Le elezioni rivelano una profonda spaccatura nella destra israeliana.

Meron Rapoport

19 settembre 2019 + 972

Il potere politico del movimento dei coloni, una volta un’élite in ascesa, è ora in declino.

Mentre gli analisti politici si chiedono se siamo arrivati alla fine dell’era Netanyahu, si presta poca attenzione a un altro importante risultato di queste elezioni, cioè il declino del potere politico del movimento nazionalista religioso. Un tempo questi “signori della terra”, come si autodefiniscono, pensavano di essere sulla strada giusta per diventare la nuova élite politica e culturale di Israele. Ma i dati dimostrano che il loro influsso politico sta calando.

Il Likud è sempre stato al centro del blocco di destra. Negli ultimi decenni ha assorbito i partiti che rappresentano tre grandi gruppi demografici: gli ultraortodossi, gli immigrati dall’ex Unione Sovietica e il movimento nazionalista religioso o dei coloni. Netanyahu ha creato un blocco politico coerente che, ad ogni elezione, ha garantito una maggioranza praticamente automatica alla destra.

Netanyahu ha fatto del consolidamento del blocco dell’ala destra lo scopo della sua vita politica, basandosi sulla convinzione che fosse il modo migliore per evitare uno Stato palestinese. Quindi ha rafforzato i legami del Likud con il campo nazionalista religioso, poiché la loro lealtà alla Terra di Israele era indiscussa, a differenza di quella della vecchia base del Likud, più interessata al libertarismo che all’espansionismo territoriale. Questo è uno dei motivi per cui Netanyahu si è circondato di gente che indossa lo yarmulke [tipico copricapo degli ebrei osservanti, ndtr.] all’uncinetto, preferito dai coloni nazionalisti religiosi.

Le elezioni di aprile hanno creato una spaccatura nel blocco di destra, che ha visto i partiti che rappresentano gli ultraortodossi e gli elettori dall’ex Unione Sovietica distanziarsi dagli ideologi nazionalisti religiosi, di cui non condividono la visione del mondo. Infatti non sono mai stati particolarmente interessati né all’idea di controllare la Grande Terra Biblica di Israele, né al progetto delle colonie.

Lieberman non ha dovuto faticare molto per convincere i falchi della sua base secolare proveniente dall’ex Unione Sovietica che gli ultraortodossi erano il loro più grande nemico. Gli ultraortodossi sono quelli che mettono in discussione la loro identità ebraica e che cercano di imporre il loro stile di vita religioso, con il rifiuto di permettere i trasporti pubblici di sabato e i tentativi di controllare la vendita di cibi non kosher.  Gli ultraortodossi hanno reagito.

Alle elezioni del 17 settembre, entrambi i gruppi sono cresciuti, Lieberman ha fatto crescere il suo partito da cinque a otto seggi e gli ultra-ortodossi sono saliti da 16 a 17. Ma ci sono poche possibilità che i partiti di destra si uniscano di nuovo per ricostruire un’alleanza forte come in passato.

Ancora più interessante è la sorte dei partiti nazionalisti religiosi, che hanno legato il proprio destino al Likud. Ad aprile avevano vinto 44 seggi (35 per il Likud, 4 per Kahlon [leader del partito di centro Kulanu, ndtr.] e 5 per l’Unione dei partiti di destra), più 4 dal partito New Right [Nuova Destra, partito dei coloni, ndtr] di Bennett e Shaked e altri 3 dal partito Jewish Leadership [Dirigenza Ebraica, partito sionista libertario, ndtr.] di Moshe Feiglin. Complessivamente, 51 seggi sono andati al blocco di destra.

Queste elezioni hanno visto affievolirsi il potere del movimento religioso nazionalista. Il Likud ha conquistato solo 31 seggi, un calo rispetto ai 35 di aprile. Netanyahu ha ottenuto solo 38 seggi per il suo blocco, nonostante quelli vinti con i voti dei sostenitori di Kahlon, Feiglin, Smotrich, Rafi Peretz, Shaked e Bennett. La lista kahanista di Otzma Yehudit (Jewish Power) non ha superato la soglia, ma anche se lo avesse fatto, avrebbe portato solo quattro seggi in più, arrivando a 41, mentre il minimo necessario per un governo di coalizione è di 61 seggi.

L’equilibrio di potere nella destra politica è ora scosso, con implicazioni cruciali. Se i partiti ultra-ortodossi vedranno che collaborare con il blocco dell’ala destra non garantisce loro un incarico nel governo, rivaluteranno la loro alleanza. Se gli elettori dell’ex Unione Sovietica vedranno che scontrarsi con gli ultraortodossi ne fa l’ago della bilancia nell’arena politica israeliana, non si affretteranno a rientrare nel blocco di Netanyahu.

Il movimento nazionalista religioso pagherà il prezzo politico più alto per una tale ridistribuzione dell’equilibrio del potere. Nonostante la loro percezione di sé come signori della terra, non sono mai riusciti ad entrare in politica come partito indipendente. Invece di diventare la “nuova élite”, il movimento dei coloni starebbe per diventare un peso politico, proprio come il movimento dei kibbutz, ormai quasi dimenticato, che divenne praticamente irrilevante nel 1977 quando Menachem Begin guidò il Likud alla vittoria. Non siamo ancora arrivati a quel punto, ma ci siamo più vicini di quanto chiunque avesse potuto pensare sei mesi fa.

(traduzione  di Mirella Alessio)




Pretesti della polizia contro attivista palestinese

Per la polizia di Gerusalemme anche dirigere il traffico è una forma di terrorismo

Uno dei più importanti attivisti politici di Gerusalemme est è stato arrestato per appoggio al terrorismo mentre stava cercando di risolvere un ingorgo stradale nel suo quartiere

Oren Ziv

29 agosto 2019  +972

All’inizio di questa settimana la polizia israeliana ha arrestato a Gerusalemme est un noto attivista palestinese con l’accusa di aver incoraggiato gli automobilisti ad investire dei poliziotti israeliani, mentre dirigeva il traffico nel suo quartiere.

Muhammad Abu Hummus, uno dei più importanti attivisti a Issawiya, che ha documentato le quotidiane incursioni della polizia nel quartiere negli ultimi mesi, è stato arrestato domenica dopo aver messo in rete un video che riprendeva se stesso mentre dava indicazioni di guida a un’automobilista palestinese in mezzo a un ingorgo stradale.

Lunedì Abu Hummus è stato portato dinnanzi alla pretura di Gerusalemme, dove rappresentanti della polizia hanno detto al giudice che lui aveva incoraggiato l’automobilista ad investirli. Nel video si può sentire Abu Hummus che aiuta a dirigere il traffico nel centro di Issawiya, mentre i poliziotti stanno a guardare. Quando si avvicina un’automobilista palestinese esitante, si sente Abu Hummus che le dice ‘id’asi’, che in arabo significa ‘vai avanti’. Tuttavia, per la maggioranza degli ebrei israeliani, suona simile al termine ebraico ‘tidresi’, che significa ‘travolgere’. Abu Hummus è stato arrestato quattro giorni dopo che il video è stato postato su Facebook.

La pretura ha rilasciato Abu Hummus un giorno dopo il suo arresto. La polizia è ricorsa in appello presso la Corte distrettuale di Gerusalemme, che ha prorogato la sua custodia cautelare fino a martedì pomeriggio e gli ha ordinato di stare lontano dal quartiere per 15 giorni. Da allora Abu Hummus ha dormito in una stazione di servizio all’entrata di Issawiya.

A dispetto delle accuse della polizia, il video mostra che i poliziotti presenti non erano in pericolo, non hanno risposto direttamente ad Abu Hummus quando lui ha parlato in arabo all’automobilista e non lo hanno arrestato sul posto. I verbali delle sue audizioni rivelano che la polizia aveva altre motivazioni per l’arresto.

“Lui si presenta in occasione di ogni disordine o tutte le volte che arrivano poliziotti a Issawiya. Sobilla e si prende gioco dei poliziotti. Tutti i poliziotti lo conoscono”, ha detto il rappresentante della polizia Haitham Trody lunedì al giudice della Corte distrettuale. “Lo abbiamo arrestato perché non è un elemento positivo a Issawiya”, ha detto un altro rappresentante della polizia.

Michal Peleg, un’attivista dell’associazione [di israeliani e palestinesi, ndtr.] contro l’occupazione “Ta’ayush”, che era presente quando è stato girato il video, ha detto che è stata una  giornata come le altre a Issawiya. “Verso le 18,30 dei giovani poliziotti di frontiera hanno iniziato a marciare per il quartiere. Li abbiamo seguiti insieme a Abu Hummus ed abbiamo scattato fotografie. Mentre eravamo sulla strada principale uno dei poliziotti si è improvvisamente voltato e senza alcun motivo ha sparato verso di noi una granata stordente, che ha infranto il parabrezza di un’auto.”

Dice che i veicoli della polizia che tutti i giorni entrano nel quartiere bloccano le strette vie di Issawiya, provocando grossi ingorghi stradali e creando caos.

“Abu Hummus stava cercando di risolvere un ingorgo creato dalla polizia. L’automobilista era vicino a noi e lui le ha indicato di andare avanti per non bloccare il traffico”, ha aggiunto.

Peleg non ha dubbi che la polizia stia cercando tutti i modi per fermare Abu Hummus. “Cercano qualunque pretesto per arrestarlo, quindi a qualcuno è venuta l’idea che il video sarebbe stato utile. Hanno interesse a toglierlo di mezzo perché lui è una fonte di ispirazione per la resistenza civile nonviolenta e documenta ciò che loro fanno nel quartiere.”

 

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




Dalle ondate di caldo all’ “apartheid ecologico”: cambiamento climatico in Israele-Palestina

Matan Kaminer, Basma Fahoum ed Edo Konrad

8 agosto 2019 – +972

Mentre il nascente movimento per la giustizia climatica in Israele cerca di attirare l’attenzione dell’opinione pubblica, i palestinesi sotto occupazione rimangono estremamente vulnerabili ai pericolosi effetti del cambiamento climatico. Tuttavia, a causa dello squilibrio di potere esistente, lavorare insieme per combatterlo sembra quasi impossibile.

Secondo i ricercatori del clima europei, il luglio 2019 è stato il mese più caldo mai registrato. Dopo solo un anno da quando la Commissione Intergovernativa sul Cambiamento Climatico dell’ONU ha reso pubblico il suo storico rapporto che mette in guardia su un’imminente catastrofe climatica, le temperature sono vertiginosamente aumentate in luoghi come Alaska e Svezia, sono state ridotte in cenere foreste in Siberia, si sono sciolti ghiacciai in Groenlandia e intere città sono rimaste senz’acqua in India.

Di fronte a un aumento delle temperature, affrontare la crisi climatica e i suoi effetti sugli esseri umani è diventato un problema cruciale per governi, politici e movimenti per la giustizia sociale in tutto il mondo. Si prevede che Israele-Palestina, situati in una delle regioni più calde del globo, vedranno un aumento delle temperature a un ritmo ancora più veloce.

Sondaggi effettuali tra gli israeliani mostrano una notevole indifferenza nei confronti dell’imminente crisi, il che significa che il governo israeliano deve affrontare una scarsa pressione popolare riguardo al problema. Non sono state fatte ricerche simili nei territori palestinesi occupati, ma la continua occupazione della Cisgiordania e l’assedio di Gaza accentuano il rischio di una catastrofe climatica per i palestinesi e al contempo rendono in pratica impossibile per il loro governo fare qualcosa al riguardo.

Alla fine dello scorso anno un gruppo di ricercatori israeliani ha pubblicato la prima previsione su quello che il cambiamento climatico potrebbe significare per Israele-Palestina. I risultati sono stati terrificanti: rispetto al periodo di riferimento 1981-2010, si prevede che il lasso di tempo di 30 anni che inizierà nel 2041 vedrà temperature medie in aumento di 2,5° e una riduzione delle precipitazioni fino al 40% nelle zone non aride del Paese.

Secondo uno dei ricercatori, la professoressa Hadas Saaroni dell’università di Tel Aviv, il caldo e l’umidità che israeliani e palestinesi che vivono lungo la costa avvertono durante i mesi estivi non farà che crescere in modo più estremo. Sostiene che in estate abbiamo già quasi 24 ore di stress termico, ma che tende a ridursi nelle ore serali e notturne. “Ciò peggiorerà: lo stress termico sarà più pesante di giorno e non si ridurrà di notte.” E, come praticamente tutto ciò che si riferisce al cambiamento climatico, il caldo non sarà distribuito in modo equilibrato. Una recente ricerca del comune di Tel Aviv-Jaffa prevede che le temperature nelle zone povere del sud della città saliranno di sette gradi Celsius più che nei ricchi quartieri settentrionali.

Mentre Saaroni è sorprendentemente ottimista riguardo agli effetti del cambiamento climatico sul livello del mare (“il mare salirà di circa un metro, ma solo alla fine del secolo. Con la tecnologia abbiamo il tempo di adeguarci”), lei e altri scienziati del clima israeliani sono sempre più preoccupati della strisciante desertificazione del Paese. Temperature in aumento e minor piovosità significano che il deserto, che già copre buona parte del Paese, si estenderà lentamente verso nord, sostiene il professore di ecologia Marcelo Sternberg, anche lui dell’università di Tel Aviv.

Tuttavia senza ulteriori studi è difficile dire fino a dove arriverà la desertificazione. “Alcune ricerche, compresa la mia, mostrano che il nostro territorio è resistente ai cambiamenti della piovosità all’interno della gamma naturale di variazioni,” dice Sternberg. “Ma cambiamento climatico significa temperature al di fuori di quella gamma – e non sappiamo cosa ciò significhi.” Quello che pare certo è che gli incendi, che negli ultimi anni hanno colpito sempre più frequentemente il Paese, continueranno a devastarlo durante le estati.

Lottare contro l’“apartheid climatico”

Lo Stato di Palestina ha firmato la Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sul Cambiamento Climatico. Ma, a causa del governo militare israeliano in Cisgiordania e del blocco della Striscia di Gaza, i palestinesi non hanno praticamente alcun controllo sulle proprie risorse naturali, e non sono in grado di mettere pienamente in atto i trattati o di adottare progetti nazionali, e non possono fare piani concreti per adattarsi alla crisi climatica.

In Cisgiordania la fornitura di acqua è più vulnerabile agli effetti del cambiamento climatico. Secondo un rapporto del 2013 dell’associazione palestinese per i diritti umani “Al-Haq”, il consumo pro capite di acqua per uso domestico degli israeliani è da quattro a cinque volte maggiore di quello della popolazione palestinese dei territori occupati. In Cisgiordania i coloni israeliani consumano circa sei volte la quantità di acqua usata dalla popolazione palestinese che vive nello stesso territorio.

Alcune comunità palestinesi, soprattutto quelle che vivono in zone della Cisgiordania sotto totale controllo militare israeliano, non sono collegate con alcuna infrastruttura idrica e devono percorrere chilometri per procurarsi l’acqua, che spesso è cara e di dubbia qualità. Nel contempo l’esercito israeliano rende quasi impossibile avere l’autorizzazione per nuovi serbatoi d’acqua, e quelli costruiti senza permesso sono regolarmente distrutti dalle autorità. Secondo Al-Haq, il settore idrico nei territori occupati e in Israele è caratterizzato da uno sfruttamento eccessivo notevolmente asimmetrico delle risorse idriche condivise, da un esaurimento dello stoccaggio a lungo termine, da un deterioramento della qualità dell’acqua e da crescenti livelli di domanda provocati da alti tassi di incremento della popolazione. Nel contempo la zona sta assistendo a una diminuzione della fornitura di acqua pro capite – un peso che è sproporzionatamente a carico della popolazione palestinese.

Il dottor Abdulrahman Tamimi, direttore generale del Gruppo Idrologico Palestinese, afferma che, mentre Israele ha le competenze tecnologiche per adattare il proprio settore agricolo ai cambiamenti del clima, in Cisgiordania entro un decennio l’agricoltura diverrà impraticabile. La situazione a Gaza è aggravata dall’assedio israeliano, che tra le altre cose ha portato all’eccessivo sfruttamento delle risorse idriche del sottosuolo che sta sempre più esaurendo l’Acquifero costiero, il che ha reso non potabile il 90% della fornitura d’acqua.

“Non c’è speranza per Gaza da nessun punto di vista finché la situazione politica là rimane senza soluzione,” sostiene Tamimi. Afferma di credere che entro i prossimi cinque o sei anni l’agricoltura di Gaza, le infrastrutture idriche e l’economia non funzioneranno più. Soluzioni come la desalinizzazione, che consentirebbe di avere sia acqua potabile che un’irrigazione regolare, sono lussi che la gente di Gaza semplicemente non si può permettere, spiega Tamimi: “Chi potrebbe pagare 1,5 dollari al metro cubo?”

“L’acqua è già una risorsa così rara nella regione,” dice Zena Agha, l’esperta di politica USA del gruppo di analisi palestinese Al-Shabaka, che si concentra sull’intersezione tra il clima e l’occupazione israeliana, “che il cambiamento climatico agisce semplicemente come un peggioramento della minaccia.” Agha afferma che sulla carta un accordo di pace tra israeliani e palestinesi dovrebbe poter risolvere la crisi idrica in Cisgiordania. Invece gli accordi di Oslo, una serie di intese provvisorie che due decenni fa avrebbero dovuto portare a un accordo per uno status finale, l’hanno solo peggiorata. In seguito a ciò, l’80% delle risorse idriche nei territori occupati è sotto controllo israeliano. Nel contempo i soldati israeliani distruggono regolarmente sistemi di raccolta dell’acqua tradizionali a livello locale utilizzati dai palestinesi nelle zone della Cisgiordania lasciati da Oslo sotto totale controllo militare israeliano.

“Si comincia a vedere una politica ufficiale di sottrazione dell’acqua e delle risorse, sostenuta e delineata da una serie di leggi, politiche, licenze, permessi e udienze in tribunale utilizzati per rubare l’acqua dei palestinesi,” dice Agha. “D’altra parte, c’è anche una sorta di approccio concreto, che coinvolge l’esercito israeliano che si presenta, dichiara un’area militare chiusa e ruba direttamente le risorse. Questa è la politica attiva dello Stato israeliano.” Agha dice che le politiche israeliane in Cisgiordania equivalgono a un “apartheid climatico”.

“Quanto sta avvenendo in Palestina è un chiaro esempio di un gruppo etnico-religioso che possiede risorse migliori e preferenziali rispetto a un altro gruppo, esclusivamente sulla base della religione e della cittadinanza. L’occupazione crea una situazione in cui è impossibile per i palestinesi sviluppare realmente le capacità di adattamento per resistere alla minaccia davvero incombente del cambiamento climatico,” dice Agha.

Agha sostiene che, mentre l’Autorità per la Qualità dell’Ambiente dell’Autorità Nazionale Palestinese ha elaborato un piano di adeguamento sostenuto dal Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite, simili piani sono “quasi ridicoli”.

“Supponiamo che l’ANP [Autorità Nazionale Palestinese, ndtr.] abbia la possibilità di pianificare con 40 anni di anticipo: per ora non ha neppure il potere di prevedere cosa succederà domani. L’ANP si trova in un paradosso: pianificare per il futuro su una terra su cui non ha controllo. Da ogni punto di vista è priva di potere.”

Eppure Agha crede che l’ANP abbia un ruolo da giocare nel mettere in atto strategie a lungo termine per cercare di adattarsi all’attuale situazione, compreso il contrasto diretto con Israele riguardo alle politiche sull’acqua, promuovendo un’agricoltura sostenibile ed ecologica, ripristinando le cooperative agricole, che hanno rappresentato gli interessi e le preoccupazioni dei contadini e negli anni ’80 erano apprezzate nei territori occupati.

Alcune Ong e attivisti palestinesi stanno cercando di approfittare del vuoto lasciato. Per esempio la Società per la Natura in Palestina sta tentando di condurre la prima ricerca complessiva su flora e uccelli della Palestina, per comprendere meglio i cambiamenti della biodiversità in conseguenza del cambiamento climatico. L’Istituto Palestinese per la Biodiversità e la Sostenibilità e il Museo Palestinese di Storia Naturale presso l’università di Betlemme stanno dirigendo un progetto per la conservazione della biodiversità unica del Paese e per fare studi sulle complesse questioni della distruzione dell’habitat e del declino dell’ambiente provocati dal cambiamento climatico e dalle politiche del conflitto.

In Cisgiordania attivisti palestinesi hanno creato iniziative ambientali come archivi dei semi tradizionali che preservano il patrimonio agricolo e la biodiversità palestinesi, l’ agro-ecologia e l’agricoltura sostenuta dalla comunità, per promuovere la sovranità alimentare, riducendo al minimo gli effetti delle coltivazioni sull’ambiente.

Una politica senza sbocco

Nel luglio 2018 il governo israeliano ha adottato il “Programma Nazionale per l’Adeguamento al Cambiamento Climatico”, che include 30 punti di azione che affrontano vari aspetti del cambiamento climatico, come acqua, energia e salute pubblica. Il piano si occupa anche di problemi specifici delle preoccupazioni politiche ed economiche di Israele, compresi gli adeguamenti per l’industria ambientale, la possibilità di utilizzare energia nucleare e come il cambiamento climatico colpisca il Medio Oriente nel suo complesso, compresi rifugiati, nuove rotte commerciali, scarsità di cibo e di acqua.

Si presta particolare attenzione alle questioni della capacità di intervento dell’esercito. Il piano include raccomandazioni per affrontare le necessità materiali e strategiche delle IDF, che vanno dalle uniformi dei soldati e dalla dislocazione delle basi allo studio dell’“effetto del cambiamento climatico sui Paesi musulmani”, alla stipula di accordi di mutuo aiuto. Il piano tuttavia non specifica la fonte di finanziamento di ogni punto e non fornisce i costi totali previsti.

La produzione di energia di Israele rimane pressoché interamente basata su combustibili fossili. In molti Paesi in tutto il mondo le discussioni sul clima sono concentrate sul liberarsi dalla produzione di energia basata sui combustibili fossili – in seguito a forti pressioni dell’opinione pubblica, governi come quello della Germania e della California hanno annunciato un passaggio pianificato al 100% di energia rinnovabile entro il 2050 -, ma in Israele il problema rimane una questione politica senza sbocco. All’inizio del 2018 il ministro dell’Energia israeliano ha proposto un piano per passare dai “combustibili inquinanti” come carbone e petrolio al gas naturale. Il progetto intende raggiungere un obiettivo di appena il 17% della produzione da energia rinnovabile entro il 2030, con un obiettivo intermedio del 10% entro il 2020.

Tuttavia la richiesta di una produzione interna del 100% da energia rinnovabile ha oppositori persino all’interno il movimento ecologista israeliano. Mentre “Green Course”, un gruppo ambientalista di base, ha accolto la richiesta, la “Società per la Protezione della Natura in Israele”, l’organizzazione ambientalista israeliana più affermata, ha preso la posizione secondo cui solare ed eolico rappresentano una minaccia per la rara e pregiata biodiversità del Paese – il primo distrugge l’habitat della fauna terrestre e il secondo uccide gli uccelli.

“Stimiamo che i pannelli solari sui tetti e altre superfici alterate o deteriorate possano fornire almeno un terzo del fabbisogno di energia di Israele,” afferma Dror Boymel, capo del dipartimento di pianificazione presso l’SPNI. “Il resto dovrebbe venire da altre fonti – sia da gas naturale che da altri Paesi della regione che non hanno problemi di spazio e hanno una natura meno vulnerabile.”

É difficile parlare di render questo un posto migliore”

Uno studio pubblicato quest’anno dal centro di ricerche “PEW” prima del “Giorno della Terra” ha rilevato che solo il 38% degli israeliani considera il cambiamento climatico una grave minaccia. Su 26 Paesi in cui è stata fatta la ricerca Israele è arrivato per ultimo. Lo studio non include i palestinesi dei territori occupati.

Di conseguenza il movimento ambientalista israeliano sta cambiando marcia. Mentre in passato i gruppi ecologisti hanno teso a concentrarsi su problemi “lievi” come il riciclaggio, oggi la crisi climatica è in cima alla loro agenda, e molti che sono convinti che solo un’azione radicale sarà in grado di fermare la catastrofe.

“Gli ambientalisti non sono più considerati ‘simpatici’ come una volta,” dice Ya’ara Peretz, responsabile delle politiche di “Green Course”. Peretz è stata anche una delle principali organizzatrici della Marcia per il Clima di quest’anno, la più grande di sempre in Israele, che ha visto molte migliaia di persone protestare nel centro di Tel Aviv, con la richiesta che il governo di Israele prenda immediatamente misure. “Il rapporto dell’IPCC ha cambiato tutto e ha spinto la gente fuori dal proprio guscio,” dice. “Ci siamo resi conto del fatto che ciò è grave e quello che vediamo accadere nel mondo sta aiutando. Le persone vogliono essere coinvolte – ora è il momento di essere creativi.”

Secondo Peretz uno dei maggiori cambiamenti è l’impegno di giovani cittadini israeliani – sia ebrei che palestinesi – che ora stanno guidando il movimento con l’aiuto degli attivisti di “Green Course”. Prendendo esempio da Greta Thunberg, l’attivista svedese adolescente che è diventata l’icona della lotta contro il cambiamento climatico, studenti delle superiori hanno fatto vari scioperi e hanno marciato fino alla Knesset [il parlamento israeliano, ndtr.], chiedendo che i parlamentari inizino a prendere sul serio il problema. “Questi ragazzi sono molto più svegli di noi,” dice Peretz.

“Ho sempre pensato che i problemi fossero dovuti al fatto che qualcun altro stava prendendo le decisioni,” dice Lama Ghanayim durante un evento nel Left Bank Club di Tel Aviv a metà luglio. Ghanayim, della città araba di Sakhnin, nel nord di Israele, è una dei dirigenti degli scioperi studenteschi. “Organizzare questi scioperi è stata un’opportunità per ottenere finalmente qualcosa. Non voglio stare fuori e lasciare che qualcun altro prenda i comandi quando si tratta di una questione così grave,” dice Ghanayim.

Gruppi ambientalisti esperti come “Green Course” e SPNI non sono più le uniche voci che affrontano il problema del clima in Israele. Recentemente il movimento per l’azione diretta “Extinction Rebellion” ha aperto una sezione in Israele. Il movimento israeliano di sinistra “Standing Together”, che finora si era concentrato prevalentemente sulla lotta contro il razzismo, l’occupazione e l’appoggio ai diritti dei lavoratori, recentemente ha adottato il cambiamento climatico come questione centrale del suo programma.

“Tra gli attivisti c’è la sensazione che, quando passano dalle proteste per il clima a quelle per la pace, vedano facce completamente diverse,” dice Ilay Abramovitch, un attivista di Standing Together. “Non si tratta delle stesse persone. Ma se guardi in giro per il mondo vedrai che molti partiti di sinistra hanno il clima in cima al loro programma.”

Abramovitch dice che la visione della sua organizzazione si basa sull’idea che ogni lotta contro il cambiamento climatico debba essere intrapresa insieme ai sindacati e ai gruppi palestinesi. “Crediamo che, quando viene danneggiato l’ambiente, lo sono anche le persone, e quelli che sono più a rischio sono i segmenti più poveri della società e i Paesi più poveri. La nostra lotta deve essere regionale, e ovviamente deve essere di ebrei e arabi insieme.”

Ma anche se il lavoro comune di arabi ed ebrei sui problemi del clima risulta naturale per attivisti come Ghanayem e Abramovich, che sono cittadini di Israele, gli attivisti e gli accademici palestinesi della Cisgiordania si trovano di fronte a una decisione molto più complicata. Mentre si rendono conto che la pianificazione regionale è inevitabile, sono preoccupati che qualunque discussione di collaborazione con gli israeliani sulle questioni climatiche che non affronti l’occupazione serva a normalizzare una situazione politica in cui le comunità palestinesi sono le più vulnerabili al cambiamento climatico.

Ma persino nella sinistra israeliana unire le forze nel movimento ambientalista non sempre sembra una scelta naturale. “Alcune persone chiedono: ‘Cosa c’entra la sinistra con il movimento ambientalista? Perché non ci lasciate continuare a lottare contro l’occupazione?’” Dice Abramovitch. “La gente non capisce pienamente l’opportunità che abbiamo di creare una lotta più ampia occupandoci della crisi climatica.”

Peretz dice che, nonostante il suo ottimismo, è ancora difficile trovare israeliani, persino quelli coinvolti in altre lotte per la giustizia sociale, che vedano il cambiamento climatico come una minaccia immediata. “La lotta ambientalista è vista come una battaglia di privilegiati, soprattutto quando così tanti credono che niente sia più importante della nostra sicurezza nazionale,” dice. “È difficile parlare con la gente di fare di questo un posto migliore. La mentalità è che dovremmo semplicemente essere grati di avere uno Stato nostro – che sia uno Stato buono o giusto è secondario.”

Matan Kaminer è un antropologo e un membro del consiglio di amministrazione dell’Accademia per l’Uguaglianza [organizzazione israeliana per i diritti di tutti i cittadini, ndtr.].

Basma Fahoum è una dottoranda in storia alla Standford University.

Edo Konrad è vice direttore di +972 Magazine.

(traduzione di Amedeo Rossi)




L’esercito israeliano ha riconosciuto che non era necessario uccidere in tempo reale i manifestanti a Gaza

Edo Konrad

24 luglio 2019 – + 972

L’esercito israeliano ammette di aver segretamente cambiato la propria politica dopo che si è reso conto che sparare alle gambe a manifestanti disarmati era letale. Le associazioni per i diritti affermano che la rivelazione è un’ammissione che Israele ha ucciso i manifestanti senza alcuna giustificazione.

L’esercito israeliano avrebbe cambiato le regole sull’aprire il fuoco per i propri cecchini schierati lungo la barriera tra Israele e Gaza, dopo che è risultato chiaro che hanno ucciso senza che vi fosse necessità manifestanti palestinesi disarmati, cosa che le associazioni per i diritti umani ed altre denunciano da molto tempo.

Nel corso della Grande Marcia del Ritorno a Gaza i cecchini e i tiratori scelti israeliani hanno ucciso 206 manifestanti palestinesi e ferito migliaia di altri – compresi minori, medici e giornalisti. Le proteste settimanali tuttora in corso, che sono iniziate nel marzo 2018, chiedono la fine dell’assedio israeliano a Gaza e il diritto al ritorno per i rifugiati palestinesi.

La giornalista israeliana Carmela Menashe, reporter militare per la radio pubblica israeliana, all’inizio di questa settimana ha twittato che le IDF [esercito israeliano, ndtr] hanno apportato la modifica quando hanno capito che “sparare alla parte bassa del corpo sopra il ginocchio in molti casi ha provocato la morte, pur non essendo questo l’obbiettivo.” Secondo Menashe i soldati hanno ricevuto istruzioni di “sparare sotto il ginocchio e, in seguito, alle caviglie.”

Un alto ufficiale della scuola antiterrorismo dell’esercito ha detto al sito di notizie israeliano Ynet che l’obbiettivo dei cecchini “non era uccidere ma ferire, perciò una delle lezioni (apprese) è stata a che cosa dovessero sparare …Inizialmente gli abbiamo detto di sparare alle gambe, abbiamo capito che ciò poteva uccidere, per cui gli abbiamo detto di sparare sotto il ginocchio. In seguito abbiamo emesso un ordine più preciso di sparare alle caviglie.”

Una dichiarazione pubblicata mercoledì dall’associazione israeliana per i diritti umani B’Tselem accusa gli ufficiali israeliani di aver ammesso apertamente di essere a conoscenza che i loro soldati uccidevano persone che, “anche agli occhi dello Stato, non c’era ragione che venissero ammazzate.”

“Nessuno si è preoccupato di cambiare gli ordini e l’esercito ha continuato ad agire per tentativi ed errori, come se non si trattasse di persone reali che potevano essere uccise o ferite…Persone le cui vite, e le vite dei loro familiari, sono state distrutte per sempre”, ha dichiarato B’Tselem.

L’esercito israeliano ha a lungo sostenuto che le proteste presso la barriera dovrebbero essere considerate nel contesto di un conflitto armato a lungo termine con Hamas, quindi le regole per aprire il fuoco sono soggette alle norme di un conflitto armato, che consentono un più ampio margine di azione per l’uso della forza letale.

Le associazioni per i diritti umani e molte altre hanno respinto questa logica, sostenendo che trattare proteste civili come conflitti armati è illegale. Al culmine delle manifestazioni, mentre aumentava il numero delle vittime, la procuratrice della Corte Penale Internazionale ha pubblicato un avvertimento secondo cui “la violenza contro civili – in una situazione come quella attuale a Gaza” potrebbe costituire un crimine di guerra. Chiunque ordini, incoraggi o attui tale violenza, ha detto, “è passibile di incriminazione dinnanzi alla Corte.”

Nonostante le critiche internazionali e le richieste di un’indagine indipendente sull’uccisione di manifestanti disarmati a Gaza, le autorità israeliane hanno ripetuto gli ordini di aprire il fuoco sui manifestanti disarmati.

Lo scorso maggio l’Alta Corte di Giustizia israeliana ha respinto due ricorsi delle associazioni israeliane per i diritti umani che chiedevano la fine delle uccisioni di civili disarmati presso la barriera. L’esercito israeliano in quel caso ha sostenuto che i proiettili veri potevano essere usati in risposta a “violenti disordini che costituiscono un pericolo reale e imminente per le forze dell’esercito o per i civili israeliani”, e che le regole d’ingaggio consentono “di sparare con precisione alle gambe di un importante fomentatore o istigatore [di disordini], per evitare il pericolo di una rivolta violenta.”

Lo Stato Maggiore ha anche aggiunto che “vi è un sistematico processo di elaborazione di istruzioni operative e loro implementazione”, che l’esercito ha affinato le procedure riguardo ad aprire il fuoco per “ridurre ulteriormente il più possibile le morti”, e che i casi in cui sono stati uccisi dei palestinesi sono stati riferiti allo Stato Maggiore per ulteriori indagini.

Edo Konrad è scrittore, blogger e traduttore e vive a Tel Aviv. In precedenza ha lavorato come redattore al quotidiano Haaretz ed è attualmente vice caporedattore della rivista +972 Magazine.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Gli etiopi hanno l’opportunità di essere solidali con i palestinesi

Ashraf Ghandour – +972mag

Solomon Tekah è stato ucciso da un poliziotto israeliano perché era nero. I palestinesi che fanno notare che, in queste due forme di oppressione, l’oppressore è lo stesso hanno incontrato resistenza da parte della comunità etiope. Ma se questa prenderà coscienza della causa palestinese e del suo ruolo nel dramma di un popolo, potrà unirsi a un movimento trasversale

15 luglio 2019, Nena News – Da più di una settimana sto seguendo la battaglia, rumorosa e legittima, che gli etiopi israeliani stanno portando avanti contro il razzismo sistematico che li tiene sottomessi da 35 anni. Da palestinese, e da persona di colore, non posso che provare empatia per la loro sofferenza, oltre a uno strano senso di smarrimento perché noto che gli israeliani di ogni tipo non riescono a collegare la giusta lotta degli etiopi con quelle di altri gruppi oppressi da Israele.

Ma a Solomon Tekah hanno sparato perché era nero e, dato che io sono palestinese, non potevo che seguire la cosa molto attentamente.

Tekah, un etiope israeliano di 19 anni, è stato colpito la scorsa settimana, nel suo quartiere alla periferia di Haifa, da un poliziotto fuori servizio. Dopo gli spari, migliaia di persone della comunità etiope sono scese in strada per protestare contro il trattamento riservato alla loro gente dalle forze dell’ordine, nel tentativo di sensibilizzare l’opinione pubblica sull’oppressione che gli israeliani di origine etiope devono affrontare da quando hanno iniziato a migrare in Israele, alla metà degli anni ’80.

Tuttavia, i media israeliani hanno scelto immediatamente di concentrarsi sulla violenza e sugli atti vandalici di alcuni manifestanti etiopi contro la polizia, disumanizzando i manifestanti con appellativi come “animali”. Gran parte della copertura mediatica si è concentrata molto più sulle conseguenze sofferte dai civili bianchi, dei disordini nelle strade principali di Israele che sulla drammatica situazione dei manifestanti stessi.

Ho sentito professori di origine etiope parlare a nome dei manifestanti, paragonando la loro battaglia a quella delle comunità nere in America, a migliaia di chilometri di distanza. Tuttavia, nella maggior parte dei casi, chi fa dichiarazioni pubbliche ignora apertamente il dramma di quattro milioni di palestinesi rinchiusi in Cisgiordania e Gaza, prigioni a cielo aperto, così come del milione e novecentomila palestinesi cittadini di Israele: sono il 20% della popolazione, ma rappresentano oltre la metà della popolazione carceraria.

I palestinesi che fanno notare che, in queste due forme di oppressione, l’oppressore è lo stesso, hanno incontrato resistenza da parte della comunità etiope, che preferisce mantenere le distanze da tali associazioni.

L’assassinio di Solomon e la reazione della maggior parte degli israeliani ricordano l’assassinio, da parte della polizia, di Michael Brown a Ferguson, Missouri, a cui sono seguite proteste di massa della comunità nera. Mentre crescevano le proteste, molti bianchi americani erano occupati a discutere sulla validità dell’uso della violenza da parte dei manifestanti neri, distogliendo l’attenzione dalla brutalità della polizia e dalla storia di un diciottenne assassinato, che sarebbe stato loro dovere proteggere.

Nel frattempo, i manifestanti di Ferguson imparavano via Twitter dagli abitanti di Gaza – che erano nel bel mezzo della guerra di Gaza del 2014 – come affrontare i lacrimogeni. È stato un momento politico che ha contribuito a rafforzare la solidarietà tra il movimento di solidarietà con la Palestina e il Black Lives Matter. Questo tipo di solidarietà, però, sembra essere totalmente svanito in coloro che hanno parlato a nome della comunità etiope in Israele la scorsa settimana.

I palestinesi non hanno bisogno di dimostrare competenza in Teoria Politica per sapere dove condurrà la battaglia degli etiopi. Siamo troppo abituati alla persecuzione, all’incarcerazione, alla disumanizzazione e alla mancanza di alleati israeliani veramente solidali con noi. Abbiamo visto la nostra condizione trasformarsi in una discussione annacquata sull’uso della violenza nelle proteste; abbiamo sentito la frase “perdi quando tiri la prima pietra”; siamo vittime a cui viene data la colpa, e ci mettono alle strette per farci condannare le azioni violente da parte di una manciata di manifestanti, il tutto mentre il nostro messaggio viene lentamente sepolto insieme alle vittime dell’occupazione e della crudeltà. Siamo stati gasati con i lacrimogeni, arrestati, e ci hanno sparato, e quando abbiamo visto il giovane manifestante etiope in piedi su una macchina in corsa, mentre batteva i pugni sul parabrezza, la sua frustrazione e la sua rabbia ci sono suonate anche troppo familiari.

Ma la distanza tra empatia e solidarietà è grande. Dopotutto, sono vostre le facce che vediamo, e vostre le mani sotto i nostri vestiti ai check-point. I vostri uomini armati, molti della stessa età di Solomon, vengono spediti a proteggere gli insediamenti e a fare irruzione a casa nostra, nei nostri campi profughi. Forse la vostra cecità verso la nostra situazione è il risultato della promessa di combattere un nemico comune.

Quando Mohammed Ali rifiutò di combattere in Vietnam, disse chiaramente che “non aveva niente contro i Vietcong”, piuttosto ce l’aveva con la guerra. Ora, ve lo devo chiedere: che problema avete con il popolo palestinese? Riuscite a passare al prossimo livello, a fare vostro il valore della giustizia per tutti e a rifiutarvi di partecipare alla prevaricazione di un intero popolo? Perché prendete le distanze da una battaglia contro la stessa supremazia bianca che ha distrutto villaggi palestinesi, rinchiuso gli arabi israeliani in campi profughi, sottratto i figli agli immigrati yemeniti e portato la disperazione nella vostra comunità?

C’è una via di uscita per tutto questo. Se prenderete coscienza della causa palestinese e del vostro ruolo nel dramma della popolazione palestinese, potrete unirvi a un movimento che è davvero trasversale e che incontra la solidarietà internazionale. Potrete unirvi a una voce sempre più forte che dà potere alle persone, non attraverso la repressione del prossimo, ma con l’abbattimento di sistemi di oppressione rivolti contro tutti coloro che non appartengono alla classe dominante.

In caso contrario, sarete condannati a vivere le vostre vite compiacendo i vostri alleati bianchi, che vi riserveranno condizioni di vita cui loro non si sottoporranno mai. Vi rivolgeranno un sorriso beffardo ogni volta che sarete troppo chiassosi, troppo violenti o troppo sensibili. Nel frattempo, continueranno a bombardare Gaza, ad arrestare bambini e a puntare la pistola contro il prossimo Solomon Tekah

(Traduzione di Elena Bellini) da NenaNews



Noto attivista anti occupazione aggredito a Tel Aviv

Oren Ziv

8 luglio 2019 – +972

L’attivista di sinistra Jonathan Pollak aggredito da due assalitori fuori dal suo posto di lavoro nel sud di Tel Aviv. Gli aggressori mentre lo picchiavano avrebbero gridato ‘stronzo di sinistra’, prima che uno di loro tirasse fuori un coltello e lo ferisse in modo lieve.

Domenica a Tel Aviv un noto attivista di sinistra è stato aggredito fisicamente da due assalitori sconosciuti mentre usciva dal lavoro. Pare che gli aggressori mentre lo picchiavano abbiano gridato “stronzo di sinistra”, prima che uno di loro estraesse un coltello e lo ferisse in modo lieve al viso e alle braccia.

Jonathan Pollak, che ha militato a lungo nel movimento anti-occupazione in Israele e in Cisgiordania, è stato aggredito mentre usciva dall’edificio di Haaretz, nel sud di Tel Aviv, dove lavora come grafico.

Pollak ha detto che aveva notato di essere seguito da due individui che lui ha pensato fossero poliziotti che cercavano di arrestarlo a causa di un mandato di cattura. “Ho cercato di correre ma mi hanno raggiunto, mi hanno spinto a terra e hanno incominciato a prendermi a pugni e calci”, ha raccontato a casa sua dopo l’aggressione. “Quando ho cercato di difendermi uno di loro ha estratto un coltello e mi ha fatto un taglio in faccia”. Pollak ha riferito che i due mentre lo picchiavano gridavano “stronzo di sinistra”, prima di scappare.

Pollak ha riportato graffi al volto e alle braccia ed è stato colpito in faccia e alle costole. Ha detto di non avere idea di chi lo abbia aggredito, ma gli assalitori sembravano avere “tra i 20 e i 30 anni”.

Nel dicembre 2018 ‘Local Call’ [sito web in ebraico di +972, ndtr.] ha riferito che il gruppo di destra ‘Ad Kan’ ha avviato un’azione giudiziaria privata contro tre israeliani, compreso Pollak, per aver partecipato alle proteste contro la barriera di separazione in Cisgiordania. L’azione giudiziaria privata di ‘Ad Kan’, la prima di questo genere contro attivisti anti-occupazione, accusa gli imputati di “aggresssione contro soldati dell’esercito israeliano e contro la polizia di frontiera.”

Ad Kan’ si è messo in evidenza per la prima volta negli ultimi anni per aver infiltrato i suoi collaboratori nelle organizzazioni per i diritti umani per registrare con telecamere nascoste ogni loro mossa.

Tuttavia Pollak si è rifiutato di comparire in tribunale, sostenendo di non riconoscere la legittimità di un sistema che mantiene una “dittatura militare” su “soggetti privati di tutti i fondamentali diritti democratici” in Cisgiordania e Gaza, o che sono “cittadini di serie B” in Israele.

Il tribunale ha quindi emesso un mandato di arresto per Pollak, che consente alle autorità di trattenerlo fino all’ udienza successiva, prevista a settembre. Secondo il tribunale Pollak verrà rilasciato se accetterà di pagare una cauzione di 1.000 shekels (250 euro).

Non intendo presentare denuncia alla polizia perché verrò arrestato, ma non lo avrei fatto comunque”, ha detto Pollak. “Mi rifiuto di andare in tribunale perché i miei amici palestinesi ed io veniamo processati con diversi sistemi giudiziari e mi rifiuto di utilizzare i servizi della polizia che si attivano per me, mentre non lo fanno per i palestinesi.”

Immediatamente dopo il suo rifiuto di presentarsi in tribunale, ‘Ad Kan’ ha pubblicato parecchi post su Facebook e Twitter, inclusa una fotografia di Pollak, chiedendo al pubblico di contribuire a localizzarlo. Un utente di Twitter ha risposto che Pollak “si trova spesso nell’edificio di Haaretz in Schoken Street”, dove si è verificata l’aggressione di lunedì.

Dopo l’aggressione, ‘Ad Kan’ ha twittato: “Negli ultimi 15 anni Pollak è stato coinvolto in violente manifestazioni contro i soldati dell’esercito israeliano. Pollak attualmente ha in corso una denuncia penale che noi abbiamo presentato contro di lui. Noi, al contrario di Pollak, siamo contrari ad ogni forma di attività violenta. Il signor Pollak è invitato a contattare le forze dell’ordine, che ha recentemente dichiarato di non riconoscere, in modo che possano esaminare le sue accuse.”

Da anni i palestinesi e coloro che si oppongono all’occupazione vengono aggrediti nei territori occupati. Oggi questo è successo anche a Tel Aviv”, ha dichiarato dopo l’aggressione Ayman Odeh, capo del partito ‘Hadash-Ta’al [partito di sinistra arabo-israeliano, ndtr.]. “Dopo una campagna di istigazione delle organizzazioni di coloni mirata contro Jonathan Pollak, due uomini – di cui uno armato di coltello – lo hanno aggredito. Si tratta di un altro violento colpo basso e di una vittoria per l’apparato di istigazione della destra.”

Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta in ebraico su ‘Local Call’.

Oren è un fotogiornalista e membro fondatore del collettivo di fotografi ‘Activestills’. Dal 2003 ha documentato una serie di vicende sociali e politiche in Israele e nei territori palestinesi, con una particolare attenzione nei confronti delle comunità di attivisti e delle loro lotte.

Tra gli eventi che io documento, con la convinzione che la fotografia possa provocare dei cambiamenti, vi sono: le proteste contro il muro e le colonie, la possibilità di avere un’abitazione ed altre questioni socio-economiche, le lotte contro il razzismo e le discriminazioni e la lotta per liberare gli animali.

Sono stato collaboratore di +972 quasi fin dall’inizio e lavoro anche per diversi altri mezzi di informazione locali e internazionali.”

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




L’uso dell’archeologia al servizio del nazionalismo

Di Chemi Shiff e Yonathan Mizrachi

|5 luglio, 2019 – +972 Magazine

L’inaugurazione di una presunta antica ‘Via del pellegrinaggio’ ebraica da parte dell’ambasciatore (americano) David Friedman e dell’inviato della Casa Bianca Jason Greenblatt ci ricorda che l’archeologia non è mai neutrale come alcuni vorrebbero credere.

Si tende a pensare all’archeologia come ad una disciplina neutrale. Gli archeologi dissotterrano i manufatti, li datano e cercano di stabilire una cronologia per comprendere meglio la storia di un particolare luogo o popolo.

L’inaugurazione, la settimana scorsa, della “Via del Pellegrinaggio” a Gerusalemme da parte dell’ambasciatore USA in Israele David Friedman e dell’inviato della Casa Bianca in Medio Oriente Jason Greenblatt ci ricorda che l’archeologia non è mai neutrale come a qualcuno piacerebbe credere. Secondo alcuni archeologi quella via era percorsa dai pellegrini ebrei quando salivano al Secondo Tempio circa 2000 anni orsono.

Per i palestinesi il tunnel si trova proprio sotto il quartiere di Silwan, a lungo agognato dai coloni israeliani che operano attivamente per giudaizzare l’area.

Quando si tratta dell’archeologia di Gerusalemme sembra che tutti preferiscano non vedere l’elefante nella stanza: come può qualunque sito archeologico, soprattutto se con una storia molto stratificata, essere presentato come prova delle esclusive pretese di un solo gruppo etnico-nazionale?

Doron Spielman, vice presidente dell’organizzazione di coloni Elad, che ha finanziato gli scavi e gestirà il relativo sito archeologico, ha detto al Jerusalem Post che “questo luogo è il cuore del popolo ebraico ed è come il sangue che scorre nelle vene.” Commentando l’importanza della scoperta, Greenblatt ha sottolineato che “l’archeologia non modella il paesaggio storico”, ma piuttosto si concentra sugli “scavi e l’analisi di manufatti e resti materiali.”

La posizione di Greenblatt trascende le differenze politiche tra sinistra e destra. Dopotutto l’archeologia è stata a lungo usata da molte società per consolidare la propria ideologia in quanto parte inseparabile del paesaggio. Questo ovviamente non significa che l’archeologia non possa essere usata per distinguere tra differenti culture. Però, nella maggior parte dei luoghi che sono stati abitati da innumerevoli culture nel corso dei secoli – e soprattutto in luoghi molto stratificati come Gerusalemme – le scoperte archeologiche usualmente rivelano la storia di relazioni complesse tra le varie culture stanziate in ogni specifica area.

Mentre non vi è dubbio che gli ebrei siano vissuti nella zona circostante la Via del Pellegrinaggio in diversi periodi, gli scavi hanno rivelato che l’area è stata costantemente abitata per migliaia di anni prima e dopo il periodo romano (a cui in Israele ci si riferisce come ‘periodo del Secondo Tempio’), durante il quale la via fu costruita per la prima volta.

Inoltre, mentre i rappresentanti di Elad sono convinti che questa via venisse percorsa dai pellegrini per recarsi al Secondo Tempio, molti archeologi non lo sono. Le prove disponibili chiamano in causa l’esclusività ebraica sul sito. Però finora non è stato pubblicato alcun rapporto sui dati reperiti dagli scavi. In assenza di essi, ogni interpretazione della storia del sito deve essere considerata una congettura piuttosto che un fatto.

Ovviamente la parte non ebraica della storia deve ancora essere narrata. Quando si cammina nel sito archeologico della città di Davide, si apprende molto sull’eredità ebraica. Ci si dovrebbe interrogare sul fatto che la Via del Pellegrinaggio sia stata scavata come tunnel orizzontale, un metodo di scavo archeologico molto contestato, che impedisce la possibilità di distinguere tra gli strati del sito.

Inoltre il tunnel consente ai visitatori di attraversare il villaggio di Silwan senza vedere neanche una volta un palestinese o affrontare le implicazioni politiche dell’impresa archeologica di Elad a Gerusalemme. Così, gli scavi nel tunnel possono essere visti come un ulteriore passo nell’appropriazione di ciò che Friedman e Greenblatt definiscono la “verità” della storia di Silwan, dato che gli scavi stessi – e non soltanto l’interpretazione di essi – ignorano e distruggono gli strati al di sotto e al di sopra di questa via.

Alla domanda sull’importanza della Via del Pellegrinaggio, Friedman ha affermato che “espone la verità e la scienza ad una discussione che per troppo tempo è stata deformata dai miti e dalle mistificazioni”, spiegando che i ritrovamenti “mettono fine agli infondati sforzi di negare il fatto storico dell’antico legame di Gerusalemme con il popolo ebraico.” Friedman e Greenblatt hanno aggiunto che qualunque soluzione per una pace sostenibile con i palestinesi deve basarsi sulla “verità”.

Tuttavia, come per tanti casi precedenti, sembra che la ricerca della verità attraverso l’archeologia si riveli una giustificazione di programmi nazionalisti piuttosto che un tentativo di costruire ponti tra popoli.

Nella loro ricerca di una verità di convenienza, per Friedman e Greenblatt niente è più facile che rimuovere la complessa vicenda storica di Silwan, della Via del Pellegrinaggio e della violenza che questa zona ha subito a causa dell’uso dell’archeologia da parte sia di israeliani che di palestinesi come partita a somma zero. Invece di monopolizzare una narrazione nazionalista esclusiva, sarebbe forse meglio che i leader di tutte le parti creassero un contesto capace di includere le tante narrazioni che il paesaggio contiene.

Chemi Shiff e Yonathan Mizrachi sono membri di Emek Shaveh, una Ong israeliana che si occupa della protezione dei siti antichi come beni pubblici che appartengono ai membri di tutte le comunità, fedi e popoli.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Gli accademici israeliani e l’emigrazione

Edo Konrad

24 giugno 2019 972.com

da Nena News

Alcuni documenti appena scoperti rivelano che, nei giorni immediatamente successivi all’occupazione, Israele istituì una “Commissione dei Cattedratici” con il compito di elaborare politiche volte a tenere calmi i palestinesi e a indurli ad abbandonare definitivamente la Cisgiordania e Gaza

Poche settimane dopo aver quasi triplicato la dimensione del territorio sotto controllo israeliano, con la Guerra dei Sei Giorni del 1967, Israele reclutò squadre di accademici perché individuassero un modo per  indurre i palestinesi ad emigrare dai territori appena occupati.

Secondo i documenti appena scoperti da Omru Shafer Raviv, dottorando del Dipartimento di Storia Ebraica dell’Università Ebraica, nel luglio del 1967 l’allora primo ministro Levi Eshkol riunì una commissione di accademici, tra cui l’illustre sociologo Shmuel Noah Eisenstadt, l’economista Michael Bruno, il demografo Roberto Bachi e il matematico Aryeh Dvoretzky – tutti  caratterizzati da legami con le alte sfere – e li spedì nei territori per analizzare la popolazione appena messa sotto occupazione.

In teoria, l’obiettivo della “Commissione per lo Sviluppo dei Territori Amministrati”, anche detta “Commissione dei Cattedratici”, era quello di creare un ente responsabile della “pianificazione a lungo termine” nei territori occupati. I professori, insieme alle loro squadre di ricercatori, vennero spediti nei villaggi, nelle città e nei campi profughi per intervistare i palestinesi sulle loro vite, bisogni e desideri.

Il secondo obiettivo, spiega Shafer Raviv, doveva essere una miglior comprensione dei palestinesi dei territori occupati, per poter capire come evitare che facessero resistenza al regime militare loro imposto da Israele – che ancora oggi li domina – mentre si cercava il modo di indurli ad andarsene. “Quei primi anni hanno dato forma alle odierne politiche israeliane”, sostiene Raviv.

La minaccia della modernità

Alla fine della guerra, il governo israeliano si era posto obiettivi di ogni sorta nei confronti della popolazione palestinese, primo fra tutti la riduzione del numero di coloro che vivevano nei territori occupati. “Lo si è visto soprattutto a Gaza, dove le autorità credevano di poter dimezzare la popolazione da 400mila a 200mila per far fronte al nuovo problema demografico”.

I palestinesi di Gaza erano per la maggior parte profughi: il governo voleva smantellare i campi profughi, inducendo (i profughi) a lasciare il Paese e a farsi “assorbire” – o a integrarsi – altrove, spiega Raviv. “Questo è il quadro in cui si inserisce la decisione di Eshkol di creare la Commissione dei Cattedratici”.

Nei primi anni dopo l’inizio dell’occupazione, ci fu un’ondata di resistenza popolare, per lo più nonviolenta, con diversi scioperi generali. Esisteva anche una resistenza armata, di gruppi come Fatah, che tentò di suscitare contro Israele una guerriglia in stile vietcong. Un altra missione che il governo israeliano affidò alla Commissione dei Cattedratici fu quella di capire come circoscrivere la resistenza popolare contro il dominio israeliano e scoprire in che misura idee rivoluzionarie come il comunismo o il nazionalismo palestinese  avrebbero potuto diffondersi nei territori occupati.

Per analizzare le loro scoperte empiriche e formulare linee guida politiche, gli accademici facevano riferimento a un quadro teorico chiamato “teoria della modernizzazione”. Tale teoria, secondo cui le società cambiano seguendo un andamento lineare, da “tradizionali” a “moderne”, divenne molto popolare tra gli scienziati sociali in Occidente, ma non ha superato adeguatamente la prova del tempo. I critici la accusano di essere troppo focalizzata sull’Occidente e fondamentalmente incapace di calcolare i complessi cambiamenti interni ed esterni che caratterizzano gruppi e società. Questi punti deboli teoretici avrebbero pregiudicato tutto il lavoro della Commissione.

“I ricercatori fecero una distinzione tra la popolazione giovanile urbana – più orientata al laicismo e all’istruzione e più incline a partecipare alle attività politiche – e la popolazione anziana, molto meno interessata alla politica, più tradizionalista, religiosa e rurale. La prima era considerata una minaccia, mentre lo stile di vita depoliticizzato di quest’ultima andava incoraggiato”, spiega Raviv.

Mentre gli scienziati sociali occidentali utilizzavano la teoria della modernizzazione nel tentativo di modernizzare le società come parte dello sforzo per evitare il comunismo, gli accademici e le autorità israeliane adottarono un approccio inverso.

“Quando si trattò di mettere una popolazione civile sotto controllo militare, la modernizzazione della società palestinese diventò un elemento avverso agli interessi israeliani”, aggiunge Raviv. “Il governo israeliano voleva mantenere tranquilla la popolazione occupata, e pensava che quanto più questa fosse stata modernizzata, tanto maggiore sarebbe stata la minaccia della resistenza”.

Tra i quesiti posti dai ricercatori israeliani ai palestinesi, c’erano anche domande su cosa mangiassero a cena, per capire se classificarli come “moderni” o “tradizionalisti”. Le cene di famiglia con molti commensali, per esempio, erano considerate tradizionali, mentre quelle più intime, con meno persone, erano considerate sintomo di modernità. Tutto ciò aveva delle conseguenze. Chi veniva considerato più “moderno” veniva più facilmente sospettato di essere laico, e quindi più incline a sostenere politiche nazionaliste o rivoluzionarie.

C’erano poi altre domande politiche, soprattutto nei campi profughi: “Vuoi trasferirti in un nuovo Paese? Perché no? Cosa ti convincerebbe a trasferirti? Quale potrebbe essere, secondo te, la soluzione alla questione profughi?”.

Nell’ottobre del 1967, un ricercatore, scienziato politico, si recò al confine di Allenby Bridge per intervistare i palestinesi diretti in Giordania. Molti palestinesi attraversavano sistematicamente il confine tra i territori palestinesi occupati e la Giordania, per lavoro o perché la loro famiglia viveva all’estero.

“Chiese a 500 persone per quale motivo avevano scelto di andarsene – spiega Raviv – e le risposte sarebbero poi state consegnate al governo, in modo da poter meglio comprendere le ragioni per cui la gente se ne andava”.

L’accademico israeliano, che lavorava con l’autorizzazione dell’esercito israeliano, concluse che i palestinesi se ne andavano in Giordania con l’obiettivo di trovare lavoro, o per motivi di ricongiungimento familiare.

”Sotto il dominio giordano c’erano stati pochissimi investimenti in Cisgiordania, così, quando gli israeliani la occuparono, semplicemente non c’era abbastanza lavoro” spiega Raviv. “Dopo la guerra, in Cisgiordania la situazione era ulteriormente peggiorata. Il governo israeliano preferì mantenere alta la disoccupazione, perché si rese conto che questo avrebbe spinto la gente ad emigrare verso posti come la Giordania o il Kuwait”.

Esperti colti alla sprovvista

Shafer Raviv fa parte di un gruppo di accademici israeliani che hanno deciso di focalizzare la loro ricerca sull’occupazione. Mentre i Nuovi Storici, come Benny Morris e Tom Segev, hanno scoperto dettagli della guerra del ’48 e degli anni successivi alla fondazione di Israele che contraddicevano direttamente la narrativa sionista, questo nuovo gruppo di ricercatori si è concentrato sul regime israeliano nei territori occupati.

Lo studio di Raviv è il primo di questo genere, dato che utilizza documenti governativi ufficiali risalenti alla guerra del 1967 e al periodo immediatamente successivo, che solo recentemente sono stati desecretati dall’Archivio Nazionale di Israele e dagli Archivi delle forze armate israeliane.

Fino alla guerra del 1967, la questione centrale del conflitto israelo-palestinese era quella dei profughi palestinesi, che erano stati deportati e fatti fuggire dal territorio poi divenuto Israele, e ai quali Israele impedì il ritorno alle proprie case dopo la guerra del 1948. Con la fine della guerra del 1967, Israele si ritrovò a spadroneggiare sulla maggior parte di quegli stessi profughi, che si erano rifugiati in Cisgiordania e Gaza da ormai quasi vent’anni.

Il governo israeliano, racconta Raviv, considerò l’occupazione del 1967 come un’opportunità per risolvere alle proprie condizioni il problema dei profughi, inducendoli ad andarsene di propria volontà o tramite un accordo con altri Stati arabi. Ma quando iniziarono la loro ricerca sui profughi, gli accademici scoprirono qualcosa che li colse alla sprovvista: ai profughi non interessavano soluzioni politiche che non comprendessero il loro ritorno alla terra d’origine.

“I ricercatori erano convinti che, se i profughi avessero potuto vivere tranquilli in qualche posto come il Kuwait, non avrebbero avuto alcun motivo per preferire una vita di patimenti in un campo profughi di Gaza”, spiega Raviv. “Ora, invece, la maggioranza dei profughi stava rispondendo che “No, noi vogliamo tornare in quella che è diventata Israele”. Il che, ovviamente, era fuori discussione per le autorità israeliane.

Gli accademici si stupirono ancor di più quando scoprirono che i profughi avevano più caratteristiche “moderne” rispetto alla maggior parte della restante società palestinese. “Quando erano stati costretti nei campi, i profughi avevano dovuto abbandonare le loro terre, il che significava che non c’era motivo che i loro figli imparassero a lavorare la terra”, spiega Raviv.

Costretti ad abbandonare lo stile di vita, i costumi e le economie agrarie della “vita rurale”, i profughi avevano iniziato ad investire nell’educazione dei figli, come fece l’Unrwa, l’agenzia delle Nazioni Unite incaricata di gestire i campi profughi. “Tutto ciò – dice Raviv – ebbe conseguenze a lungo termine: la percentuale di analfabetismo, nei profughi di prima generazione, si aggirava intorno al 70%, ma scese a circa il 7% con la seconda generazione, cresciuta nei campi profughi”.

La Commissione dei Cattedratici si augurò un rafforzamento di questa “tendenza alla modernizzazione” tra i profughi. Credeva che indurre i profughi di seconda generazione a ricevere un’istruzione e a spostarsi in città, luogo in cui poter realizzare i propri sogni, avrebbe forse portato allo smantellamento dei campi. Avevano capito che, con il semplice smantellamento dei campi profughi e spingendo la gente andarsene, si sarebbe arrivati a quella che battezzarono ”resistenza collettiva”.

”Gli accademici compresero che, per risolvere il problema dei profughi, non si poteva dire apertamente ‘risolvere il problema dei profughi’ ”, spiega Raviv. “Bisognava farlo sottovoce, e cos’è di più discreto che la ricerca di opportunità di studio o lavoro all’estero?”.

Lo spirito della Commissione è ancora vivo

Tra le altre indicazioni della Commissione dei Cattedratici, alcune furono inizialmente contro-intuitive nel loro scopo di incoraggiare l’emigrazione e ridurre il numero di palestinesi che vivevano sotto il controllo israeliano.

”Uno dei suggerimenti, adottato dal governo israeliano nel dicembre del 1967, era di permettere che chiunque volesse lasciare i territori occupati potesse tornarci – racconta Raviv – Era qualcosa di rivoluzionario; andava contro la posizione generale israeliana adottata nel 1948, che proibiva il ritorno delle persone che avevano lasciato il Paese. Se gli si dice in anticipo che non possono tornare, non se ne andranno mai, perché farlo significherebbe perdere qualsiasi legame con la loro famiglia e la loro terra”.

La Commissione dei Cattedratici pubblicò le prime anticipazioni nel settembre del 1967, anche se la prima parte della ricerca fu completata in febbraio del 1968, quando le conclusioni vennero consegnate al primo ministro Eshkol e la Commissione tenne un certo numero di consultazioni con i funzionari del governo militare.

In un documento di parecchi anni dopo, sono elencate almeno 30 ricerche su una gamma di tematiche come ad esempio la popolazione cristiana nei territori occupati, l’economia di Nablus e l’ipotesi di esportazione di beni israeliani in Libano. Questi progetti di ricerca continuarono per un bel po’, fino alla metà degli anni ‘70: a quel punto, la traccia cartacea si perde.

Shafer Raviv sostiene che, anche se non possiamo avere la certezza che le raccomandazioni della Commissione dei Cattedratici siano mai state trasformate direttamente in politiche di governo – dal momento che le autorità tennero in considerazione anche altre osservazioni, come per esempio le opinioni dello Shin Bet e dell’esercito – lo spirito della loro ricerca ha sicuramente influenzato chi aveva il potere decisionale.

Secondo lui, “non c’è prova che le raccomandazioni siano state adottate unicamente sulla base di ciò che la Commissione aveva proposto. Ma è evidente il legame tra raccomandazioni e politiche di governo. Se ne può notare un primo esempio nella decisione del governo di incentivare l’emigrazione palestinese”.

(Traduzione di Elena Bellini)




Alcuni rapporti svelano che negli attacchi contro Gaza sono stati deliberatamente presi di mira civili

Oren Ziv

14 giugno 2019 – +972

Due diverse inchieste di B’Tselem e Human Rights Watch hanno stabilito che l’esercito israeliano e gruppi armati palestinesi hanno illegalmente colpito la popolazione civile durante la più recente escalation a Gaza.

Secondo un nuovo rapporto di B’Tselem [organizzazione israeliana per i diritti umani, ndtr.] reso noto mercoledì, nella sua ultima campagna a Gaza Israele ha ucciso 13 civili palestinesi che non erano coinvolti nelle ostilità né affiliati a gruppi di miliziani. Due delle vittime erano bambini e tre erano donne, una delle quali a fine gravidanza. “Queste morti sono il prevedibile risultato dell’illegale e immorale politica israeliana di bombardare case a Gaza,” ha stabilito B’Tselem.

In base all’inchiesta di B’Tselem, dal 3 al 6 maggio Israele ha lanciato attacchi aerei ed ha bombardato più di 350 obiettivi a Gaza, ferendo 153 persone. L’associazione per i diritti umani ha anche scoperto che nessuno degli attacchi “è stato preceduto dal alcun adeguato avvertimento che potesse dare agli abitanti l’opportunità di cercare rifugio o di salvare i propri beni.”

Durante questo periodo i gruppi di miliziani legati ad Hamas e alla Jihad Islamica hanno lanciato circa 700 razzi contro Israele, uccidendo tre persone e ferendone 123. Un razzo lanciato da uomini della Jihad Islamica ha colpito una casa a Gaza ed ha ucciso una donna incinta e la sua nipotina di un anno, e un missile anticarro sparato da quei gruppi ha ucciso un civile israeliano. Secondo il rapporto “il fatto di prendere di mira la popolazione civile in Israele è illegale e immorale,”.

Come negli attacchi precedenti, il rapporto ha rilevato che Israele ha di nuovo preso di mira edifici residenziali e uffici. Secondo le Nazioni Unite, è stato distrutto un totale di 33 unità abitative e altre 19 sono state gravemente danneggiate, lasciando senza casa 52 famiglie – 327 palestinesi, tra cui 65 bambini. Altre centinaia di abitazioni sono state parzialmente danneggiate.

B’Tselem ha sottolineato che sparare contro strutture residenziali in aree densamente popolate come la Striscia di Gaza “comporta inevitabilmente il rischio di danneggiare civili. Il pericolo non è ipotetico: negli scorsi anni Israele ha già ucciso migliaia di civili, comprese centinaia di minori, in attacchi aerei contro le loro case.” Nella sola operazione ‘Margine protettivo’ del 2014 Israele ha ucciso almeno 1.055 palestinesi – tra cui 405 minori e 229 donne – che non avevano preso parte alle ostilità.

Il rapporto evidenzia anche come questi attacchi non siano stati provocati da combattenti criminali che hanno trasgredito gli ordini militari, ma di fatto “parte di una politica formulata da personalità del governo e da importanti comandi militari.” Gli attacchi “hanno avuto l’appoggio dei corpi MAG [Military Advocate General, ufficio legale che fornisce la consulenza legale per giustificare le prassi dell’esercito israeliano, ndtr.], che emanano pareri giuridici che sostengono questa politica.”

Israele, continua il rapporto, ha giustificato questi attacchi affermando che sono conformi alla legge umanitaria internazionale, ma “quest’interpretazione è irragionevole, legalmente errata e basata su una visione del mondo moralmente distorta. Dovrebbe essere categoricamente rifiutata.”

In un altro rapporto reso pubblico anch’esso mercoledì, una ricerca di Human Rights Watch sull’escalation di maggio ha confermato i risultati di B’Tselem: “Quattro attacchi israeliani hanno colpito bersagli che non sembravano contenere alcun obiettivo militare o potrebbero aver provocato sproporzionate perdite civili in violazione delle leggi di guerra.” HRW ha anche affermato che, dato che i razzi sparati dai gruppi armati palestinesi non potevano prendere di mira un particolare obiettivo militare, il loro uso in zone civili è “intrinsecamente indiscriminato in violazione delle leggi di guerra.”

Entrambi i rapporti includono testimonianze di sopravvissuti agli o testimoni degli attacchi. Un missile sparato contro la casa della famiglia al-Madhun nel quartiere di al-‘Atatrah della città occidentale di Gaza Beit Lahiya ha ucciso quattro persone: ‘Abd a-Rahim al-Madhun, 60 anni, suo figlio ‘Abdallah al-Madhun, 21 anni, membro del braccio militare della Jihad islamica; sua nuora, Amani al-Madhun, 36 anni, madre di quattro figli che era incinta di nove mesi, e il loro vicino, Fadi Badran, di 33 anni. L’attacco ha anche ferito sei bambini.

Muhammad al-Madhun, figlio di ‘Abd a-Rahim, che era in casa al momento del bombardamento, ha detto a B’Tselem: “Sono arrivato a casa alle 14,30. Mia moglie e i bambini erano andati a dormire, perché pensavamo che non avremmo potuto chiudere occhio di notte, data l’escalation e i bombardamenti. Sono andato a dormire accanto a loro.”

“Mi sono alzato alle 17 e mi sono seduto in soggiorno a prendere un caffè con mio cugino e un vicino. Sono andato in cucina per fare il caffè per il mio vicino e quando sono tornato improvvisamente ho sentito una pesante esplosione in casa. Era fortissima, ma in un primo momento ho pensato che provenisse da qualcosa che era successo fuori. Mi ci è voluto un momento prima di capire che era avvenuta in casa. L’ho compreso quando ho visto schegge di vetro, di metallo, pietre, sabbia, polvere e fumo intorno a me. Sono rimasto lì scioccato e non mi potevo muovere. Sono semplicemente rimasto lì ed ho sentito i detriti e le macerie che cadevano giù attorno a me.

Ho chiamato i vicini e ho chiesto loro di tirare fuori da sotto i detriti i feriti – mia moglie e due dei miei bambini. Il mio vicino Muhammad al-Far è uscito dalle macerie e si è messo a camminare verso la strada portando mia figlia Fatimah di due anni e mezzo. L’ho sentita gridare e lamentarsi per il dolore.

Sono stato portato in ambulanza all’ospedale Indonesiano. Sono stato visitato ed hanno constatato che stavo bene. Sono andato ad identificare i corpi. Ho identificato quello di mia moglie Amani ed ho anche visto il corpo del feto. Poi ho identificato i corpi di Fadi Badran e di mio fratello Abdallah.”

Il padre di Mohammad è morto alla fine della giornata all’ospedale al-Shifa per le ferite riportate.

In un altro attacco due missili hanno colpito il tetto di un edificio di cinque piani, sempre a Beit Lahiya. L’esplosione ha ucciso sei persone di due famiglie, compreso un bambino di 3 mesi.

In quell’attacco Mohammad Abu al-Jidyan, 26 anni, ha perso entrambi i genitori. Stava tornando a casa quando suo padre l’ha chiamato per dirgli di affrettarsi a causa degli attacchi lanciati contro Gaza. “Circa 5 minuti dopo che mio padre aveva chiamato, sono arrivato al portone e sono entrato nell’edificio. In quello stesso momento l’appartamento in cui vivo con i miei genitori è stato bombardato,” ha detto al-Jidyan a B’Tselem.

“Sono corso su per le scale per vedere cosa fosse successo. Ho visto tutti i vicini correre giù e ho temuto che la mia famiglia fosse stata uccisa. Nessuno mi ha sentito. C’è un appartamento vuoto al quarto piano. Quando sono arrivato lì ho visto che il quinto piano, dove vivevamo i miei genitori, mio fratello ‘Abd a-Rahman ed io, era crollato e caduto sul quarto. Date le condizioni in cui era tutto quanto, ero sicuro che i miei genitori e mio fratello fossero caduti come martiri.

Le mie due sorelle ed io abbiamo perso tutta la famiglia – nostro padre, nostra madre e nostro fratello – senza un avvertimento e senza la possibilità di dirci addio. L’attacco è stato così brutale che non abbiamo neppure trovato i loro corpi tutti interi. Quando abbiamo sepolto i miei genitori, il corpo del mio fratellino era disteso nella stessa tomba con mia madre. Era nato dopo dieci anni di tentativi di rimanere incinta…Mi sento solo al mondo, senza i miei genitori e senza la nostra casa, che è rimasta completamente distrutta. Spero di riuscire a trovare la forza per superare quello che ci è successo.”

L’alleggerimento del blocco contro Gaza che Israele aveva accettato di mettere in atto nell’ultima serie di negoziati deve ancora essere realizzato pienamente e, dato che è previsto che le proteste presso la barriera di confine ricomincino venerdì, probabilmente è solo questione di tempo prima che ci sia un’altra ‘escalation’ nelle ostilità. Di conseguenza sarebbe saggio per Israele riconoscere il pesante prezzo che i palestinesi della Striscia di Gaza pagano persino durante periodi di ‘calma’ mentre resistono a condizioni di vita insopportabili a causa del blocco.

Una versione in ebraico di questo articolo è già stata pubblicata su Local Call.

(traduzione di Amedeo Rossi)




“Cantare non è un diritto nella Striscia di Gaza”

Hind Khoudary

6 giugno 2019 – +972

Date le crescenti restrizioni sociali e politiche sotto il controllo di Hamas, i musicisti incontrano notevoli difficoltà se vogliono sviluppare la propria carriera musicale nella Striscia. Molti intendono andarsene per cercare opportunità altrove.

GAZA CITY – Abed Nasser, il proprietario del ristorante Ceda a Gaza City ha dato la notizia ai suoi clienti in un post su Facebook: lo spettacolo musicale tanto atteso in programma più tardi per la serata di Ramadan era stato annullato per le persecuzioni e l’intromissione dell’amministrazione di Hamas.

Secondo Nasser, la polizia aveva cercato di impedire l’accesso a un pubblico misto. Gli avevano ordinato di non permettere agli uomini di partecipare, a meno che non facessero parte di una famiglia che partecipava all’evento. A Nasser è stato chiesto di presentarsi alla sezione dell’intelligence della polizia di Gaza, ma lui ha rifiutato.

La musica sta diventando sempre di più un modo per i giovani di Gaza per sfogare stress e traumi – I palestinesi a Gaza hanno dovuto sopportare, per decenni, violenze e violazioni di diritti umani, in particolare da quando Israele ha imposto il blocco sulla Striscia nel 2007. Ma, con le crescenti restrizioni, sociali, politiche e religiose sotto il governo di Hamas, le opportunità per i musicisti sono ridotte, dato che il governo impedisce a gruppi e attività commerciali di offrire un palco per farlo.

Gli artisti che vogliono esibirsi o i locali che intendono ospitare eventi culturali devono prima procurarsi un permesso. Questo implica rivolgersi ad almeno quattro differenti autorità: il ministero del Turismo, il ministero della Pubblica Sicurezza, l’Unità Generale di Investigazioni che, fra le altre cose, agisce come una polizia della morale pubblica, e la stazione di polizia di Abbas. I permessi sono rilasciati in base a considerazioni di sicurezza e di carattere sociale. Parecchi titolari di esercizi che sono stati oggetto di tali restrizioni sono stati contattati per questo articolo, ma si sono rifiutati di rilasciare interviste per paura di intimidazioni governative.

Hamada Naserallah, un cantante professionista, laureato in legge, ha detto che Hamas gli ha impedito di esibirsi a Gaza almeno cinquanta volte. “Cantare non è un diritto nella Striscia di Gaza”, ha detto Naserallah, che canta con il gruppo Sol Band, una band musicale palestinese che ha preso il nome della quinta nota della scala musicale. Il gruppo di otto componenti suona sia musica moderna che araba tradizionale. “Reprimere, umiliare, vietare feste, controllare la libertà – non posso cantare liberamente come tutti gli altri cantanti su questo pianeta”, ha aggiunto Naserallah.

Ci ha detto che, dopo il concerto del 2016 nella sala della Mezzaluna rossa, la polizia ha proibito al gruppo Sol Band di esibirsi per due anni, perché le donne e le ragazze del pubblico applaudivano e cantavano con Naserallah. Ora un ufficiale di polizia è presente a tutti i suoi concerti, sorveglia la lista delle canzoni e le interazioni con il pubblico. “Ricordo che la polizia una volta ha minacciato di buttarmi giù dal palco se avessi cantato ‘canzoni d’amore’, ha commentato.

In aprile Sol Band ha avuto l’opportunità di esibirsi all’Expo musicale palestinese, a Ramallah. Per Naserallah il sogno di lasciare Gaza si è avverato. Andarsene da Gaza è costoso, e richiede un permesso difficile da ottenere e Israele proibisce ai palestinesi quasi tutti i viaggi tra la Cisgiordania e Gaza. Per Naserallah questa è stata anche l’occasione di esibirsi su un palcoscenico senza una supervisione o censura governative, dato che Ramallah è relativamente più liberale di Gaza.

Prima che Hamas prendesse il controllo nel giugno 2007, la comunità palestinese a Gaza era per la maggior parte tradizionalista e conservatrice”, scrisse nel 2010 Mkhaimer Abu Saada, docente di scienze politiche all’università Al Azhar di Gaza. Ma, da quando controlla la Striscia, Hamas ha intensificato gli sforzi per imporre un’interpretazione conservatrice delle regole della Sharia, anche sulla vita sociale della Striscia.

Ayman Al Batniji, un portavoce della polizia di Gaza a cui è stato chiesto un commento, ha detto che le autorità impediscono solo le feste che “incoraggiano le frequentazioni anormali” fra i sessi. La polizia vieta le riunioni che possono danneggiare i valori della comunità, ha aggiunto, sottolineando che Gaza è una società conservatrice. La gente o i locali a cui è stato impedito di fare una festa avevano avuto in precedenza problemi con il governo in relazione alla moralità, ha detto Batniji, ma per il resto le autorità non impediscono alla gente di esibirsi o di tenere eventi culturali.

Secondo uno studio del Palestinian Center for Policy and Survey Research, che ha preso in esame l’amministrazione di Hamas nella Striscia dal 2011 al 2015, Hamas ha informalmente permesso un approccio più liberale di esistere parallelamente al suo governo conservatore. Per esempio, Hamas incoraggia la separazione dei sessi in scuole e università, ma non l’ha imposta ufficialmente. Basandosi sui dati del medesimo rapporto, Hamas ha comunque mostrato “poca tolleranza nei confronti di una presenza mista ad attività culturali, specialmente se implicano musica, danza e canto”.

Le restrizioni sociali stanno avendo un impatto, al punto che Sol Band ha rinunciato ad esibirsi a Gaza. Hanno invece deciso di crearsi un pubblico sui social media, postando video su Instagram e Facebook. Comunque anche questo sta diventando difficile, dice Naserallah, dato che Hamas non permette ai musicisti a Gaza di filmare video mentre cantano o suonano uno strumento in strada senza prima avere un permesso del Ministero degli Affari Interni, neppure per una storia su Istagram.

Tre dei componenti del gruppo hanno già lasciato Gaza per sempre a causa della mancanza di libertà e di opportunità di sviluppare la propria carriera. A uno dei più giovani, Rahaf Shamaly, 16 anni, è proibito cantare su un palcoscenico, in ristoranti e caffè a Gaza, semplicemente perché è una donna. L’anno scorso la polizia ha impedito a Shamaly di esibirsi al Jazz Journey in Palestine tenuto a Gaza dall’UNESCO.

Vivo in una comunità conservatrice, dove la cultura e le tradizioni controllano la gente. A Gaza non si è abituati a vedere una donna cantare con musicisti maschi” ci ha detto Shamaly. Lei non crede di avere un futuro da cantante a Gaza, date queste restrizioni. Come molti giovani palestinesi, frustrati dai vari livelli di oppressione, con una disoccupazione crescente e limitazioni alla libertà, sta progettando di lasciare la Striscia dopo il diploma di scuola superiore.

Hind Khoudary è un reporter che vive a Gaza.

(traduzione di Mirella Alessio)