In Israele le uccisioni a sangue freddo dei palestinesi cadono nel silenzio

Gideon Levy

17 agosto 2021 – Middle East Eye

Dal termine dell’assalto israeliano di maggio sono stati assassinati decine di palestinesi disarmati tra cui minorenni. Eppure ciò ora è talmente normale che i media e l’esercito israeliani ne accennano appena

In apparenza in questi giorni nei territori occupati da Israele le cose sono relativamente tranquille. Non ci sono vittime israeliane, quasi nessun attacco in Cisgiordania e certamente non all’interno di Israele. Dalla fine dell’ultima offensiva israeliana, l’operazione Guardian of the Walls [Guardiano delle mura], Gaza è rimasta tranquilla.

Durante questo cosiddetto periodo di quiete in Cisgiordania continua la routine disperante della vita quotidiana – il che richiama ad un contenuto decisamente sarcastico se prestiamo attenzione a questa terrificante statistica: da maggio in Cisgiordania sono stati uccisi più di 40 palestinesi.

In una sola settimana, alla fine di luglio, l’esercito israeliano ha ucciso quattro palestinesi, uno dei quali un ragazzo di 12 anni. Due dei 40 provenivano da un villaggio, Beita, che ultimamente ha perso sei dei suoi abitanti: cinque erano manifestanti disarmati e uno era un idraulico chiamato, a quanto pare, a riparare un rubinetto da qualche parte. Nessuna delle quattro persone uccise a fine luglio rappresentava una minaccia per la vita di un soldato o colono israeliano.

L’uso di munizioni vere contro ciascuna di queste persone era proibito, per non parlare dell’obiettivo di uccidere, come hanno fatto i soldati israeliani che hanno sparato su di loro. Quattro esseri umani o, se preferite, 40 esseri umani, con famiglie il cui mondo è andato in frantumi, persone con progetti, sogni e amori, tutti improvvisamente messi a tacere in modo così freddo e brutale da un giovane soldato israeliano.

Se questo non bastasse, va notato che gli organi di informazione israeliani non si sono quasi mai occupati di queste uccisioni. Nessuno dei due principali quotidiani israeliani ha menzionato l’uccisione del ragazzo di 12 anni a Beit Omar, tra Betlemme ed Hebron, e neppure una delle due più importanti emittenti televisive commerciali si è preoccupata di riferirla.

Per dirla in altri termini, l’uccisione di un ragazzo di 12 anni, Mohammed al-Alami, intento a fare shopping con suo padre e sua sorella quando i soldati israeliani hanno sparato una raffica di proiettili contro l’auto della famiglia uccidendo il ragazzo, che come il padre non aveva fatto nulla di male, è stata evidentemente ritenuta da qualcuno dei media israeliani una storia di nessuna importanza e nessun interesse.

Indifferenza verso l’omicidio

Non c’è altro modo per spiegare questa diffusa noncuranza nei confronti di un comportamento omicida. Se si considera inoltre che tutti quegli altri omicidi da maggio in poi sono stati appena riportati, figuriamoci indagati, si ottiene un’immagine, in tutto il suo squallore, della repressione israeliana e della negazione dell’occupazione attraverso la versione mediatica di una “cupola di ferro” messa gentilmente a disposizione dalla stampa libera.

Protetti da una stampa ridotta al silenzio, agli israeliani è stata risparmiata questa brutta immagine del loro esercito e del suo brutale modus operandi. Protetti da quel silenzio, da quella negazione e repressione, nemmeno i politici e i generali israeliani sono stati obbligati a spiegare o addirittura occuparsi del fatto che anche durante questo periodo relativamente tranquillo raramente nei territori occupati passa una settimana senza vittime palestinesi.

Così fino a pochi giorni fa nessun comandante dell’esercito aveva mosso critiche al comportamento di questi soldati, né tantomeno fatto menzione di denunce o di aperture di inchieste affidabili. Solo dopo una serie di articoli ed editoriali su Haaretz il comandante in capo tenente generale Aviv Kochavi, considerato una figura con principi morali, ha diffuso una richiesta di abbassare i toni”. Non un ordine: una richiesta. Nessuna accusa e nessuna inchiesta, solo una vaga dichiarazione di buone intenzioni per il futuro.

Dietro tutto questo c’è il disprezzo per la vita dei palestinesi. Niente ha meno valore in Israele della vita di un palestinese. Esiste una linea retta che va dagli operai edili che cadono come mosche nei cantieri israeliani a causa delle morti sul lavoro senza che nessuno se ne preoccupi, fino ai manifestanti disarmati colpiti a morte dai soldati nei territori occupati mentre nessuno batte ciglio.

Un fattore comune li unisce tutti: la convinzione in Israele che la vita dei palestinesi valga poco. Se i soldati sparassero agli animali randagi con la stessa disinvoltura con cui sparano ai palestinesi ci sarebbero proteste pubbliche di indignazione e i soldati sarebbero processati e severamente puniti. Ma stanno uccidendo solo palestinesi, quindi qual è il problema?

Quando un soldato israeliano fa fuoco e colpisce alla testa un bambino, un adolescente un manifestante o un idraulico palestinesi, la società israeliana è muta e indifferente. Si accontenta delle spiegazioni inconsistenti e talvolta delle menzogne ​ fornite dal portavoce dell’esercito, omettendo ogni espressione di scrupolo morale sulla necessità di uccidere.

Tanti di questi incidenti mortali che ho approfondito e documentato e di cui ho scritto sul giornale non hanno suscitato particolare interesse.

Morte di un idraulico

Shadi Omar Lotfi Salim, 41 anni, un idraulico ben avviato che viveva a Beita, nella Cisgiordania centrale, è uscito da casa la sera del 24 luglio, dirigendosi verso la strada principale dove si trova l’impianto della fornitura idrica del villaggio, dopo che qualcuno vi aveva evidentemente riscontrato un problema.

Dopo aver parcheggiato la jeep lungo la strada si è diretto verso la valvola di chiusura con in mano una chiave inglese rossa. Erano le 22:30. Mentre si avvicinava alla valvola dei soldati nelle vicinanze hanno improvvisamente aperto il fuoco colpendolo a morte. In seguito hanno affermato che era corso verso di loro con in mano una barra di metallo. L’unica barra di metallo era la chiave inglese rossa lasciata per terra accanto al pacchetto di sigarette e a una macchia di sangue, già secca quando siamo arrivati ​​lì pochi giorni dopo la sua morte.

Una settimana dopo, nello stesso villaggio, i soldati hanno ucciso Imad Ali Dweikat, 37 anni, operaio edile, padre di quattro figlie e di un bambino di due mesi. Questo è successo durante la protesta settimanale del venerdì del villaggio. Nel corso degli ultimi due mesi circa gli abitanti di Beita avevano manifestato settimanalmente contro la creazione di un avamposto coloniale illegale sul territorio del villaggio. L’insediamento, Givat Eviatar, è stato eretto senza autorizzazione e poi fatto evacuare dei suoi abitanti da Israele, ma le 40 strutture rapidamente costruite non sono state demolite. La terra non è stata restituita ai suoi proprietari, ai quali non è permesso avvicinarsi.

Da quando più di 10 settimane fa Givat Eviatar è stato eretto cinque manifestanti palestinesi vi sono già stati uccisi dai soldati. Nessuno dei cinque si trovava tanto vicino da mettere in alcun modo in pericolo i soldati, anche se i manifestanti lanciavano pietre e bruciavano pneumatici per protestare contro l’occupazione della loro terra.

Gli abitanti sono determinati a continuare a resistere fino a quando le loro terre non saranno restituite, e nel frattempo il sangue scorre, settimana dopo settimana.

Ucciso a caso

Dweikat stava bevendo un bicchiere d’acqua quando un cecchino israeliano lo ha preso di mira, apparentemente a caso, e gli ha sparato al cuore da una distanza di diverse centinaia di metri. Il proiettile è esploso all’interno del suo corpo, danneggiando i suoi organi interni e Dweikat è morto sul colpo, con il sangue che gli usciva dalla bocca. Il suo bambino, Ali, è rimasto orfano subito dopo la sua nascita.

Poche settimane prima, i soldati hanno sparato all’adolescente Muhammad Munir al-Tamimi, di un altro villaggio che protesta, Nabi Saleh, e lo hanno ucciso. Tamimi aveva 17 anni ed è diventata la quinta vittima del suo piccolo villaggio nel corso degli ultimi anni. Tutti nella comunità appartengono alla famiglia Tamimi e da anni resistono al furto delle loro terre da parte degli insediamenti coloniali circostanti.

Tutte queste morti sono state delle esecuzioni. Non c’è altro modo per descriverle. Sparare a manifestanti disarmati, adolescenti, bambini, un idraulico, un operaio edile, persone che manifestano pubblicamente nel tentativo di riconquistare la loro proprietà e la loro libertà è un crimine. Ci sono pochissimi regimi a questo mondo in cui si spari a manifestanti disarmati – a parte Israele, “l’unica democrazia in Medio Oriente”, dove la serenità interiore della gente è scossa difficilmente da un sussulto.

Anche lamentele sentite qua e là durante le uccisioni sistematiche hanno a che fare con il fatto che quelle potrebbero portare a un deterioramento della situazione complessiva. Nessuno dice una parola riguardo la questione della legalità e soprattutto della moralità dell’omicidio di innocenti.

Israele è considerato una democrazia, un beniamino del mondo occidentale con valori occidentali simili. Quaranta civili disarmati uccisi negli ultimi due mesi e mezzo, e quattro uccisi solo nell’ultima settimana di luglio, sono una testimonianza dolorosa anche se silenziosa del fatto che, sebbene sia ancora considerato una democrazia, Israele è giudicato con un metro di paragone completamente diverso rispetto a quello applicato a qualsiasi altro Paese.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Gideon Levy è un editorialista di Haaretz e membro del comitato di redazione del giornale. Levy è entrato in Haaretz nel 1982 e ha trascorso quattro anni come vicedirettore del giornale. Ha vinto il Premio Giornalista Euro-Med per il 2008; il Premio per la Libertà di Lipsia nel 2001; il Premio dell’Unione dei giornalisti israeliani nel 1997; il premio dell’Association of Human Rights in Israel [Associazione per i diritti umani in Israele] per il 1996. Il suo nuovo libro, The Punishment of Gaza [La punizione di Gaza], è stato appena pubblicato da Verso.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)