Perché gli israeliani si sentono così minacciati da un cessate il fuoco?

Meron Rapoport

29 marzo 2024-+972Magazine

Fermare la guerra di Gaza significa riconoscere che gli obiettivi militari di Israele sono irrealistici – e che Israele non può sottrarsi a un processo politico con i palestinesi.

La decisione americana di non porre il veto a una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che chiedeva un cessate il fuoco immediato a Gaza – la prima volta dall’inizio della guerra che avevano consentito l’approvazione di una risoluzione del genere – ha provocato ondate di shock in Israele. Il successivo annullamento da parte di Benjamin Netanyahu di un previsto incontro israeliano con l’amministrazione Biden a Washington non ha fatto altro che aumentare l’impressione che Israele fosse rimasto isolato sulla scena internazionale e che Netanyahu stesse mettendo a repentaglio la risorsa più importante del paese: la sua alleanza con gli Stati Uniti.

Eppure, nonostante ci siano state critiche diffuse sulla gestione di queste questioni delicate da parte di Netanyahu, anche i suoi oppositori – sia nel campo “liberal” che nella destra moderata – sono stati unanimi nel respingere il voto delle Nazioni Unite. Yair Lapid, capo del partito di opposizione Yesh Atid, ha affermato che la risoluzione è “pericolosa, ingiusta e Israele non la accetterà”. Il ministro Hili Tropper, stretto alleato del rivale di Netanyahu Benny Gantz – che secondo i sondaggi vincerebbe facilmente se le elezioni si tenessero oggi – ha detto: “La guerra non deve finire”. Questi commenti non differivano molto dalle reazioni rabbiose di leader di estrema destra come Bezalel Smotrich o Itamar Ben Gvir.

Questo rifiuto quasi unanime del cessate il fuoco rispecchia il sostegno trasversale dei partiti per un’invasione della città di Rafah, nel sud della Striscia di Gaza, anche se Netanyahu non sostiene che l’operazione otterrà la tanto attesa “vittoria totale” da lui promessa.

Ad alcuni l’opposizione al cessate il fuoco potrà sembrare strana. Molti israeliani accettano l’affermazione secondo cui Netanyahu sta continuando la guerra per promuovere i suoi interessi politici e personali. Le famiglie degli ostaggi israeliani, ad esempio, stanno diventando sempre più critiche nei confronti del “trascinare i piedi” di Netanyahu e amplificano le loro richieste per un “accordo adesso”.

Anche all’interno dell’establishment della sicurezza israeliana sempre più persone affermano apertamente che “eliminare Hamas” non è un obiettivo raggiungibile. “Dire che un giorno ci sarà una vittoria completa a Gaza è una completa menzogna”, ha recentemente affermato l’ex portavoce dell’IDF Ronen Manelis. “Israele non può eliminare completamente Hamas in un’operazione che dura solo pochi mesi”.

Quindi, se cresce l’opinione che Netanyahu stia continuando la guerra per interessi personali; se diventa sempre più chiara l’inutilità di continuare la guerra, sia per quanto riguarda il rovesciamento di Hamas che il rilascio degli ostaggi; se diventa evidente che la continuazione della guerra rischia di danneggiare le relazioni con gli Stati Uniti, come si può spiegare il consenso in Israele sul “pericolo” di un cessate il fuoco?

Questioni di fondo

Una spiegazione è il trauma inflitto dal massacro di Hamas del 7 ottobre. Molti israeliani si dicono che, finché Hamas esiste e gode del sostegno popolare, non c’è alternativa alla guerra. Una seconda spiegazione riguarda l’innegabile talento retorico di Netanyahu, che, nonostante la sua debolezza politica, è riuscito a instillare lo slogan della “vittoria totale” anche tra coloro che non credono a una parola di quello che dice, e tra coloro che capiscono, consciamente o inconsciamente, che questa vittoria non è possibile.

Ma c’è un’altra spiegazione. Fino al 6 ottobre il consenso tra l’opinione pubblica ebraico-israeliana era che la “questione palestinese” non avrebbe dovuto preoccuparli troppo. Il 7 ottobre ha sfatato questo mito. La “questione palestinese” è tornata all’ordine del giorno in tutta la sua sanguinosa rilevanza.

Sono venute alla luce due possibili risposte alla fine di questo status quo: un accordo politico che riconosca realmente la presenza di un altro popolo in questa terra e il suo diritto a una vita di dignità e libertà, o una guerra di sterminio contro il nemico al di là del muro. Il pubblico ebraico, che non ha mai veramente interiorizzato la prima opzione, ha scelto la seconda.

Alla luce di ciò, l’idea stessa di un cessate il fuoco sembra minacciosa. Costringerebbe l’opinione pubblica ebraica a riconoscere che gli obiettivi presentati da Netanyahu e dall’esercito – “rovesciare Hamas” e liberare gli ostaggi attraverso la pressione militare – sono semplicemente irrealistici. L’opinione pubblica dovrebbe ammettere quello che potrebbe essere percepito come un fallimento, addirittura una sconfitta, nei confronti di Hamas. Dopo il trauma e l’umiliazione del 7 ottobre, per molti è difficile digerire una simile sconfitta.

Ma c’è una minaccia più profonda. Un cessate il fuoco potrebbe costringere l’opinione pubblica ebraica ad affrontare questioni più basilari. Se lo status quo non funziona, e una guerra costante con i palestinesi non può ottenere la vittoria desiderata, allora ciò che resta è la verità: che l’unico modo per gli ebrei di vivere in sicurezza è attraverso un compromesso politico che rispetti i diritti dei palestinesi.

Il rifiuto totale del cessate il fuoco e la sua presentazione come una minaccia per Israele dimostrano che siamo lontani dal riconoscimento di questa verità. Ma stranamente potremmo anche essere più vicini di quanto si pensi. Nel 1992, quando gli israeliani furono costretti a scegliere tra una frattura con gli Stati Uniti – a causa del rifiuto dell’allora primo ministro Yitzhak Shamir di accettare lo schema presentato dagli americani per i colloqui con i palestinesi – o la ricucitura della frattura, scelsero la seconda opzione. Yitzhak Rabin fu eletto primo ministro e un anno dopo furono firmati gli accordi di Oslo.

Riuscirà l’attuale spaccatura con l’amministrazione americana a convincere gli ebrei israeliani ad abbandonare l’idea di una guerra perpetua e ad accettare di dare una possibilità ad un accordo politico con i palestinesi? Non è molto chiaro. Ma quello che è certo è che Israele si sta rapidamente avvicinando a un bivio in cui dovrà scegliere: o un cessate il fuoco e la possibilità di dialogo con i palestinesi, o una guerra senza fine e un isolamento internazionale come non ha mai conosciuto. Perché la possibilità di tornare indietro, allo status quo del 6 ottobre, è chiaramente impossibile.

Questo articolo è stato pubblicato in collaborazione con The Nation e Local Call.

(traduzione dall’inglese di Giuseppe Ponsetti)




Nel primo intervento dall’inizio della guerra contro Gaza Hamas afferma che “ci sono stati errori” negli attacchi del 7 ottobre

Redazione di MEE

22 gennaio 2024 – Middle East Eye

Il movimento palestinese nega di aver aggredito deliberatamente civili nell’attacco a sorpresa e afferma che il conflitto “non è contro il popolo ebraico”

Hamas ha pubblicato un rapporto di 16 pagine sul suo attacco del 7 ottobre contro alcune comunità del sud di Israele, in cui afferma che ci sono stati “errori” ma nega di aver preso deliberatamente di mira civili. “La nostra narrazione: operazione Inondazione Al-Aqsa”, pubblicato domenica, è il primo resoconto pubblico dell’operazione da parte dell’organizzazione palestinese dall’attacco di tre mesi fa.

L’attacco a sorpresa ha ucciso 1.140 persone, circa 700 delle quali civili, e ha visto circa 240 persone prese in ostaggio a Gaza, di cui più o meno la metà rilasciate in un accordo per lo scambio di prigionieri.

Da allora incessanti bombardamenti israeliani contro la Striscia di Gaza assediata hanno ucciso più di 25.000 palestinesi, in maggioranza donne e bambini. Secondo alcuni resoconti, durante l’offensiva israeliana sono morti almeno 25 ostaggi.

Vorremmo chiarire… la verità su quanto è avvenuto il 7 ottobre, le ragioni che l’hanno motivato, il contesto generale relativo alla causa palestinese così come una smentita delle affermazioni israeliane, e porre i fatti nella luce giusta,” inizia il rapporto.

La parte introduttiva espone il contesto storico e attuale della situazione in Palestina, in un capitolo che spiega perché l’organizzazione ha creduto che l’attacco fosse necessario.

Evidenzia l’esproprio di terre e l’espulsione di massa dei palestinesi durante la Nakba, o “catastrofe”, del 1948 e la guerra del 1967 in Medio Oriente, che portò all’occupazione israeliana della Cisgiordania, di Gerusalemme est e di Gaza, così come delle Alture del Golan siriane e del Sinai egiziano.

Continua elencando le azioni più recenti di Israele contro i palestinesi prima del 7 ottobre, tra cui cinque guerre contro Gaza dall’inizio del nuovo secolo e la Seconda Intifada che, sostiene, hanno ucciso più di 11.000 palestinesi

Hamas afferma anche che “attraverso una vasta campagna di costruzione di colonie e l’ebreaizzazione delle terre palestinesi nella Cisgiordania occupata e a Gerusalemme” Israele ha fatto fallire gli Accordi di Oslo e la possibilità di creare uno Stato palestinese

Il rapporto ricorda: “Solo un mese prima dell’operazione ‘Inondazione Al-Aqsa’ il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha presentato una mappa del cosiddetto ‘Nuovo Medio Oriente’ che raffigurava ‘Israele’ esteso dal fiume Giordano al mar Mediterraneo, comprese la Cisgiordania e Gaza.”

Cita anche le incursioni israeliane nella moschea di al-Aqsa a Gerusalemme, “aggressioni e umiliazioni” dei palestinesi detenuti nelle carceri israeliane e i 17 anni di blocco della Striscia di Gaza.

Che cosa ci si aspettava dal popolo palestinese dopo tutto questo? Che continuasse ad aspettare e a contare sull’impotente ONU? O prendesse l’iniziativa nella difesa del popolo, delle terre, dei diritti e dei luoghi santi palestinesi, sapendo che le azioni difensive sono un diritto insito nelle leggi, norme e convenzioni internazionali?” dice.

Forse ci sono stati errori”

Riguardo agli eventi del 7 ottobre il rapporto sostiene che Hamas ha preso di mira postazioni militari israeliane e intendeva “arrestare i soldati del nemico” nel tentativo di fare pressione sulle autorità israeliane per il rilascio di migliaia di prigionieri palestinesi.

Evitare di arrecare danno ai civili, soprattutto bambini, donne e anziani è un impegno religioso e morale di tutti i combattenti delle Brigate Al-Qassam,” afferma, in riferimento all’ala militare di Hamas.

Insistiamo sul fatto che durante l’operazione la resistenza palestinese è stata molto disciplinata e rispettosa dei valori islamici e che i combattenti palestinesi hanno preso di mira solo i soldati dell’occupazione e quelli che hanno impugnato le armi contro il nostro popolo.”

Il rapporto aggiunge che i combattenti di Hamas hanno cercato di evitare danni ai civili “nonostante il fatto che la resistenza non possiede armi di precisione.”

Secondo i dati ufficiali israeliani durante gli attacchi tra le vittime ci sono stati più di 30 minorenni e 100 anziani, oltre a 60 lavoratori stranieri.

Se ci sono stati casi in cui sono stati presi di mira civili, ciò è avvenuto accidentalmente e nel corso di scontri con le forze dell’occupazione. A causa del rapido crollo del sistema di sicurezza israeliano e del caos provocato lungo le aree di confine con Gaza forse c’è stato qualche errore nella messa in atto dell’operazione ‘Inondazione Al-Aqsa’”.

Varie associazioni per i diritti umani hanno chiesto che Hamas, un’organizzazione bandita in molti Paesi occidentali, tra cui USA e Gran Bretagna, venga indagata per i fatti del 7 ottobre.

Amnesty International ha descritto “uccisioni deliberate di civili, rapimenti e aggressioni indiscriminate” durante l’operazione.

Amnesty afferma di aver verificato video che mostrano combattenti di Hamas rapire ed uccidere intenzionalmente civili all’interno e nei dintorni di centri abitati israeliani e analizzato video che mostrano gruppi armati che sparano contro civili durante il festival musicale Nova.

Hamas sostiene che Israele ha ucciso i suoi stessi cittadini

Hamas prosegue smentendo varie affermazioni israeliane riguardo al fatto che sono stati presi di mira i civili, comprese quelle secondo cui i miliziani palestinesi avrebbero decapitato 40 bambini, così come accuse che i combattenti palestinesi avrebbero violentato donne israeliane.

Citando articoli dei mezzi di informazione israeliani Haaretz e Yedioth Ahronoth, ipotizza anche che il 7 ottobre alcuni civili israeliani siano stati uccisi da un elicottero.

I due articoli sostengono che i combattenti di Hamas hanno raggiunto la zona della manifestazione musicale senza sapere in precedenza che ci fosse un festival, dove l’elicottero israeliano ha aperto il fuoco sia contro i miliziani di Hamas che contro i partecipanti al concerto,” afferma.

Cita la “Direttiva Hannibal”, una regola d’ingaggio israeliana che stabilirebbe che si debba evitare ad ogni costo che israeliani vengano presi di ostaggio, persino se ciò comportasse la morte della propria gente.

Hamas menziona anche il fatto che Israele abbia rivisto al ribasso i numeri delle persone uccise il 7 ottobre da 1.400 a 1.200 dopo aver scoperto che 200 corpi bruciati erano di combattenti di Hamas.

Ciò significa che chi ha ucciso i miliziani ha ucciso anche gli israeliani, dato che solo l’esercito israeliano possiede aerei da guerra che il 7 ottobre hanno ucciso, bruciato e distrutto zone israeliane,” dice l’organizzazione.

Aggiunge di avere la certezza che un’inchiesta indipendente “dimostrerebbe la verità della nostra narrazione” e proverebbe la portata delle “menzogne e informazioni fuorvianti da parte israeliana”.

Rifiutiamo lo sfruttamento della sofferenza degli ebrei”

Più avanti nel rapporto Hamas sollecita la comunità internazionale, indicando gli USA, la Germania, il Canada e la Gran Bretagna, a sostenere gli sforzi perché tribunali internazionali indaghino le azioni di Israele.

Continua affermando che il conflitto non è con il popolo ebraico, ma con “il progetto sionista”. “Hamas non conduce una lotta contro gli ebrei in quanto tali, ma contro i sionisti che occupano la Palestina,” sostiene. “Però sono i sionisti che continuano a identificare ebraismo ed ebrei con il loro progetto coloniale e la loro entità illegale.”

Aggiunge che i palestinesi si oppongono alle ingiustizie contro i civili, incluse “quelle che gli ebrei hanno subito dalla Germania nazista.

Qui ricordiamo che il problema ebraico è stato essenzialmente un problema europeo, mentre i contesti arabi e islamici sono stati, nel corso della storia, un rifugio sicuro per il popolo ebraico e per popoli di altre fedi ed etnie,” sostiene.

Rifiutiamo lo sfruttamento della sofferenza degli ebrei in Europa per giustificare l’oppressione contro il nostro popolo in Palestina”.

Il rapporto aggiunge che in base alle leggi internazionali la resistenza armata contro l’occupazione è legittima e afferma che le lezioni della storia dimostrano che “la resistenza è l’approccio strategico e il solo modo per la liberazione e la fine dell’occupazione.”

In un altro punto il movimento dice anche di “rifiutare categoricamente” ogni piano internazionale o israeliano per il futuro di Gaza che “serva a prolungare l’occupazione” e che i palestinesi dovrebbero decidere il proprio futuro.

Chiediamo di opporsi ai tentativo di normalizzazione con l’entità israeliana ed essere a favore di un boicottaggio complessivo dell’occupazione israeliana e dei suoi sostenitori,” conclude il rapporto.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




La giustizia non è negoziabile: perché Israele non può distruggere la resistenza palestinese

Ramzy Baroud

1 novemebre 2023 Palestine Chronicle

È tempo di parlare di giustizia, vera giustizia, il cui risultato non è negoziabile: uguaglianza, pieni diritti politici, libertà e il diritto al ritorno.

Gaza ha modificato l’equazione politica in Palestina.

Anzi, è probabile che le ripercussioni di questa guerra devastante cambino l’equazione politica di tutto il Medioriente e rimettano al centro la Palestina come la crisi politica più urgente al mondo nei prossimi anni.

Dalla fondazione di Israele, agevolata dalla Gran Bretagna e protetta dagli Stati Uniti e da altri Paesi occidentali, le priorità sono state interamente quelle di Israele.

“Sicurezza” di Israele, “superiorità militare” di Israele, “il diritto a difendersi” di Israele, e molto altro hanno definito il discorso politico dell’Occidente sull’occupazione e l’apartheid di Israele in Palestina.

Questa bizzarra concezione del cosiddetto conflitto da parte di USA e Occidente, secondo cui un oppressore ha “diritti” sull’oppresso, ha consentito a Israele di mantenere un’occupazione militare sui territori palestinesi che è durata oltre 56 anni.

Ha anche permesso a Israele di ignorare le radici di questo “conflitto”, cioè la pulizia etnica della Palestina nel 1948 e il diritto al ritorno a lungo negato ai profughi palestinesi.

All’interno di questo contesto ogni disponibilità alla pace dei palestinesi e degli arabi è stata rifiutata, ogni presunto “processo di pace”, cioè gli accordi di Oslo, trasformato in un’opportunità per Tel Aviv di rafforzare la sua occupazione militare, espandere le colonie e rinchiudere i palestinesi in spazi simili a Bantustan [le aree riservate ai nativi africani nel Sudafrica dell’apartheid, ndt.], umiliati e segregati su base razziale.

Alcuni palestinesi, sedotti dall’elemosina americana o distrutti da una persistente sensazione di sconfitta, si sono messi in fila per ricevere i dividendi della pace statunitense-israeliana, misere briciole di falso prestigio, titoli vuoti e potere limitato, concessi e negati da Israele stesso.

Tuttavia la guerra israeliana contro Gaza sta già cambiando molto di questo penoso status quo.

La costante enfasi israeliana sul fatto che la sua guerra letale sia contro Hamas, contro il “terrorismo”, contro il fondamentalismo islamico e tutto il resto, potrebbe aver convinto quelli che sono già pronti ad accettare per oro colato la versione israeliana degli eventi.

Ma, mentre i corpi di migliaia di civili palestinesi, migliaia dei quali sono minori, iniziano a accumularsi nelle sale mortuarie degli ospedali e tragicamente nelle strade di Gaza, la narrazione inizia a cambiare.

I corpi fatti a pezzi di minori palestinesi, le cui famiglie sono morte insieme a loro, testimoniano della brutalità di Israele, dell’appoggio immorale dei suoi alleati, della disumanità di un ordine internazionale che premia l’assassino e reprime la vittima.

Di tutte le dichiarazioni di parte fatte dal presidente USA Joe Biden quella in cui ha suggerito che i palestinesi mentono riguardo al conto dei loro morti è stata forse la più inumana.

Washington potrebbe non averlo ancora capito, ma le ripercussioni dell’appoggio incondizionato a Israele in futuro si dimostreranno disastrose, soprattutto in una regione che ne ha abbastanza di guerre, egemonia, doppio standard, divisioni settarie e conflitto senza fine.

Ma il maggior impatto si farà sentire nello stesso Israele.

Quando il 26 ottobre l’ambasciatore palestinese all’ONU Riyad Mansour ha fatto un potente ed emotivo discorso, non ha potuto trattenere le lacrime. Delegazioni internazionali all’Assemblea Generale dell’ONU hanno continuato ad applaudire, riflettendo il crescente appoggio alla Palestina, non solo all’ONU ma in centinaia di città e cittadine e in innumerevoli angoli di strada in tutto il mondo.

Quando ha parlato l’ambasciatore israeliano all’ONU Gilad Erdan, che ha ispirato la maggior parte delle menzogne comunicate da Tel Aviv, soprattutto nei primi giorni di guerra, nessuno ha applaudito.

La narrazione israeliana si è chiaramente sbriciolata in mille pezzi. In effetti Israele non è mai stato così isolato. Questo non è affatto il “Nuovo Medio Oriente” che Netanyahu aveva profetizzato nel suo discorso all’Assemblea Generale dell’ONU il 22 settembre.

Incapace di capire come mai l’iniziale simpatia con Israele si sia rapidamente trasformata in vero e proprio sdegno, Israele ha fatto ricorso alle vecchie tattiche.

Il 25 ottobre Erdan ha chiesto le dimissioni del segretario generale dell’ONU António Guterres in quanto “inadeguato a guidare l’ONU”. Il presunto imperdonabile delitto di Guterres è il fatto di aver affermato che “gli attacchi di Hamas non sono avvenuti dal nulla.”

Per Israele e i suoi benefattori americani nessun contesto è permesso di macchiare l’immagine perfetta che Israele ha creato per il suo genocidio a Gaza. In questo mondo perfetto israeliano a nessuno è consentito parlare di occupazione militare, di assedio, di mancanza di prospettive politiche, dell’assenza di una pace giusta per i palestinesi.

Benché nella sua dichiarazione Amnesty International abbia detto che entrambe le parti hanno commesso “gravi violazioni delle leggi umanitarie internazionali, compresi crimini di guerra”, Israele lo attacca ancora, accusando l’organizzazione di essere “antisemita”.

Perché, secondo Israele, neppure alla principale associazione internazionale per i diritti umani al mondo è permesso contestualizzare le atrocità a Gaza o di avere il coraggio di suggerire che una delle “cause alla radice del conflitto” è “il sistema israeliano di apartheid imposto ai palestinesi”.

Israele non è più onnipotente, come vuole farci credere. Gli ultimi eventi hanno dimostrato che “l’invincibile esercito” israeliano, un’etichetta che ha consentito a Israele di diventare nel 2022 il decimo principale esportatore di armi al mondo, si è dimostrato una tigre di carta.

Questo è ciò che ha fatto infuriare di più Israele. “I musulmani non hanno più paura di noi,” ha detto l’ex- parlamentare della Knesset Moshe Feiglin in un’intervista ad Arutz Sheva-Israel National News [Canale 7-Notizie Nazionali Israeliane, rete israeliana di estrema destra, ndt.]. Per ripristinare questa paura il politico estremista israeliano ha chiesto di “ridurre immediatamente in cenere Gaza.”

Ma niente ridurrà in cenere Gaza, anche se, secondo l’ufficio umanitario dell’ONU, le oltre 12.000 tonnellate di esplosivo lanciate contro la Striscia nelle prime due settimane di guerra hanno già ridotto in cenere almeno il 45% delle abitazioni nella Striscia.

Gaza non morirà perché è un’idea potente profondamente radicata nei cuori e nelle menti di ogni arabo, di ogni musulmano e di milioni di persone in tutto il mondo.

Questa nuova idea sta sfidando la convinzione a lungo coltivata che il mondo debba provvedere alle priorità, alla sicurezza, alla definizione egocentrica di pace e ad altre illusioni di Israele.

Il dibattito dovrebbe ora tornare a quello che avrebbe sempre dovuto essere: le priorità dell’oppresso e non dell’oppressore.

È giunto il tempo in cui si parli dei diritti dei palestinesi, della sicurezza dei palestinesi e del diritto del popolo palestinese, di fatto un obbligo, di difendere se stesso.

È tempo per noi di parlare di giustizia, vera giustizia, il cui risultato non è negoziabile: uguaglianza, pieni diritti politici, libertà e diritto al ritorno.

Gaza ci ha detto tutto questo e molto altro. Ed è tempo che noi le diamo ascolto.

Ramzy Baroud è giornalista, autore ed editore di The Palestine Chronicle. È autore di sei libri. L’ultimo libro, curato insieme a Ilan Pappé, è Our Vision for Liberation: Engaged Palestines Leaders and Intellectuals Speak out [La nostra visione della liberazione: parlano i leader e gli intellettuali impegnati della Palestina]. Baroud è ricercatore senior non residente presso il Center for Islam and Global Affairs (CIGA).

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Hamas ha sovvertito lo status quo

Omar Karmi  

28 ottobre 2023 – The Electronic Intifada

Mentre Israele entra nella fase due del suo attacco contro Gaza, ci sono molte congetture su cosa l’esercito israeliano affronterà sul terreno.

La risposta dipende da come Hamas aveva previsto sarebbe stata la risposta di Israele alla sua operazione del 7 ottobre Inondazione Al-Aqsa.

Ciò a sua volta solleva la domanda dei motivi per cui Hamas ha fatto quello che ha fatto e quando.

Rappresentanti di Hamas hanno detto di non aver avuto altra scelta che agire. Avendo visto regredire negli ultimi decenni le aspirazioni dei palestinesi di porre fine all’occupazione israeliana tra l’apatia internazionale qualcosa doveva cambiare.

Abbiamo bussato alla porta della riconciliazione e non ci hanno fatti entrare,” ha detto Musa Abu Marzouk, leader di Hamas, al The New Yorker all’inizio di questo mese.

Abbiamo bussato alla porta delle elezioni e ne siamo stati privati. Abbiamo bussato alla porta di un documento politico per tutto il mondo – abbiamo detto: ‘Vogliamo la pace, ma dateci qualcuno dei nostri diritti –, ma non ci hanno lasciati entrare. Abbiamo provato tutte le strade. Non abbiamo trovato un percorso politico per uscire da questo pantano e liberarci dall’occupazione.”

Di sicuro il contesto dell’attacco conferma la spiegazione di Abu Marzouk.

Settantacinque anni dopo essere stati espulsi con la forza dalla Palestina nel 1948, 56 anni vissuti sotto l’occupazione militare, 30 anni di un “processo di pace” che ha solamente permesso a Israele di consolidare la sua occupazione in Cisgiordania e 16 anni di blocco a Gaza che ha reso impossibili una vita normale e un’economia normale, generazioni di palestinesi sono vissuti e morti senza poter sperare in un futuro migliore.

Altrettanto determinante nell’attuale situazione è stato il consenso dell’Occidente alla pericolosa illusione di Israele che avrebbe potuto gestire la sua occupazione indefinitamente.

Nonostante l’unanime consenso internazionale alla soluzione dei due Stati– condivisa da USA, Regno Unito, Europa, Lega Araba, Unione Africana, Russia, Cina – dalla firma degli accordi di Oslo nel 1993 non c’è mai stata una seria pressione su Israele affinché si ritirasse dall’occupazione, rinunciasse al suo progetto di colonizzazione e ponesse fine al suo dominio militare sui palestinesi della Cisgiordania occupata e della Striscia di Gaza.

Se non ora?

Anzi, tutto il contrario. Anche se le circostanze sul terreno per i palestinesi peggioravano drammaticamente, i leader israeliani erano abbastanza decisi nell’opporsi a uno Stato palestinese, mentre le colonie si espandevano e i coloni estremisti erano incoraggiati a scatenare attacchi violenti, mentre le organizzazioni per i diritti umani in tutto il mondo denunciavano Israele quale Stato di apartheid, mentre la popolazione di Gaza sprofondava nella morsa della povertà e della decrescita, mentre i razzisti duri e puri ricoprivano le posizioni più alte del governo israeliano, l’Occidente restava indifferente fino ad essere complice.

Anche i cosiddetti accordi di Abramo sono stati decisivi. Che i Paesi arabi cercassero accordi di normalizzazione con Israele quando non c’erano segni di alcun progresso verso la fine dell’occupazione o della soluzione alla questione palestinese, ha dato l’impressione che anche loro fossero pronti a lasciare i palestinesi isolati.

Questa prospettiva era aggravata dalle notizie che anche un accordo di normalizzazione con l’Arabia Saudita fosse imminente.

Tutto indicava che Israele stava gestendo con successo la sua occupazione.

Aveva in gran parte represso tutte le minacce armate in Cisgiordania, dove è aiutato non poco dall’Autorità Palestinese. Ha confinato Hamas a Gaza, dove ha creduto di aver trovato un modus operandi per cui i fondi dal Qatar e qualche permesso di lavoro in più avrebbero mantenuto la zona abbastanza tranquilla da essere accettabile.

Nel frattempo l’unico piano politico che sembrava guadagnare terreno era quello del ministro israeliano delle Finanze Bezalel Smotrich [politico dell’estrema destra dei coloni, ndt.], che nel 2017 stilò quello che lui ha chiamato un “piano decisivo”.

Quel piano contemplerebbe l’annessione ad Israele di tutti i territori occupati dopo una massiccia espansione delle colonie e lascerebbe ai palestinesi la scelta fra restare come cittadini di seconda classe o andarsene. Dei “terroristi” che sceglieranno di stare, ma non di accettare la subordinazione, se ne “sarebbe occupato” l’esercito israeliano.

In effetti il piano è una formalizzazione della situazione attuale.

L’accesso di Smotrich e del suo compare suprematista Itamar Ben-Gvir nel 2022 a posizioni al più alto livello del governo è stato solo un segnale del sostegno dello Stato israeliano alla continuazione dell’occupazione – non che ci abbiano pensato più di tanto. Nelle cinque elezioni che Israele ha tenuto negli ultimi quattro anni il tema dell’occupazione è a malapena stato menzionato.

Qualcosa doveva cambiare.

Mesi di preparazione

L’operazione Inondazione Al-Aqsa è stata chiaramente preparata nel corso di mesi e a detta di tutti condotta nella più totale segretezza, e persino i leader politici di Hamas non erano al corrente di tempi e modi.

Il 7 ottobre Hamas è riuscito a penetrare contemporaneamente in decine di punti e con numeri senza precedenti il “muro intelligente” che Israele aveva finito di erigere intorno a Gaza nel 2022, usando droni per abbattere le telecamere di sorveglianza e tattiche diversive come lancio di razzi e motociclette agganciate a parapendii a motore.

I primi obiettivi sembravano chiari. I combattenti hanno attaccato parecchie basi militari intorno a Gaza, uccidendo e catturando dei soldati con l’idea di portarli a Gaza e scambiarli con prigionieri palestinesi detenuti da Israele.

Quale fosse il piano dopo di ciò è meno chiaro. La risposta dell’esercito israeliano è stata imprevedibilmente lenta e quando a Gaza si è diffusa la notizia delle brecce nel muro, altri, tra cui altre organizzazioni della resistenza, hanno cominciato ad affluire oltre la frontiera.

Hamas ha negato di aver preso di mira i civili. Ma, mentre alcune delle affermazioni più raccapriccianti su cosa sia successo – per esempio, la notizia che 40 neonati fossero stati decapitati – sono state discretamente lasciate cadere e mentre sono ancora da definire i numeri degli israeliani uccisi nel fuoco incrociato all’arrivo dell’esercito israeliano, è chiaro che il 7 ottobre centinaia di civili hanno perso la vita.

Certamente Israele ha usato come arma le notizie di atrocità per far montare l’ardore guerresco in Israele e proteggersi da critiche esterne o richiami alla moderazione.

Il numero di funzionari israeliani, militari o politici, del passato o attualmente in carica che hanno utilizzato un linguaggio genocida deve aver fatto aprire gli occhi ad almeno alcuni dei giornalisti e politici stranieri.

È altrettanto certo che Hamas si aspettasse una massiccia risposta israeliana per ripristinare la sua deterrenza dopo quello che l’organizzazione aveva chiaramente pianificato affinché fosse un’ammaccatura senza precedenti nella corazza israeliana.

Non c’è bisogno di guardare molto lontano per vedere a quale tipo di sproporzionata violenza spesso arrivi Israele.

Lezioni dal 2014

Nel 2014 – dopo la cattura e l’uccisione di tre coloni israeliani in Cisgiordania – Benjamin Netanyahu, allora come ora primo ministro di Israele, incolpò Hamas, che negò ogni coinvolgimento – Israele scatenò quello che, fino a quel momento, è stato il suo attacco più brutale contro Gaza, uccidendo 2.251 persone di cui, secondo l’ONU, il 65%, ossia più di 1.400 vittime, erano civili.

La guerra del 2014 è consistita in un’invasione israeliana di due settimane sul terreno di Gaza, da cui Hamas avrebbe imparato la lezione per questa volta. Abu Obeida, il portavoce dell’ala militare di Hamas, le Brigate Qassam, ha chiarito che Hamas è pronta a una lunga battaglia.

Inoltre la cattura di oltre 200 persone ha offerto ad Hamas mezzi preziosi per esercitare un certo controllo sulla risposta israeliana. La presenza di alcuni ostaggi stranieri ha complicato le cose per il governo israeliano, che è stato sotto pressione sia dall’interno che dall’estero perché garantisca il loro rilascio prima dell’invasione di terra.

Anche il rilascio scaglionato di alcuni prigionieri ha rallentato l’esercito israeliano e dato spazio a richieste, tardive ma crescenti, per un immediato cessate il fuoco.

Una volta che Israele ha iniziato il suo attacco era scontato che ci sarebbero state delle tensioni regionali che non hanno fatto che crescere dopo il massiccio e indiscriminato bombardamento israeliano contro Gaza, che ha causato un costo immenso di vite, oltre 7.000 al momento della scrittura di questo articolo.

Fino ad ora gli arabi hanno protestato in gran numero nei propri Paesi ma non si sono ancora ribellati nella misura richiesta da Hamas. Per esempio, il 19 ottobre Abu Obeida ha esortato: “Marciate verso il confine della Palestina, unitevi e (fate) tutto quello che potete per sconfiggere il progetto sionista.”

Comunque la Giordania, con la sua numerosa popolazione palestinese, assiste a proteste quotidiane. La polizia antisommossa giordana è stata impiegata per impedire ai manifestanti di raggiungere il confine giordano con la Cisgiordania e anche i dimostranti davanti all’ambasciata israeliana ad Amman sono stati allontanati con la forza.

I colloqui di normalizzazione sauditi-israeliani sono stati accantonati a tempo indefinito, anche se fino ad ora sono state ignorate le richieste ad altri Paesi arabi di mettere la parola fine ai loro accordi di normalizzazione con Israele.

In Libano Hezbollah ha mantenuto una pressione militare contro Israele sufficiente a far capire che un’invasione di terra a Gaza causerebbe lì un’esplosione ancora più forte.

Gli sciiti libanesi dovranno fare i conti con la marina USA, dopo l’invio da parte di Washington di due portaerei nella zona, un tentativo esplicito di deterrenza contro ogni altro attore dal farsi coinvolgere.

Inoltre la decisione di Israele di tagliare forniture di combustibile, elettricità, cibo e acqua a tutti i 2.3 milioni di gazawi ha messo in difficoltà i sostenitori di Israele in Occidente nello spiegare come il proprio sostegno incondizionato si concili con il diritto internazionale, così spesso invocato per l’Ucraina.

Punto di svolta

Inevitabilmente si sta ritornando alla diplomazia. Una delegazione di Hamas è andata in Russia, la cui proposta del 26 ottobre per totale cessate il fuoco è stata bocciata due volte dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU.

Al Jazeera ha riferito che i colloqui Hamas-Israele mediati dal Qatar per un cessate il fuoco hanno raggiunto uno stadio “avanzato”.

Secondo Al Jazeera il negoziato principale sembra essere quello per uno scambio di prigionieri, uno degli obiettivi centrali di Hamas nell’operazione del 7 ottobre. Da allora Israele ha intrapreso una vasta campagna di arresti in Cisgiordania, rastrellando oltre 1500 palestinesi.

Hamas vuole anche vedere la fine del blocco di Gaza, che ha afflitto le vite di tanti per troppo tempo.

Tuttavia qualsiasi svolta diplomatica è subordinata alla percezione israeliana di come possa riuscire ad evitare di pagare un prezzo qualsiasi con un’azione militare di terra.

Le truppe israeliane sono ammassate in quantità senza precedenti lungo il confine di Gaza. I leader militari israeliani dicono di essere pronti e preparati alla battaglia.

Molto dipende dalla pressione dell’opinione pubblica.

In Israele tale pressione per un’invasione immediata via terra sta riducendosi e i pianificatori militari israeliani sono attenti anche all’opinione pubblica fra gli alleati occidentali di Israele, che sta anch’essa discretamente cambiando, probabilmente restringendo il momento buono per un’invasione su larga scala.

Un’invasione totale di terra sarà sanguinosa e lunga. Infliggerà dolori ancora maggiori alla popolazione di Gaza.

Non otterrà la fine di Hamas, lo scopo su cui insiste Israele. Hamas è un movimento politico con un’ala militare. Più che un gruppo ideologico e religioso, è principalmente un movimento di liberazione nazionale.

Khaled Meshaal, uno dei leader politici di Hamas, a cui è stato chiesto dei sacrifici che i palestinesi dovranno fare come risultato dell’operazione del 7 ottobre, ha citato come fonti d’ispirazione la resistenza sovietica all’invasore nazista tedesco, la guerra del Vietnam prima contro la Francia e poi gli USA e la lotta algerina per l’indipendenza dal colonialismo francese, collocando fermamente Hamas nel campo anti-imperialista.

La sconfitta sul campo di battaglia non equivale alla sconfitta politica.

Indipendentemente da cosa succederà in un’invasione di terra, l’operazione del 7 ottobre ha collocato irrevocabilmente la situazione in Palestina in uno scenario da giorno dopo.

Hamas ha ottenuto vari obiettivi.

Ha danneggiato l’immagine della deterrenza israeliana. Per ora ha minato ogni patto Israele-Arabia Saudita, ed ha attirato l’attenzione mondiale su quella ferita aperta che è la Palestina.

Ciò potrebbe essere il segnale per rinnovati e seri sforzi per affrontare l’occupazione israeliana e per porre fine al governo militare israeliano sul popolo palestinese.

Ma minaccia anche di velocizzare i piani genocidi di Smotrich.

Omar Karmi è un redattore associato di The Electronic Intifada e un ex corrispondente da Gerusalemme e Washington per il quotidiano The National.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




I pogrom funzionano: gli sfollamenti sono già in atto

B’Tselem

21 Settembre 2023 – B’Tselem Publications

Da decenni Israele mette in pratica una serie di misure programmate per rendere invivibile la vita all’interno di decine di comunità palestinesi in tutta la Cisgiordania. Ciò fa parte di un tentativo di costringere gli abitanti di queste comunità ad andarsene via, apparentemente di propria iniziativa. Una volta raggiunto questo scopo lo Stato potrà realizzare il suo obiettivo di impossessarsi del territorio. Per raggiungere questo obiettivo Israele vieta ai componenti di queste comunità di costruire case, strutture agricole o edifici pubblici. Non consente loro di collegarsi alle reti idriche ed elettriche o di costruire strade e quando, non avendo altra scelta, lo fanno Israele minaccia la demolizione, passando spesso alle vie di fatto.

La violenza dei coloni è un altro strumento utilizzato da Israele per creare ulteriori tormenti ai palestinesi che vivono in queste comunità.

Sotto lattuale governo tali aggressioni sono notevolmente peggiorate trasformando la vita in alcuni luoghi in un incubo senza fine e negando agli abitanti qualsiasi possibilità di vivere con un minimo di dignità. La violenza ha privato gli abitanti palestinesi della loro capacità di continuare a guadagnarsi da vivere. Li ha terrorizzati al punto da temere per le loro vite e ha inculcato in loro la consapevolezza che non c’è nessuno che li protegga.

Questa realtà non ha lasciato a queste comunità altra scelta e molte di loro si sono sradicate, abbandonando le proprie abitazioni per luoghi più sicuri. Vivono in simili condizioni decine di comunità sparse in tutta la Cisgiordania. Se Israele continuasse questa politica tutti gli abitanti potrebbero essere sfollati, permettendo a Israele di raggiungere il suo obiettivo e di impossessarsi della loro terra.

Lo sfondo

Decine di comunità di pastori palestinesi sono sparse in tutta la Cisgiordania. Poiché Israele classifica queste comunità come non riconosciute, non consente loro di collegarsi alle reti idriche ed elettriche o al sistema stradale. Israele considera inoltre illegalitutti gli edifici costruiti in queste comunità (case, edifici pubblici e strutture agricole) ed emette ordini di demolizione nei loro confronti, che in alcuni casi esegue. Alcuni edifici sono stati demoliti e ricostruiti più volte.

Negli ultimi anni i coloni hanno costruito con laiuto dello Stato decine di avamposti e piccole fattorie vicino a queste comunità e da allora la violenza contro i palestinesi che vivono nellarea è aumentata, con un’impennata particolare sotto lattuale governo. Durante questi attacchi violenti, diventati una terrificante routine quotidiana, i coloni mandano via i pastori e gli agricoltori palestinesi dai loro pascoli e campi, aggrediscono fisicamente gli abitanti delle comunità, entrano nelle loro case nel cuore della notte, danno fuoco a proprietà palestinesi, spaventano il bestiame, distruggono i raccolti, compiono dei furti e bloccano le strade. Gli abitanti palestinesi hanno anche riferito che i coloni hanno aperto le valvole dei serbatoi dell’acqua e hanno condotto le loro greggi a bere nei bacini idrici palestinesi.

In tali circostanze gli abitanti di queste comunità non hanno più potuto continuare a recarsi nei loro pascoli e campi agricoli. In alcuni luoghi, in assenza dei palestinesi, i coloni hanno iniziato a coltivare i loro campi sotto la protezione dei soldati. In altri luoghi i coloni hanno iniziato a far pascolare le greggi di loro proprietà in pascoli che fino a poco tempo fa erano stati utilizzati dai pastori palestinesi. Senza accesso ai pascoli, i palestinesi sono stati costretti ad acquistare a costi elevati foraggio e acqua per le loro greggi, il che ha causato perdite finanziarie significative, distruggendo di fatto i loro mezzi di sussistenza.

Lattuale governo gioca un ruolo significativo in questo stato di cose. Sebbene non abbia introdotto restrizioni riguardo alla costruzione e demolizione di case palestinesi e alluso della violenza da parte dei coloni per prendere il controllo della terra palestinese, conferisce piena legittimità alla violenza dei coloni contro i palestinesi incoraggiando e sostenendo pubblicamente i responsabili. Membri di questo governo sono stati in passato artefici di tali violenze. Ora sono loro le persone incaricate di programmare la politica. Stanziano i fondi che finanziano la violenza e sono responsabili dellapplicazione della legge sui coloni che attaccano i palestinesi.

Questo governo non si preoccupa nemmeno di esprimere quelle vuote condanne che un tempo si udivano dopo questi atti di violenza, elogiando al contrario i coloni violenti. Laddove i governi precedenti insistevano nel mantenere in piedi la farsa di un sistema giudiziario efficiente nell’indagare e perseguire gli israeliani che provocassero dei danni ai palestinesi, i membri di questo governo sono impegnati a cancellarne ogni traccia, con un ministro che chiede di cancellare Huwarah” [il ministro delle finanze Bezalel Smotrich a proposito del pogrom nella città palestinese nella Cisgiordania settentrionale, ndt.], membri dei partiti della coalizione che visitano in ospedale un israeliano sospettato di aver ucciso un palestinese e ministri che si rifiutano di condannare la violenza, il tutto tollerando e giustificando un pogrom dopo l’altro nelle comunità palestinesi.

Le prime a subire le conseguenze di questo cambiamento sono le comunità palestinesi più isolate e vulnerabili. Queste comunità vivono nelle condizioni più elementari, circondate da avamposti di insediamento coloniale i cui abitanti hanno carta bianca per far loro del male impunemente. Se i palestinesi di comunità più consolidate come Turmusaya e Um Safa non hanno ricevuto alcuna protezione mentre i soldati e gli agenti di polizia spalleggiavano i responsabili dei pogrom, che speranza hanno gli abitanti di sperdute comunità di pastori? Il timore per la loro stessa sopravvivenza, la consapevolezza che insieme ai propri figli essi siano stati abbandonati al loro destino, il tutto perdendo le fonti di reddito, li ha, comprensibilmente, privati della possibilità di continuare a vivere nelle loro comunità e li ha costretti ad andarsene.

Le comunità sfollate

Negli ultimi due anni almeno sei comunità della Cisgiordania sono state costrette a sfollare.

Quattro delle comunità vivevano a nord e nord-est di Ramallah. Alcuni dei loro componenti abitavano su terreni di proprietà di altri palestinesi che avevano accettato di lasciarli vivere lì dopo la loro cacciata da altri luoghi in Israele e in Cisgiordania. Negli ultimi anni, con laiuto dello Stato, attorno a queste comunità sono stati creati diversi avamposti coloniali residenziali e agricoli israeliani, il primo dei quali, Michas Farm, è stato fondato nel 2018. Come altrove in Cisgiordania, questi avamposti coloniali sono stati quasi immediatamente collegati alle reti idriche ed elettriche, nonché alla rete stradale. Hanno goduto dellimmunità dalle demolizioni e i loro abitanti lavorano in pieno concerto con i militari, che forniscono loro protezione. Alcuni di questi avamposti sono stati realizzati in aree dove, ufficialmente, non può essere costruita alcuna comunità, poiché Israele le ha dichiarate zone di tiro, ma hanno comunque ricevuto il sostegno dello Stato.

Le quattro comunità sfollate in quest’area sono:

  • Ras a-Tin: Il 7 luglio 2022, i circa 120 componenti di questa comunità, circa la metà dei quali minorenni, se ne sono andati via. La comunità venne fondata alla fine degli anni ’60 da palestinesi che Israele aveva sfollato dalle colline a sud di Hebron su terreni palestinesi di proprietà privata e registrati appartenenti ai residenti di Kafr Malik e al-Mughayir. Nel corso degli anni, lamministrazione civile ha emesso ordini di demolizione contro alcuni edifici degli abitanti e fino ad oggi Israele aveva demolito tre edifici non residenziali della comunità. L’Amministrazione Civile aveva emesso un ordine di demolizione anche per la scuola costruita dagli abitanti della comunità. Nel 2018 vicino alla comunità è stata costruita Michas Farm, un avamposto di insediamento coloniale, e in seguito alla sua fondazione gli abitanti della comunità hanno segnalato un aumento significativo di episodi di violenza, tra cui molestie, furti, atti di vandalismo e violenze verbali, che sono diventati una routine quotidiana.

  • Ein Samia: il 22 maggio 2023 gli ultimi abitanti rimasti della comunità di Ein Samia costituita da 28 famiglie per un totale di circa 200 componenti, hanno abbandonato le loro case. La comunità si stabilì in quel sito su terreni dati in affitto dagli abitanti della vicina Kafr Malik nel 1980, dopo essere stata costretta dagli israeliani a sfollare più volte da altre località. Nel corso degli anni l’amministrazione civile ha emesso ordini di demolizione contro alcuni edifici degli abitanti e fino ad oggi Israele ha demolito 21 case della comunità, che ospitavano 83 persone, tra cui 52 minori, oltre ad altri 28 edifici non residenziali. LAmministrazione Civile ha inoltre emesso un ordine di demolizione per la scuola della comunità, utilizzata da circa 40 bambini. Nell’ottobre 2022 il tribunale distrettuale di Gerusalemme ha respinto una petizione presentata dagli abitanti del luogo perché ne venisse sospesa la demolizione. Gli abitanti se ne sono andati prima che l’ordine di demolizione fosse eseguito. Anche gli abitanti di Ein Samia hanno segnalato un aumento significativo della violenza dei coloni a partire dal 2018. Una settimana prima che la comunità se ne andasse, la polizia ha confiscato agli abitanti decine di pecore e capre con la falsa accusa che fossero state rubate ai coloni. Durante la notte i coloni sono entrati nella comunità, hanno attaccato gli abitanti e la scuola, hanno fatto volare un drone sopra di loro e hanno dato fuoco ai pascoli. Inoltre hanno lasciato libero il loro gregge nei campi agricoli della comunità e gli animali hanno consumato lintero raccolto.

  • al-Baqah: Il 10 luglio 2023 33 persone, tra cui 21 minori, sono state costrette a sfollare. Il 1 settembre 2023 è stata allontanata anche lultima famiglia rimasta, composta da 5 persone di cui un minore. La loro partenza è stata preceduta da attacchi quotidiani da parte di coloni che avevano costruito una fattoria a circa 50 metri dalle case della comunità, avevano installato pannelli solari, si erano collegati alle infrastrutture idriche che servono il vicino avamposto di Neve Erez e avevano preso il controllo della via di accesso della comunità alla strada principale. I coloni facevano anche pascolare il loro gregge, che contava tra 60 e 70 capi di pecore, nei pascoli della comunità e molestavano i pastori del luogo che portavano al pascolo le proprie greggi. Il 7 luglio 2023, intorno alle 6,30, una tenda della comunità, più isolata rispetto alle altre, è stata incendiata. La famiglia in quel momento era fuori, poiché sin dalla fondazione dell’avamposto trascorreva le notti altrove per paura di attacchi da parte dei coloni. La famiglia ha visto l’incendio da lontano e ha chiamato la polizia, ma non è intervenuto nessuno.

  • al-Qabun: La comunità, che ospitava 12 famiglie per un totale di 86 residenti, tra cui 26 minori, è stata costretta a sfollare all’inizio dell’agosto del 2023. La comunità viveva in quel luogo dal 1996, dopo che Israele, nei primi anni ’50, aveva costretto i suoi componenti a lasciare il deserto del Negev. Nel corso degli anni lamministrazione civile ha emesso ordini di demolizione contro alcuni edifici degli abitanti e fino ad oggi Israele ha demolito sei case che ospitavano 41 persone, tra cui 18 minori, e 12 edifici non residenziali. Nel febbraio di questanno i coloni hanno realizzato un avamposto vicino alla comunità, allinterno di unarea che Israele aveva dichiarato zona di tiro. Gli abitanti hanno riferito di essere stati perseguitati dai coloni, che giravano intorno alle loro case fino ad entrarvi, arrivavano a tarda notte a cavallo e in fuoristrada, li intimidivano, si impossessavano dei loro campi coltivati e gli impedivano di portare al pascolo il loro gregge.

Nelle colline a sud di Hebron almeno altre due comunità sono state costrette a sfollare con la forza. La prima era Khirbet Simri, una frazione di due famiglie appartenenti a due fratelli con un totale di 20 componenti, di cui otto minorenni. Nel 1998 in cima alla collina dove viveva la comunità venne fondato l’avamposto coloniale di Mitzpe Yaire e ne seguì un aumento delle violenze. I coloni importunavano i membri della comunità, li minacciavano, entravano nelle loro case e impedivano loro di far pascolare le greggi. Nel 2020 i coloni hanno portato una mandria di bovini, che hanno pascolato su un terreno utilizzato dagli abitanti della comunità. Nel luglio 2022 questi hanno deciso di andarsene.

La seconda comunità ad andare via è stata Widady a-Tahta, anch’essa composta da 20 abitanti, tra cui 12 minori. La comunità viveva nel sito da circa 50 anni. Circa due anni fa i coloni hanno realizzato un avamposto a circa 500 metri dalle case della comunità. Da allora, i coloni hanno ripetutamente bloccato laccesso dei componenti della comunità ai pascoli attorno alle loro case, anche utilizzando un drone per spaventare e disperdere il gregge. Inoltre coloni armati penetravano ripetutamente a tutte le ore nelle case degli abitanti, in alcuni casi con un cane, aggredendo i componenti della comunità, picchiandoli e minacciandoli con le armi. Inoltre, circa un anno fa l’Amministrazione Civile ha emesso ordini di demolizione di tutti gli edifici del piccolo borgo: tre strutture residenziali e un recinto per il bestiame. Il 27 giugno 2023 due coloni armati sono entrati nella comunità e hanno minacciato uno degli abitanti che stava portando al pascolo le sue pecore vicino a casa. È fuggito per chiedere aiuto ai familiari e i coloni hanno cercato di rubare le pecore, ma quando hanno visto gli abitanti avvicinarsi le hanno abbandonate e sono tornati all’avamposto. La famiglia ha contattato la polizia, ma questa si è rifiutata di aiutarli. Dopo questo incidente la famiglia è giunta alla decisione che il pericolo era troppo grande e hanno dovuto andarsene.

Parte di una politica di lunga data

Queste comunità non hanno preso la decisione di lasciare tutto senza un motivo. È il risultato diretto della politica di Israele, progettata per raggiungere questo esatto risultato: costringere i palestinesi a sfollare e ridurre il loro spazio vitale per trasferire la loro terra in mani ebraiche. La politica si basa su una serie di restrizioni, misure e pratiche abusive da parte dello Stato e dei suoi rappresentanti, con vari livelli di durezza e perseguite sia ufficialmente che ufficiosamente.

Il percorso ufficiale: restrizioni estreme ad edilizia e ampliamento

Israele di fatto vieta ai palestinesi edilizia e ampliamento nellArea C [sotto controllo civile e di sicurezza israeliano, ndt.], che comprende il 60% della Cisgiordania. Larea ospita 200.000-300.000 palestinesi, migliaia dei quali vivono in decine di comunità di pastori e agricoltori. Sebbene la maggior parte degli abitanti palestinesi della Cisgiordania viva nelle aree definite A e B dagli Accordi di Oslo, firmati circa 30 anni fa sotto forma di intesa ad interim quinquennale, tutti i palestinesi sono colpiti dal divieto di costruire. Il motivo è che quando furono firmati gli Accordi di Oslo le Aree B[sotto controllo civile palestinese e di sicurezza israeliano, ndt.] e A [sotto totale controllo palestinese, ndt.] erano già in gran parte popolate, mentre le aree con un potenziale di sviluppo urbano, agricolo ed economico rimanevano per lo più nellArea C, e da allora la popolazione palestinese è quasi raddoppiata.

Per impedire l’edilizia palestinese nellArea C Israele ne ha stabilito il divieto per circa il 60%, assegnando diverse definizioni legali ad aree vaste (e talvolta sovrapposte): il terreno statalecomprende circa il 35% dellArea C, i campi di addestramento militare (zone di tiro) comprendono circa il 30%, le riserve naturali e i parchi nazionali coprono un altro 14% e le giurisdizioni degli insediamenti coloniali comprendono un altro 16% della stessa area. Israele sta conducendo una guerra incessante contro i palestinesi che vivono in queste aree, allontanandoli ripetutamente dalla loro terra con falsi pretesti, come l’addestramento militare, demolendo le loro case e confiscando le loro proprietà.

Nel restante 40% dellArea C Israele, che ha il controllo pieno ed esclusivo sull’edificazione e pianificazione in Cisgiordania, impone restrizioni estreme a edificazioni e ampliamenti. LAmministrazione Civile si rifiuta di preparare piani regolatori per la stragrande maggioranza delle comunità palestinesi in questarea. I pochi piani regolatori approvati dall’Amministrazione Civile, che rappresentano meno dell’1% dell’Area C e in aree in gran parte già edificate, non soddisfano i criteri di pianificazione accettati oggi nel mondo.

Le probabilità che un palestinese riceva un permesso di costruzione, anche su un terreno di proprietà privata, sono minime. Secondo i dati forniti dallAmministrazione Civile a da Peace Now [movimento progressista pacifista non-governativo israeliano, ndt.] nel decennio tra il 2009 e il 2018 sono stati approvati solo 98 permessi per costruzioni residenziali, industriali, agricole e infrastrutturali su 4.422 domande di autorizzazione presentate (2%). Secondo i dati forniti alla ONG israeliana Bimkom, su 2.550 domande presentate tra il 2016 e il 2020 ne sono state approvate 24 (meno dell1%). Il numero di domande di permesso presentate non riflette necessariamente le esigenze edilizie dei palestinesi, dal momento che la maggior parte dei palestinesi non si prende più la briga di presentare domande di permesso di costruzione, sapendo che verranno comunque respinte.

La mancanza di piani regolatori impedisce non solo ledilizia residenziale ma anche la costruzione per scopi pubblici, come scuole e strutture mediche, nonché le infrastrutture, compresi i collegamenti alla rete stradale e alle reti idriche ed elettriche. A causa del cambiamento climatico le restrizioni sulle infrastrutture rendono di anno in anno la vita più difficile per gli abitanti palestinesi. Non solo Israele nega agli abitanti il collegamento alle infrastrutture ma impedisce loro anche di prendersi cura dei propri bisogni in modo indipendente, vietando lo scavo di cisterne per lacqua e linstallazione di impianti solari e confiscando regolarmente i serbatoi dellacqua. Senza collegamenti allacqua corrente il consumo di acqua in queste comunità è di 26 litri al giorno per persona, equivalente al consumo di acqua nelle zone disastrate e circa un quarto dei 100 litri al giorno per persona raccomandati dallOrganizzazione Mondiale della Sanità.

Date queste condizioni i palestinesi sono costretti a promuovere l’ampliamento delle loro comunità e a costruire le loro case senza permessi. Lo fanno non perché siano criminali ma perché non hanno la possibilità di costruire legalmente. L’Amministrazione Civile emette ordini di demolizione contro questi edifici, talvolta con successiva messa in atto. Secondo i dati di BTselem, tra il 2006 e il 31 luglio 2023 Israele ha demolito in Cisgiordania 2.123 case. A causa di queste demolizioni 8.580 persone, tra cui 4.324 minori, hanno perso la casa. Durante questo periodo Israele ha demolito anche 3.387 edifici non residenziali.

Pertanto, utilizzando uno sterile vocabolario giuridico e di pianificazione urbana e agganciandosi a ordini militari e leggi sulla pianificazione e sull’edilizia, Israele riesce a cacciare i palestinesi dalle vaste aree che sono oggetto delle sue mire e a confinarli in aree più piccole dove tiene in sospeso le loro vite e applica politiche volte a negare loro qualsiasi sviluppo. I palestinesi sono costretti a vivere in una costante incertezza riguardo al loro futuro e nella paura senza fine che si presenti il personale dellamministrazione civile per consegnare ordini di demolizione o per demolire ciò che hanno già costruito. Vivono in uno stato di costante deprivazione, in condizioni che non possono essere paragonate a quelle degli insediamenti coloniali costruiti vicino alle loro comunità e spesso sulle loro terre.

Il percorso non ufficiale: la violenza dei coloni

Laccaparramento di terre da parte di Israele viene perseguito anche attraverso atti quotidiani di violenza compiuti da bande di coloni che operano senza timore di conseguenze, armate, sostenute, incoraggiate e finanziate dallo Stato, direttamente o indirettamente. Questi atti di violenza fanno parte di unampia strategia progettata per costringere i palestinesi dallArea C a sfollare.

Negli ultimi anni sono state create in tutta la Cisgiordania circa 70 fattorie agricole. Avviare unazienda agricola richiede molte meno risorse rispetto alla costruzione di un insediamento coloniale e attraverso il pascolo di pecore e bovini queste aziende agricole consentono una facile acquisizione di vaste aree che si estendono su migliaia di dunam, che di solito contengono pascoli, risorse idriche e terre coltivate dai palestinesi. I coloni che vivono in queste fattorie terrorizzano i palestinesi che abitano vicino a loro.

Le tattiche principali utilizzate dai coloni comprendono l’occupazione dei pascoli facendovi pascolare pecore e bovini, la corsa di quad contro greggi palestinesi e il sorvolo di droni per spaventare e disperdere gli animali, l’uso della violenza fisica contro gli abitanti palestinesi delle comunità, nei pascoli, nei campi coltivati e allinterno delle loro case, e il danneggiamento delle fonti dacqua.

Usando queste tattiche i coloni sono riusciti ad allontanare pastori e agricoltori palestinesi dai campi, dai pascoli e dalle fonti dacqua su cui hanno fatto affidamento per generazioni e a prenderne il controllo. Una ricerca condotta da B’Tselem circa due anni fa ha rilevato che cinque piccole fattorie di coloni, con solo poche decine di abitanti, di solito una famiglia o due e alcuni giovani, hanno preso il controllo di un’area che si estende per un totale di oltre 28.000 dunam (1 dunam = 1.000 metri quadrati) di terreni agricoli e pascoli utilizzati dalle comunità palestinesi per generazioni.

I militari, che sono ben consapevoli di queste azioni, evitano di affrontare i coloni violenti per una questione politica mentre invece a volte partecipano essi stessi a questi atti o proteggono i coloni a distanza. Linerzia di Israele continua dopo che si sono verificati gli attacchi dei coloni contro i palestinesi, dato che le autorità preposte allapplicazione della legge fanno tutto il possibile per evitare che qualcuno risponda a questi incidenti. Le denunce sono difficili da presentare e nei pochissimi casi in cui vengono effettivamente aperte le indagini il sistema le insabbia rapidamente. Non vengono quasi mai presentate accuse contro i coloni che danneggiano i palestinesi, e quelle che vengono stilate di solito citano reati minori, con sanzioni simboliche comminate nel raro caso di una condanna.

Non è una novità. La violenza commessa dai coloni contro i palestinesi è stata registrata fin dai primi giorni delloccupazione in innumerevoli documenti e dossier governativi; migliaia di testimonianze di palestinesi e soldati; libri; rapporti di organizzazioni palestinesi, israeliane e internazionali per i diritti umani e migliaia di storie dei media. Questa documentazione ampia e coerente non ha avuto praticamente alcun effetto sulla violenza dei coloni contro i palestinesi, che da tempo è diventata parte integrante della vita sotto loccupazione in Cisgiordania.

Questa politica ha lasciato i palestinesi senza alcuna protezione, negando loro persino il diritto di difendersi dalle persone che invadono le loro case. Quando i palestinesi cercano di respingere lattacco dei coloni, anche lanciando pietre, i soldati che fino a quel momento erano rimasti a guardare o avevano partecipato allattacco sparano contro di loro lacrimogeni, granate stordenti, proiettili di metallo rivestiti di gomma e persino proiettili veri. In alcuni casi i palestinesi vengono anche arrestati e alcuni vengono incriminati.

Lo Stato legittima non solo la violenza contro i palestinesi ma anche le conseguenze di questi atti, consentendo ai coloni di rimanere sulla terra che hanno sottratto con la forza ai palestinesi. Lesercito proibisce ai palestinesi di entrare in quelle aree e lo Stato sostiene pienamente gli insediamenti coloniali realizzati su di esse. Decine di avamposti, anche agricoli, costruiti senza permesso ufficiale vengono lasciati in piedi, mentre Israele fornisce sostegno attraverso i ministeri, la Divisione per gli Insediamenti dellOrganizzazione Sionista Mondiale e i consigli regionali in Cisgiordania. Inoltre lo Stato sovvenziona gli sforzi finanziari negli avamposti coloniali, comprese le strutture agricole, fornisce sostegno ai nuovi agricoltori e alla pastorizia, assegna lacqua e difende sul piano giuridico gli avamposti coloniali nel caso di petizioni a favore della loro rimozione.

Così è iniziato il trasferimento forzato, ed è così che Israele continua ad impegnarsi per rendere miserabile la vita di chi abita nelle comunità situate nelle aree ambite, fino al punto che non possono più restarvi e le abbandonano, lasciando le loro case e la loro terra allo Stato. Questa politica viene attuata utilizzando due binari paralleli. Da un lato, sotto l’egida delle ordinanze militari, dei consulenti legali e della Corte Suprema lo Stato sfratta i palestinesi dalle loro terre. Sull’altro binario i coloni usano la violenza contro i palestinesi, aiutati e incoraggiati e talvolta con la collaborazione delle forze statali. Questa politica ha portato al trasferimento forzato di almeno sei comunità, ma molte altre in tutta la Cisgiordania sperimentano la stessa brutalità e sono sotto minaccia immediata di espulsione.

Questa è una politica illegale che implica per Israele il crimine di guerra del trasferimento forzato. Il diritto internazionale, che Israele è obbligato e si è impegnato a rispettare, vieta il trasferimento forzato degli abitanti di un territorio occupato, indipendentemente dalle circostanze. Il fatto che questo caso particolare non comporti che i soldati arrivino nelle case degli abitanti e li costringano fisicamente ad andarsene è irrilevante. Creare un ambiente coercitivo che non lasci agli abitanti altra scelta è sufficiente per ritenere Israele responsabile di questo crimine.

Queste comunità non vengono costrette a sfollare a causa di disastri naturali o altre circostanze inevitabili. È una scelta che il regime dell’apartheid sta facendo per realizzare il suo obiettivo di Cin tutta l’area compresa tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questo regime considera la terra come una risorsa destinata esclusivamente al popolo ebraico, e quindi la terra viene utilizzata quasi esclusivamente per lo sviluppo e l’espansione delle colonie ebraiche esistenti e per la creazione di nuove.

Pertanto opporsi ai trasferimenti in corso è un dovere e, ovviamente, non vi è alcun obbligo di continuare a collaborare all’attuazione delle politiche che li guidano. Segmenti crescenti dellopinione pubblica israeliana hanno recentemente dichiarato il loro rifiuto di prestare servizio nellesercito in un Paese non democratico. Non c’è niente di più degno del rifiuto ad essere partecipi nell’esecuzione di un crimine di guerra e nellattuazione di una politica di trasferimenti.

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




L’autoritarismo dell’ANP affonda le sue radici negli accordi di Oslo

Yara Hawari

13 settembre 2023 – Al Jazeera

L’Autorità Nazionale Palestinese non è mai stata concepita per costituire un governo democratico e difendere gli interessi del popolo palestinese.

Il 13 settembre 1993 il leader palestinese Yasser Arafat e il primo ministro israeliano Yitzhak Rabin si strinsero la mano sul prato della Casa Bianca affiancati dal presidente americano Bill Clinton molto compiaciuto. Avevano appena firmato un accordo che sarebbe stato salutato come uno storico accordo di pace che avrebbe posto fine al “conflitto” decennale tra palestinesi e israeliani.

In tutto il mondo la gente festeggiò l’accordo che divenne noto come Accordi di Oslo. Fu ritenuto un grande successo diplomatico. Un anno dopo Arafat e Rabin ricevettero il Premio Nobel per la pace.

Molti palestinesi speravano anche di ottenere finalmente uno Stato sovrano, anche se avrebbe occupato meno del 22% della loro patria originaria. In effetti questa era la promessa degli Accordi di Oslo – un processo graduale verso uno Stato palestinese.

Trent’anni dopo i palestinesi sono più lontani che mai da un proprio Stato. Hanno perso ancora più terra a causa degli insediamenti israeliani illegali e sono costretti a vivere in bantustan sempre più piccoli in tutta la Palestina colonizzata. Ormai è chiaro che Oslo aveva il solo scopo di aiutare Israele a consolidare la sua occupazione e colonizzazione della Palestina.

Peggio ancora, ciò che i palestinesi ottennero dagli accordi di Oslo fu una forma piuttosto perniciosa di autoritarismo palestinese nei territori occupati nel 1967.

Uno dei termini dell’accordo era che alla leadership in esilio dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) sarebbe stato permesso di ritornare solo nei territori occupati da Israele nel 1967 – Cisgiordania e Gaza – e le sarebbe stato permesso di creare un governo ad interim noto come come Autorità Nazionale Palestinese (ANP) per un periodo di cinque anni.

L’Autorità Nazionale Palestinese, composta da membri del partito di Arafat, Fatah, si assunse la responsabilità degli affari del popolo palestinese mentre l’occupazione militare israeliana rimaneva in vigore. Con il sostegno della comunità internazionale e del regime israeliano Arafat perseguì un governo basato sul clientelismo e sulla corruzione, con scarsa tolleranza per il dissenso interno.

Il successore di Arafat, il presidente Mahmoud Abbas, ha continuato sulla stessa strada. Oggi, all’età di 87 anni, non solo è uno dei leader più anziani del mondo, ma ha anche superato da più di 14 anni il suo mandato legale, nonostante il decrescente sostegno al suo governo da parte dei palestinesi.

Da quando è salito al potere Abbas ha più volte indetto in malafede delle elezioni, l’ultima delle quali nel gennaio 2021. Quell’anno le votazioni sono state infine cancellate dopo che l’Autorità Nazionale Palestinese ha accusato il regime israeliano di rifiutarsi di consentire la partecipazione dei palestinesi di Gerusalemme Est occupata.

Questo succedersi di false promesse di elezioni soddisfa temporaneamente il desiderio della comunità internazionale per quella che chiama “democratizzazione” delle istituzioni dell’Autorità Nazionale Palestinese. Ma la realtà è che il sistema è così profondamente corrotto – in gran parte grazie agli Accordi di Oslo – che le elezioni porterebbero inevitabilmente alla continuazione delle strutture di potere esistenti o all’arrivo al potere di un nuovo leader autoritario.

Oltre ad avere un’avversione per le elezioni, Abbas ha anche lavorato sodo per erodere ogni spazio democratico in Cisgiordania. Ha unito tutti e tre i rami del governo – legislativo, esecutivo e giudiziario – in modo che non ci siano controlli sul suo potere. Avendo il controllo assoluto sugli affari palestinesi, governa per decreto. Negli ultimi anni ciò ha portato a processi decisionali sempre più assurdi.

L’anno scorso, ad esempio, ha sciolto il Sindacato dei Medici dopo che il personale medico aveva scioperato. Ha poi creato il Consiglio Supremo degli Organi e dei Poteri Giudiziari e se ne è nominato capo, consolidando così il suo potere sui tribunali e sul Ministero della Giustizia.

Più recentemente, il 10 agosto, ha costretto 12 governatori al pensionamento senza informarli. Molti dei licenziati hanno appreso delle loro dimissioni forzate dai media locali.

Per mantenere il potere Abbas dispone anche di un vasto apparato di sicurezza. Il settore della sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese, finanziato e formato a livello internazionale, impiega il 50% dei dipendenti pubblici e assorbe il 30% del budget totale dell’Autorità Palestinese – più dell’istruzione, della sanità e dell’agricoltura messe insieme.

Questo apparato è responsabile di un’enorme quantità di violazioni dei diritti umani, tra cui l’arresto di attivisti, le minacce nei confronti dei giornalisti e la tortura dei detenuti politici.

In molti casi, la repressione da parte dell’apparato di sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese è complementare a quella israeliana. Ad esempio, nel 2021, durante quella che divenne nota come Intifada dell’Unità [le mobilitazioni che nel maggio del 2021 coinvolsero anche i palestinesi cittadini israeliani, ndt.], molti attivisti furono arrestati e brutalmente interrogati dalle forze di sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese. Quest’anno, dopo l’invasione del campo profughi di Jenin da parte delle forze del regime israeliano, l’Autorità Nazionale Palestinese ha arrestato molti dei presenti sul campo che erano stati precedentemente incarcerati dagli israeliani in una pratica nota come “porta girevole”.

In effetti una delle clausole degli Accordi di Oslo era che l’Autorità Nazionale Palestinese dovesse cooperare pienamente con il regime israeliano nelle questioni di “sicurezza”. Per soddisfare questa disposizione l’apparato di sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese ha lavorato sodo per sopprimere qualsiasi attività ritenuta una minaccia dal regime israeliano.

L’ANP consegna costantemente informazioni sulla sorveglianza dei palestinesi all’esercito israeliano e non fa nulla per contrastarne gli attacchi mortali contro villaggi, città e campi palestinesi che si ripetono a cadenze regolari. In effetti le forze di sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese lavorano fianco a fianco con il regime israeliano per reprimere la resistenza palestinese.

Infatti, date le disposizioni degli accordi di Oslo, l’Autorità Nazionale Palestinese non avrebbe potuto essere diversa. Un organo di governo responsabile nei confronti dei donatori internazionali che lo finanziano e del regime israeliano che mantiene il controllo finale non avrebbe mai potuto essere al servizio del popolo palestinese.

Sorprendentemente l’idea che gli accordi di Oslo siano stati un processo di pace ben intenzionato, ma fallito, ha ancora una forte presa in alcuni ambienti occidentali. La verità è che gli artefici di Oslo non erano interessati alla creazione di uno Stato palestinese o alla liberazione, ma volevano piuttosto trovare un modo per convincere la leadership palestinese ad accettare tranquillamente la capitolazione e a sopprimere ogni ulteriore resistenza della base.

Questi accordi hanno incoraggiato e sostenuto l’autoritarismo dell’ANP perché è funzionale a quegli obiettivi. In sostanza Oslo non ha portato la pace ai palestinesi, ma un altro grosso ostacolo alla loro liberazione.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la linea editoriale di Al Jazeera.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




La trappola di Oslo: come l’OLP firmò la propria condanna a morte

Raef Zreik

11 settembre 2023 – +972 Magazine

Dalle concessioni asimmetriche alla rinuncia alla lotta armata, il destino dei palestinesi era segnato prima ancora che Arafat e Rabin si stringessero la mano.

Gli Accordi di Oslo furono stipulati quando ero un giovane avvocato allinizio della carriera, dopo aver vissuto per anni come studente a Gerusalemme nel corso della Prima Intifada. Avevo lasciato la città nel 1990, profondamente logorato a causa della stessa Gerusalemme, della tensione costante e dellintensa attività politica contro loccupazione. Non c’è quindi da meravigliarsi che, nonostante la mia contrarietà nei confronti di Oslo, quei giorni mi abbiano comunque dato un piccolo barlume di speranza: forse, dopo tutto, stava nascendo qualcosa di nuovo. Ma per quanto volessi che laccordo funzionasse nel profondo della mia mente sapevo che non sarebbe stato così.

Allepoca lopinione pubblica palestinese comprendeva tutte le categorie di oppositori ad Oslo. Alcuni palestinesi non credettero fin dall’inizio alla soluzione dei due Stati e la consideravano una sconfitta per la causa palestinese. Io non ero uno di loro: piuttosto, la mia opposizione ad Oslo nasceva da una convinzione interiore che gli Accordi stessi non potessero effettivamente portare a una soluzione del genere. Non ero influenzato da ciò che veniva detto in televisione o nei dibattiti pubblici; preferii mettermi a sedere e leggere gli accordi attraverso gli occhi di un giovane avvocato. Dopotutto, un accordo politico deve contenere una propria logica contrattuale: stabilire una tempistica precisa, con delle regole in caso di violazione del contratto e così via. Ebbi l’impressione che i negoziatori palestinesi avrebbero potuto avvalersi di un minimo di consulenza legale.

Come si può ricavare dallo scambio di lettere tra il Primo Ministro israeliano Yitzhak Rabin e il leader dellOrganizzazione per la Liberazione della Palestina Yasser Arafat che precedette la firma degli accordi sul prato della Casa Bianca il 13 settembre del 1993, nella formulazione degli accordi di Oslo sussistono tre problemi centrali.

Il primo è uno squilibrio nel riconoscimento, da parte delle due parti, della reciproca legittimità. LOLP riconosceva Israele e il suo diritto ad esistere, e riconosceva la Risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza (che chiedeva il ritiro dei soldati israeliani dai territori occupati e il riconoscimento della rivendicazione di sovranità, integrità territoriale e indipendenza politica di ciascuno Stato della regione dopo la guerra del 1967) e 338 (che chiedeva un cessate il fuoco dopo la guerra del 1973). Ma, in cambio, Israele non riconosceva il diritto del popolo palestinese ad uno Stato o il suo diritto allautodeterminazione. Semplicemente riconosceva lOLP come unica rappresentante del popolo palestinese.

Questa mancanza di equivalenza rese lOLP poco più che un vaso vuoto; dopo tutto, c’è una differenza tra riconoscere lesistenza dellOLP e riconoscere la legittimità delle sue richieste politiche. Inoltre, allepoca Israele aveva un interesse strategico nel riconoscere lOLP come unica rappresentante del popolo palestinese. Se Israele lo fece è perché il riconoscimento da parte dellOLP del diritto di Israele ad esistere avrebbe rappresentato la voce dellintera nazione palestinese. Il riconoscimento di Israele da parte dellOLP non avrebbe avuto senso se non fosse arrivato da un autentico rappresentante.

In quest’ottica, la natura strumentale dellOLP come organismo rappresentativo è chiara. Un rappresentante può agire nell’interesse o a scapito di chi rappresenta. Il rappresentante può avanzare richieste alla controparte, ma può anche fare concessioni a nome del popolo che rappresenta. Quando lOLP presentò delle chiare rivendicazioni e richieste Israele le respinse, ma quando riconobbe Israele e fece concessioni a nome dei palestinesi Israele non ebbe problemi nel trattare lOLP come portavoce dei palestinesi.

Di fatto lOLP ha sfruttato il capitale simbolico costituito dall’essere il rappresentante del popolo palestinese per emergere sulla scena mondiale e dichiarare lassenza del popolo cancellandone la narrazione. In effetti, questo fu lultimo atto significativo dellOLP nellarena politica. Israele voleva che il riconoscimento dellOLP fungesse da dichiarazione de facto del suo suicidio. Da allora lOLP ha cessato di essere un attore politico importante, e tutto ciò che ne rimane sul piano funzionale è lAutorità Nazionale Palestinese, che funge da subappaltatore di Israele per le violente repressioni in Cisgiordania.

Due anni dopo la firma degli Accordi lOLP si impegnò ad annullare le sezioni della Carta Nazionale Palestinese che non riconoscevano Israele. All’epoca mi sembrò una mossa sconsiderata; pubblicai un articolo su Haaretz dal titolo Non c’è compromesso senza riconoscimento”. Lannullamento delle dichiarazioni della Carta avvenne senza alcuna azione in cambio da parte di Israele, che continuò a rifiutare di impegnarsi a riconoscere uno Stato palestinese nei territori occupati o il diritto allautodeterminazione del popolo palestinese e altri diritti nazionali nella sua patria.

Questi fattori storici hanno contribuito a creare la situazione attuale, in cui Israele è un dato di fattoinamovibile e lambito di territorio sul tavolo delle trattative è stato ristretto dall’intera regione costituita da Israele e Palestina alla sola Cisgiordania, ora lunico territorio rimasto a malapena materia di discussione. Se la disputa riguardasse la Palestina nel suo insieme allora la divisione dellintero territorio dal fiume al mare in due entità sarebbe la soluzione ottimale. Ma se lintero problema si riduce ai territori occupati nel 1967 allora una soluzione ragionevole porterebbe alla divisione del territorio conteso tra coloni e palestinesi.

Questo restringimento del territorio oggetto del dibattito altera drasticamente il campo di gioco: se i palestinesi insisteranno nel volere il controllo della totalità dei territori occupati saranno percepiti come radicali ostinati che rivendicano tutto per sè stessi. Il fatto che i palestinesi abbiano già rinunciato al diritto su più di due terzi della loro patria prima ancora di sedersi al tavolo delle trattative non viene mai preso in considerazione. Questa è stata una trappola tesa ai palestinesi e fino ad oggi non sono riusciti a liberarsene. Sfortunatamente non è lunica trappola di questo tipo.

Autoproclamati terroristi”

Recentemente un crescente coro di voci critiche ha chiesto che lOLP ritiri il riconoscimento di Israele, dal momento che Israele non ha rispettato le condizioni degli Accordi di Oslo. Ma questa è unaffermazione pericolosa. Il riconoscimento, per sua stessa natura, è una tantum e non può essere revocato. Inoltre, il riconoscimento non è un bene tangibile e materiale: la sua importanza risiede nel suo simbolismo e, in assenza di tale simbolismo, è privo di significato.

Se i palestinesi volessero ritirare il loro riconoscimento non potrebbero mai più barattarlo con il ritiro di Israele dai territori sotto suo controllo poiché gli israeliani non crederanno mai che quel riconoscimento non verrebbe nuovamente revocato.

Lo scambio di lettere tra Arafat e Rabin conteneva anche una clausola in cui l’OLP si impegnava non solo a condannare il terrorismo ma anche a rinunciarvi. Per cui la stessa OLP accettò di chiamare la sua lotta fino a quel momento terrorismo”. Ciò ha posto diversi problemi, ma voglio soffermarmi su uno in particolare. Non ho intenzione di avviare un dibattito sulla definizione di terrorismo. Piuttosto il problema è riferito al futuro: cosa accadrà se Israele non accetterà il ritiro dai territori occupati o una soluzione a due Stati? Quali mezzi saranno a disposizione dei palestinesi nella loro lotta contro loccupazione?

La difficoltà di poter dare una risposta a queste domande divenne dolorosamente evidente alla fine degli anni 90. Israele bloccò il processo di Oslo e continuò ad espandere il progetto di colonizzazione. Non era affatto chiaro dove avrebbe portato il processo di Oslo e quale sarebbe stata in definitiva la soluzione permanente. Israele controllava la terra, laria, i confini, lacqua e tutte le risorse, e si limitò a cedere allAutorità Nazionale Palestinese la gestione di parti della popolazione sotto occupazione; in altre parole, Israele ha mantenuto il controllo effettivo, ma ha scaricato tutta la responsabilità sulle spalle dellAutorità Nazionale Palestinese. Inoltre, laccordo non conteneva una clausola esplicita che vietasse la continuazione della costruzione di insediamenti coloniali nei territori occupati.

In questa situazione i palestinesi non potevano né progredire verso [la costituzione di] uno Stato indipendente né ritornare alla logica della rivoluzione e della lotta armata. Non solo non hanno più il potere e lorganizzazione per farlo, ma sono anche formalmente intrappolati dagli Accordi di Oslo. Il mondo, soprattutto Israele, l’Unione Europea e gli Stati Uniti, ha riconosciuto lOLP sulla base della rinuncia al terrorismo e dellaccettazione di alcune regole del gioco. Pertanto, un ritorno alla lotta armata sarebbe inevitabilmente visto come un ritorno al terrorismo; solo che questa volta, sarebbero proprio i palestinesi ad aver dato un nome alla loro lotta avendola essi stessi chiamata terrorismo. Quindi anche il resto del mondo è abilitato a chiamarla terrorismo.

Il significato pubblico diterrorismosi è trasformato tra la Prima e la Seconda Intifada. La Prima Intifada ebbe inizio nel corso di una generazione dallinizio delloccupazione quindi il mondo vide in essa e nella più ampia lotta palestinese una risposta legittima al dominio militare. La Seconda Intifada, che giunse come risposta alla massiccia violenza israeliana in seguito alla visita del primo ministro israeliano Ariel Sharon allHaram al-Sharif/Monte del Tempio nel settembre 2000, avvenne sullo sfondo dei colloqui di pace di Oslo. Per la maggior parte, gli osservatori internazionali considerarono ogni pietra lanciata durante la Prima Intifada come lanciata contro loccupazione e a favore della liberazione nazionale, ma il lancio di pietre avvenuto dopo Oslo è stato visto come [atto di] terrorismo”.

Il contesto era cambiato, e con esso il significato della resistenza palestinese. Il risultato è stato che i colloqui di pace con Israele non sono riusciti a raggiungere alcun obiettivo, ma anche il ritorno alla lotta armata è problematico. I palestinesi sono in trappola.

Non ho intenzione di proporre un programma per il futuro, ma penso che qualsiasi proposito di tornare indietro, ricostituire lOLP e tornare ai principi su cui lorganizzazione è stata fondata 60 anni fa sarebbe ormai destinato ad un fallimento. Da qui possiamo solo andare avanti.

LOLP ha fatto il suo lavoro; ha impresso la parola Palestinanella coscienza del mondo e ha dimostrato che esiste qualcosa come il popolo palestinese. La generazione di oggi ha un ruolo diverso in una realtà diversa: redigere un nuovo programma con la consapevolezza che tra il mare e il fiume ci sono 7 milioni di ebrei e 7 milioni di palestinesi, e che gli israeliani controllano i palestinesi e mantengono un regime di supremazia ebraica che ogni giorno espelle questi ultimi dalla loro terra. Questo è il nostro punto di partenza.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Jenin: tutta la storia, intervista con Mustafa Barghouti

Mustafa Barghouti

7 luglio 2023 – PalestineDeepDive

Il dottor Mustafa Barghouti è il leader di Iniziativa Nazionale Palestinese e anche il presidente della Società Palestinese di Assistenza Medica. È stato candidato alla presidenza nelle elezioni palestinesi ed è medico. 

Questa settimana il dr. Barghouti ha passato parecchi giorni a Jenin, è entrato nella città e nel campo profughi nel secondo giorno dell’incursione e degli attacchi israeliani che hanno ucciso 12 palestinesi, fra cui 4 minori. 

Palestine Deep Dive [Approfondimenti sulla Palestina, rivista on-line, ndt.] ha ottenuto un’intervista esclusiva con il dr. Barghouti per ascoltare il suo resoconto su come si sono svolti gli attacchi israeliani contro Jenin, sull’entità dei danni dopo il massacro, sul conseguente stato d’animo della gente sul posto. Vogliamo anche conoscere la sua opinione su come oggi i palestinesi sono trattati dai principali mezzi d’informazione.

PDD: Può riassumerci gli eventi di questa settimana a Jenin?

Dr Barghouti: Certo. Beh, prima di tutto lasciatemi dire che l’attacco israeliano contro Jenin non è in alcun modo giustificato. Non era diretto solo contro il campo di Jenin, ma anche contro l’intera città. Per pattugliare la zona Israele ha usato tutto il suo arsenale militare: blindati, carri armati, elicotteri Apache e caccia F-16.

Hanno usato razzi e droni per attaccare una popolazione essenzialmente di civili, in una delle zone più densamente popolate del mondo: il campo profughi di Jenin infatti conta 16.000 persone che vivono in meno di mezzo chilometro quadrato.

L’esercito ha mirato ad arrestare o uccidere persone che stanno resistendo all’occupazione, ma non ci sono riusciti, a parte uccidere 12 persone fra cui 4 minori di età inferiore ai 17 anni. Poiché hanno fallito, hanno condotto arresti arbitrari di persone che non fanno realmente parte della resistenza. Hanno anche condotto attacchi terribili e causato enormi danni al campo.

Hanno utilizzato carri armati e bulldozer corazzati che hanno demolito le strade principali e il campo, distruggendo anche delle case, moltissime auto, dando poi fuoco a molti edifici nella città di Jenin, così come nel campo profughi.

Hanno anche usato droni per lanciare razzi contro i civili. Sono stato in molte case che sono state completamente, totalmente distrutte. È stato veramente un miracolo che non siano state uccise molte più persone, ma ci sono stati comunque almeno 200 feriti. Il numero ufficiale è 130, ma in realtà molti preferiscono essere curati a casa piuttosto che in ospedale per paura di essere arrestati. A Jenin ho visitato gli ospedali principali che sono molto vicini al campo, e ho visto i feriti, persone a cui hanno sparato con l’intento di uccidere.

I feriti hanno pallottole nell’addome, nel petto e nelle gambe. Tutti i proiettili usati sono ad alta velocità e lo scopo era di uccidere. Ho visto un uomo colpito alla testa, con il cervello spappolato, prima che lasciassimo l’ospedale ne hanno annunciato la morte. Ma hanno compiuto terribili massacri anche dentro le case, attacchi terribili contro le persone. Le loro famiglie mi hanno detto che l’esercito è entrato nelle case attraverso i muri.

Sono andati da una casa all’altra aprendosi dei varchi nei muri e quindi le famiglie improvvisamente si sono trovate davanti i soldati. Hanno separato gli uomini dalle donne, ammanettato gli uomini, isolandoli in una stanza separata per poi arrestarne la maggioranza, mentre le donne erano in una zona separata, tutte nella stessa stanza. Di solito l’esercito interrompe l’erogazione dell’elettricità. Come sapete la zona è molto calda, è estate, la gente è rimasta bloccata nelle stanze senza acqua, cibo, provviste e con un gran caldo. Molti sono anziani che soffrono di ipertensione, diabete e cardiopatie.

Sono stati tenuti così per due giorni mentre l’esercito occupava il resto della casa, in molti casi l’hanno usata per creare postazioni per i cecchini per sparare alle persone che pensavano facessero parte della resistenza. Molte famiglie mi hanno detto che i soldati hanno rubato loro i soldi. Ci sono dei piccoli, contenitori, non so come li chiamano, in cui i bambini conservano i loro soldini, uno sembrava un giocattolo: li hanno rotti e hanno preso i risparmi dei bambini!

Ma, peggio ancora, hanno isolato i minori, in alcuni casi in una stanza con un ufficiale o un soldato per interrogarli, cercando di costringerli a testimoniare contro i familiari, per esempio a dire che i familiari avevano delle armi. Quando non ci sono riusciti hanno portato nella stanza un cane per terrorizzarli mentre erano separati dalle famiglie. Questo è il tipo di comportamento dell’esercito israeliano. Oltre a ciò hanno attaccato le ambulanze, impedendo alle equipe mediche di raggiungere i feriti in tempo. Hanno sparato a un ragazzo, Hamesia, e l’hanno lasciato a morire dissanguato, il suo corpo è stato trovato solo ore dopo perché l’esercito non ha permesso a nessun medico di avvicinarglisi.

Hanno sparato alle ambulanze, al personale di pronto soccorso e ai giornalisti. C’è un video in cui si vede l’esercito sparare 10 volte da un blindato contro una macchina da presa di una TV e una troupe della stazione televisiva Al-Araby. Solo un miracolo ha salvato questi giornalisti dall’essere uccisi, come era accaduto in precedenza a Shireen Abu Akleh nella stessa zona, e non sorprende che si siano comportati così con i nostri giornalisti. Nel corso degli ultimi 10 anni l’esercito ha ucciso 52 giornalisti palestinesi nel corso di vari attacchi contro i civili.

Fino ad ora il numero totale di palestinesi uccisi dall’esercito israeliano è 197, i feriti sono molte centinaia. Queste sono le cifre più alte dal 2005. L’attacco contro Jenin ha fallito nel senso che non sono riusciti a catturare le persone che cercavano.

PDD: cosa voleva ottenere il primo ministro Benjamin Netanyahu invadendo Jenin?

Dr Barghouti: Netanyahu ha dichiarato molto chiaramente che il suo obiettivo è non solo prevenire la fondazione di uno Stato palestinese indipendente, ma soprattutto togliere completamente dalla testa della gente anche solo l’idea di uno Stato palestinese. Ha dichiarato che il suo governo fascista ha annunciato dei piani per espandere le colonie con una velocità senza precedenti. Hanno già costruito 50 nuove colonie illegali, cosa che non succedeva da anni. Hanno dichiarato la costruzione di non meno di 13.000 nuove abitazioni nelle colonie.

Hanno rivelato che il loro obiettivo è di legalizzare tutti gli avamposti di insediamento creati dai coloni, inclusi i sette nuovi che hanno ricevuto un’autorizzazione da questo nuovo governo. Il numero totale di avamposti di insediamento è 171. Il piano di Netanyahu è di riempire la Cisgiordania con 151 di queste nuove colonie che andranno ad aggiungersi alle altre. Smotrich, il secondo più importante ministro del governo e che si è auto-dichiarato fascista e omofobo, ha reso noto la strategia dell’establishment israeliano.

Ha detto che riempirà la Cisgiordania di coloni e colonie, cosicché i palestinesi perderanno ogni speranza di ottenere un loro Stato e poi avranno una scelta fra tre opzioni: emigrare, morire o accettare una vita di sottomissione a questo regime. Ben-Gvir ha detto che hanno ucciso 120 palestinesi e che ne uccideranno altre migliaia. Ecco il tipo di linguaggio che questo governo sta usando. Allora qual è il piano di Netanyahu?

Il piano di Netanyahu è annettere completamente tutta la Cisgiordania e ebraizzarla, impedire la creazione di uno Stato palestinese indipendente, non concedere la libertà ai palestinesi e allo stesso tempo uccidere chiunque resista a queste ingiustizie. Quando parla di uccidere e arrestare i palestinesi che resistono all’occupazione egli intende praticamente chiunque respinga questi orrendi progetti di mantenere l’occupazione e il sistema di apartheid in Palestina. Non ci sta riuscendo perché l’intero popolo palestinese non accetterà mai una vita di schiavitù sotto l’occupazione israeliana e il suo sistema di apartheid. 

Praticamente quello che Netanyahu sta facendo è esattamente quello che Einstein ha descritto come follia: quando uno continua a fare la stessa cosa aspettandosi risultati diversi. Noi siamo stati vittime dell’oppressione israeliana per i 56 anni di occupazione e 75 anni di pulizia etnica avvenuta durante la Nakba nel 1948 e loro hanno continuato ad opprimerci, ma noi non abbiamo mai smesso di resistere a questa ingiustizia in ogni modo possibile. Ed ecco il motivo per cui dico che Netanyahu sta fallendo, perché il suo obiettivo di soggiogarci non avrà mai successo. Nel frattempo tantissimi hanno perso la loro vita, anche in questa fase, e penso che la morte di ogni palestinese, e di ogni israeliano, sia responsabilità del governo israeliano, anche se le cifre sono così diverse.

Quando si paragona il numero dei palestinesi uccisi con quello degli israeliani la discrepanza è enorme, ma io penso che tutti, il sangue di tutti, palestinesi o israeliani, sia sulle mani di questi estremisti e fascisti come Netanyahu, Smotrich e Ben-Gvir, che impediscono che la pace prevalga in quest’area o che qui ci sia giustizia. 

Credo che ora ci troviamo davanti a uno dei governi più estremisti, ma la cosa tragica è che l’opposizione sionista in Israele, che si oppone a Netanyahu riguardo alla riforma del sistema giudiziario, non ha nulla da obiettare a quello che si sta facendo a noi palestinesi. In realtà tutti i leader dell’opposizione hanno sostenuto gli attacchi contro il campo di Jenin e quelli contro i palestinesi. È veramente di poco aiuto e molto deludente perché significa che sfortunatamente tutti i partiti sionisti stanno sostenendo il sistema di occupazione, apartheid e fascismo e la crescita del fascismo che sta riguardando Israele stesso.

Ci sono stati molti saggi leader israeliani che a un certo punto hanno detto che l’occupazione diventerà il cancro che divorerà Israele dall’interno, e io penso che sia esattamente quello che sta succedendo. L’occupazione ha prodotto i coloni, i coloni l’apartheid che sta ora producendo il fascismo in Israele, che è la cosa più pericolosa a cui siamo sottoposti. 

Nel frattempo voglio elogiare il notevole spirito di resilienza e solidarietà che i palestinesi hanno mostrato l’un l’altro nel campo di Jenin, perché oggi ero con equipe mediche che venivano da Ramallah, Gerusalemme e Tulkarem, con la Società Palestinese di Assistenza Medica, l’organizzazione che dirigo.

Erano tutti nel campo ad aiutare la gente, offrendo cure. La gente è arrivata da tutto il Paese per portare latte, cibo, materiale medico sanitario per i bambini e molte amministrazioni comunali intorno a Jenin hanno mandato trattori e macchinari per cercare di riparare alcuni dei terribili danni alle infrastrutture causati dall’esercito. Sono state tagliate le condutture dell’acqua, disselciate le strade, distrutte le attrezzature sanitarie, completamente tagliata la rete elettrica. Le infrastrutture sono state distrutte e non è la prima volta: è esattamente quello che è successo nel 2002 quando Israele invase il campo di Jenin e distrusse tutto, uccidendo più di 70 persone. È veramente ironico che la generazione che oggi sta resistendo all’occupazione sia quella dei bambini nati nel 2002.

PDD: Qual è oggi l’atteggiamento sul terreno dei giovani palestinesi verso il “Processo di Pace”?

La giovane generazione e io stesso abbiamo perso speranza nel cosiddetto processo di pace molto tempo fa, ma cosa abbiamo? Gli accordi di Oslo furono firmati nel 1993, esattamente 30 anni fa. Israele ne ha ostacolato l’implementazione, essi dovevano essere un accordo ad interim solo per sei anni per arrivare alla fondazione di uno Stato palestinese. Yitzhak Rabin, che firmò quell’accordo, fu assassinato da un estremista israeliano. Netanyahu ha sollevato l’opinione pubblica israeliana contro il governo che firmò gli Accordi di Oslo. Netanyahu nel 1994 ha poi scritto un libro intitolato A Place Under the Sun (Un posto sotto il sole) in cui ha promesso che avrebbe affossato il processo di Oslo e impedito la fondazione di uno Stato palestinese. Questo è esattamente quello che ha fatto. Dal 2014 non c’è stato un solo incontro fra i leader palestinesi e quelli israeliani. Israele ha bloccato tutti questi meeting, i negoziati e ha continuato a costruire colonie illegali che sottraggono terra alla Cisgiordania, distruggendo qualsiasi possibilità per la soluzione dei due Stati.

Quando Israele attacca il campo di Jenin, dei civili, sta attaccando dei rifugiati spogliati delle loro terre, della loro patria nel 1948 e che vivono in condizioni orribili in un campo profughi sotto l’occupazione israeliana. Quando Israele attacca un campo profughi così, con una situazione molto critica sotto la sua occupazione con il suo arsenale militare, carri armati, aerei, droni e caccia, quando fa tutto ciò è totalmente inaccettabile che il mondo resti in silenzio e, ancor peggio, che alcuni Paesi incoraggino Israele.

Le dichiarazioni del governo degli Stati Uniti e del governo britannico dicono che Israele ha il diritto all’autodifesa non sono altro che dare il via libera a questa aggressione. E il popolo palestinese che vive sotto l’occupazione israeliana? Non abbiamo il diritto di difenderci o per loro siamo degli esseri subumani? Penso che il fatto vergognoso sia che il parlamento britannico discuta come impedire la forma di resistenza più pacifica, cioè il boicottaggio, disinvestimento e le sanzioni. Fare ricorso al BDS come è successo in Sudafrica non è altro che un atto di libertà di parola, libertà per un popolo di lottare contro l’ingiustizia, per protestare contro l’occupazione e il sistema di apartheid.

Queste posizioni a sostegno di Israele rendono complici coloro che rilasciano dichiarazioni come “Israele ha il diritto all’autodifesa” di un crimine di guerra che Israele ha commesso e continua a commettere contro il popolo palestinese. Tutto il discorso sulla soluzione dei due Stati è diventato null’altro che un cliché che non convince nessuno. Se Stati Uniti, Regno Unito, Europa fossero realmente seri a proposito dello Stato palestinese lo avrebbero riconosciuto e non si sarebbero limitati a riconoscere solo Israele. Se fossero seri sulla soluzione dei due Stati avrebbero iniziato immediatamente a far pressione su Israele, inclusa l’imposizione di sanzioni, per costringerlo a fermare le attività delle colonie illegali che, come ammettono questi Paesi, stanno distruggendo la possibilità di uno Stato palestinese e la soluzione dei due Stati. Penso che tutto questo parlare della soluzione dei due Stati sia null’altro che un modo per distrarre l’attenzione, un modo per dare a Israele più tempo per finire il vero lavoro che sta facendo qua: l’annessione della Cisgiordania e l’eliminazione totale di ogni possibilità di soluzione a due Stati.

E noi diciamo che, nonostante Israele abbia distrutto l’opzione dei due Stati, ciò non significa che abbiano distrutto la nostra speranza di libertà. E hanno creato una nuova realtà, che è una realtà di uno Stato di apartheid. L’alternativa può solo essere uno Stato democratico in cui i palestinesi godano della parità dei diritti non solo come cittadini, ma anche come Nazione, con l’uguaglianza dei diritti per i cittadini e parità di diritti nazionali. Questa è l’unica soluzione a una situazione di uno Stato di apartheid.

PDD: come sono trattati oggi i palestinesi dai media?

Dr Barghouti: Noi siamo per lo più ignorati e raramente intervistati. Io ricordo sempre che 10 o 20 anni fa venivamo intervistati molto più frequentemente dai media internazionali, come CNN e BBC. Negli ultimi anni siamo stati totalmente ignorati. Io non penso che la narrazione dei palestinesi passi attraverso la maggioranza di questi organi di stampa. È per questo che ora contiamo di più sui social media.

Anche quando abbiamo la rara opportunità di portare all’attenzione della gente la narrazione e il punto di vista palestinese, gli israeliani attaccano immediatamente queste emittenti, come stanno facendo ora con la BBC. Vogliono monopolizzare la verità, i media. Vogliono impedire alla gente in Gran Bretagna e nel mondo di conoscere la realtà, la verità. La BBC ha intervistato me ma anche molti israeliani, molti più di noi, eppure gli israeliani attaccano la BBC perché vogliono zittire la voce della verità. Vogliono ostacolare la possibilità che nel mondo si sappia la verità su quello che sta succedendo qui.

Noi non stiamo dicendo che non dovrebbero intervistare gli israeliani, lasciate che lo facciano, ma dovrebbero intervistare anche noi. Noi abbiamo il pieno diritto di portare le nostre opinioni ai media e all’opinione pubblica mondiali. La gente può poi giudicare da sé chi ha ragione e chi torto, cosa è corretto e cosa non lo è, e quali sono i fatti. Ma impedire persino che si possa conoscere il punto di vista dei palestinesi secondo me fa pensare a due cose.

Uno, un comportamento fascista che tenta di monopolizzare la verità e i fatti. Mi spiace. Mostra anche che la posizione di Israele è debole perché hanno paura della verità. Hanno paura del fatto che se si mette uno di noi davanti ai media con un israeliano, persino uno dei fascisti israeliani, la gente riconoscerà immediatamente che noi stiano dicendo la verità. Io dico sempre ai miei colleghi dei media che noi abbiamo bisogno forse di un decimo di quello che hanno gli israeliani per avere la meglio. Perché? Perché noi diciamo la verità ed è questo che essi temono.

PDD: La BBC avrebbe dovuto scusarsi con l’ex primo ministro Naftali Bennett per aver domandato se Israele è “felice di uccidere minori palestinesi”?

Dr Barghouti: Penso che fosse solo giusto perché Israele sta uccidendo i minori. Appena prima dell’ultimo assalto contro Jenin i soldati israeliani hanno ucciso un bambino di due anni e mezzo e il padre davanti a casa. Il padre è stato raggiunto da due proiettili alla spalla e il piccolo uno al cervello, è morto: due anni e mezzo! Gli hanno sparato dieci volte. Poi l’esercito ha detto che è stato un errore, ma nessun soldato è stato portato in tribunale e nessuno è stato punito. Nel 1996 io stesso come medico stavo cercando di aiutare un ferito al quinto piano a Ramallah dove c’erano scontri fra l’esercito e la gente.

Mentre stavo cercando di bloccare l’emorragia un cecchino israeliano mi ha visto e mi ha sparato due volte. Ho ancora 35 schegge nella schiena e in una spalla. Nessuno è stato punito. No, Israele uccide bambini e civili e medici e giornalisti. No, non penso che la BBC avrebbe dovuto scusarsi per questo. Secondo me l’establishment israeliano con il suo enorme potere sta praticando quello che io chiamo terrorismo intellettuale contro i media in tutto il mondo e contro chiunque solidarizzi con i palestinesi. Nessuno dovrebbe accettare di subire questo terrorismo intellettuale che Israele sta mettendo in atto.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Palestine Deep Dive.

Mustafa Barghouti

Politico, attivista e medico

Il dr. Mustafa Barghouti è medico, attivista e politico palestinese, segretario generale di Iniziativa Nazionale Palestinese, anche nota come Mubadara. È membro del Consiglio Legislativo Palestinese dal 2006 e fa anche parte del Consiglio Centrale dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Chi ha detto che il BDS ‘è già fallito’?: città europee boicottano l’Israele dell’apartheid

RamzyBaroud

2 maggio 2023 – Middle East Monitor

Una serie di eventi, a partire da Barcellona, Spagna, in febbraio, seguita in aprile da Liegi, Belgio e Oslo, Norvegia, ha inviato un forte messaggio a Israele: il movimento palestinese di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS) è vivo e vegeto.

A Barcellona la sindaca della città ha annullato un accordo di gemellaggio con la città israeliana di Tel Aviv. La decisione non è stata impulsiva, benché Ada Colau sia ben nota per le sue posizioni di principio su molte questioni. E’ stata piuttosto l’esito di un processo pienamente democratico, iniziato da una proposta presentata al consiglio comunale dai partiti di sinistra.

Alcune settimane dopo che fu presa questa decisione, precisamente l’8 febbraio, un’organizzazione legale filoisraeliana nota come The Lawfare Project, ha annunciato l’intenzione di intentare una causa contro Colau in quanto lei, presumibilmente, “ha agito al di fuori della competenza della sua autorità”.

The Lawfare Project intendeva comunicare un messaggio ad altri consigli comunali in Spagna e nel resto d’Europa, cioè che vi sarebbero state gravi ripercussioni sul piano giuridico al boicottaggio di Israele. Tuttavia con grande sorpresa dell’organizzazione – e di Israele – altre città hanno subito avviato le loro procedure di boicottaggio. Tra esse la città belga di Liegi e la capitale della Norvegia, Oslo.

I vertici comunali di Liegi non hanno cercato di nascondere le ragioni della loro decisione. E’ stato riferito che il consiglio comunale ha deciso di sospendere i rapporti con le autorità israeliane perché guidano un regime “di apartheid, colonizzazione e occupazione militare”. L’iniziativa è stata appoggiata da un voto di maggioranza nel consiglio, dimostrando ancora una volta che la posizione etica filopalestinese è pienamente compatibile con un processo democratico.

Oslo rappresenta un caso particolarmente interessante. Fu là che il “processo di pace” diede luogo agli Accordi di Oslo nel 1993, che sostanzialmente divisero i palestinesi e fornirono a Israele una copertura politica alla prosecuzione delle sue pratiche illegali, sostenendo di non avere un partner per la pace.

Ma Oslo non è più legata ai vuoti slogan del passato. Nel giugno 2022 il governo norvegese ha dichiarato l’intenzione di negare l’etichetta “Made in Israel” ai beni prodotti nelle colonie ebree israeliane illegali nella Palestina occupata.

Benché le colonie ebree siano illegali ai sensi del diritto internazionale, per anni l’Europa non si è fatta scrupolo di fare affari – di fatto affari lucrativi – con queste colonie. Nel novembre 2019 la Corte di Giustizia Europea ha comunque stabilito che tutti i beni prodotti nelle “aree occupate da Israele” dovevano essere etichettati come tali, in modo da non ingannare i consumatori. La decisione della Corte era una versione attenuata di ciò che i palestinesi si aspettavano: un completo boicottaggio, se non di Israele nel suo insieme, almeno delle sue colonie illegali.

Comunque la decisione è servita ad uno scopo. Ha fornito un’ulteriore base giuridica al boicottaggio, rafforzando le organizzazioni della società civile filopalestinese e ricordando a Israele che la sua influenza in Europa non è così illimitata come Tel Aviv vuole credere.

Il massimo che Israele ha potuto fare in termini di risposta è stato rilasciare dichiarazioni aggressive unitamente a confuse accuse di antisemitismo. Nell’agosto 2022 la Ministra degli Esteri norvegese Anniken Huitfeldt ha chiesto un incontro durante la sua visita in Israele con l’allora Primo Ministro di Israele Yair Lapid. Lapid ha rifiutato. Non solo tale arroganza ha prodotto una certa differenza nella posizione della Norvegia sull’occupazione israeliana della Palestina, ma ha anche allargato i margini per gli attivisti filopalestinesi per una maggiore incisività, conducendo alla decisione di Oslo in aprile di bandire l’importazione di beni prodotti nelle colonie illegali.

Il movimento BDS ha spiegato sul suo sito web il significato della decisione di Oslo: “La capitale della Norvegia…ha annunciato che non commercerà in beni e servizi prodotti in aree che sono illegalmente occupate in violazione del diritto internazionale”. In pratica ciò significa che “la politica di acquisti di Oslo esclude le imprese che direttamente o indirettamente contribuiscono all’impresa coloniale illegale di Israele – un crimine di guerra secondo il diritto internazionale.”

Tenendo conto di questi rapidi sviluppi, The Lawfare Project ora dovrà estendere le sue cause legali includendo Liegi, Oslo e una sempre più ampia lista di consigli comunali che stanno attivamente boicottando Israele. Ma anche in questo caso non vi sono certezze che l’esito di tali contenziosi sarà comunque favorevole a Israele. Di fatto è più probabile che sia vero il contrario.

Un caso specifico è stata la recente decisione delle città di Francoforte e Monaco in Germania di annullare i concerti della leggenda del rock and roll filopalestinese Roger Waters, come parte del suo tour ‘Questa non è un’esercitazione’. Francoforte ha giustificato la sua decisione stigmatizzando Waters come “uno dei più noti antisemiti al mondo”. La bizzarra ed infondata accusa è stata categoricamente respinta da un tribunale civile tedesco che il 24 aprile ha deliberato a favore di Waters.

Certo, mentre un crescente numero di città europee si sta schierando con la Palestina, coloro che appoggiano l’apartheid israeliano trovano difficile difendere o addirittura conservare la propria posizione, semplicemente perché le prime basano le proprie posizioni sul diritto internazionale, mentre i secondi si appoggiano su distorte e convenienti interpretazioni dell’antisemitismo.

Che cosa significa tutto questo per il movimento BDS?

In un articolo pubblicato lo scorso maggio sulla rivista Foreign Policy Steven Cook ha raggiunto la precipitosa conclusione che il movimento BDS “ha già perso”, perché, secondo la sua deduzione, gli sforzi per boicottare Israele non hanno avuto effetto “nei palazzi del governo”.

Se il BDS è un movimento politico soggetto a calcoli sbagliati e errori, è anche una campagna dal basso che opera per raggiungere obbiettivi politici attraverso successivi e controllati cambiamenti. Per avere successo sul lungo termine queste campagne per prima cosa devono impegnare nelle strade la gente comune, gli attivisti nelle università, nei luoghi di culto, ecc., il tutto attraverso calcolate strategie a lungo termine, esse stesse formulate da collettivi e organizzazioni della società civile locale e nazionale.

Il BDS continua ad essere una vicenda di successo e le ultime cruciali decisioni prese in Spagna, Belgio e Norvegia attestano il fatto che gli sforzi della base ottengono risultati.

Non si può negare che la strada sia lunga e ardua. Avrà certamente le sue svolte, i suoi rovesci e, sì, le occasionali battute d’arresto. Ma è questa la natura delle lotte di liberazione nazionale. Spesso richiedono alti costi e grandi sacrifici. Ma, con la resistenza popolare interna e un crescente supporto internazionale e la solidarietà dall’estero, la libertà della Palestina dovrebbe essere di fatto possibile.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Durante i fatti di Hawara l’Autorità Nazionale Palestinese non si è vista da nessuna parte

Amira Hass

2 marzo 2023 –Haaretz

Sebbene le ben addestrate forze di sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese non abbiano trovato un modo per proteggere i loro compatrioti dagli attacchi dei coloni, sono sempre lì quando si tratta di reprimere i loro concittadini.

Le cinque ore durante le quali centinaia di ebrei si sono scatenati senza ostacoli attraverso Hawara, attaccando persone e proprietà e appiccando incendi, sono il risultato di decenni di incoraggiamento alla violenza dei coloni e delle calcolate disattenzione e clemenza da parte dell’esercito israeliano, della polizia, dei pubblici ministeri, dei tribunali e dei successivi governi. Ma quelle cinque ore hanno anche dimostrato ancora una volta quanto l’Autorità Nazionale Palestinese sia compiacente con la divisione artificiale della Cisgiordania nelle aree A, B e C, stabilita dagli Accordi di Oslo – una divisione che doveva essere temporanea e scadere entro il 1999.

Questa è una ragione in più per cui l’opinione pubblica palestinese disprezza e detesta la leadership dell’Autorità palestinese. Sebbene le sue forze di sicurezza, addestrate nei paesi arabi e occidentali, non abbiano trovato un modo per proteggere dagli attacchi dei coloni i loro compatrioti, sono sempre presenti quando si tratta di reprimerli.

L’ “Iniziativa da 14 milioni”, che sta tentando di rivitalizzare l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina e di indire le elezioni per un consiglio nazionale e un’assemblea legislativa di tutti i palestinesi, aveva programmato un mercoledì una conferenza stampa in diretta dallo studio televisivo Watan. Considerando la parola “elezione” come una minaccia nucleare, le forze di sicurezza dell’ANP hanno assediato l’edificio che ospita lo studio e hanno fatto irruzione negli uffici per impedire la conferenza stampa. Non era la prima volta che accadeva: le forze di sicurezza hanno interrotto un altro degli incontri dell’iniziativa a novembre.

La scorsa settimana le forze di sicurezza palestinesi hanno istituito posti di blocco alle uscite di diverse città della Cisgiordania per impedire agli insegnanti delle scuole statali, in sciopero dal 5 febbraio, di partecipare a una manifestazione unitaria a Ramallah. L’ANP e il sindacato degli insegnanti della scuola pubblica avevano firmato accordi per un modesto aumento salariale del 15% e l’organizzazione di elezioni sindacali libere e democratiche nel maggio 2022. Ciò ha fatto seguito a un’iniziativa guidata da diverse associazioni educative senza scopo di lucro, gruppi di genitori e dalla Commissione indipendente per i diritti umani (un organo quasi governativo). Come era da prevedere non si è mai tenuta un’elezione. All’inizio di febbraio gli insegnanti hanno appreso che, nonostante l’accordo, gli stipendi di gennaio non includevano l’aumento concordato; sono rimasti addirittura all’80% dei normali livelli salariali, come prima. Ciò ha portato allo sciopero, giunto alla sua quarta settimana, a cui hanno aderito 50.000 insegnanti e che ha tenuto a casa un milione di studenti. I leader dello sciopero mantengono un profilo basso per paura di essere arrestati, come è successo con le precedenti proteste degli insegnanti.

Anche se i figli sono a casa, le associazioni dei genitori sostengono le richieste degli insegnanti. La crisi finanziaria è reale: Israele continua a trattenere ogni anno centinaia di milioni di shekel [1 shekel = 0,26 €] dell’ANP, equivalenti alle indennità che l’ANP paga alle famiglie dei prigionieri detenuti da Israele, ma l’opinione pubblica non crede che non ci siano soldi per stipendi decenti agli insegnanti.

Quindi il messaggio dell’ANP è chiaro: continua a rispettare i suoi accordi con Israele (compreso il coordinamento per la sicurezza), ma non quello con gli insegnanti, uno dei settori più importanti per garantire il benessere comune.

Hawara (e la strada congestionata che la attraversa) è stata classificata più di 25 anni fa come area B [cioè sotto controllo amministrativo palestinese ma israeliano per la sicurezza, ndt.], nella quale ai poliziotti palestinesi è vietato operare e sostarvi armati o in divisa. L’esercito pesantemente armato e la polizia di frontiera, tuttavia, sono una presenza costante vicino a garage e minimarket, stazioni di servizio e bancarelle di falafel. Tutti sanno chi sono stati mandati a proteggere. Le colonie della zona sono note per la loro violenza: Yitzhar e i suoi avamposti, che spuntano febbrilmente come funghi dopo la pioggia; Itamar e i suoi avamposti in espansione; l’avamposto di Givat Ronen, vicino alla colonia di Har Bracha.

I villaggi palestinesi di Burin, Madama, Einabus, Urif, Aqraba, Beita, Yanun e altri vivono da diversi decenni sotto la minaccia del terrore rappresentato da questi intrusi. Alberi abbattuti, raccolti di olive rubati, incendi dolosi, colpi di arma da fuoco contro i contadini, palestinesi aggrediti nelle loro case, sorgenti del villaggio sfruttate [a favore dei coloni, ndt.]: questi non sono atti di “vendetta” compiuti dopo un attacco agli ebrei. Costituiscono un piano calcolato per impossessarsi di più terra palestinese attraverso la violenza e l’intimidazione. Tutto, sia allora che adesso, è stato ed è fatto sotto gli auspici del monopolio esercitato dall’IDF [esercito israeliano, ndt.] sulla sicurezza.

Ovviamente nessuna agenzia di sicurezza palestinese ha tentato di sfidare questa situazione al fine di proteggere gli abitanti dai loro assalitori recidivi. Invece di ringraziare l’Autorità Nazionale Palestinese per la sua obbedienza e lealtà, il governo Netanyahu-Smotrich-Ben-Gvir la incolpa per ogni morto israeliano in un’area sotto il pieno controllo israeliano, vale a dire l’intera Cisgiordania e Israele vero e proprio. Allo stesso tempo, Israele chiede all’ANP di controllare i giovani palestinesi disperati e senza addestramento militare che si sono armati in Cisgiordania. Non c’è da meravigliarsi che il pubblico palestinese ami e ammiri quei giovani uomini armati, anche se non sono capaci, addestrati o preparati a proteggerlo fisicamente dagli attacchi dei coloni o a sventare il furto delle loro terre.

La notte in cui gli ebrei imperversavano ad Hawara, molti dei suoi abitanti che si trovavano fuori città non potevano tornare a casa. Attraverso i social media gli abitanti di Nablus hanno offerto loro ospitalità. A questo si è aggiunto l’apparato di sicurezza nazionale palestinese, che ha aperto loro il suo quartier generale. Le reazioni sono state taglienti, ha detto ad Haaretz un abitante di Nablus. “Cosa siete, un ente di beneficenza?” hanno chiesto con sarcasmo le persone infuriate.

L’esperienza ci insegna che i soldati dell’IDF e i poliziotti di frontiera avrebbero sparato e persino ucciso qualsiasi palestinese avesse cercato di opporsi agli aggressori e difendere la propria famiglia, i vicini o la proprietà con una pistola, un bastone o un coltello. Oppure potrebbe essere stato arrestato e condannato in un tribunale militare prima di essere condannato a molti anni di prigione per possesso di un’arma illegale, aver sparato e messo in pericolo vite ebraiche.

Anche se i poliziotti dell’Autorità Nazionale Palestinese fossero potuti arrivare rapidamente ad Hawara per proteggere i loro connazionali dagli assalitori ebrei, l’esercito li avrebbe bloccati o addirittura uccisi o imprigionati e i giudici militari li avrebbero condannati a lunghe pene detentive senza ascoltare le spiegazioni dei loro avvocati. Qualsiasi tentativo locale di organizzare una difesa usando le armi sarebbe finito in uno spargimento di sangue, soprattutto da parte palestinese, e con un’escalation incontrollabile. È comprensibile, quindi, perché un tale intervento sia ancora oggi improbabile.

Ma al di là delle dichiarazioni, delle condanne e delle richieste che le Nazioni Unite forniscano protezione internazionale, per anni alti funzionari palestinesi si sono astenuti, come risposta alla violenza dei coloni, dall’alzare la testa, revocare un accordo, o stabilire condizioni chiare e ben definite per continuare il coordinamento della sicurezza con Israele.

Invece di inviare le sue forze di sicurezza ad impedire conferenze stampa e manifestazioni che invocano la democratizzazione, e di spiare la propria gente, l’Autorità Nazionale Palestinese avrebbe potuto dislocare permanentemente queste forze – disarmate e in borghese, ma addestrate al controllo antisommossa – nei villaggi frequentemente attaccati dai coloni. Avrebbe potuto informare Israele che lo stava facendo perché l’esercito e la polizia israeliani non stanno adempiendo ai loro doveri come dettato dal diritto internazionale e persino dagli Accordi di Oslo. Avrebbe potuto inviare i suoi comandanti di grado più alto in tournée regolari in questi villaggi, per partecipare all’aratura e alla raccolta delle olive, pascolare le pecore con gli abitanti del villaggio, mentre spiegava agli ufficiali israeliani di non essere disponibile per riunioni di coordinamento con l’IDF, lo Shin Bet e l’Amministrazione Civile, poiché era impegnata a proteggere la sua gente.

La conclusione ovvia è che le agenzie di sicurezza palestinesi e il loro comandante supremo Mahmoud Abbas considerano sacro non solo il coordinamento per la sicurezza con Israele, ma anche i confini dei Bantustan creati dalle divisioni temporanee e permanenti nelle aree A, B e C. Ecco come possono essere garantiti i ristretti interessi personali ed economici del gruppo dirigente, così slegato dal suo popolo.

(traduzione dall’inglese di Giuseppe Ponsetti)