Israele-Palestina: come le reti sociali sono state utilizzate e manipolate

Rayhan Uddin

Domenica 23 maggio 2021 – Middle East Eye

I giganti della tecnologia sono accusati di aver censurato alcuni contenuti palestinesi, di non aver messo a tacere la disinformazione e di aver consentito incitamenti alla violenza.

Durante la recente recrudescenza di violenze in Israele e nei territori palestinesi occupati le reti sociali si sono dimostrate una spada a doppio taglio.

Questo venerdì [21 maggio] alle 2 del mattino è entrato in vigore un cessate il fuoco, ma non prima di una devastante escalation durante la quale i bombardamenti aerei israeliani su Gaza hanno ucciso 248 palestinesi, di cui 66 minori, e i razzi lanciati dall’enclave palestinese assediata hanno provocato 12 morti in Israele.

Nel corso delle ultime due settimane il mondo digitale si è trovato al centro dell’attenzione. Ha offerto uno spazio per documentare direttamente e senza filtro la situazione sul terreno, un mezzo per far circolare l’informazione sotto diversi formati e forme, oltre che una piattaforma che consentiva di amplificare i messaggi e i gesti di solidarietà.

Tuttavia, anche se c’è stato un uso positivo, si sono anche evidenziati degli abusi.

I giganti della tecnologia sono accusati di aver censurato alcuni contenuti palestinesi, di non aver stroncato la disinformazione e di aver permesso degli incitamenti alla violenza. Le piattaforme sono state anche manipolate e utilizzate come vettori di propaganda dello Stato.

Middle East Eye si sofferma su cinque modi in cui le piattaforme di comunicazione informatica sono state sfruttate mentre la tensione era in aumento in Israele, a Gaza, nella Cisgiordania e a Gerusalemme est occupate.

1. Censura a danno dei palestinesi

La violenza e la brutalità degli ultimi giorni sono state accompagnate da ripetuti esempi di limitazione e cancellazione di contenuti sulle reti sociali.

Tutto è iniziato con la campagna di resistenza contro l’imminente espulsione di sei famiglie nel quartiere di Sheikh Jarrah a Gerusalemme est occupata – che ha catalizzato la repressione dei manifestanti da parte delle forze israeliane – che si è ritrovata al centro delle accuse di censura.

Il 7 maggio Middle East Eye ha informato che erano state sollevate preoccupazioni riguardo a contenuti eliminati e alla sopressione di account sulle reti sociali legate al quartiere. Mona al-Kurd, giornalista e abitante di Sheikh Jarrah minacciata di essere cacciata dalla casa della sua famiglia, ha visto il suo account Instagram temporaneamente sospeso mentre stava documentando i soprusi quotidiani. Anche suo fratello Mohammed al-Kurd ha visto il suo contenuto eliminato a causa dei “discorsi d’odio”, sebbene secondo lui si fosse limitato a filmare le violenze della polizia senza alcun commento.

Gli abitanti di Sheikh Jarrah si sono lamentati del fatto che le loro storie su Instagram ottenevano meno approvazioni e meno visualizzazioni per ragioni inspiegabili. Durante quel periodo su Facebook – società madre di Instagram – il gruppo “Salvare Sheikh Jarrah”, che contava più di 130.000 membri, è stato temporaneamente disattivato perché “violava gli standard della comunità”.

Ci sono state anche domande riguardo a Twitter quando l’account della giornalista palestinese Mariam Barghouti è stato sospeso mentre stava informando su una manifestazione di solidarietà con Sheikh Jarrah nella Cisgiordania occupata. In seguito Twitter ha dichiarato a VICE [società di media digitali statunitense-canadese, ndtr.] che la decisione era stata presa per sbaglio, omettendo di precisare quali disposizioni delle sue condizioni Barghouti fosse sospettata di aver infranto.

“Le limitazioni e la censura hanno un grande impatto sulla possibilità delle persone di comunicare, di organizzarsi e di condividere informazioni,” ha dichiarato a MEE Marwa Fatafta, responsabile delle politiche per il Medio Oriente e il Nord Africa di Access Now, Ong per la difesa dei diritti digitali.

“Quando non potete accedere al vostro account o un vostro contenuto è eliminato ciò viola la possibilità di esercitare il vostro diritto alla libertà d’espressione su internet.”

Queste restrizioni non riguardano unicamente l’attivismo relativo a Sheikh Jarrah. Quando la polizia israeliana ha fatto irruzione nella moschea di al-Aqsa per reprimere brutalmente i fedeli in preghiera durante gli ultimi giorni del Ramadan, sono comparse denunce di censura.

Su Istagram l’hashtag “al-Aqsa” è stato temporáneamente nascosto a causa di indicazioni in base alle quali secondo una notifica ricevuta dagli utenti certi contenuti erano “suscettibili di non soddisfare le regole della comunità di Instagram”.

Facebook, che possiede Instagram, ha attribuito le soppressioni di contenuti a un “problema tecnico su scala mondiale che non era legato a un argomento specifico.”

Tuttavia, secondo alcuni documenti di comunicazione interna consultati da BuzzFeed [società statunitense di notizie specializzata in media digitali, ndtr.], pare che gli hashtag siano stati bloccati perché il sistema di controllo dei contenuti della piattaforma aveva associato per errore al-Aqsa (terzo sito più sacro per l’islam) con un’organizzazinoe terroristica.

Numerose organizzazioni ritengono che ogni censura da parte dei giganti delle reti sociali potrebbe essere paragonata alla distruzione di prove nella documentazione dei crimini di guerra, cosa su cui attualmente indaga la Corte Penale Internazionale in rapporto con le recenti violenze.

Oltre all’“errore”, un altro motivo possibile per il ritiro di certi contenuti sarebbe l’uso del termine “sionista”.

Secondo un articolo di “The Intercept” [sito fondato da Edward Snowden, ex tecnico della CIA che ha denunciato l’uso di dati riservati dei propri cittadini da parte di USA e GB, ndtr.], la politica di Facebook consistente nel sopprimere ogni contenuto che utilizzi il termine “sionista” come sinonimo di “ebreo” o di “ebraismo” si è rivelato difficile da mettere in pratica. Secondo uno dei moderatori della piattaforma le direttive lasciano “poco spazio alla critica del sionismo”.

Malgrado le preoccupazioni degli attivisti palestinesi, sono i responsabili del governo israeliano che la settimana scorsa hanno incontrato i funzionari di Facebook e TikTok. Il ministro della Giustizia Benny Gantz ha esortato le reti sociali a sopprimere i contenuti violenti e a rispondere rapidamente alle richieste dell’ufficio per l’informatica di Israele.

L’unità israeliana per l’informatica, che opera all’interno del ministero della Giustizia, sorveglia sistematicamente i contenuti palestinesi e li segnala ai giganti del digitale. Secondo un rapporto pubblicato dall’organizzazione di difesa dei diritti informatici palestinesi 7amleh Facebook accoglie l’81% delle richieste di soppressione dei contenuti da parte di questa unità informatica.

“Ciò conferma che la discriminazione digitale a cui sono esposti i palestinesi nello spazio informatico non è un errore tecnico,” ha dichiarato Mona Shtya di 7amleh a MEE. “Al contrario si tratta delle conseguenze dei tentativi sistematici delle autorità israeliane per far tacere gli attivisti per i diritti umani e per influenzare le politiche delle imprese tecnologiche in materia di controllo dei contenuti.”

Una coalizione di organizzazioni per i diritti informatici ha invitato Twitter e Facebook a fornire dati dettagliati relativi alle richieste presentate dall’unità informatica israeliana e ad essere trasparenti sul processo decisionale riguardante il ritiro di contenuti.

Inoltre un’organizzazione palestinese per la protezione dei dati, due agenzie di stampa e un traduttore hanno denunciato Facebook, accusandolo di censurare le loro pubblicazioni e in qualche caso di aver chiuso il loro account in violazione delle stesse politiche dell’impresa.

Il documento di 14 pagine inviato al relatore speciale dell’ONU incaricato della promozione e della protezione del diritto alla libertà d’opinione e d’espressione, consultato da Middle East Eye, concede alla società 21 giorni per dare spiegazioni. In caso contrario seguiranno delle azioni legali.

2. Disinformazione e notizie false

Milioni di persone in tutto il mondo si basano sulle reti sociali per informarsi sulle violenze in Israele e Palestina. Tuttavia non tutti i contenuti, compresi quelli ufficiali, sono corretti.

La disinformazione relativa a quanto avviene a Gaza si trova ai livelli più alti dello Stato: il portavoce arabofono ufficiale del primo ministro israeliano, Ofir Gendelman, ha condiviso un video che secondo lui mostra che Hamas lanciava dei razzi contro Israele. Queste immagini risalivano in realtà al 2018 e mostravano missili lanciati nel governatorato di Deraa, in Siria.

Questo tweet era stato originariamente etichettato da Twitter come un “media manipolato”, prima di essere cancellato da Gendelman.

Anche l’account Twitter ufficiale dell’esercito israeliano ha fatto circolare false informazioni. L’account @IDF (Forze di Difesa Israeliane) ha condiviso un video che sosteneva mostrasse Hamas mentre nascondeva dei lanciatori di missili in quartieri civili. Tuttavia nelle immagini si vede di fatto un finto mezzo militare utilizzato da Israele durante le esercitazioni di addestramento nel nord ovest del Paese.

Questo video è stato retwittato dall’account Twitter verificato “Stop Antisemitismo”, che in seguito si è scusato per l’errore. Nelle sue scuse ha insistito in modo provocatorio a etichettare le immagini come provenienti da un “quartiere in maggioranza musulmano”, cosa che sembra un chiaro tentativo di mettere in rapporto un’arma israeliana con i palestinesi.

“La disinformazione e le notizie false fanno parte integrante della propaganda delle autorità israeliane,” dichiara Mona Shtya. “Questo tipo di informazioni colpisce la coscienza della gente e i movimenti politici palestinesi.”

Secondo 7amleh, il 54% dei partecipanti a un sondaggio pubblicato nel suo rapporto “Notizie false in Palestina” ha indicato le autorità israeliane come la principale fonte di informazioni false. Il rapporto conclude anche che le notizie false aumentano del 58% durante gli attacchi israeliani contro i palestinesi.

Tra gli altri esempi di disinformazione che circolano su internet figurano le false informazioni in base alle quali a Gaza alcuni palestinesi hanno organizzato falsi funerali per suscitare la compassione della comunità internazionale.

Questo video falso, pubblicato dal consigliere del ministero degli Affari Esteri israeliano Dan Poraz, mostra un gruppo di adolescenti che apparentemente stanno portando una “salma”. Improvvisamente risuonano delle sirene e gli adolescenti, compresa la “salma”, si disperdono e fuggono. In realtà queste immagini sono state girate l’anno scorso in Giordania da un gruppo di giovani che cercavano di sfuggire alle restrizioni relative al COVID-19 fingendo di organizzare dei funerali.

Poraz ha condiviso questo video con l’hashtag “Pallywood” (combinazione delle parole Hollywood e Palestina), un concetto molto dannoso sostenuto dalla destra filo-israeliana che intende cínicamente accusare i palestinesi di drammatizzare la loro sofferenza per attirare i favori della comunità internazionale.

Un altro esempio di internauti che spacciano notizie false per associare i gazawi a “Pallywood”: la condivisione di un video che dovrebbe mostrare dei palestinesi mentre disegnano false ferite provocate dagli attacchi israeliani con l’aiuto di cosmetici. Queste immagini condivise la settimana scorsa sono state in effetti rintracciate nel 2018 e sono state girate nel quadro di un reportage su artisti palestinesi del trucco.

Nelle ultime settimane sono emerse anche due notizie filopalestinesi false. Il New York Times ha informato che alcuni media arabi hanno erroneamente associato immagini che mostravano ebrei che a Gerusalemme si stracciavano le vesti in segno di devozione con affermazioni secondo le quali simulavano delle ferite. Il Times ha scoperto che quel video era circolato varie volte in precedenza quest’anno.

Nel contempo una pubblicazione Facebook molto condivisa e che dovrebbe mostrare un giornalista che piange filmando degli avvenimenti all’interno di al-Aqsa [moschea di Gerusalemme, ndtr.], di fatto mostrava un fotografo irakeno durante una partita di calcio nel 2019.

3. Propaganda israeliana

Nel corso delle ultime due settimane gli account israeliani ufficiali sulle reti sociali, soprattutto quelli relativi all’esercito, sono stati utilizzati per condividere messaggi di propaganda altamente provocatori, spesso incendiari.

Mercoledì 12 maggio l’account Instagram in ebraico dell’esercito ha festeggiato la distruzione di un edificio civile a Gaza con uno meme prima e dopo.

Anche l’account Twitter @IDF ha condiviso in varie occasioni immagini di edifici bombardati dall’esercito israeliano a Gaza, in particolare un immobile che ospitava giornalisti di Al Jazeera, dell’Associated Press [agenzia di stampa USA, ndtr.] e di Middle East Eye. Queste immagini sono quasi sempre accompagnate da affermazioni secondo le quali gli edifici ospitavano attività di intelligence militare di Hamas, senza alcuna prova a suffragarle.

Il 13 maggio l’esercito israeliano ha annunciato su Twitter che, nel quadro di una più vasta campagna nel corso della quale ha informato i media internazionali che era in corso una invasione di terra, le sue forze terrestri avevano iniziato “attacchi nella Striscia di Gaza”. Tuttavia in seguito i media israeliani hanno informato che il tweet e la condivisione di informazioni avevano l’obiettivo deliberato di far credere ai combattenti di Hamas che fosse in corso un’invasione e di esporne al pericolo il maggior numero.

A causa di questo ricorso all’inganno sulle reti sociali molti hanno accusato l’esercito israeliano di fare cattivo uso delle sue piattaforme ufficiali e di “twittare dal vivo crimini di guerra.”

“Trovo inaccettabile che l’esercito israeliano utilizzi reti sociali per minacciare la gente e diffondere disinformazione quando è attivamente impegnato in azioni che si configurano come crimini di guerra,” lamenta Marwa Fatafta.

Gli attivisti dei diritti digitali hanno fatto un confronto tra il modo in cui vengono trattati dalle imprese delle reti sociali gli account ufficiali israeliani e la loro gestione degli account palestinesi.

“Ciò testimonia l’applicazione discriminatoria delle condizioni di utilizzo delle piattaforme ai loro utenti: censurano gli attivisti permettendo nel contempo alle pagine gestite dagli Stati di utilizzarle ed abusarne in funzione dei propri obiettivi politici e militari.”

Allo stesso modo numerosi osservatori hanno sottolineato le differenze tra gli account in ebraico e in inglese dell’esercito israeliano. Sull’account Instagram in ebraico dell’esercito le storie hanno la tendenza a essere aggressive e militariste e spesso includono immagini di edifici bombardati a Gaza, con l’ora e il luogo. Nel contempo sull’account in inglese il contenuto è spesso più difensivo e presenta Israele come vittima delle recenti violenze con l’aiuto di infografiche e presentazioni colorate.

In un post pubblicato sul suo account Instagram in inglese l’esercito israeliano ha ripreso un metodo di condivisione d’informazione popolare presso la generazione Y [i nati tra gli anni ’80 e ’90, noti anche come “millenians”, ndtr.] creando una serie di vignette e di fumetti per semplificare una serie di avvenimenti. A dispetto di fatti accertati, le immagini indicavano che Hamas era il solo responsabile di tutte le morti civili avvenute recentemente in Israele e a Gaza.

Nel contempo funzionari dell’esercito israeliano hanno sfruttato l’applicazione cinese per la condivisione di video TikTok riprendendo coreografie in voga per attirare il pubblico più giovane.

In particolare vari militari hanno partecipato al “Jalebi Baby Challenge “, nel corso del quale gli utenti indicano le proprie preferenze tra due emoticon. Praticamente sempre i soldati finiscono il video scegliendo una bandiera israeliana invece di una palestinese. Su un video militari israeliani scelgono l’emoticon escremento invece della bandiera palestinese e il dito medio alzato rivolto alla Palestina. In un altro esempio, che è stato oggetto di scherno, una soldatessa oppone per errore Israele alla bandiera del Sudan.

Oltre all’esercito, i messaggi di propaganda sono molto presenti anche su altri account ufficiali israeliani.

Martedì l’account Twittter ufficiale di Israele in arabo ha provocato indignazione pubblicando dei versetti del Corano accompagnati da una foto di Gaza sotto le bombe. Questo post è stato definito da alcuni critici “sadico e ignobile”.

Nel contempo l’account in inglese ha falsamente accusato la modella di origine palestinese Bella Hadid di voler “buttare in mare gli ebrei” quando si è unita allo slogan popolare filo-palestinese “dal fiume al mare, la Palestina sarà libera.”

“Non è un fatto inedito che i governi cerchino di infangare quanti prendono posizione o li accusino di fare l’apologia del terrorismo o, in questo caso, dell’antisemitismo. Ciò esisteva già prima dell’era delle reti sociali,” rileva Marwa Fatafta.

Secondo la sostenitrice dei diritti digitali Israele, come altri Stati, cerca di “trollare” e perseguitare le persone per ridurle al silenzio. Tuttavia, spiega, le ultime due settimane hanno dimostrato il potere dei media digitali di “trasmettere la verità”, quando non vengono censurati.

4. “Linciaggio” programmato sulle applicazioni di messaggistica

Oltre alle applicazioni per la condivisione di contenuti, le piattaforme di messaggistica istantanea sono state criticate per aver   presumibilmente contribuito a facilitare la violenza dei civili israeliani.

La scorsa settimana messaggi postati su Signal e WhatsApp che MEE ha potuto consultare mostravano che gruppi israeliani di estrema destra avevano discusso nel dettaglio la pianificazione di attacchi violenti contro cittadini palestinesi di Israele.

“Portate di tutto, coltelli, benzina,” indicava un messaggio in un gruppo di discussione battezzato “The Underground Unit” [L’unità clandestina], formata da parecchie centinaia di membri. “Non abbiate paura, noi siamo gli eletti.”

“Quando vedete un arabo accoltellatelo,” ordinava un messaggio pubblicato su WhatsApp in un gruppo denominato “Israel People Alive Haifa” [Israele popolo vivo Haifa]. “Venite con bandiere, mazze, coltelli, armi, tirapugni, assi di legno, spray urticanti, tutto quello che li può ferire. Ristabiliremo l’onore del popolo ebraico.”

In un altro gruppo di discussione, sempre su WhatsApp, un membro ha scritto: “Abbiamo bisogno di bottiglie molotov. Alla moschea. Per farli tremare. Bruceremo le loro case, le loro auto, tutto.”

Messaggi che incitavano alla violenza contro i palestinesi sono stati lanciati anche su Telegram, e di conseguenza vari utenti di Twitter hanno chiesto alle applicazioni di messaggistica di intervenire per proteggere delle vite.

“Se Telegram non reagisce rapidamente i messaggi pubblicati nello spazio digitale per incitare alla violenza contro i palestinesi continueranno a propagarsi per le strade,” sostiene Mona Shtaya.

L’azione della folla è stata esacerbata dalla diffusione di false informazioni: secondo il New York Times messaggi pubblicati su Telegram e WhatsApp indicavano che folle di palestinesi stessero preparando aggressioni contro cittadini israeliani. Nonostante questi avvertimenti nessuna violenza è stata segnalata nella zona citata nei messaggi.

Un giornalista ha paragonato questi sviluppi agli avvenimenti osservati in India nel 2018, quando la diffusione di false voci riguardanti il rapimento di bambini e l’espianto di organi avevano scatentato un’ondata di linciaggi collettivi durante i quali alcuni stranieri erano stati aggrediti ed uccisi.

Fino a domenica [23 maggio] i 116 incriminati imputati in seguito alle violenze della settimana precedente erano tutti palestinesi.

La settimana scorsa Fake Reporter, un organismo israeliano di sorveglianza della disinformazione, ha dichiarato di aver trasmesso alla polizia e ai media israeliani un rapporto dettagliato contenente informazioni su gruppi di estrema destra che utilizzano WhatsApp e Telegram per pianificare attacchi contro negozi e civili palestinesi.

La consegna di questo dossier non ha dato luogo ad alcuna misura, mentre alcuni media hanno persino risposto che non valeva la pena di parlarne in quanto non erano stati commessi delitti.

“L’incitamento alla violenza contro gli arabi e i palestinesi sulle reti social è aumentata in modo clamoroso,” afferma Mona Shtaya.

“Nel 2020 abbiamo constatato un incremento del 16% delle affermazioni violente contro gli arabi rispetto all’anno precedente (2019); inoltre un messaggio su dieci riguardante i palestinesi e gli arabi conteneva affermazioni violente,” aggiunge in riferimento all’indice annuale del razzismo e dell’incitamento all’odio creato da 7amleh.

“Telegram e le altre applicazioni non devono appoggiare la violenza contro i palestinesi o devono prendere misure per impedire la trasmissione di messaggi che incitano alla violenza, di discorsi d’odio e di razzismo dalla loro piattaforma al mondo reale.”

5. Esercito di troll appoggiato dallo Stato

Le reti sociali sono spesso utilizzate per rilevare l’opinione pubblica sulle questioni mondiali attraverso gli hashtag più condivisi e i livelli di impegno che servono da indicatori informali delle opinioni popolari.

Tuttavia queste piattaforme sono spesso utilizzate in modo più cinico per manipolare sistematicamente le conversazioni in rete.

La piattaforma israeliana in rete Act.IL è stata sviluppata nel giugno 2017 per reclutare e organizzare un’esercito di migliaia di troll incaricati di intrufolarsi nelle conversazioni in rete relative alla questione israelo-palestinese e in particolare al movimento BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni).

I troll ricevono dalla piattaforma istruzioni sui contenuti filo-israeliani e anti-palestinesi da ritwittare e da “approvare”, come sulle petizioni da firmare. Ricevono anche dei modelli di commenti che sono incoraggiati a copiare e incollare nelle discussioni al riguardo.

Act.IL è stato lanciato in collaborazione col ministero israeliano degli Affari Strategici, il cui ministro ha definito il dispositivo “Iron Dome [cupola di ferro] della verità”, in riferimento al sistema antimissilistico israeliano. La piattaforma riceve finanziamenti e direttive dallo Stato israeliano. L’applicazione è descritta come un dispositivo di “astroturfing”, una strategia di relazioni pubbliche sostenuta da un governo con l’intento di indurre in errore e dare la falsa impressione di una campagna popolare spontanea.

Michael Bueckert, ricercatore e vicepresidente di “Canadesi per la giustizia e la pace in Medio Oriente”, gestisce un account Twitter che tiene sotto controllo l’applicazione Act.IL. e riferisce delle sue attività. “Uno dei principali obiettivi dell’applicazione è tenere distinte le attività dei suoi utenti dallo Stato israeliano o dalle lobby e fare in modo che l’attività filo-israeliana sulle reti sociali che mette in scena sembri spontanea e organica,” spiega a MEE.

Secondo Michael Beuckert il ministero degli Affari Strategici ha come politica lavorare con organizzazioni di facciata “per dissimulare il ruolo dello Stato israeliano”. Ritiene d’altronde che sia ragionevole credere che il governo giochi “un ruolo più importante di quanto viene presentato in pubblico nel finanziamento continuo e nelle operazioni dell’applicazione.”

Domenica scorsa l’applicazione ha organizzato una tempesta su Twitter con gli hashtag #RightToSelfDefence (Diritto all’autodifesa) e #IsraelUnderFire (Israele sotto attacco).

Nel corso delle ultime due settimane Act.IL ha anche utilizzato il suo canale Telegram per inviare delle “missioni” ai propri utenti per diffondere un discorso anti-palestinese.

All’inizio del mese, durante la violenta repressione delle forze israeliane contro i fedeli ad al-Aqsa, l’applicazione ha spinto gli utenti a commentare degli aggiornamenti in tempo reale della Reuter, dell’AFP [agenzie di stampa, rispettivamente inglese e francese, ndtr.] e del Washington Examiner [sito di notizie conservatore statunitense, ndtr.] dando la colpa ai gruppi palestinesi.

“È inaccettabile che dei fedeli innocenti, dei civili e dei poliziotti siano vittime di violenti disordini fomentati da Hamas e da Fatah. Il terrorismo non ha posto nei luoghi santi e nelle loro vicinanze,” si può leggere sotto un aggiornamento dell’AFP, dove i troll sono stati incoraggiati a diffondere opinioni simili.

Nonostante i tentativi coordinati intesi a interferire nelle conversazioni in rete, Michael Bueckert ha dei dubbi riguardo all’impatto delle ultime attività dell’esercito israeliano di troll.

“Certo, possono contribuire a diffondere argomenti di discussione importanti dell’hasbara (diplomazia pubblica israeliana) sulle reti sociali e a diffondere ampiamente la disinformazione. Tuttavia ho l’impressione che molta gente non creda più a questi vecchi argomenti,” afferma. “Le persone non tollerano più tanto un atteggiamento che in genere continua a incolpare le vittime.

Le persone iniziano ad aprire gli occhi di fronte agli orrori dell’apartheid israeliano e non vogliono avere niente a che fare con esso; nessuna applicazione potrà cambiare ciò.”

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)




Cancellando i palestinesi, le reti sociali diffondono un segnale inquietante per il nostro avvenire

Jonathan Cook

sabato 7 novembre 2020 – Middle East Eye

Facebook, Google e Twitter non sono piattaforme neutrali. Controllano lo spazio pubblico informatico per aiutare i potenti e possono cancellare da un giorno all’altro chiunque di noi

Si può percepire un crescente malessere nei confronti dell’impatto nefasto che possono avere sulle nostre vite le decisioni prese dalle imprese che guidano le reti sociali. Benché godano di un monopolio effettivo sullo spazio pubblico virtuale, queste piattaforme sfuggono da molto tempo ad ogni serio controllo e ad ogni responsabilità.

In un nuovo documentario Netflix, The Social Dilemma [Il dilemma del social], ex-dirigenti della Silicon Valley mettono in guardia contro un avvenire distopico. Google, Facebook e Twitter hanno raccolto una grande quantità di dati che ci riguardano per prevedere e manipolare meglio i nostri desideri. I loro prodotti riformulano progressivamente le connessioni dei nostri cervelli per renderci dipendenti dagli schermi e più docili alle pubblicità. Poiché siamo chiusi dentro camere digitali di risonanza ideologica, ne conseguono una polarizzazione e una confusione sociale e politica sempre maggiori.

Come a sottolineare la presa sempre più forte che queste società tecnologiche esercitano sulle nostre vite, il mese scorso Facebook e Twitter hanno deciso di interferire apertamente sulle elezioni presidenziali americane più esplosive a memoria d’uomo censurando un articolo che avrebbe potuto nuocere alle prospettive elettorali di Joe Biden, lo sfidante democratico del presidente uscente Donald Trump.

Dato che quasi la metà degli americani si informa principalmente su Facebook, le conseguenze di una simile decisione sulla nostra vita politica non sono difficili da interpretare. Scartando ogni dibattito sulle presunte pratiche di corruzione e traffico di influenze da parte del figlio di Joe Biden, Hunter, in nome di suo padre, queste reti sociali hanno giocato un ruolo di arbitro autoritario decidendo quello che siamo autorizzati a dire e a sapere.

Il “guardiano di un monopolio” 

Il pubblico occidentale si sveglia molto in ritardo di fronte al potere antidemocratico che le reti sociali esercitano su di lui. Ma se vogliamo capire dove alla fine questo ci porta, non c’è uno studio di caso migliore del trattamento molto differenziato riservato dai giganti tecnologici agli israeliani e ai palestinesi.

Il modo in cui i palestinesi sono in rete serve da avvertimento, perché sarebbe in effetti insensato considerare queste imprese mondiali come piattaforme politicamente neutrali e le loro decisioni come puramente commerciali. Sarebbe come interpretare il loro ruolo in modo doppiamente sbagliato.

Di fatto le compagnie che guidano le reti sociali sono oggi delle reti di comunicazione monopolistiche, alla stregua delle reti elettriche, idriche o telefoniche di una ventina di anni fa. Le loro decisioni non sono quindi più delle questioni private, ma hanno enormi conseguenze sociali, economiche e politiche. È in parte la ragione per la quale il dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti ha recentemente avviato un’azione legale contro Google, accusandolo di essere il “guardiano di un monopolio su internet”.

Google, Facebook e Twitter non hanno più diritto di decidere arbitrariamente le persone e i contenuti che ospitano sui loro siti di quanto una volta le imprese di telecomunicazioni avessero il diritto di decidere se un cliente doveva essere autorizzato a disporre di una linea telefonica.

Tuttavia, contrariamente alle compagnie telefoniche, le società alla testa delle reti sociali controllano non solo i mezzi di comunicazione, ma anche il loro contenuto. Come dimostra l’esempio dell’articolo su Hunter Biden, possono decidere se i loro clienti possono partecipare a delle discussioni pubbliche fondamentali su quelli che li governano.

Agendo in questo modo nei confronti di Hunter Biden, è come se un’azienda telefonica di una volta non solo ascoltasse le conversazioni, ma potesse anche interromperle se non le piacesse la posizione politica di un determinato cliente.

In realtà è persino peggio. Le reti sociali informano ormai gran parte della popolazione. La censura di un articolo da parte loro è simile piuttosto all’azione di una compagnia elettrica che tolga la corrente a tutti durante una trasmissione televisiva per essere sicura che nessuno la veda.

Una censura occulta

I giganti della tecnologia sono le imprese più ricche e potenti nella storia dell’umanità, la loro ricchezza si misura in centinaia, ormai migliaia, di miliardi di dollari. Ma l’argomento secondo cui sono apolitiche e hanno come solo scopo massimizzare i profitti non ha mai retto.

Hanno tutto l’interesse a promuovere responsabili politici che si schierino dalla loro parte impegnandosi a non infrangere il loro monopolio né a regolamentare le loro attività, o, meglio ancora, promettendo di indebolire gli strumenti che potrebbero impedire loro di diventare ancora più ricche e potenti.

Al contrario, i giganti della tecnologia hanno anche tutto l’interesse ad utilizzare lo spazio informatico per penalizzare e marginalizzare gli attivisti politici che rivendicano una maggiore regolamentazione delle loro attività o del mercato in generale.

A prescindere dalla spudorata eliminazione dell’articolo su Hunter Biden, che ha suscitato la collera dell’amministrazione Trump, le società alla testa delle reti sociali censurano più spesso in modo occulto. Questo potere è esercitato per mezzo di algoritmi, questi codici segreti che decidono se qualcosa o qualcuno compare nei risultati di una ricerca o sulle reti sociali. Se lo desiderano, questi titani tecnologici possono cancellare chiunque di noi da un giorno all’altro.

Non è solo paranoia politica. L’impatto sproporzionato dei cambiamenti di algoritmo sui siti “di sinistra” sul web, i più critici verso il sistema neoliberale che ha arricchito le imprese che guidano le reti sociali, è stato recentemente sottolineato dal Wall Street Journal [quotidiano USA più venduto e che si occupa principalmente di economia, ndtr.].

Il tipo sbagliato di discorso

I responsabili politici capiscono sempre di più il potere delle reti sociali, ragione per cui possono sfruttarlo al meglio per i propri fini. Dopo lo choc della vittoria elettorale di Trump alla fine del 2016, negli Stati Uniti e nel Regno Unito i dirigenti di Facebook, Google e Twitter sono stati regolarmente portati davanti a commissioni parlamentari di sorveglianza.

Queste reti sociali si vedono regolarmente rimproverare dai responsabili politici di essere all’origine di una crisi di “notizie false”, una crisi in realtà molto precedente alle reti sociali, come testimonia anche troppo chiaramente la truffa da parte dei responsabili politici americani e britannici che ha messo Saddam Hussein in relazione con l’11 settembre ed affermato che l’Iraq possedeva “armi di distruzione di massa”.

I responsabili politici hanno allo stesso modo cominciato ad accusare le società di internet di “ingerenza straniera” nelle elezioni in Occidente, rimproveri in genere rivolti alla Russia, nonostante la mancanza di prove serie che confermino la maggior parte delle loro affermazioni.

Pressioni politiche vengono esercitate non per rendere le imprese più trasparenti e responsabili, ma per spingerle ad applicare in modo ancora più assiduo restrizioni contro i discorsi sbagliati, che si tratti di razzisti violenti a destra o di detrattori del capitalismo e delle politiche dei governi occidentali a sinistra.

È per questo che diventa sempre più vuota l’immagine originale delle reti sociali come luoghi neutrali di condivisione delle informazioni, come strumenti che permettono di diffondere il dibattito pubblico e incrementare l’impegno civico, o ancora di sviluppare un discorso orizzontale tra ricchi e potenti da una parte e deboli ed emarginati dall’altra.

Diritti informatici differenti

È in Israele che i rapporti tra il settore delle tecnologie e i responsabili statali sono più evidenti. Ciò ha determinato una notevole differenza nel trattamento riservato ai diritti informatici degli israeliani e dei palestinesi. La sorte dei palestinesi in rete lascia presagire un futuro in cui quelli che sono già potenti eserciteranno un controllo sempre maggiore su ciò che dobbiamo sapere e siamo autorizzati a pensare, su chi può continuare ad essere visibile e chi deve essere cancellato dalla vita pubblica.

Israele era già in buona posizione nell’utilizzo delle reti sociali prima che la maggioranza degli altri Stati avesse riconosciuto la loro importanza in materia di manipolazione degli atteggiamenti e delle percezioni della gente. Per decenni Israele ha subappaltato un programma ufficiale di hasbara, o propaganda di Stato, ai propri cittadini e ai propri sostenitori all’estero. Con l’apparizione di nuove piattaforme informatiche, questi sostenitori non vedevano l’ora di espandere il proprio ruolo.

Israele ne poteva trarre un altro beneficio. Dopo l’occupazione della Cisgiordania, di Gerusalemme e di Gaza nel 1967, ha iniziato ad elaborare un discorso sulla vittimizzazione dello Stato, ridefinendo l’antisemitismo per far intendere che ormai questo male affliggesse in particolare la sinistra, e non la destra. Questo “nuovo antisemitismo” non prendeva di mira gli ebrei ma riguardava piuttosto le critiche nei confronti di Israele e il sostegno a favore dei diritti dei palestinesi.

Questo discorso molto discutibile si è dimostrato facile da sintetizzare in piccole frasi adatte alle reti sociali.

Israele definisce ancora correntemente “terrorismo” qualunque resistenza palestinese alla sua violenta occupazione o alle sue colonie illegali, descrivendo le dimostrazioni di sostegno da parte di altri palestinesi come “incitamento all’odio”. La solidarietà internazionale nei confronti dei palestinesi è definita “delegittimazione” ed equiparata all’antisemitismo.

Inondare internet”

Già nel 2008 si è scoperto che una lobby mediatica filo-israeliana, Camera, architettava iniziative segrete da parte di sostenitori di Israele per infiltrarsi nell’enciclopedia in rete Wikipedia per modificare delle voci e “riscrivere la storia” da un punto di vista favorevole a Israele. Poco dopo l’uomo politico Naftali Bennett [estrema destra dei coloni, ndtr.] ha contribuito a organizzare corsi di “revisione sionista” di Wikipedia.

Nel 2011 l’esercito israeliano ha dichiarato che le reti sociali costituiscono un nuovo “campo di battaglia” e ha incaricato dei “cyber-guerrieri” di condurre la battaglia in rete. Nel 2015 il ministero degli Affari Esteri israeliano ha organizzato un centro di comando supplementare per reclutare giovani ex-soldati ed esperti tecnologici all’interno dell’Unità 8200, unità di sorveglianza informatica dell’esercito, per condurre la battaglia in rete. Molti di loro hanno in seguito creato imprese di tecnologia avanzata, per cui informatici dello spionaggio hanno fatto parte integrante del funzionamento delle reti sociali.

Act.IL, un’applicazione lanciata nel 2017, ha permesso di mobilitare i sostenitori di Israele perché si “annidassero” in siti che ospitavano critiche verso Israele o sostegno per i palestinesi. Sostenuta dal ministero degli Affari Strategici di Israele, questa iniziativa era diretta da veterani dei servizi di informazione israeliani.

Secondo Forward, rivista ebrea americana, i servizi di informazione israeliani sono in stretto rapporto con Act.IL e chiedono aiuto per ottenere che le reti sociali ritirino alcuni contenuti, in particolare dei video. “Il suo lavoro offre finora un quadro impressionante del modo in cui potrebbero plasmare delle conversazioni in rete riguardo ad Israele senza mai farsi vedere”, ha osservato Forward poco tempo dopo l’implementazione dell’applicazione. Sima Vaknin-Gil, un’ex- censore dell’esercito israeliano che all’epoca era di stanza al ministero degli Affari Strategici di Israele, ha dichiarato che l’obiettivo era di “creare una comunità di combattenti” la cui missione consisteva nell’ “inondare internet” di propaganda israeliana.

Alleati volenterosi

Grazie a vantaggi in termini di effettivi e di zelo ideologico, di esperienza tecnologica e di propaganda, di influenze nelle alte sfere a Washington e nella Silicon Valley, Israele ha rapidamente potuto trasformare le reti sociali in alleati volonterosi nella sua lotta per emarginare i palestinesi in rete.

Nel 2016 il ministero della Giustizia israeliano si vantava che Facebook, Google e YouTube “si adeguano per il 95% alle richieste israeliane di eliminazione di contenuti,” questi ultimi provenienti quasi tutti da palestinesi. Le società che dirigono le reti sociali non hanno confermato questo dato.

L’Anti-Difamation League, un’associazione della lobby filo-israeliana che è solita calunniare le organizzazioni palestinesi e i gruppi ebraici critici con Israele, nel 2017 ha creato un “centro di comando” nella Silicon Valley per sorvegliare quelli che definisce “discorsi di odio in rete”. Lo stesso anno la lobby è diventata un “Trusted Flagger ” [lett. fidato segnalatore, persona o ente di cui una rete sociale accoglie le indicazioni, ndtr.] per YouTube, cosa che significa che le sue segnalazioni su contenuti da ritirare sono diventate prioritarie.

Durante una conferenza organizzata a Ramallah nel 2018 da 7amleh, un gruppo palestinese di difesa dei diritti in rete, i rappresentanti locali di Google e Facebook non hanno affatto nascosto le rispettive priorità. Per loro era importante evitare di contrariare i governi che hanno il potere di limitare le loro attività commerciali, anche se questi governi si dedicano a sistematiche violazioni del diritto internazionale e dei diritti dell’uomo. In questa battaglia l’Autorità Nazionale Palestinese non ha alcun peso. Israele ha messo le mani sulle infrastrutture della comunicazione e internet dei palestinesi, ne controlla l’economia e le principali risorse.

Dal 2016 il ministero della Giustizia israeliano avrebbe eliminato decine di migliaia di post da parte di palestinesi. Attraverso un processo assolutamente oscuro, Israele individua con i propri algoritmi i contenuti che ritiene “estremisti” e poi ne chiede la cancellazione. Centinaia di palestinesi sono stati arrestati da Israele dopo che avevano pubblicato commenti sulle reti sociali, con la conseguenza di limitare l’attività in rete.

Alla fine dello scorso anno Human Rights Watch [nota Ong britannica che si occupa di diritti umani, ndtr.] ha informato che Israele e Facebook spesso non fanno alcuna differenza tra critiche legittime a Israele e istigazione all’odio. Al contrario, mentre Israele svolta sempre più a destra, il governo Netanyahu e le reti sociali non hanno bloccato l’ondata di messaggi in ebraico che incitano all’odio e alla violenza contro i palestinesi. Come ha rilevato 7anleh, contenuti razzisti o che incitano alla violenza contro i palestinesi sono pubblicati da israeliani quasi ogni minuto.

Account di agenzie di stampa chiusi

Oltre a cancellare decine di migliaia di post di palestinesi, Israele ha convinto Facebook a ritirare gli account delle agenzie di stampa e di giornalisti palestinesi di spicco.

Nel 2018 l’opinione pubblica palestinese si è talmente indignata che, con l’hashtag #FBcensorsPalestine, è stata lanciata una campagna di proteste in rete e di appelli al boicottaggio di Facebook.

Nello stesso modo negli Stati Uniti e in Europa è stato preso di mira l’attivismo solidale con i palestinesi. Le pubblicità di film, come i film stessi, sono stati ritirati ed eliminati dai siti web.

In settembre Zoom, un sito di videoconferenze che ha conosciuto un boom durante la pandemia di COVID-19, si è unito a YouTube e Facebook per censurare un webinar organizzato dall’università statale di San Francisco con la partecipazione di Leila Khaled, icona del movimento della resistenza palestinese, che oggi ha 76 anni.

A fine ottobre Zoom ha bloccato una seconda apparizione prevista di Khaled, questa volta in un webinar dell’università delle Hawaii e dedicato alla censura, come una serie di altri eventi organizzati negli Stati Uniti per protestare contro la sua cancellazione da parte del sito. Con un comunicato pubblicato riguardo alla giornata di lotta, i campus “si sono uniti alla campagna per resistere al soffocamento dei discorsi e delle voci palestinesi nelle imprese e nelle università.”

Questa decisione, che costituisce un attacco flagrante alla libertà accademica, sarebbe stata presa in seguito a forti pressioni esercitate sulle reti sociali dal governo israeliano e da gruppi di pressione antipalestinesi, che hanno giudicato “antisemita” il webinar.

Villaggi cancellati dalla mappa

Il livello in cui la discriminazione dei giganti tecnologici contro i palestinesi è strutturale e radicato è stato messo in evidenza dalla lotta condotta da molti anni dagli attivisti per includere i villaggi palestinesi nelle mappe in rete e sui GPS, ma anche per attribuire ai territori palestinesi il nome di “Palestina”, in base al riconoscimento della Palestina da parte delle Nazioni Unite.

Questa campagna segna notevolmente il passo, anche se più di un milione di persone ha firmato una petizione di protesta. Sia Google che Apple resistono strenuamente a queste richieste: centinaia di villaggi palestinesi non compaiono sulle loro mappe della Cisgiordania occupata, mentre le illegali colonie israeliane sono identificate nel dettaglio e viene loro accordato lo stesso status delle comunità palestinesi che vi si trovano.

I territori palestinesi occupati sono indicati sotto il nome di “Israele”, mentre Gerusalemme est viene presentata come la capitale unificata e indiscussa di Israele, come esso pretende, cosa che rende invisibile l’occupazione della parte palestinese della città.

Queste decisioni sono tutt’altro che neutrali sul piano politico. Da molto tempo i governi israeliani perseguono un’ideologia del “Grande Israele” che esige di cacciare i palestinesi dalle loro terre. Questo programma di spoliazione, inteso ad annettere intere parti della Cisgiordania, quest’anno è stato formalizzato dai progetti sostenuti dall’amministrazione Trump.

Nei fatti Google ed Apple sono conniventi con questa politica, contribuendo a cancellare la presenza visibile dei palestinesi nella loro patria. Come di recente hanno evidenziato George Zeidan ed Haya Haddad, due accademici palestinesi, “quando Google ed Apple cancellano dei villaggi palestinesi dal loro sistema di navigazione identificando in evidenza le colonie, si rendono complici del discorso nazionalista israeliano.”

Rapporti usciti dall’ombra

I rapporti sempre più stretti tra Israele e le imprese delle reti sociali si giocano in gran parte dietro le quinte. Ma questi legami sono usciti dall’ombra in modo decisivo lo scorso maggio, quando Facebook ha annunciato che il suo nuovo organo di vigilanza include Emi Palmor, una degli architetti della politica repressiva in rete condotta da Israele contro i palestinesi.

Questo organo di vigilanza prenderà decisioni che faranno giurisprudenza e contribuiranno a forgiare le politiche di Facebook e di Instagram in tema di censura e di libertà d’espressione. Ma in quanto ex-direttrice generale del ministero della Giustizia [israeliano], Emi Palmor non ha dimostrato alcun impegno in favore della libertà d’espressione in rete.

Al contrario: ha lavorato mano nella mano con i giganti della tecnología per censurare i post dei palestinesi e chiudere i siti d’informazione palestinesi. Ha supervisionato la trasformazione del suo dipartimento in quello che l’organizzazione per la difesa dei diritti dell’uomo Adalah ha paragonato al “ministero della Verità” orwelliano.

Le imprese tecnologiche sono ormai arbitre non dichiarate della nostra libertà d’espressione, motivate dal profitto. Non si impegnano a favore di un dibattito pubblico aperto e vivace, di una trasparenza in rete o di una maggiore partecipazione civica. Il loro unico impegno consiste nel mantenere un contesto commerciale che permetta loro di evitare che le norme decise dai principali governi danneggino il loro diritto a guadagnare dei soldi.

La nomina di Palmor evidenzia perfettamente il rapporto inficiato dalla corruzione tra il governo e le reti sociali. I palestinesi sanno benissimo come sia facile per l’industria tecnologica attenuare e far sparire le voci dei deboli e degli oppressi amplificando nel contempo quelle dei potenti.

Molti di noi potrebbero presto conoscere in rete la stessa sorte dei palestinesi.

– Jonathan Cook è un giornalista inglese che vive a Nazareth dal 2001. Ha scritto tre opere sul conflitto israelo-palestinese ed ha ottenuto il premio speciale del giornalismo Martha Gellhorn.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)