L’alfabeto di Oslo, linguaggio della colonizzazione

Professor Kamel Hawwash –Middle East Monitor

Sabato 23 gennaio 2016

Le prime tre lettere dell’alfabeto, A, B e C, sono diventate il marchio dell’occupazione e della strisciante colonizzazione della Palestina da parte di Israele. Le linee che delimitano queste aree sono state tracciate negli accordi di Oslo II firmati a Taba nel 1995. Dividono la Cisgiordania in tre zone, con Israele e la Palestina che beneficiano di differenti livelli di diritti amministrativi e relativi alla sicurezza in ognuna di queste.

L’area che copre tutte le città della Cisgiordania e la maggior parte della popolazione palestinese è stata etichettata come A, con l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) che gode del controllo “integrale”, sia amministrativo che per quanto riguarda la sicurezza. L’area B include vaste zone rurali con l’ANP che ha diritto solo al controllo amministrativo. Il rimanente 60% è stato denominato area C e ricade sotto il totale controllo israeliano, tranne per quello che riguarda i servizi educativi e quelli medici. Significativamente, Israele controlla tutte le questioni relative alla terra, comprese l’assegnazione e le pratiche per la costruzione sia di strutture private che di infrastrutture.

Per completare il quadro del controllo coloniale che Israele esercita sulla Cisgiordania, bisogna aggiungere l’impatto del Muro o Barriera, che Israele ha costruito dopo gli accordi di Oslo e le strade che servono alle colonie, molte delle quali possono solo essere utilizzate dai coloni, nella versione israeliana dell’apartheid.

E’ importante capire che le aree A, B e C non sono tre zone geografiche separate che sono facilmente identificabili, ma piuttosto una divisione amministrativa definita in pratica da Israele per perseguire i propri progetti espansionistici e coloniali. Basta fare un passo fuori dalle città palestinesi e ci si trova quasi sicuramente nell’area C e quindi sotto il totale controllo israeliano. L’area C è abitata da un numero stimato di 300.000 palestinesi, che vivono per lo più in piccoli villaggi e comunità, e di 350.000 coloni israeliani, che vivono in 135 insediamenti e 100 avamposti. Una parte delle terre palestinesi più fertili si trova nella valle del Giordano, che rientra nell’area C.

I 22 anni da Oslo e gli inutili negoziati per raggiungere un accordo finale sono passati con Israele che non ha rispettato neppure questa vergognosa divisione della Cisgiordania. Ogni pretesa di una zona palestinese libera dalle ingerenze israeliane è un mito.

Questa è la terza Intifada?

Le crescenti tensioni nei Territori Occupati hanno portato a dozzine di morti e a centinaia di scontri. Stiamo assistendo ad una terza Intifada?

Prendiamo l’area A, che include tutte le città palestinesi. L’ANP è responsabile della sicurezza e pertanto si potrebbe presumere che le forze di occupazione israeliane non possano entrarvi in nessun caso. Tuttavia si tratta di un mito. Le forze [di sicurezza] israeliane entrano regolarmente a Ramallah, Nablus, Hebron e Jenin per arrestare, ferire e mutilare. Hanno rapito membri del parlamento [palestinese], compreso la sua presidentessa e deputata del FPLP [Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, gruppo politico palestinese di sinistra. Ndtr.] Khalida Jarrar. Più di recente, il primo ministro israeliano Netanyahu ha detto di aver chiamato il presidente dell’ANP Abbas per scusarsi perché le forze di occupazione israeliane hanno condotto attività nei pressi della sua casa e si sono scontrate con la sua guardia presidenziale. Al tempo stesso, le forze di sicurezza palestinesi non possono arrestare nessun colono israeliano che abbia commesso violenze in qualunque parte della Cisgiordania e ogni colono che si sia casualmente avventurato nell’area A è stato rapidamente messo al sicuro e consegnato alle forze di occupazione.

Nell’area C le attività di colonizzazione di Israele abbondano, in quanto gode del controllo sia amministrativo che per la sicurezza. Qui la messa in pratica di alcune norme per i palestinesi e di altre per le colonie illegali è più evidente. I palestinesi non possono costruire, ampliare o migliorare le proprie case o le proprie attività senza l’interferenza da parte di Israele, che è spesso violenta. Il rifiuto praticamente certo da parte di Israele della concessione di autorizzazioni per la costruzione di case, scuole, strutture commerciali e agricole non lascia ai palestinesi altra possibilità che costruire senza permessi. Il risultato quasi inevitabile è la demolizione. L’ufficio dell’ONU per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA) ha descritto come 5.000 palestinesi dell’area C vivono nelle denominate “zone di fuoco” e si prevede che lascino le loro case per ore o giorni durante le esercitazioni militari israeliane. L’OCHA inoltre descrive la terribile situazione dei beduini, continuamente soggetti alla minaccia di deportazione dalle loro terre contro la loro volontà.

Anche altre comunità, oltre ai beduini, hanno ripetutamente subito la minaccia di ricollocamento. Un esempio particolarmente chiaro è stato quello della comunità di Susyia, sulle colline di Hebron, i cui membri hanno affrontato tre deportazioni in tre decenni per permettere che una colonia, che ha praticamente lo stesso nome, si installasse e poi che si espandesse.

In anni recenti, un certo numero di politici israeliani che si oppongono radicalmente all’esistenza di uno Stato palestinese hanno invocato l’annessione di ampie zone, se non di tutta l’area C. L’attuale ministro dell’Educazione, Naftali Bennet, ha persino chiesto che ai 300.000 palestinesi che vi vivono venga concessa la nazionalità israeliana. Pensa che il fatto che i rimanenti palestinesi della Cisgiordania potrebbero gestire i propri affari e una piena indipendenza sarebbe impossibile. Altri politici israeliani non sono magari stati altrettanto espliciti come Bennet nel chiedere l’annessione di aree della Cisgiordania, tuttavia è ora difficile trovarne uno che sostenga una onesta soluzione dei due Stati che porti ai palestinesi una qualche speranza della fine dell’occupazione.

Più di recente, il Coordinatore Israeliano delle Attività di Governo nei Territori (COGAT) ha annunciato che intende confiscare 370 acri [149 ettari. Ndtr.] di terra nel distretto di Gerico, dichiarandoli “terra dello Stato”. Questo tipo di iniziative rende la designazione di un lotto di terreno come A, B o C totalmente insensato. Israele agisce con totale impunità. Se decide di dichiarare la sede dell’Autorità Nazionale Palestinese a Ramallah zona militare chiusa o zona di fuoco, chi lo più impedire?

A Oslo i negoziatori palestinesi non solo hanno accettato di riconoscere Israele senza un concomitante riconoscimento della Palestina, hanno anche concordato l’ulteriore spartizione in queste tre aree del 22% di quella che hanno accettato come “Palestina”. La realtà è stata che palestinesi e coloni hanno vissuto in tutte e tre le aree e che Israele ha utilizzato questa designazione perché si adattasse ai propri piani. Gli accordi di Oslo sono stati pensati come temporanei, dovevano portare a un accordo negoziale entro cinque anni. A fronte di ciò, i negoziatori palestinesi devono aver pensato che tutte e tre le aree sarebbero state restituite alla fine dei cinque anni, libere di coloni, per far parte dello Stato funzionante e con continuità territoriale che loro avevano sognato. Tuttavia, 22 anni dopo, non è stato raggiunto nessun accordo e in pratica Israele ha quotidianamente violato l’accordo provvisorio indistintamente nelle aree A, B e C. Questa denominazione è diventata un ulteriore ostacolo per la pace e non cambierà rapidamente senza una pressione esterna. Perché si ottenga la pace in terra santa, devono essere esercitate su Israele chiare e non ambigue pressioni per porre fine all’occupazione, spedendo l’alfabeto della colonizzazione nella pattumiera della storia.

Il professor Kamel Hawwash è un docente universitario anglo-palestinese in ingegneria presso l’università di Birmingham. E’ un commentatore di questioni mediorientali e vice presidente della campagna di solidarietà con la Palestina. Qui ha scritto a titolo personale.

(Traduzione di Amedeo Rossi)




Come le colonie israeliane soffocano l’economia palestinese

Al Shabaka e Ma’an News

Sintesi

Israele vede le linee giuda recentemente  emanate dall’Unione Europea per l’etichettatura di alcuni prodotti delle sue colonie come la punta dell’iceberg. Teme che ciò aprirà la porta a misure più dure contro la sua colonizzazione illegale e sta mettendo in campo le forze filo-israeliane in Europa e negli Stati Uniti. Uno degli argomenti continuamente ripetuti è che l’etichettatura danneggia i lavoratori palestinesi.

In questo documento la responsabile politica di Al-Shabaka Nur Arafeh e le consulenti politiche  Samia al-Botmeh e Leila Farsakh sfatano gli argomenti addotti da Israele contro la decisione dell’Unione Europea di etichettare i prodotti delle colonie, dimostrando l’impatto devastante che il sistema delle colonie israeliane ha avuto sull’economia palestinese togliendo ai palestinesi la terra, l’acqua e altre risorse e creando una massiccia disoccupazione. Affrontano anche la condizione di quei lavoratori palestinesi – una minoranza della forza lavoro – che sono stati obbligati a guadagnarsi da vivere proprio nelle colonie che hanno danneggiato in modo così grave l’economia dei palestinesi e più in generale i loro diritti. Proseguono esaminando il passo dell’Unione Europea (UE) e suggeriscono le iniziative successive che l’UE dovrebbe prendere per rispettare pienamente le leggi internazionali ed europee1.

Il contesto

Ci sono voluti anni all’Unione Europea per sviluppare la sua posizione sull’etichettatura dei  prodotti delle colonie che Israele ha costruito sui territori palestinesi e siriani [le Alture del Golan. Ndtr.] fin da quando li ha occupati nel 1967. La Commissione Europea ha emanato una decisione nel 1998 in cui si sospettava che Israele stesse violando l’accordo di associazione con l’UE, firmato nel 1995 e entrato in vigore nel 2000, che esentava i prodotti israeliani dal pagamento di dazi doganali. Nel 2010 la Corte Europea di Giustizia ha confermato che i prodotti provenienti dalla Cisgiordania non beneficiavano del trattamento doganale preferenziale in base all’accordo di associazione dell’UE con Israele e che le affermazioni delle autorità israeliane non erano vincolanti per le autorità doganali dell’UE.

Tuttavia è stato solo nel 2015 che l’UE ha preso la decisione a lungo attesa di adeguare le proprie azioni alle sue stesse regole, in parte come risposta alla crescente pressione da parte della società civile perché riconoscesse l’illegalità delle colonie. Il 10 settembre il Parlamento Europeo ha approvato una risoluzione che chiede l’etichettatura dei beni delle colonie israeliane in quanto prodotti negli “insediamenti israeliani” piuttosto che in “Israele” e che garantisce che non beneficino del trattamento  preferenziale sugli scambi in base al Trattato di Associazione tra l’Ue ed Israele. Due mesi dopo, l’11 novembre, l’UE ha emanato le linee guida attese da molto tempo riguardo all’etichettatura, che ha definito in un linguaggio molto discreto come  una “Comunicazione Interpretativa”. Tuttavia i prodotti delle colonie saranno ancora commerciati con l’Unione Europea (EU), lasciando ai consumatori la “decisione informata” se comprare o meno questi prodotti.

Israele sostiene che l’iniziativa dell’UE è “discriminatoria” e che è dannosa per l’economia palestinese in generale e per i lavoratori palestinesi in particolare. E’ chiaramente un tentativo da parte di Israele di distogliere l’attenzione internazionale dalla realtà dell’illegale colonizzazione israeliana, dei suoi effetti profondamente negativi per l’economia palestinese e degli obblighi morali e giuridici dell’UE. In effetti, l’intera colonizzazione da parte di Israele è illegale in base al diritto internazionale, come riconfermato dalla Corte Internazionale di Giustizia nel suo “Parere consultivo” del 2004 sul Muro di Separazione costruito da Israele. Il trasferimento da parte di Israele della sua popolazione nei territori occupati è una violazione della Convenzione dell’Aja del 1907 e della Quarta Convenzione di Ginevra del 1949.

Lo sfruttamento economico dei Territori Palestinesi Occupati da parte delle colonie

Il presente rapporto riguarda i territori occupati da Israele nel 1967 – la Cisgiordania, compresa Gerusalemme est, la Striscia di Gaza e le Alture del Golan, e più specificamente le colonie israeliane e gli avamposti costruiti nei Territori Palestinesi Occupati (TPO)2. Non affronta tutte le violazioni delle leggi internazionali e dei diritti dei palestinesi da parte di Israele.

Il fatto che la costruzione delle colonie israeliane si sia basata sullo sfruttamento economico dei TPO è stato ampiamente documentato. Ciò ha incluso la confisca di ampie zone di terra palestinese  e la distruzione di proprietà palestinesi per utilizzarle a scopi edilizi ed agricoli; la confisca di risorse idriche, al punto che 599.901 coloni utilizzano sei volte più acqua che tutta la popolazione palestinese della Cisgiordania, composta da 2.86 milioni di abitanti; l’appropriazione di luoghi turistici e archeologici; lo sfruttamento di cave, miniere, risorse del Mar Morto e di altre risorse naturali non rinnovabili dei palestinesi, come sarà argomentato in seguito.

Le colonie sono anche state agevolate da un sistema infrastrutturale di strade, di checkpoint e dal Muro di Separazione, portando alla creazione di bantustan isolati in Cisgiordania e all’appropriazione di altra terra palestinese.

In conseguenza di ciò attualmente le colonie israeliane controllano circa il 42% della terra della Cisgiordania. Questo dato comprende aree edificate così come i confini municipali delle colonie israeliane. Questi confini attualmente comprendono un’area 9,4 volte più ampia di quelle edificate nelle colonie della Cisgiordania e sono proibiti ai palestinesi che non hanno un permesso per accedervi.

La maggioranza delle colonie della Cisgiordania sono costruite nell’Area C, che rappresenta il 60% della Cisgiordania e che è molto ricca di risorse naturali3. Secondo uno studio della Banca Mondiale, il 68% dell’Area C è stato destinato alle colonie israeliane, mentre meno dell’1% è stato concesso all’utilizzo da parte dei palestinesi.

All’interno dell’Area C lo sfruttamento da parte delle colonie israeliane è concentrato nella Valle del Giordano e nella parte settentrionale del Mar Morto. Le colonie israeliane controllano l’85,2% di queste zone, che sono le terre più fertili della Cisgiordania. L’abbondante disponibilità di acqua e il clima favorevole forniscono le migliori condizioni per l’agricoltura. Di conseguenza producono il 40% delle esportazioni di datteri da Israele. Nel contempo i palestinesi hanno il divieto di vivere lì, costruire o persino pascolare il loro bestiame con il pretesto che si tratta di “terre statali”, di ” zona militare” oppure di “riserve naturali”.

Israele ricorre anche ad altri metodi per espellere i palestinesi dalle loro terre, distruggendo le case, proibendo la costruzione di scuole e ospedali e negando ai residenti l’accesso a servizi essenziali come l’elettricità, l’acqua e l’escavazione di pozzi. Al contrario, molte colonie sono definite “aree di priorità nazionale”, permettendo loro di ricevere incentivi finanziari dal governo israeliano nei settori dell’educazione, della salute, dell’edilizia, dello sviluppo industriale ed agricolo4.

I proventi israeliani derivanti dallo sfruttamento della terra palestinese e delle risorse della Valle del Giordano e dell’area settentrionale del Mar Morto sono stimati attorno ai 500 milioni di shekel all’anno (circa 118 milioni di euro). Per avere un’idea dell’impatto sull’economia palestinese, vale la pena di notare che i costi indiretti delle restrizioni imposte da Israele all’accesso palestinese all’acqua nella Valle del Giordano – e di conseguenza l’impossibilità di coltivare la loro terra – erano pari a  663 milioni di dollari [circa 616 milioni di euro. Ndtr.], l’equivalente dell’8,2% del prodotto interno lordo palestinese nel 2010.

Nel frattempo Israele continua a costruire nuove colonie. Netanyahu, durante il suo discorso all’US Center for American Progress [organizzazione liberal vicina ai Clinton e ad Obama. Ndtr.] in novembre, ha sostenuto che nessuna nuova colonia è stata edificata negli ultimi vent’anni. Di fatto 20 colonie israeliane sono state approvate durante i suoi mandati, tre delle quali erano avamposti illegali che sono state successivamente regolarizzate dal governo.

La manifestazione più recente della politica di colonizzazione israeliana è la ripresa della costruzione del Muro di Separazione nei pressi di Beit Jala in Cisgiordania, che di fatto separa gli abitanti del villaggio dalle terre coltivate di loro proprietà nella valle di Cremisan. Il percorso di questo tratto di Muro è stato disegnato per permettere l’annessione della colonia di Har Gilo, a sud di Gerusalemme, mettendola in collegamento con la colonia di Gilo, che si trova all’interno dei confini del Comune di Gerusalemme creati da Israele dopo l’inizio dell’occupazione, nel 1967.

Un’economia palestinese strangolata dalle colonie

La colonizzazione illegale da parte di Israele ha avuto decisamente un effetto profondamente negativo sull’economia palestinese. Il controllo israeliano su acqua e terra ha contribuito a ridurre la produttività del lavoro del settore agricolo ed il suo contributo al PIL: l’apporto di agricoltura,  settore forestale e della pesca è sceso dal 13,3% del 1994 al 4,7% nel 2012, ai prezzi attuali. Lo sversamento di rifiuti solidi e liquidi dalle zone industriali delle colonie nei TPO ha ulteriormente inquinato l’ambiente, la terra e l’acqua dei palestinesi.

L’accesso limitato alle cospicue risorse del Mar Morto ha impedito ai palestinesi di sviluppare il settore dei cosmetici e altre industrie, basate sull’estrazione di minerali. Uno studio della Banca Mondiale stima che se non ci fossero state restrizioni alla disponibilità di queste risorse, la produzione e la vendita di magnesio, potassio e bromo avrebbe comportato un valore annuo di 918 milioni di dollari [circa 844 milioni di euro. Ndtr.] per l’economia palestinese, l’equivalente del 9% del PIL nel 2011.

Le drastiche limitazioni nell’accesso alle miniere e alle cave nell’Area C ha anche ostacolato la possibilità per i palestinesi di estrarre ghiaia e pietre. Il valore lordo annuo stimato come perdita per l’economia palestinese per l’estrazione da cave e miniere è di 575 milioni di dollari [circa 529 milioni di euro. Ndtr.]. In totale, si stima che le limitazioni all’accesso ed alla produzione nell’Area C sono costate all’economia palestinese 3.4 miliardi di dollari [più di 3.1 miliardi di euro Ndtr.]. Come esaminato in un precedente documento di Al-Shabaka, Israele controlla persino l’accesso dei palestinesi al loro stesso campo elettromagnetico – una politica a cui contribuiscono le colonie –  creando perdite tra gli 80 ed i 100 milioni di dollari annui [dai 73 ai 92 milioni di euro. Ndtr.] per gli operatori palestinesi delle telecomunicazioni.

Inoltre l’assenza di contiguità territoriale all’interno della Cisgiordania, unita ad altre restrizioni israeliane al movimento ed all’accesso, ha frammentato la sua economia  in piccoli mercati non connessi tra loro. Ciò ha incrementato i tempi ed i costi di trasporto delle merci da una zona della Cisgiordania ad un’altra e dalla Cisgiordania al resto del mondo. In seguito a ciò, la competitività dei prodotti palestinesi sui mercati locali e internazionali è stata indebolita.

Oltretutto, poiché l’economia in Cisgiordania è stata viziata dall’imprevedibilità e dall’incertezza – il che non è sorprendente, in quanto l’area è sottoposta a un’occupazione militare –  il costo ed i rischi di fare impresa sono aumentati. Ciò ha peggiorato il clima per gli investimenti, limitato lo sviluppo economico e aumentato la disoccupazione e la povertà. Nel complesso si stima che il costo diretto ed indiretto dell’occupazione sia stato di circa 7 miliardi di dollari [6,4 miliardi di euro. Ndtr] nel 2010 – circa l’85% del PIL palestinese stimato5.

Spossessati: i lavoratori palestinesi nelle colonie israeliane

L’economia palestinese è stata quindi colpita da fragilità strutturali e settoriali che sono principalmente dovute all’occupazione israeliana e alla colonizzazione. L’espropriazione di terra, acqua e risorse naturali da parte delle colonie e il controllo restrittivo di Israele sui movimenti, l’accessibilità e altre libertà ha indebolito la base produttiva dell’economia, che non è più in grado di generare occupazione e investimenti sufficienti ed è sempre più dipendente dall’economia israeliana e dagli aiuti dall’estero.

Questa dura realtà economica è il fattore principale che porta alcuni palestinesi a lavorare nelle colonie israeliane – si stima che siano state solo il 3,2% del totale degli occupati della Cisgiordania nel terzo quadrimestre del 20156. Invece di essere auto-sufficienti proprietari dei mezzi di produzione, i palestinesi sono stati spossessati delle loro risorse economiche e dei loro diritti dall’occupazione militare e dalle colonie israeliane e sono stati trasformati in manodopera a basso costo.

Infatti la maggior parte dei lavoratori palestinesi nelle colonie è impiegata in lavoro di bassa qualifica e retribuzione: almeno la metà di loro è utilizzata nel settore edile. Ciò significa che meno del 2% del totale della popolazione palestinese occupata sarebbe colpita nel caso di chiusura delle industrie israeliane nelle colonie.

I lavoratori palestinesi nelle colonie sono sottoposti a condizioni di lavoro difficili e a volte pericolose, e si stima che il 93% di loro non abbia un sindacato che li rappresenti. Di conseguenza sono soggetti a licenziamenti arbitrari ed alla revoca del permesso di lavoro se rivendicano i propri diritti o cercano di sindacalizzarsi. Una ricerca del 2011 ha scoperto che la maggioranza dei lavoratori palestinesi avrebbe lasciato il proprio lavoro nelle colonie se avesse trovato un’alternativa nel mercato del lavoro palestinese.

Mentre si  sostiene che i lavoratori palestinesi nelle colonie ricevono un salario superiore a quello del mercato del lavoro palestinese, è il caso di notare che sono pagati in media meno della metà del salario minimo israeliano. Ad esempio a Beqa’ot, una colonia israeliana nella Valle del Giordano, i palestinesi sono pagati il 35% del salario minimo legale. E’ da notare che gli impianti di impacchettamento della Mehadrin, il più grande esportatore israeliano di frutta e verdura nell’UE, si trovano in questa colonia.

In breve, è proprio il colonialismo di insediamento israeliano che nuoce ai palestinesi, molto più che l’etichettatura da parte dell’UE dei prodotti delle colonie. Quello di cui i palestinesi hanno bisogno non è più lavoro nelle colonie o più dipendenza dall’economia israeliana. Piuttosto quello di cui i palestinesi hanno bisogno è lo smantellamento delle colonie israeliane, la fine dell’occupazione e la piena realizzazione dei loro diritti in base alle leggi internazionali. Solo allora potranno realmente migliorare la base produttiva dell’economia palestinese, generare opportunità di lavoro, garantirsi autonomia e auto-sufficienza e smettere di essere dipendenti dagli aiuti internazionali.

La distanza tra la retorica dell’UE e le sue azioni

E’ contro questo contesto che il ruolo dell’UE nei riguardi delle colonie israeliane deve essere messo in discussione. L’UE riconosce che le colonie israeliane costruite nei TPO sono illegali. La sua “Comunicazione Interpretativa” stabilisce chiaramente che l’UE, “in linea con le leggi internazionali, non riconosce la sovranità di Israele sui territori occupati da Israele dal giugno 1967.” Tuttavia l’UE continua ad importare beni dalle colonie israeliane (soprattutto frutta e verdura fresche coltivate nella Valle del Giordano) per un valore annuo stimato in 300 milioni di dollari [276 milioni di euro. Ndtr.]. E’ più di 17 volte il valore medio annuale dei prodotti esportati dai TPO nell’UE tra il 2004 e il 2014.

Nonostante la “Comunicazione Interpretativa”, rimane una grande discrepanza tra i discorsi dell’UE e le sue azioni, e la “Comunicazione” è insufficiente per adempiere agli obblighi legali dell’UE per varie ragioni. In primo luogo, non tutti i prodotti provenienti dalle colonie israeliane devono essere etichettati. Solo la frutta fresca e le verdure, il pollame, l’olio d’oliva, il miele, l’olio, le uova, il vino, i cosmetici e i prodotti organici sono soggetti all’indicazione obbligatoria dell’origine. Cibi pre-confezionati e prodotti industriali che non siano cosmetici sono soggetti solo all’indicazione volontaria dell’origine.

In più le imprese israeliane che operano nelle colonie possono facilmente aggirare l’etichettatura dei loro prodotti. Ad esempio, possono mettere insieme beni prodotti nelle colonie con altri prodotti in Israele per evitare che siano etichettati come “prodotti nelle colonie”. Possono utilizzare l’indirizzo di un ufficio all’interno dei confini di Israele internazionalmente riconosciuti come l’indirizzo ufficiale dell’impresa piuttosto che l’effettivo luogo di produzione. L’UE dovrebbe anche rilevare il fatto che le imprese che etichettano i propri prodotti come provenienti dalle colonie possono ricevere delle compensazioni dal governo israeliano per le eventuali perdite. Si stima che il bilancio dello Stato abbia destinato circa 2 milioni di dollari [1,8 milioni di euro. Ndtr.] ogni anno negli ultimi 10 anni per compensare le imprese israeliane delle colonie per le perdite cui devono far fronte a causa della fine del trattamento doganale di favore e di altre agevolazioni.

Nel contempo le stesse linee guida per l’etichettatura sono un’arma spuntata, in quanto “l’applicazione delle attuali disposizioni ricade sotto la responsabilità principale degli Stati membri”, come stabilisce la “Comunicazione Interpretativa” dell’UE. Cosa ancora più importante, limitandosi ad etichettare i prodotti provenienti dalle colonie e mantenendo al contempo relazioni commerciali e investimenti con queste ultime, l’UE sta in realtà continuando a finanziare l’espansione degli insediamenti ed a perpetuare l’occupazione israeliana, lo sfruttamento delle risorse naturali e l’appropriazione delle terre palestinesi –  una situazione illegale che l’UE sostiene di non “riconoscere”.

Inoltre, in chiara opposizione con quanto sostiene, l’UE intraprende progetti con imprese israeliane che sono profondamente coinvolte nelle colonie e nell’occupazione. Per esempio, l’UE ha approvato 205 progetti con la partecipazione israeliana a “Horizon 2020”, il più vasto programma di ricerca e innovazione dell’UE. Le imprese israeliane che vi partecipano comprendono Elbit, che è direttamente coinvolta nella costruzione degli insediamenti e del Muro; le Israel Aerospace Industries [industrie aerospaziali israeliane], che forniscono i macchinari necessari per la costruzione del Muro; l’università Technion, che lavora con il complesso militare israeliano. Banche europee sono anche legate a banche israeliane che forniscono mutui ipotecari ai coloni, finanziano le autorità israeliane nelle colonie e nella costruzione di insediamenti che godono del sostegno da parte dello Stato e altre attività economiche che promuovono la colonizzazione.

Pertanto la “Comunicazione Interpretativa” dell’UE sembra essere principalmente un atto simbolico, attraverso il quale [l’UE] risponde solo formalmente alla crescente richiesta della società civile europea, sempre più favorevole al movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) guidato dai palestinesi,  che vuole che essa rispetti i propri regolamenti e che Israele sia chiamato a rendere conto delle proprie azioni. In base alle leggi internazionali gli Stati terzi sono obbligati a non riconoscere come lecita una situazione illegale, a non fornire alcun tipo di assistenza per mantenere una situazione illegale e a collaborare per garantire che Israele rispetti le leggi umanitarie internazionali. In altre parole, l’UE e i suoi Stati membri dovrebbero fare quanto possibile per porre fine alla colonizzazione da parte di Israele.

Come l’UE potrebbe rispettare meglio la legge

L’UE dovrebbe iniziare a trasformare le sue parole in misure concrete per rendere Israele responsabile, istituendo un blocco totale su ogni attività economica, finanziaria, commerciale e di investimenti diretta o indiretta con le colonie israeliane, seguendo le orme di Copenhagen, Reykjavik e recentemente Amsterdam. Come raccomandato poco tempo fa in un rapporto del Consiglio Europeo delle Relazioni Estere [centro studi paneuropeo, i cui membri sono ex-ministri degli esteri, imprenditori, intellettuali ed attivisti, il cui scopo è promuovere il dibattito e favorire una politica estera efficace fondata sui valori europei. Ndtr.], dovrebbe anche sospendere le relazioni finanziarie con le banche israeliane, soprattutto quelle che finanziano l’occupazione e la costruzione delle colonie. In più, da parte loro gli Stati membri dell’UE dovrebbero cessare ogni relazione con le colonie israeliane.

Va qui osservato che l’UE è il principale partner commerciale di Israele, con scambi totali attorno ai 30 miliardi di euro nel 2014, che rappresentano circa il 33% del totale delle esportazioni israeliane di beni e servizi nel 20147. Il commercio dell’UE con le colonie israeliane rappresenta meno dell’1% del commercio dell’UE con Israele. Una iniziativa seria da parte dell’UE avrebbe un impatto consistente sulla colonizzazione israeliana e sulla prolungata occupazione militare.

Oltre a passare dall’etichettatura dei prodotti delle colonie a porre fine ad ogni relazione con gli insediamenti israeliani, i Paesi europei dovrebbero prendere in considerazione un embargo di tutti i prodotti israeliani. Fin da quando l’UE ha riconosciuto che il controllo di Israele sui TPO è una situazione di occupazione – un’occupazione militare che dura da circa 50 anni – avrebbe dovuto affrontare le cause profonde dell’occupazione, cioè la politica del governo israeliano, piuttosto che solo il suo effetto, ossia le colonie.

Per esempio, nel caso dell’apartheid in Sud Africa, un boicottaggio concentrato solo sugli affari che riguardavano le township non avrebbe avuto un grande effetto sul sistema di apartheid. Allo stesso modo, boicottare solo i prodotti degli insediamenti israeliani avrebbe un impatto molto minore che boicottare il sistema concreto che sta organizzando la colonizzazione dei territori per fare pressione su Israele perché ponga fine all’occupazione. Per questo è importante vietare ogni prodotto israeliano e non solo quelli delle colonie. Un simile passo prenderebbe di mira, tra le altre cose, l’inganno israeliano riguardo all’origine dei prodotti e delle materie prime che provengono dagli insediamenti. E’ difficile controllare, a meno che siano realmente boicottate le imprese e non solo i loro beni e servizi. In effetti molte delle imprese che lavorano nelle colonie provengono da Israele piuttosto che dai territori del 1967.

Gli appelli per un boicottaggio totale stanno aumentando e trovando adesioni in luoghi imprevisti. Per esempio, due docenti universitari statunitensi hanno recentemente sostenuto in un editoriale sul ” Washington Post” che boicottare solo i prodotti delle colonie “non avrebbe un impatto sufficiente”. Hanno invece proposto “un ritiro dell’aiuto e del supporto diplomatico USA e il boicottaggio e il disinvestimento dall’economia israeliana” per modificare i piani strategici di Israele.

Per la Palestina, un simile divieto aiuterebbe a proteggere i prodotti palestinesi, aumenterebbe la loro competitività e aiuterebbe in futuro a rafforzare la capacità dell’economia palestinese di integrarsi con quella internazionale, una volta che la libertà sia garantita. Il boicottaggio di tutti i prodotti ed i servizi israeliani sarebbe un modo efficace per dare la possibilità ai palestinesi di sconfiggere il colonialismo israeliano. Ciò sarebbe molto più efficace che fornire assistenza per lo sviluppo a settori specifici e risponderebbe direttamente alla richiesta del popolo palestinese di libertà e diritti umani.

Note:

  1. Le autrici ringraziano l’ufficio Palestina/Giordania della fondazione Heinrich-Böll per la cooperazione e la collaborazione con Al-Shabaka in Palestina. Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità delle autrici e non riflettono necessariamente l’opinione della fondazione Heinrich-Böll.
  2. Gli avamposti delle colonie sono costruiti senza l’autorizzazione ufficiale del governo israeliano. Tuttavia ricevono supporto finanziario da ministeri, agenzie governative, fondazioni locali ed internazionali e da privati (soprattutto dagli USA). Spesso Israele dopo un certo lasso di tempo li “legalizza”.
  3. In base agli accordi di Oslo, la Cisgiordania è stata divisa provvisoriamente in Area A, che dovrebbe essere sotto il controllo dell’Autorità Nazionale Palestinese ma è sottoposta a frequenti incursioni militari israeliane, Area B, sotto controllo condiviso di israeliani e palestinesi, ed Area C, sotto controllo esclusivo di Israele. Questo periodo provvisorio è scaduto nel maggio 1999.
  4. Per maggiori informazioni vedi “Trading Away Peace: How Europe helps sustain illegal Israeli settlements.” [“Vendere la pace: come l’Europa aiuta a sostenere le illegali colonie israeliane “]
  5. I costi diretti sono i costi supplementari sostenuti dai palestinesi in conseguenza delle restrizioni imposte dagli israeliani all’accesso ed al movimento, compresi i maggiori costi dell’acqua e dell’elettricità. I costi indiretti sono le perdite di entrate provenienti dalla produzione che i palestinesi avrebbero potuto fare se non ci fossero state queste limitazioni da parte israeliana. Un esempio di costi indiretti è rappresentato dal valore aggiunto dell’estrazione delle risorse del Mar Morto.
  6. In base all’inchiesta sulla forza lavoro realizzata nel novembre 2015 dal PCBS [Palestinian Central Bureau of Statistics, istituzione ufficiale del governo palestinese. Ndtr.], nel periodo luglio-settembre 2015 il numero di lavoratori palestinesi nelle colonie israeliane in Cisgiordania era di 22.100, su un totale di 674.900 lavoratori in Cisgiordania.
  7. Da confrontare con il commercio dell’UE con i TPO, che nel 2014 è stato di circa 154 milioni di euro.

(Traduzione di Amedeo Rossi)




I giovani palestinesi soffrono di un continuo disagio, l’occupazione israeliana.

Parlando di Terza Intifada, i palestinesi con meno di 30 anni discutono su chi vedono alla testa delle ultime violenze.

Al Jazeera

Mentre le prime pagine dei media si concentrano sui drammatici attacchi all’arma bianca da parte di palestinesi e israeliani, gli uni contro gli altri, contemporaneamente nelle ultime settimane migliaia di giovani palestinesi sono scesi in strada in Israele, a Gerusalemme est, in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza per chiedere la fine della pluridecennale occupazione israeliana, per protestare contro le violenze delle forze di sicurezza israeliane e dei coloni e per chiedere il riconoscimento dei loro diritti umani.

Ovviamente gli accoltellamenti sono una novità, mentre le proteste sono di lunga data – tranne per il fatto che oggi coinvolgono una nuova generazione di palestinesi, quelli che sono cresciuti nell’epoca del processo di pace di Oslo e delle conseguenti frustrazioni e fallimenti. Come le proteste della prima Intifada nel 1987, alcune delle manifestazioni di oggi sono pacifiche, mentre altre si sono trasformate in scontri con le forze di sicurezza israeliane.

Mentre i veterani palestinesi e gli analisti affrontano la questione se gli attuali avvenimenti presentino le caratteristiche di una nuova intifada, Al Jazeera si è messa in contatto con un certo numero di palestinesi con meno di 30 anni in tutta la regione. Abbiamo posto loro due domande:

1) Chi pensi che diriga l’attuale rivolta?

2) Se queste proteste e questi scontri continueranno, come ti aspetti che risponderanno le forze di sicurezza israeliane, i coloni e l’Autorità Nazionale Palestinese?

Alcune delle loro risposte sono state tradotte dall’arabo, altre sono state espresse in inglese ma sono state corrette.

Lema Nazeeh

Avvocata di 27 anni di Ramallah, Cisgiordania

Questa sollevazione popolare è spontanea e chi la guida è la nuova generazione – soprattutto studenti medi ed universitari. Questa volta siamo scesi in strada e abbiamo raddoppiato la resistenza ovunque, a cominciare da Gerusalemme fino alla Cisgiordania e a Gaza. Stanno partecipando anche i palestinesi che vivono nei territori del ’48 [in Israele]. Il messaggio della nuova generazione è che la Palestina sarà libera e che siamo determinati a porre fine all’occupazione e al terrorismo dei coloni in Cisgiordania e a Gerusalemme.

Per continuare, abbiamo bisogno di creare un comitato unitario in cui il popolo si possa organizzare e dirigere il movimento al di fuori dell’establishment politico.

I palestinesi di qualunque parte devono essere uniti nella resistenza contro l’occupazione – manifestando a Gaza, Gerusalemme, Haifa, Ramallah, Betlemme, Yaffa ed Hebron. Finché continuerà l’occupazione dobbiamo continuare a resistere per una vita di libertà e dignità.

Le forze di sicurezza israeliane ed i coloni continueranno con la loro violenza e il terrorismo contro di noi, ma noi, il popolo, abbiamo una sola voce, che il governo israeliano, i gruppi sionisti e i membri della comunità internazionale complici dei crimini israeliani contro i palestinesi non potranno mai far tacere. Non è il momento di aver paura.

Fadi Salah Al Shaik Yousef

28 anni, specialista in sviluppo infantile a Gaza City, Gaza

Questa intifada popolare, che non è organizzata né diretta da nessuna autorità, è una reazione normale a tutti gli anni di ingiustizia, di crimini e di umiliazioni perpetrati da Israele contro il popolo palestinese. Considerando il grande numero di palestinesi uccisi e feriti per mano delle forze di sicurezza israeliane si tratta di una reazione assolutamente normale.

Queste proteste e questi scontri accadono perché il popolo palestinese ha perso ogni speranza nei propri dirigenti, persino nell’umanità. Abbiamo scoperto che le soluzioni pacifiche non stanno portando alla fine dell’occupazione – per cui dobbiamo continuare a resistere.

La gente di Gaza ormai non ha più niente da perdere, per cui siamo pronti ad aiutare in ogni caso la Cisgiordania. Noi marciamo fino alla frontiera con Israele e protestiamo per dire ai nostri fratelli in Cisgiordania che siamo solidali con loro e respingeremo ogni attacco israeliano contro di loro.

Israele e l’Autorità Nazionale Palestinese possono tentare di controllare la situazione, ma non ci riusciranno. Nessuno lo può fare. E’ anche difficile prevedere dove porterà tutto questo. Siamo abituati al fatto che Israele commetta dei crimini e poi faccia la parte della vittima. Non mi aspetto che questo cambi. Da parte sua l’Autorità Nazionale Palestinese deve cessare ogni forma di coordinamento in materia di sicurezza con l’occupante.

Come questo finirà dipenderà dalla volontà del popolo e dal livello di sostegno diretto o indiretto che riceveremo dalle varie fazioni palestinesi.

Nadine Khoury

16 anni, studentessa di scuola superiore a Taybeh, in Cisgiordania

Vorrei puntualizzare che questo non sta succedendo solo da una settimana. Ho vissuto qui in Palestina da circa tre anni e mezzo e mi sono resa conto che questi atti inumani sono molto comuni nella vita palestinese (il che non li rende meno tragici).

Penso effettivamente che i palestinesi stiano cercando di iniziare una terza intifada perché ne hanno abbastanza di vivere accanto a questa gente che continua a prendersi la loro terra, a uccidere i loro figli ed hanno realmente il coraggio di fare e giustificare tutto ciò. Tuttavia, anche se sono d’accordo che una terza insurrezione può essere la nostra unica possibilità di liberarci dell’occupazione israeliana, non penso che ora sia il momento migliore. I palestinesi non hanno la tendenza a pensare ed agire tutti insieme, per cui, finché non troveranno un’unità, personalmente non penso che ci sarà un’intifada. Vivendo in Palestina, posso notare la brutalità da ambo le parti per cui, per il momento, non vedo che la situazione si possa calmare  a breve.

Se e finché questi scontri continueranno, credo che le forze di sicurezza israeliane ed i coloni seguiteranno ad usare la forza, in ogni modo possibile, per reprimere una terza intifada. Israele vuole solo mantenere il controllo sul popolo palestinese e sulla indebolita Autorità Nazionale Palestinese. So che il popolo palestinese continuerà a lottare ardentemente per la propria terra, i propri diritti e la propria libertà. Una kefiah (hatta, copricapo palestinese, ndt.) e una pietra non sono niente rispetto a un giubbotto antiproiettile e a un cecchino. Purtroppo è una lotta impari e il mondo sta a guardare quello che succede.

Omar Daraghmeh

27 anni, traduttore a Tubas, Cisgiordania

La recente violenza è il risultato dell’assenza di un qualunque orizzonte politico tra i palestinesi e le autorità d’occupazione israeliane a causa della continua aggressione israeliana (dell’esercito e dei coloni) contro i palestinesi in generale e la profanazione della sacra moschea di Al-Aqsa in particolare.

Le tensioni spariranno e la tranquillità verrà gradualmente ripristinata a meno che la più ampia maggioranza della popolazione palestinese si unisca alla sollevazione, sopratutto i gruppi armati palestinesi nei campi di rifugiati della Cisgiordania o nella Striscia di Gaza sotto assedio.

Ci si aspetta che Israele scateni una guerra contro Gaza mentre darà mano libera ai coloni e chiuderà Gerusalemme e la Cisgiordania e intensificherà la campagna di arresti.

D’altra parte l’Autorità Nazionale Palestinese se ne verrà fuori con le sue inutili dichiarazioni, terrà qualche “riunione d’emergenza” e chiederà una “protezione internazionale” per i palestinesi mentre contemporaneamente reprimerà ogni protesta palestinese contro l’occupazione.

Tarek Bakri

29 anni, ingegnere e ricercatore a Gerusalemme

Forse quello che è successo alla moschea di Al-Aqsa ha spinto molti altri a partecipare alla rivolta, ma la vedo come qualcosa di più grande. Riguarda l’occupazione e le sue politiche. A un certo punto crediamo che ci sia  una parte che sta eliminando l’altra. Gli israeliani stanno portando avanti una sorta di lenta pulizia etnica a Gerusalemme  attraverso esecuzioni immediate e seminando la paura per fare in modo che i palestinesi lascino la città. Israele vuole che Gerusalemme abbia una maggioranza ebraica.

Non possiamo rimanere in silenzio di fronte a queste umiliazioni quotidiane. Succederà che i palestinesi alzeranno il livello della resistenza. Nel frattempo aumenterà la violenza dei coloni. Ma le forze di sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese rimarranno a guardare.

Raya Shamali

17 anni, studentessa di scuola superiore ad Arraba, Israele

La tensione tra le due parti è sempre stata  alta ed ogni tanto qualcosa la scatena e la rende più evidente. L’attuale situazione sta portando a scontri ancora peggiori tra i sionisti e i palestinesi e tra i cittadini palestinesi di Israele e il governo.

Ciò che sta avvenendo ora, i giovani palestinesi che lottano contro l’occupazione, è simile a quello che è successo nella seconda intifada, durante la quale questa generazione è cresciuta. Purtroppo è probabile che ciò porti a molti morti da entrambe le parti e colpisca in tutti gli ambiti della vita.

Finché le proteste continuano, mi aspetto che le forze di sicurezza israeliane continueranno nella repressione e nel razzismo verso i palestinesi. Mi aspetto anche che i coloni israeliani intervengano in modo più deciso.

E’ difficile dire cosa faranno le forze di sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese. O cercheranno di porre fine a quello che stanno facendo quelle israeliane, cosa che ci potrebbe portare a una guerra, o reprimeranno i manifestanti in modo che la situazione non diventi ancora peggiore.

Mustafa Staiti

29 anni, fotografo cinematografico a Jenin, Cisgiordania

Per la mia generazione – nata a metà degli anni ’80 durante la prima rivolta e che ha vissuto la seconda in tutti i suoi aspetti – è più facile avere un’opinione su quando tutto ciò diventerà quello che chiamiamo intifada. Una nuova azione può obbligare il mondo a trovare una soluzione finale per i palestinesi, o terminare con un altro disastro ad aggiungersi alla pulizia etnica a danno dei palestinesi. Quelli che scendono in strada adesso sono di una generazione più giovani di me. Sono nati nel culmine della violenza durante la seconda intifada – sono arrabbiati, senza paura e non gli importa quello che gli possa succedere. Non hanno niente da perdere; hanno sempre vissuto in guerra.

L’Autorità Nazionale Palestinese è instabile perché è legata ad accordi che dovrebbe mandare al diavolo, ma ciò porterebbe a una divisione o ad una violenza tra palestinesi. Israele cercherà di occupare più terra e continuerà ad usare la mano pesante. I coloni saranno i più soddisfatti se l’esercito israeliano invaderà la Cisgiordania e se si avanzerà verso l’idea di un unico Stato di Israele [compresi i Territori Occupati].

Mariam Barghouti

22 anni, studentessa universitaria a Ramallah, Cisgiordania

Credo ci sia una grande discrepanza tra il dibattito in corso all’estero sul fatto  se questa sia una terza intifada o no e la realtà sul terreno, dove questa discussione appare insensata. Al di là delle etichette, i giovani palestinesi stanno esprimendo il proprio malessere contro l’aggressione israeliana e i fallimenti della dirigenza palestinese per trovare una concreta soluzione per il popolo palestinese.

La grande maggioranza dei giovani che scendono in piazza ha tra i 13 e i 27 anni. E’ importante notarlo perché questa è la generazione di Oslo. E’ una generazione che non conosce una realtà oltre il muro dell’apartheid o le tattiche repressive dell’Autorità Nazionale Palestinese. Quello a cui stiamo assistendo non sono solo casuali atti di violenza, questa frustrazione ha infettato il popolo palestinese ormai da anni, stiamo lentamente implodendo. Piccoli atti di protesta in Cisgiordania, razzi da Gaza, scontri nella Palestina storica [Israele], tutto questo va a braccetto. Non possiamo decontestualizzare la situazione attuale dal passato. Ogni reazione è stata preceduta da un’azione, sia che si tratti del progressivo aumento dell’aggressione israeliana o della repressione da parte dell’Autorità Nazionale Palestinese. Non è solo uno scontro  nei confronti dell’aggressione israeliana, ma un messaggio all’Autorità Nazionale Palestinese che si creerà una rivolta se continueranno la normalizzazione dell’occupazione, tenendo tranquillo Israele grazie al coordinamento per la sicurezza, pretendendo contemporaneamente di parlare in nome dei palestinesi.

Questo è un momento cruciale, in cui i giovani diventano protagonisti. Le voci che erano rimaste assenti dalle politiche israelo-palestinesi stanno erompendo attraverso il suono di cori, pietre, accoltellamenti e qualunque altro metodo disponibile. Non si può dire dove finirà tutto ciò, ma non credo che adesso sia importante. La situazione potrebbe benissimo terminare con l’aiuto dell’Autorità Nazionale Palestinese, succube di Israele; oppure l’escalation potrebbe continuare ad aumentare finché formeremo una dirigenza dal basso che possa iniziare a formulare delle richieste. Comunque il messaggio chiaro è che per ogni azione c’è una reazione e questa è la reazione della gioventù palestinese al  fallimento dei negoziati e alle continue aggressioni israeliane.

Finché gli scontri continueranno da parte dei giovani palestinesi, le forze di sicurezza israeliane risponderanno nell’unico modo che conoscono, cioè con la violenza. E’ insito nella loro struttura coloniale opprimere e opporsi ad ogni forma di resistenza palestinese. E’ una tattica istituzionalizzata e non una reazione alle manifestazioni palestinesi. Le vite dei coloni sono state turbate dai palestinesi, non si sentono più a loro agio nella loro opera di colonizzazione e ciò potrebbe avere uno di questi due risultati, potrebbero accentuare  la violenza contro i palestinesi (come vediamo attualmente), o capire che la colonizzazione non gli conviene economicamente o socialmente e questo potrebbe obbligarli a voler lasciare le loro colonie. La differenza tra i giovani palestinesi e i coloni israeliani è che i giovani palestinesi non hanno dietro di loro un appoggio, si sostengono uno con l’altro. D’altra parte i coloni hanno il sostegno dell’esercito israeliano e naturalmente del sistema giudiziario israeliano, che non li incolperà né li condannerà per le continue violenze perpetrate contro i palestinesi.

Quanto alle forze di sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese, non agiranno senza un ordine della dirigenza dell’Autorità Nazionale Palestinese. Attualmente stanno permettendo ai giovani palestinesi di scontrarsi con le forze di sicurezza israeliane non per un sincero appoggio al popolo palestinese, ma perché stanno attenti a che la rabbia  in piazza non si rivolga contro di loro. D’altro canto ho detto “permettono” ai giovani, perché l’Autorità Nazionale Palestinese ha ancora il potere di placare l’ira dei giovani che scendono in strada. Il silenzio dell’Autorità Nazionale Palestinese potrebbe benissimo essere un metodo per lasciare che i giovani che manifestano si stanchino invece di cercare di tranquillizzare le masse come fanno di solito. Quello che è orribile comunque è la possibilità che l’Autorità Nazionale Palestinese utilizzi lo spirito dei giovani in piazza come una merce di scambio con Israele per rafforzare la propria legittimità in Cisgiordania come l’unica autorità in grado di ottenere la calma e controllare le masse palestinesi e obbligare Israele a tornare al tavolo dei negoziati.

Stilato da Renee Lewis, Ehab Zahriyeh, Nadeem Muaddi e Nadia AbuShaban

(Traduzione di Amedeo Rossi)




È ora che la FIFA mostri ad Israele il cartellino rosso

Israele griderà allo scandalo, ma la sua sospensione dalle gare internazionali di calcio potrebbe realmente portare ad un cambiamento del gioco.

di Gideon Levy

17 maggio, 2015 | Haaretz

Fin dall’inizio va detta la verità: spero che Israele sia sospesa dalla FIFA . Il 29 maggio, potrebbero fare una mossa che cambierebbe il gioco. Potrebbe iniziare una reazione a catena di cui sarebbe difficile prevedere l’esito. Se la Federazione internazionale mostrasse a Israele il cartellino rosso, come chiedono i palestinesi, vorrebbe dire che il calcio metterebbe in moto il processo del cambiamento.

Vorrebbe dire che è arrivato finalmente il momento per Israele di pagare per i crimini della sua occupazione. Che gli israeliani comincino ad essere penalizzati per quello che è stato fatto in loro nome, con il loro coinvolgimento, con la loro approvazione e con il loro appoggio finanziario. Che stracciare continuamente il diritto internazionale da parte di Israele – in modo arrogante e burlandosene volgarmente – ha un prezzo. Quale migliore prezzo se non impedire ad Israele di partecipare alle competizioni internazionali di calcio fino a quando non cambierà la sua condotta? Ha funzionato benissimo nel passato con il Sud Africa, il mentore di Israele in parecchi ambiti – il boicottaggio internazionale degli sport dell’apartheid è stato uno degli elementi decisivi che hanno portato alla caduta del regime – e può funzionare egualmente con Israele.

La prima risposta alla decisione di sospendere Israele sarà ovviamente da parte sua gridare allo scandalo, assumendo il ruolo della vittima, serrando le fila e lanciando il contrattacco: vedete cosa ci stanno facendo, quegli antisemiti, quella gente che odia Israele; siamo una nazione rimasta sola, tutto il mondo è contro di noi! Naturalmente useranno la memoria dell’olocausto. I politici e gli intrallazzatori proveranno a superarsi a vicenda con affermazioni indignate . Il capo dell’Unione Sionista on. Isaac Herzog proclamerà che in un simile caso, non vi sarà differenza tra l’opposizione e la coalizione [di governo] ma un solo popolo. Israele dichiarerà illegale con la forza il calcio palestinese con una direttiva generale dell’IDF [l’esercito israeliano n.d.t.]: ogni ragazzo con un pallone verrà arrestato; forse lo stadio di Gaza verrà bombardato in base al fatto di essere un deposito di armi; l’ufficio a Ramallah di Jibril Rajoub presidente della federazione calcio palestinese verrà devastato (non per la prima volta).

La Repubblica Ceca e il Canada proporranno partite amichevoli con Israele; Shimon Peres organizzerà una partita tra la Micronesia e la Palestina.

Ma pochi mesi dopo ciò, asciugate le lacrime e in preda allo scoraggiamento, privati di [partecipare ] alle gare internazionali di calcio e senza un prospettiva diplomatica internazionale, sorgeranno le domande e i dubbi. Cosa potrà fare Israele per finire di commettere ingiustizie? Perché ha fatto veramente tutto quello? E, soprattutto, ne valeva la pena? Vale la pena continuare l’occupazione e pagarne il prezzo, che continuerà solamente a crescere? Vale la pena essere messi al bando per le colonie di Itamar e Yitzhar?

Le sanzioni e i divieti non si fermeranno a Zurigo: la FIFA fischierà l’inizio del gioco che in qualche parte del mondo stanno proprio aspettando.

Allora ,quando il prezzo sarà insopportabile, un numero sempre maggiore di israeliani si sveglierà dall’ indifferenza. Non c’è speranza che lo facciano prima: non hanno nessuna ragione per farlo – stanno bene, la società chiude gli occhi, [funziona] il lavaggio del cervello.

Una sanzione al calcio non uccide nessuno. Non si versa sangue con il boicottaggio. È un’arma legittima per realizzare la giustizia e applicare il diritto internazionale. Israele ha sostenuto e sostiene il boicottaggio e lo favorisce: contro Hamas, contro Gaza e naturalmente contro l’Iran. Ha perfino aderito al boicottaggio del Sud Africa sebbene [fosse] a dispetto di se stesso. Ora è arrivato il suo turno.

Qualcuno può confutare che il cartellino giallo è stato mostrato un numero infinito di volte e che [Israele] ha continuato come se nulla fosse accaduto? Non andrebbe mostrato il cartellino rosso per tenere imprigionati milioni di gazawi compresi i giocatori di calcio?

Si ricorda il presidente della FIFA Sepp Blatter a Ramallah di avere pronosticato al campo Al-Amari un futuro brillante al giocatore di calcio Mohammed al Qatari , studente dell’Accademia di calcio Blatter? Ha saputo che Qatari è stato ucciso da una pallottola dell’IDF dritto nel petto da una distanza di 70 metri mentre protestava contro l’ultima guerra a Gaza? Non è questo un crimine?

Israele sta assumendo un atteggiamento diplomatico di stupore e di offesa cercando senza posa di prevenire la nefasta decisione. Potrebbe perfino anche questa volta cavarsela. Ma non è arrivato il momento che ci domandiamo ancora per quanto?

Gideon Levy twitta a @levy_haaretz




La Lista Unitaria nelle elezioni israeliane: i palestinesi sono di nuovo in gioco?

Di Diana ButtuAs’ad GhanemNijmeh AliAl-Shabaka

11 marzo 2015

Sintesi

La Lista Unitaria lanciata il 14 febbraio 2015 da quattro partiti politici largamente rappresentativi dei cittadini palestinesi di Israele dovrebbe ottenere un numero di seggi sufficiente a rappresentare il terzo maggiore partito della Knesset [il parlamento israeliano]. Ma ciò potrà mettere in discussione lo status di cittadini di serie B dei palestinesi- israeliani?

Potrà impedire la rapida erosione dei diritti che ancora gli rimangono, se il razzismo apertamente dichiarato dall’attuale coalizione di destra al potere continuerà ad essere stabilito per legge? Ciò rappresenta la rinascita di un senso collettivo d’identità e d’azione? E’ tutto da valutare. Gli analisti di Al-Shabaka Diana Buttu, As’ad Ghanem e Nijmeh Ali, essi stessi cittadini palestinesi di Israele, sostengono diverse prospettive analizzando le sottostanti linee di faglia così come i problemi e le potenzialità della Lista Unitaria, indipendentemente da quelli che saranno i suoi risultati.

Diana Buttu: i partiti palestinesi si disintegreranno?

I palestinesi in Israele hanno a lungo parlato della necessità di una Lista Unitaria per rivendicare i loro diritti. Nonostante le differenze politiche tra i partiti socialista, nazionalista e islamico, essi non presentano divergenze riguardo ai diritti dei palestinesi in Israele: vogliono porre fine alle leggi razziste e all’occupazione militare dei territori palestinesi, e storicamente hanno votato allo stesso modo alla Knesset.

Tuttavia la coalizione non è stata formata per rispondere a una visione condivisa riguardo ai problemi che i palestinesi devono affrontare o alle richieste dell’opinione pubblica [palestinese]. Al contrario, la Lista Unitaria è stata creata come risposta ad altri due fattori. In primo luogo, la Knesset, con una mossa in seguito approvata dalla corte di giustizia, ha alzato la soglia di sbarramento dal 2% al 3,25%. Posti di fronte alla prospettiva di scomparire, era interesse di ogni partito formare una lista unica. In secondo luogo, c’è stato un calo nell’appoggio ai partiti politici palestinesi, non solo nell’affluenza alle urne per le elezioni nazionali: nemmeno uno dei partiti politici palestinesi è riuscito ad ottenere una vittoria nelle elezioni municipali benché a livello locale il tasso di votanti sia ancora alto.

Il calo nell’appoggio alla rappresentanza al parlamento israeliano è probabilmente il risultato della crescente convinzione che la presenza di partiti politici palestinesi legittimi le azioni della Knesset. Oltretutto si avanza la critica secondo cui i partiti politici non stanno promuovendo i diritti dei palestinesi in Israele né lottando contro il crescente razzismo nel Paese.

Anche se la Lista Unitaria dovesse imporsi come terzo o quarto partito alla Knesset, in base ai sondaggi, l’efficacia della lista rimarrebbe in dubbio. E’ opinione diffusa che avere più seggi alla Knesset implichi un maggior potere politico, sia partecipando ad una coalizione di governo che facendo parte di un’opposizione efficace. Tuttavia né il Campo Sionista [alleanza tra il Partito Laburista ed il partito centrista di Tzipi Livni, ex ministro di Netanyahu. N.d.tr.] – che ha appoggiato la revoca dei privilegi parlamentari [ Libertà di spostamento dal paese, passaporto diplomatico, sostegno finanziario per spese giudiziarie.  N.d.tr.] della dirigente politica palestinese Haneen Zoabi [parlamentare arabo-israeliana che ha partecipato alla Freeedom Flottilla. N.d.tr.]- né il Likud hanno alcun interesse nel formare una coalizione con la Lista Unitaria.

Allo stesso tempo non è nell’interesse della Lista Unitaria entrare a far parte di una coalizione con qualunque partito sionista, in quanto sostenitore della supremazia del sionismo e dei diritti degli ebrei al di là della nozione di uguaglianza e democrazia. Certo sarebbe impossibile per la lista far parte di una coalizione con partiti che appoggino leggi razziste, la colonizzazione della Cisgiordania, l’assedio e gli attacchi a Gaza, mentre dovrebbero supportare queste politiche come ministri di un governo o come alleati in una coalizione. Quindi i partiti che hanno formato la Lista Unitaria rischiano di rimanere quello che sono stati prima di unirsi: piccoli partiti che lottano contro il razzismo nel ventre della balena.

Inoltre i partiti politici palestinesi dovranno continuare a respingere l’ondata di disillusione nei confronti del sistema politico israeliano e la sensazione che esso serva semplicemente a legittimare il razzismo di Israele. Anche se la Lista Unitaria riuscisse ad portare ad un aumento dell’affluenza [dei cittadini arabo-israeliani] al voto in queste elezioni, dovrebbe anche lottare contro l’eventuale disintegrazione dei partiti che la compongono, se non potessero soddisfare le aspettative dei loro elettori nello sfidare le politiche dell’apartheid israeliano nei confronti dei palestinesi che vivono in Israele e sotto l’occupazione militare [in Cisgiordania].

As’ad Ghanem: un’uscita dalla marginalità?

L’attivismo politico dei cittadini palestinesi in Israele è sempre stato inteso come sinonimo di soluzione del conflitto israelo-palestinese, di fine dell’occupazione dei territori palestinesi e di risoluzione della questione dei rifugiati. Questa convinzione è stata rafforzata dopo che sono stati firmati gli accordi di Oslo nel 1993 e l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) è stata fondata come nucleo politico per la transizione dall’occupazione alla creazione di uno Stato palestinese indipendente.

Da allora gli sviluppi – compresa la frattura all’interno del movimento nazionale palestinese, la fine di fatto della soluzione dei due Stati e il crescere dell’estremismo israeliano – sono stati accolti passivamente dagli gruppi politici palestinesi in Israele, che rimangono legati all’illusione di una soluzione politica per alleviare le loro difficoltà in quanto vittime del conflitto. In breve, accettano lo status subordinato di “giocatori di riserva” – nella migliore delle ipotesi – nel movimento nazionale palestinese.

Infatti la maggioranza dei dirigenti politici crede che le loro questioni interne [in Israele] siano secondarie nel contesto di una più ampia lotta palestinese. Accettano le palesi interferenze dei leader del movimento nazionale palestinese – persino su come utilizzare i loro voti in quanto cittadini israeliani per influire sui governanti israeliani. Un altro esempio della loro subordinazione riguarda l’accettazione dei finanziamenti dagli Stati arabi del Golfo. Cosa ancora più importante, accogliendo la soluzione dei due Stati – uno ebreo e l’altro arabo – come stabilito nel 1947 dal piano di ripartizione delle Nazioni Unite, hanno accettato di essere cittadini di serie B nello Stato ebraico.

L’accettazione della loro condizione di marginalità ha trovato la sua espressione nel programma elettorale della Lista Unitaria. Invece di fare uno sforzo per stilare un vero programma d’azione per lottare contro le attuali sfide che la comunità palestinese in Israele deve affrontare, la lista ha semplicemente fatto un copia-e- incolla delle posizioni dei partiti che ne fanno parte nelle scorse elezioni. In particolare il programma della Lista Unitaria appoggia la fine dell’occupazione e la formazione di uno Stato palestinese. Il preambolo dichiara che la lista “è stata formata per consolidare l’unità contro il razzismo e per potenziare il peso e l’influenza delle masse arabe e di tutte le forze contrarie all’occupazione ed al razzismo.” Non c’è una sola parola a proposito del ruolo dei palestinesi in Israele in quanto palestinesi. Al contrario, ci si focalizza sul loro ruolo in quanto israeliani. Ciò dimostra chiaramente che i partiti politici palestinesi accettano di essere i giocatori di riserva nel movimento nazionale palestinese.

Invece i successivi governi israeliani, soprattutto i due governi del primo ministro Benjamin Netanyahu, hanno aiutato a spingere verso l’unità palestinese ponendo fine all’illusione della soluzione dei due Stati e promovendo l’ebraicità dello Stato. Infatti le posizioni di Netanyahu hanno fatto in modo di ricordarci che la nostra causa è radicata nelle conseguenze della guerra del 1948 che ha creato Israele sulla Palestina e non nell’occupazione iniziata nel 1967 come i dirigenti e l’elite palestinesi hanno voluto farci credere. Infatti il programma colonialista e fondamentalista dei vari governi israeliani evidenzia la necessità di trasformare l’azione nazionale palestinese in modo da affrontare le radici del problema piuttosto che le sue conseguenze, come viene fatto nel programma della Lista Unitaria.

Abbiamo bisogno di un cambiamento reale sia nella nostra comprensione del conflitto che nel ruolo dei palestinesi in Israele nel dare forma alla futura soluzione del conflitto. Un miglioramento delle condizioni dei palestinesi in Israele non sarà ottenuto dall’illusoria soluzione dei due Stati. La soluzione della questione palestinese dipende piuttosto dall’abilità dei palestinesi in Israele nell’articolare il loro progetto come hanno fatto una volta nel 2007 con il Future Vision document [documento della “Visione del Futuro”, un rapporto pubblicato dal Comitato dei Sindaci Arabi in Israele, a cui hanno partecipato 40 noti studiosi ed attivisti e che chiedeva ad Israele di riconoscere i cittadini arabi come gruppo nativo con diritti collettivi, sostenendo che invece Israele discrimina i non ebrei in vario modo. N.d.tr.].

Questo documento ha riscosso un ampio consenso nazionale tra i palestinesi in Israele riguardo ai principali problemi politici che essi stessi devono affrontare, così come il loro ruolo nel forgiare una soluzione complessiva della questione palestinese. Solo facendo così i palestinesi in Israele possono passare da un ruolo politico marginale a uno centrale. Un tale ruolo potrebbe aiutare a portare Israele e il movimento nazionale palestinese ad un giusto accordo che affronti le conseguenze della Nakba (catastrofe) del 1948 invece di quelle dell’occupazione del 1967, senza lasciare eternamente i palestinesi in Israele ai margini dello “Stato ebraico”.

La Lista Unitaria avrebbe potuto essere coinvolta in questo progetto se [i suoi dirigenti] avessero lavorato seriamente come leader piuttosto che come politicanti che competono per un seggio alla Knesset. Ancora una volta abbiamo perso un’occasione per fare la nostra parte non solo come palestinesi, ma come punto di riferimento del popolo palestinese, confliggendo, senza questa assunzione di responsabilità, con il nostro ruolo nelle elezioni israeliane. Forse potremo cogliere questa opportunità nel futuro se saremo in grado di produrre leader che ci vedano come attori principali piuttosto che subordinati a Israele, all’ANP o a qualche altro regime arabo che ci fornisce denaro o avvalla slogan nazionalistici.

 

Nijmeh Ali: gli inizi di una svolta storica

I palestinesi in Israele discutono ancora animatamente sull’utilità di partecipare alle elezioni israeliane. Alcuni chiedono ancora il boicottaggio perché credono che partecipare [alle elezioni] legittimi e rafforzi la colonizzazione e l’occupazione israeliane. Altri hanno semplicemente perso la fiducia nella capacità del sistema politico di portare avanti un qualunque cambiamento: nel 2013 solo circa il 56% dei palestinesi in Israele ha partecipato alle elezioni.

Inoltre, il fatto che i palestinesi in Israele abbiano il diritto di partecipare alle elezioni non significa che riescano ad incidere sulle decisioni politiche israeliane. Il sistema politico israeliano esclude i partiti arabi. In altre parole, sono all’interno del gioco politico ma ancora fuori dal processo politico.

Quelli che sostengono la partecipazione sottolineano l’importanza di difendere i diritti dei palestinesi anche se comprendono la difficoltà di creare un reale cambiamento. Considerano la Knesset un mezzo non solo per ottenere diritti individuali ma anche per cercare il riconoscimento dei diritti collettivi dei palestinesi in quanto minoranza nazionale e popolo indigeno. Oltretutto vogliono sfidare la tendenza israeliana dominante “agitando le acque”.

Allo stesso tempo, molti palestinesi in Israele sono frustrati dalle lotte interne del passato. Sanno che, indipendentemente dalle loro convinzioni ideologiche – socialiste, nazionaliste o religiose – sono discriminati per il fatto di essere palestinesi. Questa sensazione è aumentata durante gli attacchi israeliani contro Gaza dell’estate 2014, quando i cittadini palestinesi di Israele si sono sentiti più minacciati che in qualunque altro momento, persino per strade, sugli autobus, all’università o sul posto di lavoro.

Contro questo contesto la Lista Unitaria è una diretta risposta alla destra israeliana, che intendeva spingere i partiti [palestinesi] fuori dell’arena politica alzanzo il quorum elettorale. Questa manovra può essere vista come un attacco contro un “trasferimento politico”, come effettivamente era, forse come preludio a un’espulsione fisica dei palestinesi. Sostituendo i partiti esistenti con “Arabi Buoni”, che siano membri dei partiti sionisti, la destra israeliana sarebbe stata in grado di presentare la “democrazia” di Israele senza sfidare l’egemonia sionista.

Avendo fallito in questo tentativo, la Destra israeliana sta ora cercando di screditare la Lista Unitaria mettendo in guardia contro la “minaccia araba” in Israele e insistendo nel definirla come una Lista Unitaria “araba”, come fa la maggior parte dei media, presentandola quindi come arabi contro ebrei. E’ importante sottolineare continuamente che la lista è ufficialmente unitaria e non araba e include ebrei non sionisti. Anche se la maggioranza dei votanti per questa lista saranno palestinesi in Israele, la lista vuole anche attirare elettori ebrei: ha lanciato la propria campagna sia in arabo che in ebraico.

La Lista Unitaria non cancellerà le differenze tra i partiti che la compongono né metterà fine all’aspro e incandescente dibattito tra i palestinesi in Israele su come la società palestinese si debba posizionare e presentare. Tuttavia evidenzia la lotta comune contro la discriminazione come contro l’occupazione, comune tra gli arabi palestinesi e le forze democratiche ebraiche. Insieme costituiscono un’alternativa democratica al campo ultranazionalista guidato da Netanyahu e al Campo Sionista di Isaac Herzog e Tzipi Livni.

La fiducia in una lotta collettiva è evidente nel programma politico della lista, che è basata su otto principi: contro l’occupazione e per una pace giusta; per l’uguaglianza nazionale e civile; contro il razzismo e il fascismo e per la democrazia; per la giustizia sociale ed ecologica e per i diritti dei lavoratori; contro l’oppressione delle donne e per il loro diritto a partecipare; per lo sviluppo della cultura, del linguaggio, dell’identità e dell’appartenenza a una nazione; contro il colonialismo; per l’eliminazione delle armi nucleari dal Medio Oriente.

La lista affronta due grandi sfide: l’incremento della percentuale di arabi che votano e avere successo nell’attrarre votanti ebrei. L’imperativo di lavorare insieme implica molti compromessi, ma è una potente tattica politica che ridefinirà il comportamento politico dei palestinesi in Israele, non solo durante queste elezioni ma anche in futuro.

La Lista Unitaria fornirà l’esperienza necessaria per la collaborazione in un ampio spettro di questioni a livello sia interno che esterno alla Knesset. Riporta il termine “collettivo” nel lessico politico dei palestinesi in Israele, una cosa contro cui i governi israeliani, sia di destra che di sinistra, hanno lottato fin dalla Nakba del 1948. In breve, è un avvenimento storico che ha la possibilità di realizzare cambiamenti sia nella politica interna dei palestinesi in Israele che in Israele stesso.

(traduzione di Amedeo Rossi)