Con la Grande Marcia del Ritorno, i palestinesi chiedono una vita dignitosa

Ahmad Abu Rtemah

The Nation – 6 aprile, 2018

La Nakba non è solo una memoria [da coltivare], è una realtà tuttora in atto. Possiamo accettare che alla fine dobbiamo morire tutti; a Gaza la tragedia è che non riusciamo a vivere.

Khan Younis- Negli ultimi otto giorni, decine di migliaia di manifestanti a Gaza hanno ridato vita a un luogo che lentamente se ne stava impoverendo. Siamo venuti in massa, lanciando slogan e cantando una ninna nanna che tutti abbiamo desiderato, “Noi ritorneremo”, portando tutto quello che ci è rimasto da offrire nel tentativo di reclamare i nostri diritti a vivere in libertà e giustizia. Nonostante la nostra marcia pacifica, ci siamo imbattuti in una pioggia di gas lacrimogeni e di fuoco letale [lanciati] dai soldati israeliani. Sfortunatamente non è una novità per i palestinesi di Gaza che hanno vissuto molte guerre e un brutale assedio e blocco.

A Gaza abitano quasi 1 milione e 900.000 persone di cui 1 milione e 200.000 sono rifugiati espulsi dalle loro case e dalle loro terre durante la formazione di Israele 70 anni addietro, conosciuta come la Nakba ( la Catastrofe) per i palestinesi. Sin dall’inizio dell’assedio quasi 11 anni fa, il semplice obiettivo di sopravvivere ogni giorno si è dimostrato essere una sfida. Adesso solamente svegliarsi e potere usare acqua pulita ed elettricità è un lusso. L’assedio è stato particolarmente duro per i giovani, che soffrono a causa di un tasso di disoccupazione pari al 58%. Quello che è peggio è che tutto ciò è il risultato della politica di Israele che può essere cambiata. Questa vita dura e difficile non deve essere la realtà di Gaza.

I pescatori non possono avventurarsi oltre le sei miglia marine, il che trasforma in una sfida pescare abbastanza da mantenere i loro familiari. Dopo le guerre di Israele del 2008-09 e poi di nuovo del 2012 e del 2014 e tutte le uccisioni che sono avvenute in quel periodo, alla gente qui non è nemmeno concessa l’opportunità di ricostruire, giacché Israele ha ridotto i permessi di ingresso dei materiali di costruzione. Le condizioni degli ospedali sono allarmanti, e ai pazienti di rado viene data l’opportunità di andare a curarsi fuori [da Gaza]. Non vale la pena nemmeno di menzionare la perpetua condizione di oscurità in cui viviamo, praticamente senza elettricità o acqua pulita. Non è stato sufficiente averci cacciati; è come se tutta la memoria dei rifugiati palestinesi debba essere confinata e cancellata.

 Sono nato nel campo profughi di Rafah a Gaza. I miei genitori sono della città di Ramle in quello che ora è conosciuto come Israele. Come la maggior parte dei rifugiati palestinesi, ho sentito le storie dai membri più anziani della mia famiglia riguardo alla brutalità con cui sono stati cacciati dalle loro case durante la Nakba. Nonostante siano passati molti decenni, essi, come centinaia di migliaia di altre persone, non sono capaci di dimenticare gli orrori di cui sono stati testimoni durante il loro esproprio e tutte le violenze e sofferenze che si sono accompagnate a ciò.

Non ho mai visto la casa della mia famiglia a Ramle e i miei figli non hanno mai visto niente oltre i confini di Gaza e dell’assedio. Il mio più grande figlio di 7 anni e il più piccolo di 2 non conoscono nessuna realtà all’infuori del rumore delle bombe, del buio della notte senza elettricità, dell’impossibilità di viaggiare liberamente, o il fatto che queste cose non sono normali. Niente nella vita di Gaza è normale. La Nakba non è solo una pratica di memoria, è una realtà tuttora in atto. E se possiamo rassegnarci che tutti alla fine dobbiamo morire, a Gaza la tragedia è che non riusciamo a vivere.

 E’ contro questa dura realtà che resistiamo. Gli ultimi due venerdì, abbiamo resistito contro tutte le potenze che ci dicevano di smettere e morire in silenzio e abbiamo deciso di marciare per la vita. Si tratta di una protesta di una popolazione che non vuole altro che vivere in dignità.

 Nel 2011 i palestinesi hanno marciato verso i confini dalla Siria , dal Libano, dalla Giordania, da Gaza e dalla Cisgiordania. Alcuni sono stati uccisi, altri che sono riusciti a oltrepassare il confine sono stati arrestati dai soldati israeliani. Ma molto tempo prima, nel 1976, i palestinesi hanno protestato contro l’esproprio da parte di Israele delle loro terre in quello che più tardi è stato conosciuto come il Giorno della Terra. Allora sei palestinesi furono uccisi e 42 anni dopo Israele sta ancora facendo ricorso a una violenza omicida per impedire ai rifugiati di ritornare, ammazzando almeno 25 palestinesi a Gaza dallo scorso venerdì. Quegli esseri umani hanno osato sognare [di andare] al di là di tutte le strade dei campi profughi; avevano avuto la visione di una casa che non hanno mai avuto l’occasione di vedere.

 Ero preoccupato per la nostra incolumità quando siamo arrivati in migliaia in quella che Israele ritiene “ zona da non percorrere”. Ho riflettuto sulle conseguenze. Quando mi sono trovato con la mia famiglia nei pressi della piazza della Marcia del Ritorno nella zona orientale di Khan Younis, abbiamo respirato i gas lacrimogeni, compresi i miei figli. Ho sofferto nel vedere l’infanzia innocente colpita da un’esperienza così traumatica. Ma quello che molte persone non riescono a riconoscere è che sia che stiamo a casa, sia che protestiamo all’aperto, non siamo mai veramente sicuri a Gaza, né siamo realmente vivi. È come se tutta la nostra esistenza e i sogni di ritornare a casa e vivere con dignità debba essere nascosta nell’oscurità.

Tuttavia, quest’anno, dopo il riconoscimento da parte di Trump di Gerusalemme come capitale di Israele e la possibilità di realizzare quello che ha definito come “l’accordo del secolo”, i palestinesi hanno sentito un’imminente minaccia al diritto al ritorno dei rifugiati, nonostante venga riconosciuto dalla risoluzione 194 delle Nazioni Unite. È una preoccupazione di tutti che i nostri diritti in quanto rifugiati siano in serio pericolo e noi dobbiamo resistere in un modo nuovo, unitario, rivoluzionario, un modo che è al di fuori delle modalità dei negoziati e di quelle delle fazioni, per fare pressione su Israele e reclamare i nostri diritti.

Nei 70 anni trascorsi, Israele ha continuamente cacciato e umiliato i palestinesi. L’abbiamo visto nel ’48 e di nuovo nel ’67 e ora ancora ne siamo testimoni con l’espansione delle colonie. Mentre Israele butta fuori i palestinesi, porta nuovi immigrati da ogni parte del globo e li insedia su terre rubate ai palestinesi in violazione del diritto internazionale. Tuttora Israele continua ad essere incoraggiata dalla mancanza di pressioni da parte della comunità internazionale e dal sostegno dell’amministrazione Trump, cosicché le colonie continuano inesorabilmente ad espandersi.

Israele vorrebbe che il mondo credesse che noi palestinesi abbiamo lasciato volontariamente le nostre case ed abbiamo scelto questa vita di umiliazione, senza i diritti umani fondamentali, e che abbiamo imposto tutto ciò a noi stessi.

 Oggi i palestinesi di Gaza stanno provando a rompere le catene in cui Israele ha tentato così duramente di imprigionarci. Siamo dei manifestanti inermi che affrontano, protestando pacificamente, soldati pesantemente armati. Come risultato è difficile per Israele calunniarci e giustificare la sua brutale violenza e il mondo ha davanti a sé la realtà che innocenti civili vengono uccisi solo per avere esercitato il loro diritto a protestare pacificamente. Le scuse che Israele usa per giustificare le sue politiche nei confronti dei palestinesi stanno lentamente perdendo la loro efficacia, dal momento che a livello mondiale le persone realizzano sempre più che il vero volto di Israele è quello di un brutale regime di apartheid.

Nonostante la violenza voluta e mirata verso manifestanti inermi da parte di Israele, con la nostra Grande Marcia del Ritorno noi palestinesi a Gaza stiamo affermando ad alta voce e chiaramente che noi siamo ancora qui. Per Israele , è la nostra identità il nostro crimine, ma noi stiamo celebrando proprio quell’ identità che Israele cerca di criminalizzare. Persone di tutti i ceti stanno partecipando alla marcia. Artisti contribuiscono con la tradizionale danza dabka, intellettuali organizzano circoli di lettura, volontari si vestono da clown e giocano con i bambini. Quello che è più sorprendente sono i giovani che vivono e giocano, la loro risata, la più grande protesta fra tutte.

Le Nazioni Unite hanno ammonito che Gaza può essere invivibile entro soli due anni. Resistendo al destino che Israele ha programmato per noi, stiamo lottando pacificamente con i nostri corpi e il nostro amore per la vita, appellandoci alla giustizia che rimane nel mondo.

Ahmad Abu Rtemah è uno scrittore indipendente di Gaza, attivista di un social media e uno degli organizzatori della Grande Marcia del Ritorno.

(Traduzione di Carlo Tagliacozzo)




La crociata annessionista di Israele a Gerusalemme: il ruolo di Ma’ale Adumim e del corridoio E1

Zena Agha

26 marzo 2018, Al Shabaka

Sintesi

Negli scorsi mesi Israele ha fatto una serie di continui tentativi di annettersi colonie che confinano con Gerusalemme. Il più ambizioso: la legge della “Gerusalemme più grande”, che intende annettere Ma’ale Adumim, Givat Zeev, Beitar Illit e il blocco di Etzion – una colonia inserita tra Gerusalemme ed Hebron – che era in programma per l’approvazione da parte della commissione ministeriale israeliana per le leggi alla fine dell’ottobre 20171. Il suo scopo finale era di “ebraicizzare” Gerusalemme per mezzo di una manipolazione demografica e di un’espansione territoriale [dei confini di Gerusalemme, ndt.].

Benché Netanyahu abbia rimandato a tempo indefinito la legge a causa delle pressioni degli Stati Uniti, preoccupati che ciò potesse ostacolare gli sforzi di far risuscitare i colloqui di pace, il tentativo recondito continua a vivere in altre misure. In seguito al riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele da parte del presidente USA Donald Trump nel dicembre 2017, Israele ha accentuato i tentativi per annettere la terra e cambiare l’aspetto demografico di Gerusalemme.

L’attuale governo di Benjamin Netanyahu ha sfacciatamente proposto una sfilza di altri progetti, risoluzioni e leggi che rafforzerebbero la presa di Israele su Gerusalemme. Sostenuti dal consenso di Trump, i politici, amministratori e pianificatori israeliani hanno approvato anche la costruzione di migliaia di unità abitative nelle colonie sia all’interno che attorno a Gerusalemme e nei Territori Palestinesi Occupati [TPO], nonostante il fatto che la fondazione di queste colonie nei TPO rappresenti una violazione dell’articolo 49 della Quarta Convenzione di Ginevra. Garantirsi una maggioranza demografica ed espandere le colonie fanno anche parte di un piano più complessivo di Israele per annettersi la Cisgiordania.

Questo commento politico esplora le implicazioni dell’annessione della zona di Gerusalemme, in particolare l’impatto dell’annessione della colonia urbana di Ma’ale Adumim e dell’area territoriale nota come E1, che la collega a Gerusalemme. Mostra come l’annessione di questi luoghi renderebbe impraticabile un futuro Stato palestinese, separando di fatto tra loro la parte settentrionale della Cisgiordania e quella meridionale. Tale annessione mette in luce anche i metodi di colonizzazione israeliani nei TPO: confisca delle terre, annessione strisciante, manipolazione della demografia e trasferimento della popolazione. L’articolo conclude con dei suggerimenti su quanto la comunità internazionale, l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) e gli stessi palestinesi possono fare per arginare questo esito catastrofico.

Annessione fin dai primi giorni dell’occupazione

Il 27 giugno 1967, 20 giorni dopo che l’esercito israeliano aveva occupato Gerusalemme fino alla sua parte più orientale, Israele si annesse circa 71 km2 di terre all’interno dei confini ampliati della municipalità israeliana di Gerusalemme. Ciò riunì la Città Vecchia, la parte occidentale israeliana della città, la città in precedenza amministrata dalla Giordania e 28 villaggi palestinesi (ed i loro pascoli) in un’unica area metropolitana – tutto ciò nel tentativo di creare una unificata, “eterna” capitale ebraica. L’annessione incluse circa 69.000 palestinesi che vivevano sul territorio.

Dal 1967 Israele ha limitato potere, proprietà e abitazioni dei palestinesi nella zona di Gerusalemme, incrementando al contempo la presenza ed il controllo da parte degli ebrei israeliani. Mentre Gerusalemme continua ad essere l’unico territorio palestinese ufficialmente annesso dal 1967, la destra nazionalista in Israele ha a lungo chiesto la totale annessione dei TPO.

Nel corso degli anni sono state proposte leggi simili a quella della “Gerusalemme più grande”. La legge in sé è stata una riproposizione di un progetto simile degli anni ’90, e il parlamentare della Knesset [il parlamento israeliano, ndt.] Yisrael Katz ha presentato una proposta simile nel 2007. Entrambe vennero accantonate a causa delle preoccupazioni in merito a reazioni internazionali e palestinesi.

Come i precedenti tentativi, la legge della “Gerusalemme più grande” riguardava la demografia. Stabiliva che i 150.000 coloni che vivono nelle cittadine e nei municipi in questione venissero considerati abitanti di Gerusalemme, consentendogli quindi di votare nelle elezioni comunali e di influenzare i risultati elettorali. Al contempo la Knesset ha aggiunto un emendamento alla “Legge fondamentale” del 1980, “Gerusalemme capitale di Israele”, che consente al governo di separare zone della città dalla municipalità di Gerusalemme, pur esigendo che queste nuove amministrazioni rimanessero sotto sovranità israeliana. Ciò intendeva chiaramente eliminare i 100.000 palestinesi che vivono nel quartiere di Kufr Aqab, nel campo profughi di Shuafat e ad Anata – che si trova oltre la barriera di separazione – riclassificandoli come municipi di rango inferiore e togliendoli dall’anagrafe [di Gerusalemme].

Queste misure avrebbero garantito che la popolazione palestinese – che attualmente comprende circa il 40% della popolazione di Gerusalemme –scendesse al 32%, semplicemente ridefinendo i confini della città. Il parlamentare Kish ha espresso questa visione demografica in modo piuttosto ingenuo: “Gerusalemme ingloberà una popolazione che garantirà l’equilibrio demografico.” Allo stesso modo il deputato Katz ha sottolineato che la legge avrebbe “garantito una maggioranza ebraica nella città unificata,” insediando in questo modo Gerusalemme come la capitale di Israele.

Inoltre sono già in corso preparativi per l’annessione della Cisgiordania, come dimostra la risoluzione non vincolante votata all’unanimità il 1 gennaio 2018 dal comitato centrale del Likud [principale partito della destra israeliana al governo da molti anni, ndt.]. La risoluzione chiede che Netanyahu, i dirigenti e politici del partito “applichino le leggi di Israele e la sua sovranità su tutte le zone liberate dell’insediamento ebraico in Giudea e Samaria” – il nome utilizzato dai nazional-religiosi in riferimento alla Cisgiordania. Come ha proclamato l’ex-ministro dell’Educazione e rivale di Netanyahu Gideon Sa’ar: “(L’annessione) verrà realizzata in pochi anni. Lasciateci guidare il Likud…L’obiettivo della nostra generazione è rimuovere ogni punto interrogativo che incombe sul futuro delle colonie.”

Mentre a metà febbraio Netanyahu ha scartato una legge basata su questa risoluzione in risposta alla disapprovazione USA, il suo spirito è evidente in una serie di più sottili ma ugualmente pericolose leggi presentate da parlamentari israeliani. A metà febbraio, per esempio, la Knesset ha approvato una legge che estende la giurisdizione dello Stato all’interno della Cisgiordania, mettendo college e università delle colonie sotto l’autorità della commissione israeliana per l’Educazione superiore. Benché il suo impatto diretto sia in qualche modo ridotto, i sostenitori della legge hanno creato un contesto retorico e legislativo in cui l’applicazione della legge israeliana nelle colonie non è più discutibile – un passo verso l’obiettivo finale di annettere parti della Cisgiordania.

In modo ancor più significativo, la ministra della Giustizia Ayelet Shaked (Casa Ebraica [partito di estrema destra dei coloni, ndt.]) ha proposto una legge, fatta propria dal governo all’inizio di marzo, che propone di togliere alla Corte suprema israeliana la giurisdizione sulle terre contese in Cisgiordania. Se approvata, la legge garantirebbe che il tribunale distrettuale di Gerusalemme, invece della Corte suprema, si occupi dei casi riguardanti palestinesi che intendono fare ricorso legale nei conflitti territoriali con i coloni. Questo è un passo che stabilisce un precedente che imporrebbe concretamente la legge israeliana sulla Cisgiordania occupata.

L’intento di questa legge è duplice: in primo luogo, attribuendo a un tribunale israeliano la giurisdizione sui palestinesi non cittadini che vivono al di là della Linea Verde [il confine tra Israele e Giordania prima della guerra del ’67, ndt.], Shaked intende estendere (ulteriormente) le leggi interne e il sistema giuridico di Israele in Cisgiordania. In secondo luogo, dà un ulteriore vantaggio nei tribunali ai coloni rispetto alle denunce palestinesi. Secondo un funzionario del ministero di Giustizia, Shaked vede la Corte Suprema israeliana come “eccessivamente preoccupata delle leggi internazionali e della protezione dei diritti della popolazione ‘occupata’ in Giudea e Samaria.”

Simili atteggiamenti stanno ricevendo una base d’appoggio internazionale. In una riunione durante la conferenza dell’AIPAC [American Israel Public Affairs Committee, principale gruppo di pressione filoisraeliano negli USA, ndt.] a Washington nel marzo 2018, Oded Ravivi, il capo del consiglio della colonia di Efrat, ha invitato i parlamentari statunitensi ad appoggiare l’annessione della Cisgiordania e l’incremento nella costruzione di colonie. Ha affermato: “Non è un segreto che alla Knesset ci sono stati diversi tentativi riguardo all’annessione o all’adozione delle leggi israeliane in Giudea e Samaria…Penso che sia giunto il momento di applicare le leggi israeliane in Giudea e Samaria.”

Quindi, mentre la costruzione (o espansione) di colonie illegali e i tentativi di annessione sono stati messi in pratica senza sosta dal 1967, è chiaro che la Palestina sta affrontando un momento cruciale. Se la legge della “Gerusalemme più grande”, ed ogni modifica di essa, dovessero essere messe in atto, ci sarebbero due conseguenze epocali: taglierebbe fuori i palestinesi dalla loro capitale, Gerusalemme, ebraicizzando la città dal punto di vista demografico e spaziale, e colonizzerebbe il punto più stretto della Cisgiordania, rendendo impossibile uno Stato palestinese con continuità territoriale.

Per entrambi questi risultati è fondamentale la proposta di annessione della colonia urbana di Ma’ale Adumim e della striscia di terra che la unisce a Gerusalemme, nota come corridoio E1. Dal punto di vista demografico l’inclusione di Ma’ale Adumim nel Comune di Gerusalemme farebbe aumentare drasticamente il numero di abitanti ebrei israeliani nella città, e, dal punto di vista spaziale, l’annessione del corridoio E1 sarebbe il colpo di grazia per la soluzione dei due Stati.

Ma’ale Adumim: il gioiello nella corona della colonizzazione

Ma’ale Adumim si trova nei pressi di Gerico, nei TPO, e funge da sobborgo ebraico di Gerusalemme, contando 40.000 abitanti. L’esatta “fondazione” di Ma’ale Adumim è incerta. È nata come avamposto di 15 coloni estremisti nel 1975 ed ha ottenuto lo status di cittadina nel 1991 – la prima ad ottenerlo in Cisgiordania.

Il primo governo di Menachem Begin (1977-81) la pianificò e la costruì. I confini, definiti nel 1979, coprivano circa 3.500 ettari con 2.600 unità abitative. Contrariamente alla voce corrente secondo cui le terre tra Gerico e Gerusalemme vennero “ereditate” dai giordani e quindi erano “terre dello Stato”, Ma’ale Adumim venne costruita su terreni di proprietà di abitanti dei villaggi palestinesi di Abu Dis, Anata, Azariya, At-Tur e Isawiya. Inoltre i Jahalin, la tribù beduina che in precedenza abitava sulle colline di Ma’ale Adumim, vennero deportati a forza in una vicina discarica dopo la demolizione dei loro accampamenti di tende. La colonia venne estesa ad altri 1.300 ettari che Israele dichiarò “terre dello Stato” durante gli anni ’80 e ’90. Ciò determinò un’ulteriore espulsione forzata dei Jahalin nel 1997 e 1998, con la deportazione di 100 famiglie.

Ma’ale Adumim mirava a raggiungere due obiettivi generali: penetrare strategicamente all’interno dei TPO e consolidare il controllo di Israele su Gerusalemme. Nel primo caso, la posizione di Ma’ale Adumim venne scelta espressamente: il principale architetto e urbanista della colonia, Thomas Leitersdorf, disse che il suo posizionamento nella parte centrale della Cisgiordania era “senza dubbio, politico …(e) accuratamente prefissato – il luogo più distante da Israele che fosse plausibilmente possibile.”

Nel tentativo di creare concreti “fatti sul terreno”, a Ma’ale Adumim vennero fornite tutte le risorse necessarie e si sviluppò alla velocità della luce. In un periodo di tre anni gli urbanisti israeliani costruirono una cittadina composta da migliaia di appartamenti identici. Una pianificazione così rigida, in cui ogni casa è una copia esatta della successiva, è, nelle parole di Dana Erekat [architetta ed urbanista palestinese, ndt.] “la quintessenza del colonialismo di popolamento. È egemonia colonialista” – in contrasto con lo sviluppo organico del paesaggio palestinese circostante.

Il governo israeliano intendeva aumentare il numero di ebrei israeliani all’interno ed attorno alla città, anche finanziando la colonia e incentivando i propri cittadini a sistemarvisi. Il principale obiettivo era appoggiare la migrazione di coppie giovani di classe media, offrendo loro migliori condizioni abitative vicino a Gerusalemme ad un costo significativamente inferiore. Questi coloni non ideologizzati erano spinti dal desiderio di una migliore qualità di vita. Oggi la ripartizione demografica è circa di [abitanti] per il 75% laici e per il 25% religiosi2.

Dal 1975 Ma’ale Adumim è diventata una vera e propria città, con una biblioteca, un teatro, un’area industriale, centri commerciali, 15 scuole e 78 asili. Circa il 70% degli abitanti si reca a Gerusalemme per lavoro, senza quasi neanche accorgendosi di attraversare un territorio occupato.

Ma’ale Adumim, insieme a colonie vicine che sono spuntate tutto intorno, forma una zona edificata impattante che si frappone al paesaggio palestinese e isola i palestinesi dalla loro capitale e tra loro. È il gioiello nella corona del progetto di colonizzazione israeliana.

Gli effetti devastanti dell’annessione della E1.

Qualunque annessione di Ma’ale Adumim e di altre parti della Cisgiordania dipenderebbe dall’acquisizione di una parte strategicamente significativa della terra nota come E1. Il corridoio E1misura approssimativamente 12 km2 e si trova all’interno dell’Area C controllata da Israele, tra Gerusalemme e Ma’ale Adumim. Il principale obiettivo di Israele nell’acquisizione dell’E1 è garantire la continuità territoriale tra Ma’ale Adumim ed Israele, creando un blocco urbano ebraico tra Ma’ale Adumim e Gerusalemme. Ciò rafforzerebbe il controllo di Israele su Gerusalemme est, schiacciando i suoi distretti palestinesi tra quartieri ebraici e rendendo lo schema dei due Stati ancor meno possibile.

Il membro della Knesset [il parlamento israeliano, ndt.] Naftali Bennett (Casa Ebraica [partito di estrema destra dei coloni, ndt.]), ministro dell’Educazione di destra, ha parlato di annettere Ma’ale Adumim e l’E1. In preparazione della presentazione di una legge per l’annessione, nel 2017 ha dichiarato che “evidentemente è tempo di un cambiamento quantistico… L’approccio incrementale non ha funzionato. Dobbiamo comprendere che è una nuova situazione. Dobbiamo fare le cose in grande, con coraggio e in fretta.” Questa “nuova situazione” è un primo passo verso la totale annessione della Cisgiordania.

L’E1 non è semplicemente una fascia di terra, ma è anche destinata alla colonizzazione. Il primo ministro Yitzhak Rabin (1992-95) estese il confine di Ma’ale Adumim per mettere l’E1 sotto il suo controllo – coprendo circa 4.800 ettari – ed ogni primo ministro israeliano dopo Rabin ha tentato di costruire blocchi di edifici nella zona. Il piano generale dell’E1 (piano n° 420/4) ha ricevuto l’approvazione nel 1999 ed è diviso in piani dettagliati separati, che coprono circa 1.200 ettari di terreno, la maggior parte dei quali sono stati dichiarati da Israele “terra dello Stato”. Attualmente una riserva d’acqua, una zona industriale e una stazione di polizia sono state sottoposte a controllo pubblico e costruite. Inoltre la maggior parte delle infrastrutture per i servizi è già stata realizzata, comprese strade asfaltate, muri di sostegno, rotonde e illuminazione delle strade, per oltre 5.5 milioni di dollari.

Tali infrastrutture sono in previsione di una nuova colonia israeliana chiamata “Mevaseret Adumim”, che includerebbe 3.500 unità abitative nella sua zona residenziale. Apparentemente intesa per alleviare la carenza di abitazioni a Ma’ale Adumim e offrire servizi regionali e strutture commerciali e turistiche, in sostanza incrementerebbe la popolazione ebraica nella zona di Gerusalemme. “Mevaseret Adumim” è diventata un grido di battaglia della destra israeliana in Israele. Netanyahu ha ripetutamente promesso di costruirla – sotto la pressione sia dei gruppi di destra che dell’astuto sindaco di Ma’ale Adumim, Benny Kasriel.

L’effetto dell’annessione e/o colonizzazione nel corridoio E1 sarebbe devastante. In primo luogo creerebbe una “punta sporgente” a metà strada attraverso il punto più stretto della Cisgiordania (28 km tra est e ovest). Ciò taglierebbe la strada tra Ramallah e Betlemme, interromperebbe la contiguità territoriale tra la Cisgiordania settentrionale e quella meridionale e in ultima analisi porrebbe fine alle speranze di uno schema a due Stati.

In secondo luogo isolerebbe ulteriormente i palestinesi di Gerusalemme e separerebbe i palestinesi della Cisgiordania da Gerusalemme. Per molti palestinesi dei TPO Gerusalemme è il centro economico e culturale. La costruzione del “Muro di Separazione” attraverso parti della Cisgiordania e attorno all’anello delle colonie attualmente esistenti ha già negato ai palestinesi l’accesso a Gerusalemme. I palestinesi con la carta d’identità della Cisgiordania non possono più commerciare, studiare, ricevere cure mediche o visitare amici e familiari senza un permesso dell’apparato di sicurezza israeliano.

Oltretutto non dovrebbe essere trascurato il significato religioso di tale annessione. Gerusalemme è la sede di molti dei luoghi religiosi più sacri per i palestinesi musulmani e cristiani, compresa la “Spianata delle Moschee” (dove si trova la moschea di Al-Aqsa) e la chiesa del Sacro Sepolcro. L’annessione non farebbe che esasperare le restrizioni religiose imposte sui palestinesi, a cui viene negato il diritto di pregare liberamente nei luoghi santi.

Inoltre l’E1 è disseminata di enclave di circa 77.5 ettari di terra palestinese di proprietà privata. Dato che Israele non è stato in grado di dichiararle “terra dello Stato”, non sono ufficialmente incluse nell’annessione o nei piani di colonizzazione. Qualunque costruzione di insediamenti nell’E1 le circonderebbe inevitabilmente con zone ebraiche israeliane edificate, limitando la possibilità dei proprietari palestinesi di accedervi e coltivare i loro campi.

Ciò inciderebbe sulle infrastrutture locali. Per esempio, le strade attualmente utilizzate dai palestinesi diventerebbero, come nel caso di altre colonie, strade locali per l’uso dei coloni e verrebbe negato l’accesso ai palestinesi. Un rapporto dell’Ong israeliana B’Tselem afferma che, se non venissero costruite strade alternative, il divieto di accesso ridurrebbe notevolmente la libertà di movimento dei palestinesi nella già ridotta area.

Riconoscendo le conseguenze spaziali, politiche e diplomatiche del fatto di tagliare a metà la Cisgiordania, Israele sta costruendo la “Circonvallazione orientale” nei pressi di Gerusalemme. Soprannominata la “strada dell’apartheid” a causa del muro che corre a metà separando automobilisti israeliani e palestinesi, intende agevolare gli spostamenti dei palestinesi tra il nord e il sud della Cisgiordania per garantire la “contiguità dei trasporti”. Ma è anche intesa a collegare meglio le colonie israeliane a Gerusalemme, impedendo agli automobilisti palestinesi di accedere a Gerusalemme. Le implicazioni della strada sono devastanti per la libertà di movimento dei palestinesi e per il loro eventuale futuro “Stato”.

Insomma, la contestata annessione del corridoio E1 intende inserire formalmente Ma’ale Adumim nell’enclave di Gerusalemme, dividendo diagonalmente il territorio e tagliando anche fuori i palestinesi da Gerusalemme – quella che dovrebbe essere la loro capitale. Espellerebbe anche comunità palestinesi che hanno vissuto lì da generazioni.

Trasferimento di popolazione

La messa in pratica delle intenzioni di annessione/colonizzazione dell’E1 richiederebbe l’immediata espulsione dei beduini che vivono sulla terra, una violazione delle leggi internazionali. Attualmente ci sono circa 2.700 beduini, la metà dei quali sono bambini, nei pressi di Ma’ale Adumim. La maggioranza di queste comunità fa parte della tribù Jahalin.

Benché i beduini abbiano vissuto dagli anni ’50 su quella terra – che Israele ha destinato loro dopo averli espulsi dalla zona di Tel Arad, nel Negev – l’amministrazione civile [in realtà il governo militare israeliano, ndt.] (che gestisce le attività nei TPO) ha stabilito che essi non possano fare costruzioni considerate “legali” da Israele. Le autorità israeliane hanno anche privato deliberatamente i Jahalin dell’accesso a servizi fondamentali, come acqua ed elettricità, per rendere insopportabile la loro vita sul territorio. Non gli viene consentito di lavorare o di costruire sulla terra. Oltretutto l’esercito israeliano limita la loro possibilità di accedere alle loro terre per pascolare le greggi, obbligandoli a dipendere dall’acquisto di costoso foraggio per le pecore. Alcuni pastori sono stati obbligati a vendere le proprie greggi, con il risultato che solo il 30% dei residenti continua a guadagnarsi da vivere con l’allevamento. Gli altri lavorano come braccianti, anche nelle colonie vicine.

Tentativi da parte di stranieri di migliorare la situazione dei beduini sono stati ostacolati. Nel marzo 2017 Israele ha emanato 42 ordini di demolizione contro il misero villaggio di Khan al-Ahmar nell’E1, facendo arrabbiare l’Unione Europea, che aveva finanziato molti degli edifici del villaggio, compresa una scuola che ospitava più di 150 bambini dai sei a quindici anni – alcuni di comunità vicine3. Nel settembre 2017 a Khan al-Ahmar vivono 21 famiglie che rappresentano 146 persone, compresi 85 minori.

In base agli attuali progetti dell’E1, i Jahalin devono essere espulsi e ricollocati in tre baraccopoli. Ciò costringe i beduini a uno stile di vita che è in totale contrasto con il loro nomadismo. Nel contesto dell’occupazione militare ogni trasferimento di “persone protette” – come queste comunità – compresa la confisca e la distruzione di proprietà da parte del potere occupante, rappresenta una grave violazione delle leggi internazionali4. Per estensione, ogni progetto militare inteso a deportare permanentemente persone sotto occupazione è un crimine di guerra5. Eppure, nonostante il chiaro contesto giuridico internazionale che condanna queste pratiche, i tentativi israeliani di spostare i beduini continuano – utilizzando leggi interne come mezzo per occultare le rivendicazioni di beduini e palestinesi sulla terra6.

Suggerimenti

L’annessione dell’E1 e di Ma’ale Adumim altererebbe in modo drammatico la situazione geopolitica in Palestina-Israele. Non solo sancirebbe l’”ebraicizzazione” di Gerusalemme da parte di Israele, ma metterebbe a repentaglio il futuro Stato palestinese definito dagli accordi di Oslo. Queste tensioni si manifestano continuamente nella Knesset, nel congresso USA, alle Nazioni Unite, all’Unione Europea, sui media e più generalmente nel campo umanitario. Le molte parti coinvolte nel progetto di annessione di Ma’ale Adumim la rendono una perenne fonte di discussioni, contrasti e resistenza.

La comunità internazionale, l’ANP e la società civile palestinese possono prendere iniziative per bloccare questa flagrante violazione delle leggi internazionali:

  • Dato che è evidente che l’amministrazione Trump non sarà la forza di contenzione della coalizione di destra alla Knesset, Nazioni diverse dagli USA così come istituzioni internazionali devono esercitare pressioni sul governo israeliano per fare in modo che ogni legge di annessione risulti onerosa. La società civile palestinese e il movimento di solidarietà con la Palestina nelle loro attuali e future campagne con i parlamentari devono approfondire la sensibilizzazione su quanto il progetto di colonizzazione israeliano sia vicino al punto di non ritorno.

  • L’UE dovrebbe andare oltre le frasi fatte di condanna quando la sua assistenza umanitaria a comunità vulnerabili è confiscata o distrutta. Dovrebbe rendere responsabile attivamente Israele con pressioni diplomatiche, come il riconoscimento dello Stato palestinese. Allo stesso tempo il movimento di solidarietà con la Palestina dovrebbe identificare modi per fare pressione sull’UE spingendola ad attenersi alle sue stesse regole e ai suoi obblighi in base alle leggi internazionali.

  • L’ANP dovrebbe chiarire che la messa in atto di qualunque legge per l’annessione rappresenterebbe la linea rossa che, se superata, metterebbe fine a qualunque cooperazione tra l’ANP ed Israele. Un movimento di base organizzato dovrebbe sia far pressione sull’ANP che rafforzare la propria azione.

  • L’ANP dovrebbe creare un proprio progetto territoriale della zona tra Gerusalemme e Ma’ale Adumim, appoggiata da fatti che sottolineino l’importanza dell’area per l’esistenza di un futuro Stato palestinese. Questa visione alternativa dovrebbe essere creata da geografi, urbanisti e gruppi di ricercatori palestinesi.

La valanga di recenti leggi è semplicemente l’ultimo esempio del furto di terra palestinese da parte di Israele e del processo di colonizzazione sionista che ha avuto inizio da prima della fondazione dello Stato di Israele. Benché sia improbabile che la realizzazione di questi suggerimenti bloccherebbe Israele nella sua missione ideologica di “ebraicizzare” tutta la Palestina-Israele, tali iniziative potrebbero sfruttare il sentimento filo-palestinese raccogliendo impulso in Occidente e richiamare all’ordine Israele per la sua occupazione consolidata e per le pratiche di colonizzazione.

Note

  1. La legge è stata proposta dai membri della Knesset Yoav Kish (Likud) e Bezalel Smotrich (Jewish Home) ed appoggiata dal ministro dei Trasporti Yisrael Katz (Likud) e dal primo ministro Benjamin Netanyahu (Likud).

  2. Sebbene in Cisgiordania le colonie rurali superino quelle urbane di 94 a 50, il numero di coloni israeliani che vivono in insediamenti urbani è di circa 477.000, più di otto volte quello dei coloni israeliani in colonie rurali, che è di circa 60.000.

  3. L’UE ha invitato Israele ad “accelerare l’approvazione di piani regolatori palestinesi, interrompere la deportazione forzata di popolazione e le demolizioni di case ed infrastrutture palestinesi, semplificare le procedure amministrative per ottenere concessioni edilizie, garantire l’accesso all’acqua e a soddisfare le necessità umanitarie.”

  4. Le leggi umanitarie internazionali proibiscono il trasferimento forzato se non per la sicurezza degli abitanti o per urgenti necessità militari.

  5. Lo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale stabilisce che il trasferimento forzato di popolazione include “minaccia dell’uso della forza o coercizione, come quella provocata dalla paura di essere vittima di violenze, di costrizione, di detenzione, di oppressione psicologica o di abuso di potere contro una o più persone o altre persone, o approfittando di un contesto di coercizione.”

  6. Questa prassi di trasferimento di popolazione trova riscontro all’interno della Linea Verde. I beduini che vivono nei cosiddetti “villaggi non riconosciuti” nel deserto del Naqab/Negev sono perennemente a rischio di “ricollocazione”. Più di recente le autorità israeliane hanno annunciato l’espulsione degli abitanti della cittadina beduina di Umm Al-Hiran per fare spazio alla cittadina ebraica chiamata Hiran.

Zena Agha è la collaboratrice politica per gli USA di Al-Shabaka, la rete politica palestinese. L’esperienza di Zena si concentra sulla politica, la diplomazia e il giornalismo. In precedenza ha lavorato all’ambasciata irachena di Parigi, alla delegazione palestinese all’UNESCO e a “The Economist”. Oltre a editoriali su “The Independent”, le esperienze mediatiche di Zena includono El Pais, PRI’s the World, il BBC World Service e BBC Arabic. Zena è stata premiata con una borsa di studio Kennedy per frequentare l’università di Harvard, dove ha completato un master in studi sul Medio Oriente. I suoi principali interessi di ricerca includono la storia moderna del Medio Oriente, la memoria e la produzione narrativa, le pratiche territoriali.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Il massacro di Gaza è una vittoria mediatica per Hamas e un incubo mediatico per Israele

Chemi Shalev

31 marzo 2018, Haaretz

L’appoggio incondizionato di Trump rafforza Netanyahu, ma potrebbe anche innestare ripercussioni internazionali di critica per entrambi.

Per la prima volta da molto tempo durante il fine settimana il conflitto israelo-palestinese ha avuto un posto di rilievo negli articoli dei media internazionali. I portavoce israeliani hanno fornito prove che militanti di Hamas hanno cercato di aprire una breccia nella barriera di confine a Gaza spacciando la cosa come una presunta protesta popolare, ma gli opinionisti dell’Occidente preferiscono il video, divenuto virale, di un adolescente palestinese colpito alla schiena e una narrazione complessiva di gazawi senza speranza che protestano contro l’oppressione e contro il blocco. Quindici palestinesi sono stati uccisi, centinaia feriti e la barriera è rimasta intatta, ma sul campo di battaglia della propaganda Hamas ha riportato una vittoria.

Anche gli sviluppi futuri sono nelle mani dell’organizzazione islamista. Più Hamas continua con la “Marcia del Milione”, come è stata denominata, più riuscirà a separare le proteste dagli atti di violenza e terrorismo, e più avrà successo nello sfidare e nel mettere in difficoltà sia Israele che Mahmoud Abbas [il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese, ndt.] e l’Autorità Nazionale Palestinese. Se i comandanti dell’esercito israeliano non troveranno un modo per respingere i tentativi di far breccia nella barriera senza provocare così tante vittime, le difficoltà di Israele cresceranno in modo esponenziale.

Il venerdì di sangue potrebbe essere presto dimenticato se rimarrà un evento isolato, ma se il bagno di sangue si ripeterà più volte durante la campagna di sei settimane che si prevede terminerà a metà maggio con il giorno della Nakba palestinese, la comunità internazionale sarà obbligata a riorientare la propria attenzione sul conflitto. Le critiche al primo ministro Benjamin Netanyahu, e le pressioni su di lui, praticamente scomparse negli ultimi mesi, potrebbero ridestarsi con un sentimento di rivalsa.

L’ipotesi di lavoro da parte israeliana è che il terrorismo e la violenza siano parti insite nell’identità di Hamas; il gruppo islamista sarebbe incapace di interrompere la “lotta armata”, anche solo provvisoriamente. Se così fosse le difficoltà di Israele si risolverebbero presto e Hamas dilapiderà il vantaggio acquisito con gli scontri di massa nei pressi della barriera. Se la concezione israeliana risulterà sbagliata, tuttavia, e Hamas dimostrerà di essere in grado di disciplina strategica e di controllo, potrebbe crearsi quello che è sempre stato l’incubo dell’hasbarà [propaganda, ndt.] israeliana: proteste palestinesi di massa e non violente che obblighino l’esercito israeliano ad uccidere e mutilare civili disarmati. Per quanto superficiali e insensate, le analogie con il Mahatma Gandhi, con [la lotta contro] l’apartheid del Sud Africa e persino con la lotta per i diritti civili in America offriranno il quadro della prossima fase della lotta palestinese.

L’immediato appoggio dell’amministrazione Trump, espresso in un tweet pasquale dell’inviato speciale Jason Greenblatt, che ha biasimato la provocazione di Hamas e la sua “marcia ostile”, è apparentemente un positivo sviluppo dal punto di vista israeliano. A differenza di Trump, Barack Obama avrebbe subito criticato quello che è stato universalmente descritto come un eccessivo uso della forza da parte di Israele, e si sarebbe consultato con i Paesi dell’Europa occidentale per un’adeguata risposta diplomatica. Israele ha invece festeggiato e Netanyahu ha come al solito esaltato la collaborazione senza precedenti con l’amministrazione Trump, ma potrebbe anche rivelarsi un’arma a doppio taglio, che potrebbe solo peggiorerà solo le cose.

Dopotutto Trump è uno dei presidenti USA più detestati della storia contemporanea, nell’opinione pubblica occidentale in generale e tra i progressisti americani in particolare. Il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele da parte di Trump e la sua decisione di spostarvi l’ambasciata USA sono generalmente considerati un contributo alla frustrazione e al senso di isolamento dei palestinesi. Finché Israele manterrà un basso profilo e non diventerà protagonista di notizie negative, i suoi stretti rapporti con Trump provocheranno solo danni marginali; in tempi di crisi, tuttavia, il danno potrebbe essere notevole. Le critiche contro Israele che sarebbero state tacitate in seguito al “Venerdì di sangue”, in ogni caso sono alimentate dall’ostilità diffusa verso Trump e le sue politiche – e da un desiderio di punire i suoi beniamini. Più l’amministrazione USA difende le azioni impopolari di Israele, più i suoi critici, compresi i progressisti americani, considereranno Trump e Netanyahu come uno sgradevole tutto unico.

L’incondizionato appoggio USA rafforza la determinazione di Netanyahu e dei suoi ministri nel continuare la politica di inattività sia rispetto a Gaza che nei confronti del processo di pace. Molti israeliani vedono Hamas semplicemente come un’organizzazione terroristica e la loro reazione istintiva è che Israele non possa e non debba essere percepito come arrendevole nei confronti del terrorismo e della violenza. In un momento in cui sembrano all’orizzonte elezioni anticipate [in Israele], l’ultima cosa che la coalizione di destra di Netanyahu vuol fare è allontanarsi dalle sue politiche consolidate, che significherebbe ammettere che le sue decisioni sono sbagliate. Le richieste da parte della sinistra di rivedere il comportamento dell’esercito israeliano a Gaza e riesaminare totalmente le politiche di Netanyahu nei confronti dei palestinesi potrebbero riportare il conflitto israelo-palestinese al centro del discorso pubblico dopo una lunga assenza, ma fornirebbero anche al primo ministro una scusa – se ne avesse bisogno – per spostare l’attenzione dalla crisi di Gaza ai nemici interni pronti a pugnalarlo alle spalle.

Tuttavia il Libro di Osea ci ha insegnato: “Chi semina vento raccoglie tempesta.” La continua paralisi diplomatica israeliana sulla questione palestinese e la sua errata convinzione che lo status quo possa essere conservato indefinitamente hanno dato l’avvio al colpo mediatico di Hamas: il gruppo islamista può improvvisamente vedere la luce alla fine dei tunnel che l’esercito israeliano sta sistematicamente distruggendo. Hamas può versare lacrime di coccodrillo sui morti e feriti, ma anche se il loro numero dovesse raddoppiare o triplicare nei prossimi giorni, sarebbe un prezzo irrisorio da pagare per risuscitare la propria importanza e spingere in un angolo sia Netanyahu che Abbas. Il fatto che Gerusalemme si sia messa nella posizione in cui un gruppo notoriamente terroristico che sogna ancora di distruggere l’”entità sionista” possa battere Israele nel giudizio dell’opinione pubblica ed assegnargli la parte del malvagio occupante con il grilletto facile è un errore madornale, che può solo peggiorare finché Netanyahu e il suo governo preferiranno trincerarsi dietro la loro ottusa arroganza.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




I dati presentati dall’esercito mostrano che in Israele, Cisgiordania e Gaza vivono più arabi che ebrei

Yotam Berger

26 marzo 2018, Haaretz

Ai parlamentari sono stati presentati numeri che mostrano che 5 milioni di palestinesi vivono a Gaza e in Cisgiordania, 1.8 milioni di arabi vivono in Israele e centinaia di migliaia a Gerusalemme Est. 6.5 milioni di ebrei vivono in Israele.

Lunedì, durante un dibattito alla Knesset, l’esercito israeliano ha presentato alcuni dati che mostrano come siano più arabi che ebrei a vivere tra il Mediterraneo e il fiume Giordano.

Secondo il vice-comandante dell’Amministrazione Civile [l’organismo militare israeliano che governa i territori palestinesi occupati, ndt.], colonnello Haim Mendes, cinque milioni di palestinesi vivono in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Questo numero non include le centinaia di migliaia di palestinesi che vivono a Gerusalemme Est, o l’1.8 milioni di arabi israeliani. Secondo l’Ufficio Centrale di Statistica israeliano, a settembre 2017 erano 6.5 milioni gli ebrei che vivono in Israele.

I dati presentati da Mendes durante la sessione della commissione Difesa e Affari Esteri della Knesset si basano su statistiche redatte dall’Ufficio palestinese di statistica. In passato l’affidabilità dei dati è stata messa in dubbio, e i servizi di sicurezza israeliani spesso evitano di farvi affidamento.

I parlamentari di destra che hanno presenziato alla sessione affermano che i dati sono falsi e dicono che Mendes non ha presentato una documentazione a supporto. Il comitato ha dunque chiesto all’Amministrazione Civile di produrre tale documentazione.

I dati presentati da Mendes mostrano un significativo incremento nel numero di palestinesi che vivono tra il Mediterraneo e il fiume Giordano. Nel maggio 2012, un documento ufficiale redatto dall’Amministrazione Civile ha affermato che 2.7 milioni di palestinesi vivevano in Cisgiordania – un incremento del 29% rispetto al 2000.

Il parlamentare Moti Yogev (Habayit Hayehudi [partito di estrema destra dei coloni, ndt.]), che sta a capo della sottocommissione per la Giudea e la Samaria [definizione israeliana della Cisgiordania, ndt.], durante la discussione ha affermato che Mendes ha gonfiato i numeri, poiché, secondo Yogev, nel 2017 “sono state rilevate circa 80.000 nuove nascite e 8.000 decessi – un’aspettativa di vita che non esiste in nessun’altra parte del mondo”.

Le divergenze sull’argomento riflettono una disputa accesa sul numero dei palestinesi che vivono nei territori [palestinesi occupati, ndt.]. Un centro di ricerca noto come “American-Israel Demographic Research Group” [Gruppo Israelo-Americano di Ricerca Demografica] ha provato in passato a dimostrare che i palestinesi sono riusciti ad aggiungere, grazie a una significativa falsificazione dei dati, circa 1 milione di persone in più rispetto al loro numero del 2012. Secondo loro, quell’anno viveva in Cisgiordania 1.5 milione di palestinesi, un numero nettamente inferiore a quello presentato dall’Amministrazione Civile.

Anche se le affermazioni del gruppo non sono supportate dagli esperti in demografia né in Israele né all’estero, erano molto diffuse ed accettate tra i portavoce e i politici della destra. Secondo loro, il tempo e la demografia volgono in favore di Israele piuttosto che dei palestinesi, e concludono che, se il numero dei palestinesi in Cisgiordania è relativamente basso e la minaccia demografica non esiste, non c’è bisogno di intraprendere negoziati riguardo alla fondazione di uno Stato palestinese, ed è giunto il momento di discutere come annettere i territori e gli abitanti.

Il parlamentare Ayman Odeh, capo della Joint List [Lista Unita, la coalizione dei vari partiti arabo israeliani che si sono presentati insieme alle ultime elezioni, ndt.], ha ha risposto twittando che “tra il fiume Giordano e il Mediterraneo c’è un numero eguale di palestinesi ed ebrei, e non c’è nulla di nuovo in questo. Ecco perché il bivio a cui ci troviamo è chiaro: due Stati in base al 1967 [cioè ai confini precedenti la guerra dei Sei Giorni e l’occupazione militare israeliana, ndt.], oppure uno Stato che sia di apartheid, o ancora uno Stato democratico in cui tutti abbiano il diritto al voto. Non ci sono altre opzioni, e almeno questa semplice verità deve essere sottolineata chiaramente”.

(Traduzione di Veronica Garbarini)

 




La Corte Suprema israeliana: bastione progressista o responsabile di ingiustizie?

Ben White

Venerdì 23 marzo 2018, Middle East Eye

Invece di arginare le sistematiche violazioni dei diritti contro i palestinesi, il sistema giudiziario rafforza lo status quo discriminatorio

È abitualmente acclamata come l’ultima trincea israeliana contro le leggi ultra-nazionaliste. Ma la Corte Suprema del Paese merita la sua reputazione di difensore dei valori liberali?

Casi recenti hanno evidenziato come la Corte, invece di contrastare le sistematiche violazioni dei diritti subite dai palestinesi, di fatto lubrifica la macchina dell’occupazione.

All’inizio di questo mese la Knesset [il parlamento israeliano, ndt.] ha approvato una legge che concede al ministero degli Interni il potere di revocare lo status di residenti permanenti nella Gerusalemme occupata ai palestinesi se sono “sleali” nei confronti dello Stato di Israele. In base alla legge “lo Stato può deportare chiunque abbia perso lo status di residente”.

La legge è stata approvata in seguito ad una sentenza della Corte Suprema dell’anno scorso che, apparentemente, ha rappresentato una vittoria per quattro palestinesi a cui era stata annullata la residenza per le loro attività politiche.

Complici dell’oppressione

Mentre annullava quella revoca, la Corte ha nel contempo “congelato la sentenza per 6 mesi per dare la possibilità alla Knesset di approvare una legge che consentisse di togliere loro lo status di residenti.”

In altre parole, lo Stato e la Corte Suprema sono di fatto complici di una legge estremamente repressiva che rappresenta uno schiaffo agli impegni internazionali e ai diritti umani dei palestinesi.

Oppure prendiamo un altro esempio: quello della prassi israeliana di trattenere i corpi dei palestinesi uccisi dalle forze israeliane mentre compiono attacchi, veri o presunti, impedendo alle famiglie di seppellire i propri cari.

Lo scorso mese la Corte Suprema ha accettato una richiesta dello Stato di tenere un’ulteriore udienza su questa prassi “rimandando la prevista restituzione dei corpi alle loro famiglie.”

In un primo tempo la Corte aveva sentenziato che “lo Stato non ha l’autorità di trattenere i corpi di palestinesi come merce di scambio, e deve trasferire i cadaveri alle famiglie dei defunti per la sepoltura,” come riassunto dal centro per la certezza del diritto Adalah.

Eppure qualche settimana dopo la stessa Corte ha accettato il ricorso dello Stato di Israele per tenere un’ulteriore udienza in cui impugnare questa sentenza, che avrà luogo in giugno – ed ha anche accolto la richiesta dello Stato di rimandare la restituzione dei corpi finché non verrà presa una decisione definitiva.

Adalah, insieme al Jerusalem Legal Aid and Human Rights Center [Centro di Assistenza Legale e per i Diritti Umani di Gerusalemme] e alla Commission of Detainees and Ex-Detainees Affairs [Commissione per le Questioni dei Detenuti ed Ex Detenuti], si è comprensibilmente infuriato, sottolineando in un comunicato: “La Corte Suprema ha pronunciato una decisione che rende possibili le continue violazioni delle leggi umanitarie internazionali da parte di Israele.”

Licenza di torturare”

Gli esempi abbondano: lo scorso dicembre i giudici della Corte Suprema israeliana hanno respinto un ricorso per salvare una scuola elementare palestinese nella Cisgiordania occupata minacciata di demolizione. La scuola, ha affermato la Corte, era un tentativo illecito “di creare fatti sul terreno.”

Quello stesso mese fu emessa una decisione persino più preoccupante, quando la Corte Suprema ha respinto una richiesta presentata a favore di un prigioniero palestinese che era stato torturato durante un interrogatorio – come, stranamente, persino lo Stato aveva riconosciuto.

Con una sentenza che ha visto la Corte prendere “le parti dello Stato su tutte le questioni fondamentali che le sono state sottoposte”, la Corte Suprema ha in effetti ridefinito la tortura in modo da consentirla. “La definizione di certi metodi di interrogatorio come ‘tortura’ dipende dalle circostanze concrete,” ha affermato il giudice Uri Shoham, “persino quando ci sono metodi esplicitamente riconosciuti dalle leggi internazionali come ‘tortura’”

Il relatore speciale dell’ONU sulla tortura, Nils Melzer, ha ribattuto: “Questa sentenza crea un pericoloso precedente, minando gravemente il divieto universale di tortura…La Corte Suprema ha essenzialmente fornito loro (agli agenti dello Shin Bet [servizio di intelligence israeliano, ndt.]) una ‘licenza di torturare’ statuita dal punto di vista giuridico.”

Abbassare l’asticella

La Corte Suprema israeliana ha ripetutamente apposto il proprio sigillo di approvazione a leggi e a prassi dello Stato che violano le leggi internazionali e le convenzioni sui diritti umani. L’agghiacciante legge antidemocratica contro il boicottaggio del 2011? La confisca di terre palestinesi a Gerusalemme est occupata?

In effetti è raro che la Corte sentenzi contro lo Stato: i dati presentati nel maggio 2017 mostrano che la Corte Suprema ha rigettato l’87% degli oltre 9.000 ricorsi presentati contro decisioni del governo tra il 1995 e il 2016.

Tuttavia la mitologia abbonda. In un tipico esempio, un rapporto di AP [Associated Press, agenzia di stampa USA, ndt.] dell’ottobre 2017 ha descritto la Corte come “universalmente vista nel ruolo di guardiano dei principi democratici fondativi del Paese”, sottoposta a “pesanti pressioni da politici estremisti” contrari a “quello che vedono come la prevaricazione e la tendenza progressista della Corte.”

È vero che le fazioni politiche israeliane di estrema destra sono state a lungo insoddisfatte della Corte Suprema. Recentemente il ministro della Giustizia Ayelet Shaked ha supervisionato la nomina di due nuovi giudici, con un’iniziativa generalmente indicata come [l’intenzione di] dare alla Corte un aspetto “più conservatore”.

Ma esaminare l’andamento della Corte in base alle percezioni di sostenitori dei coloni ultranazionalisti vuol dire, a dir poco, sistemare l’asticella un po’ troppo in basso. Oltretutto i “progressisti” della magistratura e i loro avversari di destra hanno più cose in comune di quanto entrambi vogliano ammettere.

Vittorie occasionali

La scorsa settimana una commissione della Knesset ha presentato la versione finale di una legge “per lo Stato-Nazione ebraico” che, secondo Haaretz, ha l’intenzione di porre le basi perché la Corte Suprema “dia la prevalenza al carattere ebraico di Israele sui suoi valori democratici, se questi dovessero entrare in conflitto nei tribunali.”

Solo che è una cosa che la Corte Suprema può già fare, ed ha fatto, interpretando una clausola importantissima della Legge Fondamentale [che in Israele fa le veci della costituzione, ndt]: la dignità e la libertà umane vanno intese per dare “un’importanza significativa alla natura di Israele come Stato ebraico e ai suoi obiettivi, a spese dei…diritti fondamentali.”

Quindi il rapporto mostra che, lungi dal rappresentare una protezione per i palestinesi, o persino per gli ebrei israeliani sostenitori dei diritti umani, la Corte Suprema agevola, piuttosto che rigettare, le violazioni. Vittorie sporadiche sono esattamente questo: la Corte è una parte centrale dello status quo discriminatorio, e lo rafforza.

Ben White è autore di Apartheid israeliano: una guida per principianti e di Palestinesi in Israele: segregazione, discriminazione e democrazia.. Scrive articoli per Middle East Monitor e i suoi articoli sono stati pubblicati da Al Jazeera, al-Araby, Huffington Post, the Electronic Intifada, [nella rubrica] “Il commento è libero” del Guardian [giornale progressista inglese, ndt.] ed altri.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Deputata UE chiede un’inchiesta sulle calunnie della lobby israeliana

Ali Abunimah

9 marzo 2018, Electronic Intifada

Un’importante esponente del Parlamento Europeo sta chiedendo un’inchiesta ufficiale sul ruolo di una funzionaria di alto livello dell’Unione Europea in una campagna di diffamazione della lobby israeliana che l’ha presa di mira.

Ana Gomes, una parlamentare portoghese di centro-sinistra, è stata denunciata da gruppi della lobby filoisraeliana come antisemita dopo che li ha pubblicamente criticati per aver tentato di bloccare il suo invito al militante per i diritti umani dei palestinesi Omar Barghouti per una conferenza al Parlamento Europeo la scorsa settimana a Bruxelles.

Le accuse dei gruppi della lobby filoisraeliana sono state poi amplificate da Katharina von Schnurbein, la più importante funzionaria dell’UE incaricata di combattere l’antisemitismo, e dall’ambasciata UE a Tel Aviv, nota ufficialmente come la “Delegazione dell’Unione Europea in Israele”.

Gomes ha fatto la sua richiesta mercoledì con una lettera a Jean-Claude Juncker, il presidente della Commissione Europea – il governo dell’UE – e alla responsabile della diplomazia dell’UE Federica Mogherini. “Chiedo un’inchiesta sulla campagna diffamatoria diretta contro di me, in quanto MEP (membro del Parlamento Europeo) eletta, da parte di qualcuno della Delegazione UE in Israele e dalla signora von Schnurbein,” afferma la lettera.

Gomes vuole l’indagine per definire se questi funzionari abbiano violato i loro doveri in base al regolamento del personale e alle norme dell’UE sui social media.

In linea con la prassi comune nei sistemi democratici, ai funzionari dell’UE viene richiesto di rimanere politicamente neutrali, il che rende l’attacco pubblico a Gomes – una politica eletta – da parte di von Schnurbein e dell’ambasciata UE a Tel Aviv una grave violazione del loro dovere.

Gomes ha anche sporto la propria denuncia al difensore civico europeo, un ente indipendente incaricato di indagare su accuse di comportamento scorretto presso le istituzioni europee.

Una “lobby perversa”

Il 28 febbraio Gomes ha ospitato un seminario sul movimento per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni (BDS) [contro Israele] con Omar Barghouti.

Barghouti è uno dei fondatori della campagna di base non violenta per i diritti umani e vincitore nel 2017 del “Gandhi Peace Award” [Premio Gandhi per la Pace].

All’inizio del seminario Gomes ha sottolineato che discussioni sui diritti umani dei palestinesi erano molto più frequenti, “ma sono diventate sempre più rare in questo parlamento in seguito ad una lobby molto perversa che tenta di intimidire le persone.”

Gomes ha aggiunto di essere stata sottoposta a simili pressioni nei giorni precedenti il seminario da parte di gruppi che “dicono molte falsità” e “fraintendono le parole di molti studiosi.”

In risposta l’“AJC Transatlantic Institute” [Istituto Transatlantico AJC] ha denunciato le notazioni di Gomes come “antisemite”, sostenendo che lei stava “demonizzando le organizzazioni della società civile ebraica” e ha chiesto “un’azione disciplinare” contro di lei da parte del suo gruppo parlamentare.

L’ “AJC Transatlantic Institute” è l’ufficio di Bruxelles dell’”American Jewish Committee” [Commissione Ebraica Americana], un’organizzazione lobbystica che afferma di “appoggiare Israele ai più alti livelli” dai “corridoi dell’ONU a New York a quelli dell’Unione Europea.”

Una delle sue principali attività è insabbiare i crimini di guerra israeliani.

Katharina von Schnurbein, dell’UE, ha ritwittato l’attacco dell’“AJC Transatlantic Institute”, sostenendo che le obiezioni di Gomes per essere stata censurata da gruppi politici che lavorano per Israele rappresentano “abominevoli espressioni antisemite.”

A loro volta, i tweet di von Schnurbein che attaccavano Gomes sono stati ritwittati da @EUinIsrael, l’account ufficiale dell’ambasciata UE a Tel Aviv.

In almeno uno dei propri tweet, l’ambasciata ha fornito il proprio appoggio implicito alle critiche a Gomes.

Allineata con Israele

In realtà uno dei suoi [di von Schnurbein] principali obiettivi è stato aiutare la lobby filoisraeliana a combattere l’attivismo solidale con i palestinesi diffamando come antisemite le critiche contro l’occupazione, la colonizzazione di insediamento e l’apartheid di Israele.

Ha sostenuto senza prove che le attività del BDS hanno portato ad un incremento di episodi antisemiti nei campus universitari.

In risposta ad una richiesta di informazioni da parte di “Electronic Intifada”, la Commissione Europea ha fornito il proprio pieno appoggio a von Schnurbein in seguito al suo attacco contro Gomes.

La Commissione Europea rimane ferma contro l’antisemitismo – così come più in generale contro il razzismo e la xenofobia – e il lavoro della coordinatrice nella lotta contro l’antisemitismo è una parte importante dei nostri sforzi a questo proposito,” ha detto un portavoce.

Questa settimana von Schnurbein era a Londra per partecipare alla cena di un gruppo lobbystico israeliano, il “Community Security Trust”, insieme all’ambasciatore israeliano Mark Regev.

L’ambasciata UE a Tel Aviv si è anche schierata con opinioni di estrema destra: lo scorso anno ha ingaggiato un sostenitore israeliano del genocidio dei palestinesi perché comparisse in un video in cui reclamizzava i benefici della cooperazione tra UE ed Israele.

Tentativi di bloccare la conferenza

Nella lettera in cui chiede l’inchiesta, Gomes afferma che l’annuncio del seminario con Barghouti “ha provocato tentativi da parte di alcune organizzazioni di bloccarlo, di etichettare esso, il signor Barghouti e me con l’insulto di “antisemiti”.

Oltre all’”AJC Transatlantic Institute”, Gomes afferma che le “organizzazioni che hanno condotto questa campagna diffamatoria” includono gruppi della lobby filoisraeliana come l’“European Coalition for Israel”, l’“European Jewish Congress” e l’“European Leadership Network”.

Come riportato da Electronic Intifada, l’“European Leadership Network” ha una politica di collaborazione con politici dell’estrema destra europea, compresi neonazisti e negazionisti dell’Olocausto, nella misura in cui sono filoisraeliani.

Anche l’“Israel Project”, un’importante organizzazione antipalestinese, si è dato da fare contro la conferenza di Barghouti, definendo “vergognoso” che il Parlamento Europeo “legittimi il suo antisemitismo.”

Coraggio morale

Insistendo perché io parlassi al Parlamento Europeo, resistendo alle intimidazioni ed ai tentativi menzogneri della lobby dell’UE filoisraeliana, Ana Gomes ha dimostrato il proprio coraggio morale e il suo fermo impegno per i diritti umani,” ha detto Barghouti a “Electronic Intifada”.

Ha aggiunto: “Lei ha anche rappresentato la crescente ripulsa della società civile europea e di base nei confronti delle gravissime violazioni dei diritti umani da parte di Israele contro il popolo palestinese e, in modo decisivo, della complicità dell’UE nel consentire e rafforzare il sistema pluridecennale di oppressione coloniale e apartheid di Israele.”

Nella sua conferenza al seminario – il cui testo Gomes ha postato sul suo sito – Barghouti ha detto che “solo consistenti pressioni da parte della società civile europea possono porre fine a questa complicità dell’UE.”

Anche Israele lo sa, ed è la ragione per cui i lobbysti di Bruxelles ed i loro alleati all’interno della burocrazia dell’UE appaiono così determinati a calunniare chiunque resista loro.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




L’intervento di ILAN PAPPÉ

al panel “Memorie e Identità”del CONVEGNO L’eredità di Edward Said in Palestina,

TORINO 1-2 MARZO 2018

Aula Magna Campus Luigi Einaudi*

Sono un professore di storia e vedendo qui studenti, non studenti e professori nei banchi, credo che farò una lezione molto storica… è nel mio DNA! Metto da parte le questioni più concettuali e teoriche, e avrò un approccio più storico.

Ho appena firmato un contratto per un libro, che non ho ancora scritto (un errore!), l’unica cosa che so è il titolo che avrà: “Qual è il senso della storia?”. Ho scelto questo titolo perché negli ultimi 30-40 anni c’è stato un grande dibattito tra gli storici e gli accademici, non su cosa sia il senso della storia, ma su cosa sia la storia. Abbiamo distrutto cinque belle foreste in Brasile per farne dei libri su cui scrivere centinaia di pagine, per dire che cosa è la storia, e oggi non ne sappiamo molto di più. Abbiamo avuto delle scuole di pensiero nel 1900, e sono ancora le stesse. Ancora non sappiamo esattamente che cosa è la storia. I relativisti e gli empiristi stanno ancora dibattendo se si può o non si può conoscere esattamente ciò che è accaduto nel passato. Vico soleva dire “Ciò che sapete del passato è in realtà ciò che sapete del presente, non di più.” La maggior parte di noi si colloca nel mezzo tra un punto di vista relativista ed il suo opposto. È tempo di affrontare un altro problema: quale è il significato della storia.

Il motivo è che la questione palestinese è diventata un nodo che riporta ad un problema molto più ampio: che cosa è stata la Palestina negli ultimi 30-40 anni; è diventata un simbolo, o un oggetto di ricerca, di questioni che vanno molto al di là della Palestina stessa, come la giustizia sociale, o la decolonizzazione. Inoltre la Palestina è diventata importante per la discussione di che cosa sia il senso della storia. Noi viviamo in una società e in un ambiente neoliberale e anche l’università è vittima di questo tipo di percezione ideologica ed economica: da un punto di vista neoliberale l’insegnamento della storia è inutile e non molto importante. L’insegnamento della letteratura, la cultura, in generale l’umanesimo non sono considerati molto importanti. In Gran Bretagna, dove insegno, c’è una nuova idea di rendere la laurea in materie umanistiche e in scienze sociali molto più economica di quella in materie scientifiche, perché sono considerate meno importanti, per cui si paga meno per una laurea in sociologia o storia e molto di più per laurearsi in legge o in medicina. Non me lo sto inventando, è ciò che avverrà in Gran Bretagna nei prossimi anni.

Credo sia importante lottare per l’importanza della storia, non solo per il passato, ma per tutti noi. Sappiamo tutti che se c’è un vuoto nella storia, se l’università e gli storici non vengono considerati come una parte essenziale della nostra società, sappiamo da chi verrà colmato questo grande gap nella società: lo si è visto in Italia, dove stanno tornando i nuovi fascisti, quando la storia non viene raccontata correttamente e quando non viene considerata come questione morale: allora ci sono persone che propongono una loro narrazione e creano la base per politiche razziste ed immorali, in questo paese come anche altrove. Perciò credo che dobbiamo lottare per il diritto di parlare dell’importanza della storia e non vi è un altro caso che richieda un così serio approccio quanto il caso della Palestina. Voglio perciò fornirvi un approccio storico alla lotta contro la cancellazione della memoria della Palestina.

Il punto di partenza, che è già stato citato dai due amici che mi hanno preceduto, è che cerchiamo di guardare al sionismo di Israele oggi come ad un progetto di colonialismo di insediamento. Sono sicuro che tutti voi avete già sentito questo termine, colonialismo di insediamento, ma per essere certo che siamo sulla stessa lunghezza d’onda, chiariamo la differenza tra colonialismo e colonialismo di insediamento. Quest’ultimo non è il classico colonialismo. Il colonialismo di insediamento è stato creato dai rifugiati, da quelli che hanno dovuto fuggire dall’Europa con l’aiuto di un altro potere colonialista ed in realtà non volevano tornare in Europa, non cercavano solo una nuova casa, ma una nuova patria. E tra le sfide in cui potevano imbattersi dovunque andassero, in America, Australia, Africa o Palestina, la maggiore era che vi fossero persone che già vivevano là, in un territorio che gli apparteneva, che per loro era invece il territorio dove costruire una propria nuova identità. In molti casi questi incontri con popoli indigeni andarono a finire con il genocidio dei nativi. Nel caso del Sudafrica e della Palestina vi furono la pulizia etnica, l’apartheid, ed altre atrocità che dopo la seconda guerra mondiale sono state considerate crimini di guerra contro l’umanità.

Fin dall’inizio la storia è molto importante per il colonialismo di insediamento. Questo intende dire ai popoli indigeni “inferiori, voi non avete una storia”. Gli indigeni sono stati rimossi dai libri di storia dei coloni, prima ancora di essere espulsi fisicamente dalla loro terra. Per esempio, se considerate i pittori sionisti nelle prime fasi del progetto sionista, alla fine del diciannovesimo secolo – inizio del ventesimo, se leggete le loro poesie o i loro racconti, ma penso che soprattutto la pittura sia significativa, potete vedere che i pittori sionisti guardavano la collina dove noi sappiamo che c’era un villaggio palestinese, ma nel dipinto o nel disegno il villaggio non c’è. Il villaggio è stato fisicamente distrutto nel 1948, ma non c’era già più nel 1910. Si tratta dello stesso approccio, attraverso il disegno, di rimuovere i nativi prima di eliminarli fisicamente che si trova… per chi di voi ha visto il muro israeliano intorno a Gerusalemme, là ci sono dei graffiti israeliani (no, non di Bansky…) di ciò che si può vedere al di là del muro, perché gli israeliani di Gerusalemme si lamentavano di dover passare da una parte all’altra della città attraverso un muro molto brutto, quindi qualcuno ha detto “bene, dipingiamolo e ci disegneremo un paesaggio che sta oltre il muro”, per cui si possono vedere le colline, ma non ci sono villaggi né città palestinesi. In realtà ci sono ancora e noi che abbiamo coscienza sappiamo che è un brutto segno che nei graffiti israeliani sul muro i villaggi che ancora esistono, nel disegno non ci sono, il che significa che loro hanno un piano diverso.

Prendiamo in considerazione il colonialismo di insediamento, non solo quello sionista, ma dovunque. Prima che abbiano il potere di espellere la popolazione indigena, la rimuovono dalla narrazione; ma fanno anche altro, lo sappiamo riguardo agli Stati Uniti. Si appropriano della storia degli indigeni come fosse la propria. Prendono la storia dei palestinesi, dei nativi d’America, degli aborigeni e sostengono che in realtà quella è la loro storia. Questo è parte di un progetto che costringe i nativi, la popolazione locale, a lottare per qualcosa che ai loro occhi è evidente, quindi ci vuole molto tempo prima che i palestinesi si rendano conto che devono difendere qualcosa che a loro appare un concetto naturale. Perché dovevano spiegare alle Nazioni Unite nel 1947 che appartenevano alla Palestina? Perché la popolazione di Torino dovrebbe spiegare all’Unione Europea che fa parte di Torino? È un esercizio inutile. Eppure ai palestinesi venne chiesto dalle Nazioni Unite nel 1947: ‘Diteci, siete voi il popolo della Palestina?’ Risposero ‘Sì, noi siamo palestinesi, siamo il popolo della Palestina.’

Sì, ma voi non lo avete articolato bene, perché ci sono i sionisti che hanno detto di essere loro il popolo della Palestina.’ Con un’assenza di 2000 anni, è vero, ma …

Questa sorta di de-indigenizzazione, o di negazione dell’identità indigena dei nativi, la pretesa che la loro storia sia la vostra, è una potente azione di cancellazione e ridefinizione della memoria e dobbiamo capire che la difesa della memoria inizia dal primo momento in cui un colono ebreo venne in Palestina alla fine dell’800.

I coloni ebrei, soprattutto quelli arrivati con la seconda ondata, tra il 1905 e il 1920, divennero il gruppo dal quale più tardi nacque la leadership israeliana fino al 1990, forse fino ad oggi. Molti di loro sono morti, ma la maggioranza di coloro che hanno impostato il sistema politico ed economico israeliano erano arrivati in quell’ondata, ciò che chiamiamo in ebraico la seconda Aliyah, la seconda ondata. Non era un grande gruppo, ma era molto qualificato. Quelle persone hanno scritto riguardo a qualunque cosa, ci hanno lasciato montagne di diari e di giornali ed hanno continuato a scrivere dal momento in cui sono arrivati, non è sfuggito nulla alla loro attenzione, ogni puntura di zanzara, ogni goccia d’acqua, se gli piacesse o no, ci hanno riferito tutto di quel periodo. Ciò che è stupefacente riguardo a questi coloni è che non erano mai stati prima in Palestina e solitamente hanno passato la prima notte nella città di Jaffa, dove tra l’altro i palestinesi li hanno ospitati, perché erano molto poveri; non sapevano dove stare a Jaffa per cui i palestinesi gli hanno permesso di rimanere gratis almeno per i primi due giorni prima di tentare di raggiungere le più vecchie colonie nel nord o nel centro della Palestina. Di notte, probabilmente usando lampade a petrolio (non c’era elettricità) scrivevano del loro primo arrivo nei diari o nelle lettere a casa. Erano davvero stupefatti perché in Polonia o in Russia, da dove provenivano, gli avevano detto che quando fossero arrivati avrebbero trovato una terra vuota, ma poi hanno scoperto che non era vuota, quindi vi è già una narrazione della storia che gli israeliani avrebbero poi portato avanti fino ad oggi, nel 2018. E la narrazione è: noi siamo ospitati da alieni, siamo ospitati da stranieri della nostra patria, che hanno preso la terra dei nostri antenati, e noi siamo venuti a riscattarla, quindi la generosità dei palestinesi, la loro umanità, vengono totalmente ignorate. Ciò che importa è che qui c’è una sfida, c’è una contraddizione tra l’idea che la terra che era deserta da 2000 anni doveva essere vuota, ma se ci sono esseri umani non possono far parte della patria, perciò sono stranieri. Questa idea che i palestinesi siano stranieri non è mai cambiata nella concezione degli israeliani, nemmeno di quelli di sinistra oggi: quando ragionano di compromesso coi palestinesi o quando parlano della cosiddetta pace con loro, li pensano sostanzialmente come stranieri in Palestina; anche se da un punto di vista liberale o socialista intendono arrivare ad un compromesso o a tollerarli in una piccola parte della Palestina, non li riconosceranno mai come indigeni. E questo fa parte del sistema educativo israeliano ancora oggi: noi siamo gli indigeni e chiunque altro è un immigrato, magari ebreo, che si accoglie, oppure è uno straniero. Anche l’ebraismo ha un ben noto modo di dire, che bisogna trattare bene lo straniero, quindi c’è un’idea religiosa che dice che si possono integrare gli stranieri, ma il profondo concetto dei palestinesi come stranieri esiste fin dall’inizio e i palestinesi hanno dovuto combatterlo fin dal primo momento.

Negli anni Trenta per la prima volta la comunità internazionale si è resa conto che la storia ha svolto un ruolo nel destino palestinese. Come saprete, negli anni Trenta gli inglesi che occupavano la Palestina dal 1918 cominciarono a pensare che c’era un problema in Palestina fra le promesse fatte agli ebrei con la Dichiarazione Balfour, che si sarebbe creata una casa per loro in Palestina, e il fatto che sul terreno c’era quella che si può definire una popolazione locale, un popolo che costituiva la schiacciante maggioranza della popolazione [96%], che aveva aspirazioni diverse rispetto alla terra, all’identità collettiva e che esistevano già movimenti di liberazione, gruppi di resistenza all’occupazione. Insomma gli inglesi capirono di dover trovare un modo per conciliare questi contrasti e non sapevano bene come rapportarsi alla Storia in merito. Se avessero utilizzato criteri universali nel 1936, e cioè quante persone, democraticamente, vogliono che la Palestina sia la Palestina, quante vogliono che la Palestina sia uno stato arabo, insomma usando i criteri che le nazioni legalmente usano per stabilire i diritti delle persone all’autodeterminazione, era molto chiaro che al massimo i coloni ebrei avrebbero potuto avere una qualche autonomia culturale nelle loro colonie e che l’aspirazione ebrea di avere una patria a spese dei palestinesi già nel 1936 non andava d’accordo con il diritto internazionale all’indipendenza e all’autodeterminazione. È molto chiaro, come ha detto anche Jamil Khader, che a causa del sionismo cristiano e di altri elementi in gioco, chi perseguiva quel disegno ha visto l’occasione di mettere in dubbio il diritto dei palestinesi alla Palestina attraverso la narrazione di un ritorno in patria dopo 2000 anni di esilio, che di base quella è la patria degli ebrei e i palestinesi sono stranieri. Ma non funzionò tanto bene, ci furono delle pressioni sul movimento sionista affinché provasse non solo che la Palestina fosse disabitata ma anche una continua presenza degli ebrei dall’epoca Romana. Gli inglesi dissero loro che se avessero potuto dimostrare una continuità questo avrebbe rafforzato la loro richiesta della Palestina. Ci fu un famoso incontro, fra David Ben Gurion, capo della comunità ebrea durante il periodo del mandato inglese, e lo storico più importante della comunità ebraica Ben-Zion Dinaburg, più tardi Ben-Zion Dinur, il secondo Ministro all’Istruzione dello Stato israeliano. Ben Gurion chiamò questo eminente storico sionista e gli disse “Voglio che tu faccia un grande progetto di ricerca: dimostra, indaga se c’è stata una presenza continua degli ebrei in Palestina dall’epoca Romana ai nostri giorni.” – cioè gli anni Trenta. Ben-Zion era un serio storico professionista e disse “È un grande progetto e mi piace! Mi darai i fondi?” – ciò che qualsiasi accademico avrebbe chiesto – e Ben Gurion disse “Certo! Tutto ciò di cui hai bisogno!” e poi gli chiese “Quanto tempo pensi di metterci per darci i risultati?” e Ben Zion disse “È un grande progetto, penso una decina d’anni… epoche differenti, lingue diverse, devo raccogliere un gruppo di ricerca ecc.” e Ben Gurion disse: “Non capisci. Una commissione d’inchiesta inglese, la Commissione Peel, arriverà tra un paio di settimane e dunque hai due settimane per trovare le prove che gli ebrei hanno sempre vissuto in Palestina; poi avrai altri dieci anni per sostanziare il tuo lavoro.” E in effetti se leggete il documento ebreo, sionista, consegnato alla Commissione Peel, c’è questa incredibile falsificazione di una continua presenza degli ebrei in Palestina, poiché questo avrebbe fornito la giustificazione morale al diritto degli ebrei di costruire una loro nazione in Palestina. I palestinesi all’epoca non capirono affatto la spaventosa sfida che dovevano affrontare: lo vediamo quando gli inglesi ne ebbero abbastanza della Palestina e demandarono il problema all’ONU e l’ONU creò una speciale commissione di inchiesta, l’UNSCOP, e anche UNSCOP era interessato alla Storia. Voleva capire i racconti, le narrazioni storiche di entrambe le parti. I palestinesi dissero – ed è probabilmente comprensibile – “Non vogliamo fornirvi la narrazione storica, non abbiamo intenzione di fornire le giustificazioni morali” – come penso sappiate, i palestinesi boicottarono la commissione speciale d’inchiesta dell’ONU, pensando “Noi siamo palestinesi in Palestina, perché dovremmo aver bisogno di andare all’ONU a dimostrare che è così!?” Ma quando sei un colonizzatore con il progetto di insediarti, sei bravissimo in storia, e la ricostruzione storica che il movimento sionista consegnò all’UNSCOP è un documento impressionante, di invenzione e falsificazione, ma comunque un documento impressionante: più note a pié pagina di quanto in Italia un dottorando metterebbe nella sua tesi, un mucchio di note, incredibile, è così sostenuto e comprovato e con tanti e tali riferimenti incrociati che prenderebbe 100 su 100 come lavoro storico se sottoposto ad una giuria accademica – quanto alla validità delle affermazioni… lasciamo stare. Era chiaro già nel 1946 allo stesso movimento sionista come alla comunità internazionale che fosse essenziale una narrazione storica, quand’anche falsa e inventata, per giustificare l’immorale idea di dare la Palestina al popolo ebreo come ricompensa in generale per l’antisemitismo e in particolare per l’Olocausto. Non si può procedere direttamente dall’argomento morale: non basta che gli ebrei meritino una patria a causa dell’antisemitismo, bisogna motivare perché in Palestina e a spese dei palestinesi e ottimi storici erano presenti sia nel movimento sionista che alle Nazioni Unite nel 1946… e dunque qual è il senso della storia? di fornire giustificazione morale ad azioni di disumanizzazione [riduzione demografica], pulizia etnica, colonizzazione, che hanno fatto davvero tante vittime umane. Allora “Storia” non è soltanto il nome di una pratica accademica, è anche la narrazione che giustifica l’umanità [nel suo agire]. Dopo il 1948, per la prima volta vediamo i palestinesi rivolgersi di nuovo alla storia, specialmente alla storia recente. I palestinesi, malgrado il trauma dei fatti del 1948, cercarono di spiegare al mondo, con libri storici, cosa era accaduto in quel 1948 – fra questi uno famoso è quello di Walid Khalid [All That Remains: The Palestinian Villages Occupied and Depopulated by Israel in 1948]. Ma nel 1949 e nemmeno negli anni cinquanta il mondo era minimamente interessato a sentire la versione storica di un palestinese, che fosse di uno storico professionista o di livello amatoriale. È molto interessante: Walid l’ha studiata per tutta la vita, è considerato oggi uno storico palestinese dei più importanti e voleva fare un PhD a Oxford, nel 1949-’50, usando la sua memoria ancora molto fresca dei fatti accaduti in Palestina e anche ricostruendo una narrazione e spiegando chiaramente quali fossero i risultati della risoluzione dell’ONU e dell’atteggiamento internazionale rispetto alla Palestina. Fu però convinto dal suo professore della prestigiosa università inglese a non trattare di quei fatti perché erano troppo politici, troppo emotivi, troppo vicini nel tempo, e lui fece un PhD su un altro argomento. Anni dopo avrebbe contribuito alla nostra conoscenza storica della Palestina, ma nei tardi anni quaranta e cinquanta, nella memoria degli studi universitari la versione degli israeliani era considerata professionale, valida, accademica, mentre gli storici palestinesi… chi erano? erano considerati degli emotivi, orientali, che lavoravano su visioni di fantasia piuttosto che sui fatti. Ma è incredibile che gli israeliani scrissero un numero incredibile di libri, specialmente i generali che avevano partecipato alle pulizie etniche del 1948 scrissero le proprie memorie, erano chiamati “i libri della Brigata” in Israele, una letteratura enormemente vasta che uscì in ebraico nel 1950 e ’51, in base a cui infatti qualcuno di noi – ma nessuno di noi lo fece – insomma se qualcuno fra gli ebrei vivo e abbastanza cosciente nel 1951 avesse voluto, avrebbe potuto scrivere quella che fu in seguito chiamata la “nuova storia” del 1948, avrebbe potuto farlo nel 1950 senza un solo documento degli Archivi israeliani. Sapete, il mito che dovessimo aspettare la desecretazione degli archivi nel 1978 per sapere cosa fosse accaduto in Palestina nel 1948, è un’assurdità: nel 1950 i generali, i militari, le truppe che avevano preso parte alla pulizia etnica della Palestina scrissero molto onestamente di ciò che avevano fatto, ma quando non hai le giuste lenti ideologiche, morali, non leggi correttamente quella produzione di conoscenza, non capisci che la parola “nemico” vuol dire “donne e bambini”, non capisci che la parola “base nemica” vuol dire “un villaggio o un quartiere”, non capisci che l’espressione “eliminare il nemico” vuol dire “distruggere un’intera comunità”; è solo dopo, quando il dizionario ideologico cambia e si inizia a rileggere queste fonti – disponibili, non desecretate – capisci che non era necessario aspettare il 1978, che già nel 1950 era possibile scrivere la vera storia del 1948. Ma di certo Israele allora era protetto da quella nuova idea degli storici che un documento in un archivio scritto da un politico, un militare – il genere di persone più inattendibili che ci sia al mondo – insomma che questo scritto, già coperto dalla polvere di 30 anni, non debba essere altro che la verità e nient’altro che la verità e questa era una cosa su cui anche i palestinesi sfortunatamente cominciarono a riflettere più tardi, quando la nuova storia di Israele cominciò ad apparire. Cominciarono a tenere in considerazione i documenti dell’esercito israeliano sui fatti del 1948, pensando che contenessero la sola versione possibile degli eventi rispetto alle testimonianze orali o ad altri mezzi che si usano per ricostruire cosa accadde nel passato. Per questo la nostra battaglia contro il memoriale è anche la nostra battaglia contro la gerarchia, che considera dei documenti politici e militari desecretati possedere una sorta di validità che ogni altra fonte che usiamo per ricordare e rammentare non possiede. Penso a questo proposito al lavoro di Jacques Derrida e di Michel Foucault sugli archivi, che aiutano molto a invalidare gli Archivi Nazionali in quanto deposito di fatti manipolati e aggiustati dallo Stato, e non una via diretta alla verità del passato.

Procedo verso il prossimo punto, con cui concluderò. Una cosa importante da ricordare riguardo ad Edward Said è che scrisse un libro, The Question of Palestine, pubblicato negli anni Settanta e dunque prima che si avesse accesso agli archivi israeliani, o agli archivi britannici o americani. E questo perché lui aveva idea che ciò che è importante dei fatti sia il loro significato piuttosto che la loro autenticità; lui fu in grado per la prima volta di articolare in modo molto chiaro una narrativa palestinese, che naturalmente compare più tardi nell’atto costitutivo dell’OLP e nella Dichiarazione di Indipendenza nel 1988; per la prima volta i lettori inglesi ebbero a disposizione una narrazione concisa, che conteneva ciò che è importante in una narrazione e cioé non i dettagli, ma lo scheletro della storia, una storia di colonizzazione, spossessamento – non una storia complicata, infatti è il primo a dire che ciò che fa Israele erige anche uno schermo di complessità. Penso che ognuno di voi che abbia discusso in veste ufficiale o con un portavoce informale di Israele sa che il maggiore genere di rivendicazione di Israele è che la cosa è troppo complessa, voi non riuscirete mai a capire, solo Israele la capirebbe. E questa complessità della storia è costruita, perché purtroppo la storia non è affatto complessa, di gente che arriva e caccia via altra gente, è già accaduto e purtroppo accadrà ancora, e la domanda è se si possa fermare piuttosto che se si possa comprendere. Come sapete negli anni ottanta capitarono due cose, e con questo concludo. Apparve il grande articolo di Edward Said che hanno menzionato i miei colleghi, Permission to Narrate, un articolo molto importante che vi raccomando di leggere se non l’avete già fatto, che Said scrisse immediatamente dopo l’invasione israeliana del Libano, nel 1982. Dopo l’invasione del Libano del 1982, che in Israele è chiamata la Prima Guerra del Libano, l’ONU nominò una commissione d’inchiesta con a capo una persona di nome Sean McCright, un irlandese che era famoso nel mondo come l’avvocato più autorevole per i Diritti Umani, e fu nominato dall’ONU anche perché aveva effettivamente a livello internazionale la reputazione di persona integra e questo avvocato produsse un report molto incriminatorio della guerra in Libano, specialmente [delle azioni] contro i campi profughi palestinesi, report che fu completamente ignorato dalle Nazioni Unite, dai media internazionali e questo irritò molto Said. E fu così che iniziò a scrivere il suo articolo.

E la seconda cosa che successe, che lo irritò, fu che il buon amico Noam Chomsky scrisse un libro intitolato Il triangolo palestinese e concludeva il libro dicendo che, riguardo alla questione palestinese, se si guardavano realmente le cose in faccia, i palestinesi non avrebbero avuto proprio alcuna possibilità di cambiare la realtà. Non so che cosa l’abbia irritato di più, se il report di McCright o le conclusioni di Chomsky, ma scrisse l’articolo con molta rabbia, questo è evidente. E nell’articolo dice, e questo è molto importante, che non solo i palestinesi hanno il permesso di avere la loro narrazione, e che anche se l’equilibrio di potere è contro di te, non hai il potere militare, non hai il potere economico, non hai il potere diplomatico, nessuno può toglierti il potere di raccontare la tua storia.

Ma questo non è il punto principale, il punto principale è che Said ha detto a Chomsky: se i fatti sono così deprimenti devi raccontarli in modo che si possa scegliere di venirne fuori. Il ruolo della Storia non è quello di dire le cose così come sono state, la Storia racconta le storie del passato con una visione di cambiamento della realtà nel futuro. Certo, così dicendo Said entrava in conflitto con la percezione professionale accademica del lavoro della Storia in quanto imparziale, oggettiva, priva di agenda politica, e diceva: la gente non ha un’agenda politica, una posizione morale e se si ricostruisce la storia della Palestina senza alcun impegno, si finisce certo con il rappresentare dei fatti che perpetuano la realtà. Mentre le persone che scrivono assumendosi un impegno, possono anche contribuire scrivendo a produrre un cambiamento nella realtà.

Lui credeva che la penna possa a volte essere più potente dei pensieri; la maggior parte di voi è molto giovane e magari non sa che cos’è una penna, allora diciamo che una tastiera può essere più potente dei pensieri…..Ma Said da più punti di vista non era certo naïf su questo, semplicemente pensava che questa fosse una parte importante della lotta. Permettetemi di finire dicendo che oggi in Palestina, in Israele, nei Territori Occupati e all’interno della comunità palestinese Said lancia un appello al permesso di narrare, e cioè “io ho il diritto di raccontare la mia storia anche se sono occupato, anche se sono colonizzato e anche se sono rifugiato”, e ho il diritto come storico professionista di essere un attivista. Queste sono le due raccomandazioni di Said per il futuro per noi storici professionisti. Lui viene preso molto sul serio dalla società civile, ma ancora non abbastanza sul serio dalla comunità accademica, purtroppo. Quindi molte delle cose che Said avrebbe voluto veder accadere in ambito accademico – cioè che avremmo fatto lezioni sul 1948 come pulizia etnica, che avremmo fatto lezioni sulla Palestina nei nostri corsi sul colonialismo, che avremmo fatto lezioni su Gaza nei nostri corsi sul genocidio, negli studi sul genocidio – non è successo. Questo non è successo, né in Italia, né in Inghilterra, in nessun posto, quindi non sentitevi esclusi. In nessuna parte del mondo è facile cambiare il piano di studi in modo che rappresenti il tema Palestina come una conquista nella produzione accademica di conoscenza.

Ma nella società civile, che è meno inibita dalla nuova scuola di pensiero liberale, lo stanno facendo, e in Palestina potete vedere progetti di storia orale, progetti di ricostruzione di modelli dei villaggi distrutti, il racconto di storie attraverso interviste individuali o spettacoli o folclore. Il permesso di narrare è ciò che Gramsci probabilmente chiamava resistenza culturale, come prova concessa alla resistenza politica. Come sapete Gramsci diceva che se non si può fare resistenza politica, si fa una resistenza culturale nel senso che questa è il banco di prova concesso alla resistenza politica. E da più punti di vista gli Israeliani stanno iniziando a capire il progetto culturale di memoria che i giovani palestinesi hanno intrapreso non solo in Israele, ma anche in altri paesi, in Palestina e fuori dalla Palestina, e improvvisamente stanno capendo, senza comprendere appieno il perché, che si sentono spaventati da questo molto più che dai missili che Hamas lancia contro di loro da Gaza o dai missili di Hezbollah ed è per questo che hanno approvato delle leggi, di cui la più famosa è la legge sulla Nakba, hanno approvato una legge che dice che i palestinesi non hanno il permesso di fare riferimento agli eventi del 1948 come Nakba. Credo che persino George Orwell non avrebbe potuto inventare una legge di questo tipo, voglio dire che è incredibile il modo in cui lo fanno, ma lo fanno perchè percepiscono che in qualche modo la società civile palestinese, non quella accademica, ricorda il 1948 come un evento contemporaneo. Come ha detto Jamil Khader a questo proposito, è la “Al-Nabka al-Mustamirra” [“La Nakba ininterrotta”, ndt], voglio dire che non sono riusciti nonostante i fatti, nonostante abbiamo cancellato i villaggi e le foreste ora coltivate con alberi europei, nonostante il fatto che abbiano costruito le colonie, eliminando quartieri e villaggi, nonostante tutto lo smantellamento che hanno fatto e continuano a fare, non possono controllare un progetto di questo tipo, che riporta e ripete la storia di Israele in modo da dimostrargli che il loro progetto di spopolare la Palestina dei palestinesi non è riuscito.

E questo richiede un grosso sforzo ed ottimismo, lo so, ed i tempi non ci offrono una buona ragione per essere ottimisti, ma ritengo che Said, il permesso di narrare di Said, ci dimostri che qualsiasi sia l’equilibrio di potere – e nessuno può pensare uno squilibrio di potere peggiore tra i palestinesi e gli Israeliani, non me ne viene in mente uno, almeno non nella storia contemporanea –, qualunque sia lo squilibrio, un fatto resta innegabile: gli Israeliani vogliono avere una vita normale, essere accettati come una normale parte organica della Palestina – cosa che potrebbe anche diminuire la possibilità di una prevedibile terza ondata di coloni – ed essere parte del Medio Oriente, gli Israeliani vogliono questo tipo di normalità. L’unico popolo che può garantirgli questo, sfortunatamente per loro, sono i palestinesi, non gli americani, non i cinesi, non gli indiani, non gli europei. È in qualche modo assurdo, perchè i palestinesi sono le vittime principali, sono stati oppressi, colonizzati, è stata fatta una pulizia etnica nei loro confronti, ma sono l’unico popolo che può dar loro legittimità; ora certo gli Israeliani hanno sufficiente potere per fare a meno della legittimità, ma lo potete vedere nella reazione alla campagna del BDS: la delegittimazione è qualcosa con cui gran parte degli Israeliani non sarebbe in grado di coesistere per lungo tempo. E questo è qualcosa che noi dovremmo comprendere, è qualcosa che noi dovremmo utilizzare e non perdere la speranza, nonostante la discordia, lo squilibrio di potere, una comunità internazionale indifferente, nonostante tutto questo, perché ciò che è successo in quell’area del mondo non si dovrebbe mai permettere che accada, pensando positivamente alla Palestina, nonostante tutto questo o il colonialismo dei coloni è trionfante, come in caso di genocidio, o alla fine è destinato a perdere, come è successo in Algeria o in Sud Africa.

Quella è la speranza, che la Palestina nel 2055 sia insegnata in questa università come caso della possibilità di sconfitta del progetto colonialista.

Grazie!

(traduzione di Cristiana Cavagna, Luciana Galliano e Paola Merlo)

vers. orig. https://www.youtube.com/watch?v=e2Y7ZH27Tt4,video a cura di Invicta Palestina

*Il seminario “L’eredità di Edward Said in Palestina” è stato organizzato dagli studenti del Progetto Palestina e si è svolto nei giorni del 1 e 2 marzo con quattro panel con tre relatori ciascuno.




Nove ragioni per cui Israele non è un ‘paradiso progressista’

Hamzah Raza

6 marzo 2018, Mondoweiss

Dal 4 al 6 marzo a Washington si è riunita la conferenza politica dell’“American Israel Public Affairs Committee” [Comitato per gli Affari Pubblici Americano-Israeliano] (AIPAC). Questa riunione per l’AIPAC, il principale braccio della lobby americana filo-israeliana, è la più partecipata dell’anno.

L’AIPAC rappresenta una delle lobby più potenti degli Stati Uniti, con un’influenza pari a quella dell’NRA [associazione USA dei produttori di armi, ndt.]. L’ex presidente dell’AIPAC, Steven J. Rosen, una volta ha detto ad un giornalista: “Vede questo tovagliolo? In ventiquattr’ore su questo tovagliolo possiamo avere le firme di settanta senatori.”

Eppure negli ultimi anni l’AIPAC ha perso appoggi nel partito Democratico. A causa dell’influenza di gruppi di centro come JStreet [gruppo di ebrei liberal moderatamente critici con il governo israeliano, ndt.], un fiorente movimento per il disinvestimento [contro Israele] nei campus e l’approvazione incondizionata di Donald Trump nei confronti del governo israeliano, l’AIPAC continua a perdere influenza tra i democratici.

Un sondaggio di PEW [centro di ricerche indipendente con sede a Washington, ndt.] ha evidenziato che i democratici ‘liberal’ simpatizzano più per i palestinesi in una misura vicina a due filopalestinesi per ogni filoisraeliano. Lo stesso sondaggio ha scoperto che è probabile che nel loro complesso i democratici simpatizzino più per i palestinesi che per gli israeliani.

Questo sondaggio è molto diverso da quelli realizzati in passato sull’appoggio dei democratici ad Israele. Nel 2009 il 42% dei democratici simpatizzava più per Israele rispetto al 27% dei democratici di oggi. Ciò ha portato Philip Weiss di Mondoweiss a definire Israele come una “ quotazione in ribasso” tra i democratici.

Tentando di salvaguardare quella quotazione, l’AIPAC ha messo al centro della sua conferenza di quest’anno l’obiettivo di tendere la mano ai progressisti. Nello stesso discorso in cui ha chiesto un lungo applauso per Donald Trump, il presidente dell’AIPAC Mort Fridman ha affermato che “dobbiamo abbracciare e coinvolgere molti più ebrei americani…la causa dei progressisti per Israele è impellente tanto quanto quella dei conservatori.”

Jennifer Granholm, ex governatrice democratica del Michigan, ha promesso solennemente “di appoggiare l’AIPAC…(e) di garantire che Israele rimanga una questione bipartisan,” ed ha anche affermato che “c’è una forte posizione filo-israeliana all’interno del partito democratico.” Granholm ha anche definito Israele come un “paradiso progressista” che è un “modello da seguire per altre Nazioni, compresa l’America.”

L’Israele da favola di Granholm è il contrario della situazione sul terreno. Il fatto che i progressisti si stiano rendendo conto della realtà dello Stato di Israele è proprio la ragione per cui i democratici stanno continuando a simpatizzare sempre più per i palestinesi. Ho deciso di compilare un breve elenco di nove ragioni per cui Israele non è un “paradiso progressista”.

  1. Il blocco di Gaza

La situazione a Gaza rappresenta una crisi umanitaria. L’esercito israeliano ha imposto un blocco terrestre, navale e aereo che ha impedito l’ingresso a 1.6 milioni di palestinesi. A causa del blocco ci sono state limitazioni e la proibizione della fornitura di beni essenziali come pasta, biscotti, latte in polvere, ministre, shampoo, libri di testo e carta da lettera.

A causa del blocco, necessità basilari per la vita come cibo ed acqua rimangono di difficile reperimento per i palestinesi. In seguito a ciò, il 95% dei gazawi è obbligato a bere acqua inquinata e il 54% della popolazione non sa dove riuscirà a procurarsi i pasti. Nel tentativo di “prosciugare” i fondi per Hamas, il governo israeliano ha anche tagliato l’elettricità per Gaza. Ciò significa che il gazawi medio dispone di quattro ore di elettricità al giorno, con particolari rischi per persone come i pazienti in dialisi.

Noam Chomsky ha definito le condizioni di Gaza come quelle di “una prigione a cielo aperto”. Descrivendo la logica che sta dietro al blocco, Dov Weisglas, un ex-consigliere del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, ha detto: “L’idea è di mettere a dieta i palestinesi, ma non di farli morire di fame.”

In seguito al bombardamento di Gaza da parte del governo israeliano nel 2014, anche le infrastrutture di Gaza sono state completamente distrutte. Con la frequenza con cui sta entrando attualmente il materiale [per la ricostruzione], si stima che ci vorranno 100 anni per ricostruire Gaza.

Il 13,2% dei bambini di Gaza soffre di ritardi dello sviluppo dovuti a malnutrizione. Il costo psicologico per i bambini di Gaza è stato grave tanto quanto quello fisico. Il 70% dei bambini di Gaza soffre di incubi e il 75% di enuresi, a causa delle strazianti condizioni di vita che devono sopportare.

Un gruppo di 50 organizzazioni della solidarietà internazionale, comprese l’Organizzazione Mondiale della Salute e Oxfam, hanno chiesto la fine del blocco di Gaza affermando:

Per oltre cinque anni a Gaza più di 1.6 milioni di persone sono stati sottoposti a un blocco che viola le leggi internazionali. Più di metà di queste persone sono bambini. Le organizzazioni firmatarie dicono con un’unica voce: “Ponete subito fine al blocco.”

Anche il Comitato Internazionale della Croce Rossa ha affermato:

Tutta la popolazione civile di Gaza viene punita per azioni di cui non ha nessuna responsabilità. Di conseguenza il blocco costituisce una punizione collettiva imposta in evidente violazione degli obblighi di Israele in base alle leggi umanitarie internazionali.”

2)Israele è uno Stato colonialista di insediamento

Israele è uno Stato fondato da ebrei europei che hanno colonizzato la terra e, nel 1948, hanno perpetrato un genocidio e un’espulsione di massa della popolazione indigena palestinese che vi viveva. Il senatore [americano ed ex candidato alle primarie presidenziali, ndt.] Bernie Sanders ha paragonato questo atto di colonialismo di insediamento a quello degli europei arrivati nelle Americhe.

Nel 2017 Sanders ha affermato che “come per il nostro Paese, la fondazione di Israele ha comportato l’espulsione di centinaia di migliaia di persone che già vi vivevano, il popolo palestinese. Oltre 700.000 persone sono state trasformate in rifugiati. Il riconoscimento di questo doloroso fatto storico non delegittima Israele, non più di quanto il riconoscimento del “Trail of Tears” [il “Sentiero delle Lacrime”, lungo il quale 18.000 nativi americani furono costretti a marciare per 2.000 miglia, e un terzo di loro morì lungo il cammino, ndt.] delegittimi gli Stati Uniti d’America.

La creazione dello Stato di Israele ha dato come risultato la creazione della più grande popolazione di rifugiati al mondo. Mentre gli israeliani fanno riferimento alla nascita di Israele come al “Giorno dell’Indipendenza israeliana” (anche se non è chiaro da chi si sarebbero resi indipendenti), i palestinesi definiscono questo giorno come la “nakba”, ossia la catastrofe.

Si stima che circa il 40% dei rifugiati al mondo siano palestinesi che furono espulsi dalle loro case in conseguenza della creazione dello Stato di Israele. Le Nazioni Unite ribadiscono regolarmente, in particolare con dichiarazioni come la Risoluzione 192 delle Nazioni Unite e la Dichiarazione Internazionale dei diritti dell’uomo, il diritto dei palestinesi e dei loro discendenti a tornare nelle case da cui furono espulsi. Eppure Israele continua a negarglielo.

3) Israele pratica l’apartheid

Nello Stato di Israele l’identità etnica di una persona ne determina i diritti. Sottomettere differenti gruppi di persone a differenti insiemi di leggi costituisce letteralmente la definizione di apartheid.

Mentre i palestinesi che vivono sotto il controllo israeliano in Cisgiordania sono sottoposti alla legge militare, i coloni israeliani che vi abitano sono cittadini di Israele a tutti gli effetti, sottoposti alla legge civile. Possono votare alle elezioni, mentre i palestinesi che vi vivono non sono neppure considerati cittadini. I cittadini non ebrei di Israele sono sottoposti a leggi discriminatorie che li rendono cittadini di serie B.

Sudafricani che hanno vissuto sotto l’apartheid hanno descritto Israele come del tutto simile alla situazione che hanno affrontato sotto l’apartheid. L’African National Congress, il partito di Nelson Mandela, che ha combattuto l’apartheid in Sud Africa, ha etichettato Israele come uno Stato dell’apartheid. L’ex-presidente dell’ANC, Baleka Mbete, ha definito Israele “molto peggio del Sudafrica dell’apartheid.”

Desmond Tutu [arcivescovo sudafricano e premio Nobel per la pace, ndt.] ha affermato che “Israele è uno Stato dell’apartheid…Sono andato ed ho visitato la Terra Santa e ho visto cose che sono un’immagine speculare di ciò che ho vissuto sotto l’apartheid.”

Anche il governo sudafricano dell’apartheid nel 1978 rese pubblico un rapporto in cui affermava che “Israele e Sud Africa hanno una cosa in comune su tutte: entrambi si trovano in un contesto prevalentemente ostile popolato da persone di colore.”

Il capo militare del Sudafrica dell’apartheid, Constand Viljeon, era un ammiratore dei posti di blocco israeliani nella Palestina occupata. Dopo averli visitati, sostenne:

L’accuratezza con cui Israele conduce questo controllo è sorprendente. Come minimo porta via ad ogni arabo che li attraversa circa un’ora e mezza. Quando il traffico è intenso, ci vogliono da quattro a cinque ore.”

4) Incarcerazioni di massa dei palestinesi

Il 40% della popolazione maschile palestinese è stata incarcerata dai tribunali militari israeliani, che hanno una percentuale di condanne per i palestinesi del 99,74%.

Uno dei palestinesi incarcerati da questi tribunali è stato Issa Amro, un uomo che molti definiscono come il “Gandhi palestinese”. Amro è impegnato in azioni non violente contro la costruzione di colonie israeliane nella Cisgiordania occupata, che sono illegali in base alle leggi internazionali. Amro ha affrontato il carcere con 18 imputazioni, da “insulti a un soldato” ad “aggressione”. Amnesty International ha denunciato che “il diluvio di imputazioni contro Issa Amro non regge in nessun modo,” definendo le accuse “infondate e motivate da ragioni politiche”. Issa Amro è solo uno delle centinaia di migliaia di uomini palestinesi che sono stati gettati nelle prigioni israeliane sulla base di imputazioni infondate.

Allo stesso modo le donne palestinesi non rappresentano un’eccezione a questo sistema di incarcerazione. Il 18 dicembre 2017, l’esercito israeliano ha fatto irruzione in piena notte nella casa della famiglia Tamimi ed ha arrestato la sedicenne Ahed Tamimi. Hanno picchiato suo padre, sua madre, i fratelli maggiori e minori ed hanno confiscato tablet, telefoni e videocamere della famiglia. Tamimi è stata imputata per aver “schiaffeggiato un soldato” e tuttora è in carcere.

Human Rights Watch ha documentato gli abusi dell’esercito israeliano contro minori palestinesi in un rapporto intitolato “Minori dietro le sbarre”:

Secondo la sezione di “Difesa Internazionale dei Minori/Palestina”, ogni anno Israele arresta, imprigiona e processa nel sistema dei tribunali militari circa da 500 a 700 minori palestinesi sospettati di reati penali nella Cisgiordania occupata. Israele è l’unico Paese che processa automaticamente minori nei tribunali militari. Nel 2015 “Human Rights Watch” ha riscontrato che le forze di sicurezza israeliane hanno utilizzato una forza eccessiva per arrestare o detenere bambini palestinesi di 11 anni a Gerusalemme est e in Cisgiordania, ed ha preso per il collo, picchiato, minacciato e interrogato minori detenuti senza la presenza di genitori o avvocati.”

5) Islamofobia

Israele è uno Stato che ha cercato il sostegno pubblico dipingendosi come una sorta di conflitto di civiltà tra “l’Islam e l’Occidente”. È simile all’islamofobia sostenuta dagli ideologi della Destra in tutto il mondo, compreso Donald Trump, che notoriamente ha affermato che “l’Islam ci odia” ed ha promosso un bando contro i musulmani.

Anche l’AIPAC ha spinto quest’ondata di islamofobia. Lo scorso anno è trapelato che l’AIPAC ha fatto una donazione al ““Center for Security Policy” [Centro per le Politiche di Sicurezza] (CSP), un centro studi di estrema destra guidato da Frank Gaffney, che è stato classificato come un gruppo che provoca l’odio dal “Southern Poverty Law Center” [Centro per la Legge sulla Povertà del Sud, associazione per la difesa dei diritti civili con sede in Alabama, ndt.]. Anche l’”Unione dei Conservatori Americani” e l’” Anti-Defamation League” [Lega contro la Diffamazione, importante gruppo della lobby filoisraeliana negli USA, ndt.] hanno denunciato il CSP come organizzazione che promuove l’odio contro i musulmani attraverso ingannevoli teorie cospirative. Riguardo ai musulmani, Frank Gaffney afferma che “fondamentalmente essi, come termiti, scavano nella struttura della società civile e in altre istituzioni con il proposito di creare le condizioni in base alle quali la jihad possa avere successo.”

Gaffney ha anche sostenuto che lo stratega repubblicano Grover Norquist, l’attuale parlamentare e vice presidente del Comitato Nazionale Democratico Keith Ellison e l’ex presidente degli Stati Uniti Barack Obama sono agenti segreti della Fratellanza Musulmana. Ha anche accusato Barack Obama di essere coinvolto nel “più grande inganno dai tempi di Adolf Hitler.”

La “Conservative Political Action Conference” [Conferenza dell’Azione Politica Conservatrice] (CPAC) ha bandito Gaffney per le sue teorie politiche cospirative islamofobe, mentre l’AIPAC gli ha fornito supporto finanziario per far circolare queste teorie cospirative. Discorsi come quelli di Gaffney, come paragonare i musulmani a termiti e insinuare che la Fratellanza Musulmana sta tentando di controllare il governo degli USA, sono simili a quelli anti-ebraici, utilizzati nel passato e in epoca contemporanea, secondo cui “gli ebrei controllano il governo”.

6)Scuole Separate

Le scuole israeliane sono segregate sia in base alla religione che alla razza. Gli studenti ebrei frequentano scuole in base alla loro denominazione religiosa mentre i palestinesi frequentano le loro scuole. Meno dell’1% dei bambini frequentano la manciata di scuole integrate a cui è consentito andare agli ebrei israeliani ed ai palestinesi con cittadinanza di serie B. Le scuole palestinesi ricevono anche meno fondi del governo per alunno di quelle ebraiche, con il risultato che meno studenti che nelle scuole ebraiche frequentano le superiori.

La città di Tel Aviv ha anche costruito scuole separate per bambini di immigrati africani non ebrei richiedenti asilo. Il “Daily Beast” [sito web statunitense, ndt.] lo ha dettagliato in un articolo intitolato “La città più progressista di Israele ha introdotto la segregazione razziale negli asili”, in cui si afferma:

La città costruisce le nuove scuole per bambini neri dopo che abitanti ebreo-israeliani della zona del centro hanno minacciato di tenere a casa i propri figli piuttosto che consentire loro di imparare a contare, a disegnare e a giocare sull’altalena accanto ai loro coetanei eritrei e sudanesi.”

7) Deportazioni di massa

Molti rifugiati africani da Paesi come Eritrea e Sudan sono scappati in Israele dopo aver affrontato guerre nei loro Paesi. Aspettandosi la democrazia liberale di cui parlano i rappresentanti dell’AIPAC, i rifugiati hanno invece incontrato la resistenza di massa degli israeliani che li definiscono “infiltrati”. Israele ha chiesto ai rifugiati africani di scegliere tra l’arresto in una prigione israeliana e la deportazione in un Paese africano terzo.

Michael Ben Ari, membro del parlamento israeliano, ha spiegato che questa infiltrazione è semplicemente il risultato della loro esistenza come non ebrei all’interno di uno Stato ebraico. Ben Ari ha affermato che “il nostro Paese è diverso dagli altri. Il nostro è uno Stato ebraico…Uno Stato ebraico e democratico…In qualche caso le due cose sono in contraddizione tra loro. Se porti dentro un milione di africani, non sarà più ebraico.”

In precedenza l’attuale primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha messo in guardia che se la popolazione non-ebraica in Israele raggiungesse il livello del 30% ciò metterebbe a rischio “il carattere ebraico” dello Stato di Israele.

Ha persino annunciato un progetto di espulsione di 40.000 migranti africani non ebrei, definendo i richiedenti asilo “infiltrati”, la cui esistenza rappresenta una minaccia per il “carattere ebraico” di Israele. I progetti di Netanyahu arrivano dopo anni di proteste contro i neri in Israele, in cui politici israeliani di tutto lo spettro politico hanno fatto dichiarazioni riferendosi agli immigrati africani come un “cancro”, che “emettono un pessimo fetore” e “probabilmente causano ogni sorta di malattie”.

8) Israele ammette di aver sterilizzato a forza donne ebree etiopi contro la loro volontà

Benché la popolazione ebrea etiope viva sotto la legge civile, godendo quindi dei benefici della cittadinanza, ancora soffre di molte discriminazioni in Israele, pur essendo ebrea. Ci sono informazioni sulla brutalità della polizia israeliana contro gli ebrei etiopi, oltre alle discriminazioni sul lavoro e nell’impiego pubblico. Nel 2013 si è scoperto che la Croce Rossa israeliana gettava via il sangue donato dagli ebrei etiopi. Quando Pnina Tamano-Shata [prima deputata ebrea di origine etiope, eletta al parlamento israeliano nelle liste del partito di centro “Yesh Atid”, ndt.] ha offerto di donare il proprio sangue nell’ambito di una campagna della Croce Rossa israeliana, questa ha rifiutato la donazione del suo sangue sulla base del fatto che è etiope. Quello stesso anno il governo israeliano ha ammesso di aver iniettato in donne ebree etiopi un farmaco per il controllo delle nascite chiamato Depo-Provera.

Gal Gabbay, una giornalista israeliana, ha informato che molte donne sono state sottoposte a iniezioni per il controllo delle nascite quando stavano immigrando in Israele dall’Etiopia. Gabbay riporta:

In base al programma, mentre le donne erano ancora nei campi di transito in Etiopia a volte sono state intimidite o minacciate perché accettassero l’iniezione. ‘Ci dicevano che si trattava di vaccinazioni,’ ha detto una delle donne intervistate. ‘Ci hanno detto che la gente che partorisce di frequente soffre. Lo abbiamo preso ogni tre mesi. Abbiamo detto che non lo volevamo.’”

La sterilizzazione forzata corrisponde alla definizione delle Nazioni Unite di genocidio da “imposizione di misure intese a impedire la riproduzione all’interno di un gruppo”. In seguito a queste sterilizzazioni forzate, il tasso di nascite degli ebrei etiopi è caduto del 50% tra il 2003 ed il 2013.

9) Israele ha fornito armi a governi genocidi in tutto il mondo

Israele è stato un esportatore di armi a molti regimi repressivi in tutto il mondo. Oltre ad aver venduto ordigni nucleari al Sud Africa dell’apartheid, Israele è stato il suo maggiore fornitore di armi. Israele ha fornito armi anche al governo birmano quando era impegnato nel genocidio della popolazione rohingya. Israele ha anche fornito al governo ruandese armamenti mentre era impegnato nel genocidio dei tutsi, che è considerato il più rapido genocidio occorso nella storia umana. Israele ha anche fornito armi al governo serbo mentre era impegnato nella pulizia etnica dei bosniaci.

Lungi dall’essere un “paradiso progressista”, Israele è in realtà uno Stato etno-religioso che viola i diritti umani dei palestinesi, di altre minoranze etniche e religiose all’interno dei suoi confini, aiutando al contempo anche l’islamofobia e il genocidio su scala globale. È per questa ragione che una parte significativa e sempre maggiore del partito Democratico sta alzando la voce per la giustizia in Palestina. Finché Israele continuerà ad opprimere, l’appoggio ad Israele continuerà ad essere una “quotazione in ribasso” all’interno del partito Democratico. Nessun ex governatore democratico può cambiare ciò con affermazioni false.

Su Hamzah Raza

Hamzah Raza è un professore incaricato alla Vanderbilt University. Il suo articolo è stato pubblicato su Huffington Post, Alternet, Raw Story, LeMuslim Post e Tennessean.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Una controversa definizione di antisemitismo incontra resistenze riguardo a preoccupazioni per la libertà di parola

Ben White

22 febbraio 2018, Middle East Monitor

In Gran Bretagna gruppi filoisraeliani stanno incontrando resistenze ai loro tentativi di utilizzare una controversa definizione di antisemitismo per zittire l’attivismo in solidarietà con la Palestina. Università e autorità locali hanno dato ascolto alle preoccupazioni riguardanti la libertà di parola, un incoraggiamento per gli attivisti per i diritti della Palestina che attualmente stanno tenendo, o si stanno preparando a tenere, iniziative per la “Israeli Apartheid Week [Settimana dell’apartheid israeliana, ndt.] (IAW) nelle università di tutto il Paese.

Nel dicembre 2016 il governo britannico ha annunciato di aver “adottato” la definizione di antisemitismo accolta all’inizio di quell’anno dall’“International Holocaust Remembrance Alliance [Alleanza Internazionale per il Ricordo dell’Olocausto, ndt.] (IHRA). Descritta come “straordinariamente imprecisa” da David Feldman, direttore del “Pears Institute for the Study of Anti-Semitism” [Istituto Pears per lo Studio dell’Antisemitismo, ndt.], la definizione è promossa dall’IHRA ed è accompagnata da un elenco di 11 esempi su come oggi si possa manifestare l’antisemitismo, che comprendono critiche a Israele.

Fin da quando il governo di Theresa May ha dato il suo (non legale, non vincolante) appoggio, in Gran Bretagna un certo numero di gruppi ha dedicato tempo e risorse considerevoli per cercare di ottenere appoggio alla definizione da parte di consigli comunali e istituzioni dell’educazione superiore, tra gli altri. Tuttavia quasi subito c’è stato un rifiuto da parte di chi ha visto nella definizione e nel modo in cui è stata utilizzata, consistenti pericoli per la libertà di parola e per l’attivismo politico legittimo.

Nel marzo 2017 la direttrice della “London’s School of Oriental and African Studies” [Scuola di Studi Orientali ed Africani di Londra, ndt.] (SOAS), Valerie Amos, ha detto alla BBC che la sua università non intende adottare questa definizione. “Ho consultato su questo il nostro ‘Centro di Studi Ebraici’,” ha spiegato, “che ha fondamentalmente detto che questa definizione è discutibile.”

Quello stesso mese l’avvocato dei diritti umani Hugh Tomlinson, patrocinante della Corona [corrispettivo inglese dell’avvocato di cassazione in Italia, ndt.], ha pubblicato un parere legale che evidenzia “gravi errori” nella definizione e nelle linee guida allegate.

Nel maggio 2017 il sindacato dell’università e dei college – che rappresenta 110.000 professori e altri membri del personale – ha approvato a stragrande maggioranza una mozione che respinge l’uso della definizione dell’IHRA e che evidenzia “tentativi ispirati dal governo di mettere al bando iniziative di solidarietà con la Palestina “ come l’”Israel Apartheid Week”.

Ora anche la “London School of Economics” [Scuola di Economia di Londra, ndt., una delle più prestigiose istituzioni accademiche inglesi, ndt.] (LSE) si è unita a quanti, pur accettando la definizione di antisemitismo di 38 parole formulata dall’IHRA, hanno esplicitamente respinto l’elenco di esempi suggeriti, che include critiche a Israele. “La Scuola intende chiarire che criticare il governo di Israele, senza ulteriori prove che suggeriscano intenzioni antisemite, non è antisemitismo,” ha scritto un dirigente della LSE in una lettera lo scorso mese. “La Scuola non accetta neppure che tutti gli esempi che l’IHRA elenca come esemplificazioni di antisemitismo ricadano nella definizione di antisemitismo, a meno che non ci siano ulteriori prove per suggerire intenzioni antisemite.” L’autenticità della lettera, pubblicata su un sito filoisraeliano, mi è stata confermata da un dirigente della LSE.

Frattanto “Università del Regno Unito”, l’influente organizzazione rappresentativa delle università, ha resistito ai tentativi da parte di gruppi filoisraeliani perché manifestasse il proprio appoggio alla definizione dell’IHRA. Secondo un portavoce, che ha parlato con me all’inizio del mese, “Università del Regno Unito” non ha una posizione in merito.

In una richiesta a una commissione parlamentare d’inchiesta in corso sulla libertà di parola nelle università, il “Comitato dei Deputati degli Ebrei Britannici” ha detto ai parlamentari che le università dovrebbero “adottare la definizione dell’IHRA per consentire loro di esprimere giudizi meditati su cosa sia o non sia considerato antisemitismo.” Il Comitato ha riconosciuto: “Tuttavia c’è una preoccupante resistenza da parte delle università ad adottarla e la libertà di parola viene addotta come la principale ragione della loro riluttanza.”

Questa riluttanza è ben fondata. Lo scorso anno, un evento dell’IAW all’università del Lancashire Centrale è stato annullato dai dirigenti dell’università sulla base del fatto che avrebbe trasgredito la definizione dell’IHRA (e in seguito a pressioni da parte di gruppi filoisraeliani). Questa settimana la “Campagna contro l’Antisemitismo” ha affermato di augurarsi che ci siano “successi simili” nell’ottenere che iniziative dell’IAW organizzate dagli studenti quest’anno vengano annullate. Anche l’”Alleanza Israele-Gran Bretagna – un progetto della Federazione Sionista – sta fondando sulla definizione dell’IHRA i propri “sforzi per bloccare…eventi (dell’IAW)”.

Frattanto l’onorevole conservatore Matthew Offord martedì ha detto in parlamento che “le parole “settimana dell’apartheid israeliano” sono palesemente antisemite,” in base alla definizione dell’IHRA. Quindi, ha sostenuto, i ministri dovrebbero prendere in considerazione il fatto di “portare avanti le leggi necessarie per impedire (iniziative dell’IAW).”

Anche a Bruxelles gli effetti agghiaccianti della definizione dell’IHRA, così come viene utilizzata dai gruppi filoisraeliani, sono già stati dimostrati nei tentativi per far annullare un evento del parlamento europeo che ospita il difensore palestinese dei diritti umani Omar Barghouti. In una lettera al presidente del parlamento europeo Antonio Tajani i gruppi filoisraeliani sostengono che Barghouti e il movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS), di cui è co-fondatore, sono colpevoli rispettivamente di affermazioni e di obiettivi “antisemiti” “in base alla (definizione dell’IHRA).”

Tuttavia, mentre i sostenitori di Israele vedono chiaramente la definizione dell’IHRA come un mezzo per l’eliminazione dell’attivismo in solidarietà con la Palestina e delle voci palestinesi, c’è una discussione interessante, ed una mancanza di chiarezza, riguardo a in cosa consista esattamente la definizione. La “definizione di antisemitismo non vincolante dal punto di vista legale” dell’IHRA è pubblicata in rete all’interno di un riquadro nero chiaramente evidenziato. È un testo di 38 parole, che dice quanto segue: “L’antisemitismo è una certa percezione degli ebrei, che può essere espressa come odio nei confronti degli ebrei: manifestazioni verbali e fisiche di antisemitismo sono dirette verso individui ebrei e non ebrei e/o loro proprietà, verso istituzioni e strutture religiose della comunità ebraica.” Lo stesso testo è comparso, anch’esso in un riquadro nero a parte, nel maggio 2016 su un comunicato stampa dell’IHRA che annunciava l’adozione della definizione.

Queste 38 parole sono poi seguite da un testo più lungo, che include l’elenco degli esempi di come si può manifestare l’antisemitismo contemporaneo; questa è la parte in cui è inclusa, in modo discutibile, la critica contro Israele. Tuttavia questi esempi sono effettivamente parte della definizione stessa?

Secondo l’ufficio permanente dell’IHRA a Berlino la risposta è no. In un messaggio mail datato 12 settembre 2017 un rappresentante dell’IHRA ha confermato che la definizione consiste solo nel “testo nel riquadro”, mentre gli esempi intendono “servire come illustrazione” di come “possa manifestarsi” l’antisemitismo.

Sembra che questa conferma sia stata un passo falso o, quanto meno, non è stata ripetuta. Mi sono rivolto all’ufficio permanente dell’IHRA a questo proposito e, stranamente, mi è risultato impossibile, sia con email che al telefono, avere una chiara conferma su cosa sia effettivamente la definizione. In una conversazione di cinque minuti all’inizio di questo mese un funzionario dell’IHRA ha ribattuto alla mia richiesta di chiarire se la definizione consista solo nel testo di 38 parole dicendo che io dovrei “fare riferimento all’informazione sul nostro sito”, o “semplicemente inserire un link sul sito dell’IHRA.” Quando ho fatto notare che certe istituzioni hanno accolto il testo di 38 parole, ma non l’elenco di esempi che lo accompagna, il funzionario ha riconosciuto che “dipende dalla discrezionalità delle istituzioni e delle autorità adottare qualunque cosa ritengano utile,” ma si è di nuovo rifiutato di rispondere alla semplice domanda.

Mentre l’IHRA è curiosamente reticente nel chiarire quello che costituisce la definizione, altri hanno già deciso: una dichiarazione che ho ricevuto dal portavoce della Commissione Europea fa una chiara distinzione tra la “definizione” da una parte e “gli esempi non esaustivi” dall’altra.

Alcune autorità locali in Gran Bretagna hanno allo stesso modo adottato solo il testo di 38 parole; recenti esempi includono il consiglio comunale di Manchester e il consiglio regionale del South Northamptonshire. Quando il consiglio comunale di Liverpool ha accolto solo la definizione di 38 parole, un attivista filoisraeliano si è infuriato – spingendo gli “Amici di Israele di Merseyside” ad affermare che i due testi sono, di fatto, “la definizione effettiva.”

La confusione – e l’ambiguità probabilmente intenzionale da parte dell’IHRA – su cosa costituisca la definizione, l’opposizione alla libertà di parola e il rozzo tentativo di censura da parte di quanti (falsamente) sostengono che la definizione “dimostra” che iniziative come l’IAW sono antisemite, sono tutti ben noti. È per questo che la storia della definizione dell’IHRA è ripresa nel resoconto del suo infausto predecessore, la proposta di definizione provvisoria dell’EUMC [Centro Europeo per il Monitoraggio del Razzismo e della Xenofobia, ndt.]. Alla fine è stata screditata ed abbandonata dopo che sostenitori di Israele l’hanno utilizzata – nelle parole di uno degli estensori della definizione – “con la delicatezza di un martello”.

Nonostante questi tentativi, l’attivismo in solidarietà con la Palestina e in particolare la campagna BDS sono cresciuti e si sono estesi in tutta Europa, compresa la Gran Bretagna, in rapporto diretto con le politiche di un governo israeliano che continua a colonizzare la Cisgiordania e a devastare la Striscia di Gaza.

Gli apologeti di Israele non smetteranno di ridefinire l’antisemitismo per prendere di mira la solidarietà con i palestinesi. Tuttavia è improbabile che soffochino un movimento contro l’apartheid che, in un’epoca segnata da Trump e dalla annessione israeliana, in tutto il mondo troverà solo più adesioni sia dentro che fuori dai campus.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Per ottenere uno Stato, i palestinesi devono lavorare anche per i due Stati.

Nadia Hijab 

7 febbraio 2018, Al Shabaka

In seguito al riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele da parte del presidente USA Donald Trump, e rafforzato dalla promessa del vice presidente Mike Pence di spostarvi l’ambasciata USA prima della fine del 2019, c’è stata una raffica di articoli che hanno sostenuto l’imminente spostamento della strategia palestinese verso la soluzione dello Stato unico con pari diritti. Sia i negoziatori palestinesi direttamente coinvolti nel moribondo processo di pace di Oslo che palestinesi che fin da allora hanno avuto poche speranze in Oslo hanno dichiarato che è tempo di modificare la lotta. Nel contempo Israele ha continuato ad espandere le colonie, reprimere le proteste e pianificare l’annessione di parte o di tutta la Cisgiordania.

La soluzione dei due Stati è davvero destinata al fallimento ed è tempo di passare ad una lotta per uno Stato unico? Questo commento sostiene che entrambi gli esiti statali possono essere messi in atto per ottenere le aspirazioni ed i diritti dei palestinesi, e che, oltretutto, soddisfare i diritti dei palestinesi richiede alcune delle risorse di potere associate ad un sistema statale. Invita inoltre a dedicare tempo ed energie per chiarire gli obiettivi palestinesi e per comprendere perché non sono ancora stati raggiunti, e in seguito concentrarsi sugli elementi di forza necessari per raggiungerli. L’ultima parte discute nel dettaglio uno di questi elementi di forza, quello della narrazione palestinese, e chiede una ridefinizione di questa narrazione, compresa quella relativa al BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni). 1

Obiettivi palestinesi negli esiti di uno Stato unico e dei due Stati

L’obiettivo della lotta palestinese continua ad essere espresso in termini di strutture statuali. Anche nei termini del raggiungimento dei diritti palestinesi, cosa otterrebbe un esito politico dello Stato unico che non otterrebbero i due Stati? È il caso di esaminare brevemente entrambi i risultati. La prospettiva di una soluzione dello Stato unico, come quella stabilita dall’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) nel 1968 è sempre stata più convincente per i palestinesi di quella dei due Stati. Uno Stato unico è strettamente legato al diritto al ritorno dei rifugiati alle proprie case e terre.

Con uno Stato unico i palestinesi avrebbero esercitato il proprio diritto all’autodeterminazione ritornando e vivendo su tutta la terra che era stata Palestina, accanto agli ebrei che vi vivono, con gli stessi diritti per tutti. Mentre la carta dell’OLP del 1968 parlava degli ebrei che abitavano in Palestina prima della conquista sionista che ha determinato la creazione di Israele, gli attuali sostenitori palestinesi della soluzione di uno Stato unico riconoscono che debba comprendere tutti i suoi abitanti.

Riguardo alla soluzione dei due Stati, è importante distinguere tra la visione espressa nel 1988, quando il Consiglio Nazionale Palestinese (CNP) la adottò, e la parodia di giustizia monca, economicamente e politicamente bloccata istituita dagli accordi di Oslo che iniziarono ad essere firmati nel 1993. Quando venne adottata nel 1988, la soluzione dei due Stati era vista come un riconoscimento pragmatico, realizzabile della realtà. I palestinesi avrebbero esercitato il diritto all’autodeterminazione attraverso uno Stato sovrano che avrebbe garantito i diritti dei suoi cittadini. Un simile Stato avrebbe consentito alla Palestina di unirsi alla comunità delle Nazioni. Inoltre la risoluzione del CNP sosteneva le risoluzioni ONU relative ai diritti dei rifugiati palestinesi. E la lotta per i due Stati non significa abbandonare la lotta vitale per l’uguaglianza dei cittadini palestinesi di Israele.

Fin dall’inizio Oslo ha destinato alla rovina un progetto di Stato basato sui diritti. Da parte palestinese l’accettazione degli accordi incluse un implicito riconoscimento che i diritti dei rifugiati palestinesi sarebbero stati gravemente limitati, sacrificando quindi un diritto fondamentale dei palestinesi. Da parte israeliana non c’è mai stata nessuna intenzione di consentire la costituzione di uno Stato palestinese sovrano accanto ad Israele. Yitzhak Rabin, sbandierato come un grande pacificatore, mise in chiaro poco dopo il primo accordo di Oslo che egli intendeva garantire che i palestinesi non avrebbero avuto nient’altro che un’entità che fosse “meno di uno Stato”, con i confini di sicurezza di Israele nella valle del Giordano. Queste posizioni vennero mantenute nel corso degli anni di negoziati. Le posizioni israeliane si sono notevolmente indurite da allora: più di recente il comitato centrale del Likud ha votato all’unanimità per chiedere ai dirigenti del partito di annettere la Cisgiordania.

Se la soluzione dei due Stati fosse rimasta all’interno del quadro originario, avrebbe potuto soddisfare i diritti dei palestinesi all’autodeterminazione ed al ritorno, come lo avrebbe fatto la soluzione dello Stato unico, se i palestinesi fossero stati in grado di costruirsi un potere sufficiente a garantire che Israele avrebbe rispettato il diritto al ritorno ed uguali diritti in uno Stato unico, il diritto al ritorno e la sovranità in due Stati.

Oggi la realtà è che il popolo palestinese non ha il potere di ottenere nessuno dei due risultati nel futuro prevedibile e di imporre ad Israele o alla comunità internazionale il riconoscimento e la messa in pratica dei suoi diritti. Infatti la dirigenza palestinese, convinta che Oslo stesse portando a uno Stato palestinese, lasciò disperdersi i punti di forza che aveva accumulato negli anni ’70 e ’80, compresi un vivace movimento di solidarietà e forti legami con i Paesi del Sud, l’Unione Sovietica e la Cina.

Il presidente dell’OLP Mahmoud Abbas non ha dichiarato la fine della soluzione dei due Stati e chiaramente spera che gli europei interverranno ora che egli si è, forse temporaneamente, allontanato dagli USA. Tuttavia chiedere agli Stati europei di fungere da mediatori non farà progredire la causa palestinese. Non c’è niente da mediare: gli israeliani hanno messo in chiaro i loro obiettivi: il meglio che i palestinesi possono sperare sono bantustan [entità pseudo-statali istituite nel Sudafrica dell’apartheid per la popolazione nera, ndt.] divisi tra loro. Uno scenario peggiore sarebbe un “accordo” che apparirebbe come la realizzazione di alcuni diritti dei palestinesi, dopo il quale il mondo se ne tirerebbe fuori, lasciando i palestinesi alla mercé di Israele. Nessuno farà niente per il popolo palestinese – non gli europei, né gli USA, né Israele – finché non sarà obbligato a farlo.

In breve, i palestinesi dovranno costruirsi un potere consistente per esercitare le pressioni necessarie a raggiungere una soluzione che garantisca i loro diritti. E per fare ciò avranno bisogno di alcune delle risorse di potere che hanno acquisito attraverso la partecipazione al sistema statale, sia legale, diplomatico o attraverso la partecipazione ad organizzazioni internazionali. Tuttavia queste risorse di potere devono essere utilizzate in modo molto più efficace e strategico di quello superficiale con cui le ha utilizzate l’OLP. Persino la combattuta adesione all’UNESCO, che è costata parecchio all’organizzazione, avrebbe potuto essere utilizzata per stabilire la sovranità palestinese su terra e mare.

Inoltre immaginate la diversa situazione oggi se l’OLP avesse “attivato” la sentenza della Corte Internazionale di Giustizia del 2004 sul muro illegale di Israele che serpeggia nei TPO [Territori Palestinesi Occupati, ndt.]. Benché fosse un’opinione consultiva, il suo chiaro richiamo a ogni Stato a “non riconoscere la situazione illegale determinata dalla costruzione del muro” e, cosa ancora più importante, a non fornire alcun aiuto o assistenza che potesse mantenere la situazione, avrebbe potuto essere utilizzato per spingere i Paesi europei consapevoli delle regole a garantire in modo molto più decisivo che le loro relazioni con Israele non appoggiassero le illegali colonie israeliane.

È stato a causa del fatto che l’OLP non ha capitalizzato quello che all’epoca un membro della delegazione palestinese descrisse in privato come questa “grande vittoria” che la società civile palestinese, esattamente un anno dopo, ha lanciato il movimento BDS, con il chiaro intento di difendere le leggi internazionali e investire un’importante fonte di potere in esse.

La strada che abbiamo davanti è lunga. Nessuno si affretta ad aiutare i palestinesi a ottenere i loro diritti. Perciò non c’è fretta per decidere sul definitivo risultato politico: entrambe [le soluzioni] possono servire pur di raggiungere i diritti dei palestinesi. Questo è stato l’intelligente approccio strategico dei fondatori del movimento BDS. Data la confusione del movimento nazionale e la mancanza di consenso riguardo agli obiettivi politici, i fondatori si sono piuttosto concentrati sui diritti come obiettivi, chiedendo la realizzazione dell’autodeterminazione attraverso la liberazione dall’occupazione, l’uguaglianza per i palestinesi cittadini di Israele e la giustizia per i rifugiati palestinesi nel rispetto del loro diritto al ritorno. Ciò ha permesso al movimento di raggiungere il più ampio spettro della società palestinese così come degli attivisti della solidarietà internazionale – e di costruire una considerevole posizione di forza.

Ogni elemento di forza a disposizione dovrebbe essere analizzato e compreso per quello che può offrire, per le sue positività e i suoi tranelli, e la società civile palestinese dovrebbe allearsi con l’OLP (o ciò che ne rimane) per quanto possibile per portare avanti gli interessi nazionali palestinesi e per opporsi ai rappresentanti politici palestinesi quando mettono a rischio questi interessi. 2 Nella discussione che segue mi concentrerò su uno dei principali punti di forza, la narrazione palestinese, e sui modi in cui possa essere più efficacemente utilizzata per portare avanti i diritti dei palestinesi.

Ridefinire la narrazione sulla Palestina (e sul BDS)

Parte della narrazione palestinese ha a che fare con il passato, e parte con gli obiettivi della lotta palestinese e guarda più verso il futuro. La parte rivolta al futuro rimane in silenzio e poco efficace, mentre quella sul passato è molto più dettagliata.

La narrazione del passato è, per i palestinesi, una questione esistenziale: esigono che la realtà di quanto successo alla Palestina e ai palestinesi sia vista come l’ingiustizia che è stata. È per questo che lo scorso anno durante il centesimo anniversario della dichiarazione Balfour [con cui l’impero inglese si impegnò a favorire la formazione di un “focolare ebraico” in Palestina, ndt.] così tanto tempo è stato dedicato a chiedere le scuse da parte della Gran Bretagna, i cui obiettivi coloniali consentirono la perdita della Palestina e la creazione di Israele. E questa è la ragione per cui così tanto tempo verrà dedicato quest’anno, il settantesimo anniversario della Nakba (catastrofe), a quella narrazione della perdita.

Le scuse da parte della Gran Bretagna sarebbero bastate ma non sono mai state in discussione: gli ex-poteri coloniali non vogliono offuscare le loro stesse narrazioni, per quanto orribili possano essere, o aprire loro stessi la strada a richieste di riparazione. Ma la situazione è diversa nel caso di Israele. Se ci deve essere un diverso, miglior futuro tra Israele e il popolo della Palestina storica ci dev’essere non solo il riconoscimento dell’ingiustizia che il progetto sionista ha perpetrato sui palestinesi, ma anche una manifestazione di pentimento, e un risarcimento. È necessario per sanare la ferita nazionale del popolo e di ogni singolo palestinese.

Può sembrare donchisciottesco parlare di questa richiesta in un momento in cui Israele appare così potente e i palestinesi così oppressi e senza aiuti. Eppure il riconoscimento, le scuse e le riparazioni sono anche necessarie per esorcizzare il fantasma che perseguita gli israeliani. C’è un timore profondamente radicato che la narrazione che sostiene la creazione dello Stato di Israele – quella di coraggiosi pionieri che fanno miracoli in un deserto ostile e disabitato – sia messa in evidenza per la vergogna che è stata, come lo sarebbe tutta la crudeltà deliberata che l’accompagnò e ancora l’accompagna. Ciò danneggerebbe il progetto sionista alla radice.

Di fatto andare oltre questa narrazione non è affatto impossibile: ciò è stato ottenuto dai molti ebrei che si stanno allontanando o si sono allontanati dall’ideologia del sionismo per difendere diritti umani universali. Ed è la base di un futuro alternativo in cui palestinesi ed ebrei vivano insieme come uguali. Questo futuro è già presente in alcune organizzazioni degli Stati Uniti, tali come “Jewish Voice for Peace” [“Voci ebraiche per la Pace, ndt.], in rapida crescita, che comprende parecchi palestinesi tra i suoi membri, così come gruppi di “Studenti per la Giustizia in Palestina” nei campus negli USA, che comprendono palestinesi, ebrei e un insieme di altre etnie e religioni.

Ma i palestinesi hanno urgentemente bisogno di una narrazione che guardi oltre, che li unifichi e che comunichi la forza della loro visione. Israele continua a dominare la narrazione in Occidente, dove ha la maggior parte della sua base di potere, nonostante gli attacchi realizzati da scrittori ed analisti palestinesi e da numerose organizzazioni ed individui del movimento di solidarietà con i palestinesi. È in parte la mancanza di una visione unitaria che guardi avanti e sia positiva da parte dei palestinesi che consente ad Israele di farlo.

Inoltre una narrazione rivolta al futuro può fornire una visione ed una direzione al movimento palestinese finché non verrà il tempo in cui si prenda una decisione se l’esito politico finale possa essere uno o due Stati. Una narrazione unificata è anche importante perché è improbabile che l’unità politica dei palestinesi sia raggiunta nel prossimo futuro. Fatah e Hamas sono troppo divisi, e la frammentazione fisica del popolo palestinese ad opera di Israele ha creato con successo barriere tra loro. Una narrazione unitaria consentirebbe ad ogni parte del popolo palestinese di lavorare verso gli stessi obiettivi – e di continuare la lotta fino a che siano raggiunti questi obiettivi, piuttosto che fermarsi a metà strada del percorso, come è successo con Oslo.

Questa narrazione unitaria palestinese esiste già: libertà, giustizia, uguaglianza. Questi sono gli obiettivi identificati dal movimento BDS. Questi sono anche gli obiettivi a cui tutti i palestinesi possono aspirare e che possono appoggiare, e parlano alla situazione di ogni segmento del popolo palestinese, di quelli che vivono sotto occupazione, dei palestinesi cittadini di Israele o dei rifugiati ed esiliati. Deve essere evitata una trappola: chiedendo l’uguaglianza, bisogna adottare ogni cautela per specificare che questo riguarda i palestinesi cittadini di Israele e non l’uguaglianza tra i palestinesi che vivono sotto occupazione e i coloni che vivono nelle illegali colonie israeliane.

Comunque perché questi obiettivi prendano con successo il proprio posto in prima linea nel movimento nazionale palestinese, il discorso riguardo al BDS deve essere ridefinito. Di solito l’attenzione è concentrata sulla strategia del BDS e non sugli obiettivi identificati dall’appello per il BDS, benché siano ospitati in primo piano del suo sito web. Da sola, la strategia del BDS non può ottenere libertà, giustizia ed uguaglianza, come ben sanno i suoi fondatori. Proprio perché nessun’ altra strategia è così efficacemente utilizzata e proposta quanto quella del BDS, esso domina la scena. Bisogna porre attenzione a presentare il BDS come una delle molte strategie che i palestinesi devono utilizzare, comprese quelle legali e diplomatiche. Anche cultura ed arte giocano un ruolo fondamentale nella richiesta dei diritti palestinesi, e stanno prosperando.

E’ urgente che gli obiettivi siano messi in prima linea: sono un’esaltante e positiva visione che può rapidamente occupare il primo piano. Politici palestinesi, società civile e movimento di solidarietà dovrebbero unificarsi attorno ad essa e chiedere libertà, giustizia ed uguaglianza. E libertà, giustizia ed uguaglianza possono essere ottenute con uno Stato unico o con due Stati.

Note:

  1. Parte del materiale di questo articolo è stato presentato in un discorso all’assemblea annuale della Campagna di Solidarietà con la Palestina il 27 gennaio 2018. Il discorso è stato pubblicato da Mondoweiss il 31 gennaio 2018.

  2. Le fonti di potere e le opzioni palestinesi sono l’argomento di un altro articolo con suggerimenti di numerosi analisti.

Nadia Hijab

Nadia Hijab è co-fondatrice e direttrice esecutiva di Al-Shabaka, la rete politica palestinese, e scrittrice, conduttrice e commentatrice nei media. Il suo primo libro, “Womanpower: The Arab debate on women at work” [Potere delle donne: il dibattito arabo sulle donne al lavoro], è stato pubblicato dalla Cambridge University Press ed è co-autrice di “Citizens Apart: A Portrait of Palestinians in Israel” [Cittadini in disparte: un ritratto dei palestinesi in Israele] (I. B. Tauris). È stata capo redazione della rivista londinese “Medio Oriente” prima di essere assunta alle Nazioni Unite a New York. È co-fondatrice ed ex-co-direttrice della campagna USA per i diritti dei palestinesi ed ora fa parte del suo consiglio di amministrazione.

(traduzione di Amedeo Rossi)