più nei tentativi intesi a manipolare il discorso pubblico su Israele, in particolare interferendo nelle elezioni all’estero.

Due esempi noti sono per breve tempo finiti sulle prime pagine. Psy-Group, che si presentava come un “Mossad privato in affitto”, è stato chiuso l’anno scorso dopo che l’FBI ha aperto un’inchiesta su di esso per aver interferito nelle elezioni presidenziali americane del 2016. Secondo il New Yorker [prestigiosa rivista USA, ndtr.], il suo “Project Butterfly” [Progetto Farfalla] intendeva “destabilizzare e sconvolgere i movimenti antisraeliani dall’interno.”

E l’anno scorso la società “Black Cube” [Cubo Nero] è stata accusata di controllo ostile su importanti membri della precedente amministrazione americana guidata da Barack Obama. “Black Cube” sembra essere strettamente legata alle aziende della sicurezza e per un certo periodo i suoi uffici sono stati dislocati in una base militare israeliana.

 

Vietato da Apple

Un certo numero di altre aziende israeliane cerca di attenuare la distinzione tra spazio privato e spazio pubblico.

“Onavo”, una società israeliana di raccolta dati creata da due veterani dell’Unità 8200, è stata acquistata da Facebook nel 2013. L’anno dopo Apple ha vietato la sua applicazione VPN dopo che è stato rivelato che offriva un accesso illimitato ai dati degli utenti.

Secondo un articolo di Haaretz, l’anno scorso il ministro israeliano degli Affari Strategici, Gilad Erdan, che dirige una campagna segreta intesa a demonizzare i militanti del BDS all’estero, ha tenuto regolarmente riunioni con un’altra società, “Concert”. Questo gruppo segreto, esentato dalle leggi israeliane sulla libertà d’informazione, ha ricevuto circa 36 milioni di dollari di finanziamenti da parte del governo israeliano. I suoi dirigenti e i suoi azionisti sono “la crema” dell’élite israeliana per la sicurezza e l’intelligence.

Un’altra società israeliana di primo piano, “Candiru” – che deve il suo nome a un piccolo pesce amazzonico famoso per infiltrarsi segretamente nel corpo umano, dove diventa un parassita – vende principalmente i propri strumenti di pirateria informatica ai governi occidentali, anche se le sue operazioni sono circondate dal segreto.

Il suo personale proviene quasi esclusivamente dall’Unità 8200. A prova dello stretto rapporto tra le tecnologie pubbliche e segrete sviluppate dalle aziende israeliane, il direttore generale di “Candiru”, Eitan Achlow, dirigeva in precedenza “Gett”, l’applicazione dei servizi per i taxi.

L’élite della sicurezza israeliana trae profitto da questo nuovo mercato della guerra informatica, sfruttando – come ha fatto per il commercio di armamenti convenzionali – una popolazione palestinese a sua disposizione e prigioniera su cui può testare la sua tecnologia.

Non è sorprendente che Israele renda progressivamente normale nei Paesi occidentali l’uso di tecnologie invasive e oppressive, di cui i palestinesi sono le vittime da decine di anni.

I programmi di riconoscimento facciale permettono una profilazione razziale e politica sempre più sofisticata. Le operazioni segrete e la raccolta dati e di sorveglianza cancellano le tradizionali frontiere tra gli spazi privati e quelli pubblici. E le campagne di raccolta di informazioni che ne sono il risultato permettono d’intimidire, minacciare e screditare gli oppositori o chi, come la comunità dei difensori dei diritti umani, cerca di mettere i potenti di fronte alle loro responsabilità.

Se questo avvenire distopico continua a svilupparsi, New York, Londra, Berlino e Parigi assomiglieranno sempre di più a Nablus, Hebron, Gerusalemme est e Gaza. E noi finiremo tutti col capire cosa significhi vivere in uno Stato di polizia impegnato in una guerra informatica contro quelli che domina.

 

Jonathan Cook è un giornalista britannico residente dal 2001 a Nazareth. Ha scritto tre libri sul conflitto israelo-palestinese. È stato vincitore del Martha Gellhorn Special Prize for Journalism.

Le opinioni espresse in questo articolo impegnano solo il suo autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

 

 (traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)