Shimon Peres: fondatore di Israele, architetto dell’occupazione

Rori Donaghy

Middle East Eye– mercoledì 28 settembre 2016

Per i suoi sostenitori Peres era una colomba della pace, ma per i suoi critici ha giocato un ruolo chiave nella costruzione di uno Stato israeliano che opprime i palestinesi

Shimon Peres, l’ultimo padre fondatore di Israele, è morto mercoledì all’età di 93 anni dopo che le sue condizioni sono rapidamente peggiorate in seguito a un grave ictus due settimane fa.

I leader mondiali hanno riservato elogi a Peres, compreso l’ex presidente americano Bill Clinton, che lo ha descritto come una “colomba della pace” per il suo ruolo negli accordi di Oslo del 1993 – le prime intese tra leader israeliani e palestinesi, che lo hanno portato a vincere il Nobel per la pace collettivo un anno dopo.

Tuttavia gli elogi non sono stati universali, con critiche che hanno sottolineato il suo ruolo nello sviluppo delle prime colonie israeliane e come primo ministro nel 1996, quando le truppe israeliane massacrarono 154 civili libanesi nella cosiddetta “Operazione Grappoli d’ira”.

Il primo ministro palestinese Mahmoud Abbas, del partito Fatah della Cisgiordania, ha osannato Peres come un “coraggioso”, mentre i suoi rivali di Hamas a Gaza lo hanno definito un “criminale”.

Nato Szymon Perski nel 1923, Peres nel 1934, all’età di 11 anni, si spostò con la sua famiglia dalla terra natale in Polonia verso quello che era allora il Mandato Britannico della Palestina. Dopo essere cresciuto in un kibbutz, Peres si unì al connazionale polacco e in seguito sodale politico David Ben-Gurion, che sarebbe poi diventato il primo premier di Israele.

Peres è stato spesso lodato come uomo che ha dedicato la sua vita a cercare la pace tra israeliani e palestinesi, rifiutando di rinunciare a concludere un accordo fin quando ha iniziato il suoi ultimi dieci anni di vita.

Durante un discorso nel 2014 al memoriale di Yitzhak Rabin – l’ex-primo ministro israeliano che fu assassinato nel 1995 per aver firmato gli accordi di Oslo – Peres incitò il popolo a non rinunciare alla pace.

“La pace è diventata una parola offensiva,” ha detto a migliaia di persone che si erano riunite a Tel Aviv. “Ci sono quelli che dicono che chi crede nella pace è un ingenuo, non è un patriota, un illuso. Ma io dico a voce alta che gli illusi sono quelli che rinunciano alla pace.”

Il tono poetico delle parole di Peres ha spesso guadagnato le prime pagine, valendogli un’immagine di voce della ragione in un conflitto apparentemente irrisolvibile. Tuttavia durante la sua lunga vita di dirigente politico l’eredità di Peres si è costruita attraverso il suo coinvolgimento in decisioni e progetti lontano dai riflettori delle riprese televisive.

Prima della fondazione di Israele a danno della Palestina nel 1948, Peres era un membro dell’Haganah – una milizia ebraica clandestina – e nonostante avesse solo 20 anni venne assegnato al ruolo fondamentale di comprare armamenti e munizioni per la guerra che alla fine portò alle uccisioni in massa e all’espulsione di più di 700.000 palestinesi.

La bomba di Israele

Dopo aver svolto egregiamente il suo ruolo nell’Haganah, nel 1953 fu nominato direttore generale del ministero della Difesa di Israele, dove avrebbe continuato a giocare un ruolo cruciale nello sviluppo di un reattore nucleare segreto nella città di Dimona, nel deserto meridionale del Negev.

Anche se un giorno sarebbe diventato il nono presidente di Israele, così come sarebbe stato per due volte primo ministro, il suo ruolo nello sviluppo delle armi nucleari di Israele, che furono testate per la prima volta negli anni ’60, ha consacrato Israele come una importante potenza militare al di fuori di ogni controllo internazionale.

Più tardi, come ministro della Difesa nel 1975, Peres si incontrò con il governo sudafricano dell’apartheid e offrì di vendergli testate nucleari. Desideroso di mantenere nascoste le proprie attività nucleari, nel 1986 Peres autorizzò la caccia ed il rapimento da parte dei servizi segreti israeliani della “gola profonda” Mordechai Vanunu [che rivelò al Sunday Times che Israele aveva la bomba atomica e per questo venne rapito a Roma, portato in Israele e condannato per tradimento e spionaggio . Ndtr.], che avrebbe passato 18 anni di prigione.

L’artefice della colonizzazione

Peres potrebbe un giorno essere visto come un patrimonio nazionale non solo in Israele, bensì anche a livello internazionale, ma ha giocato un ruolo cruciale nello sviluppo delle colonie illegali ebraiche israeliane sulla terra della Cisgiordania palestinese, avendo notoriamente adottato lo slogan “Colonie ovunque” quando era ministro della Difesa negli anni ’70.

Il suo ruolo nell’estensione del controllo israeliano sulla terra palestinese sarebbe continuato con gli accordi di Oslo, perché, benché fossero lodati come un passo verso la pace, la divisione della Cisgiordania in tre zone alla fine ha fornito la base per il controllo israeliano sulla maggior parte di quello che avrebbe dovuto essere lo Stato palestinese.

Gli accordi hanno portato alla divisione della Cisgiordania in tre zone -A, B e C – e si riteneva che sarebbero durati cinque anni. Ma queste zone continuano ad essere la base su cui la Cisgiordania è governata, con l’area C – sotto totale controllo israeliano – che costituisce poco più del 60% del totale della Cisgiordania.

Massacro di Qana

Da molti critici Peres sarà anche ricordato per il suo ruolo nel massacro di 154 civili libanesi in un attacco ad un villaggio durante l’operazione militare di Israele del 1996 contro Hezbollah [milizia sciita libanese. Ndtr.] nota come “Operazione Grappoli d’ira”.

Peres era il primo ministro di Israele quando il suo esercito attaccò il villaggio di Qana il 18 aprile 1996, bombardando un edificio delle Nazioni Unite in cui circa 800 civili si erano rifugiati per sfuggire ai bombardamenti israeliani

Quando gli fu chiesto dell’attacco contro Qana – che egli difese come un errore – Peres più tardi disse: “Tutto è stato fatto in base ad una chiara logica e in modo responsabile. Ho la coscienza a posto.”

E’ questa narrazione alternativa della vita e dell’eredità di Peres che comporta il fatto che egli non sarà elogiato dai palestinesi a da molti altri.

Reazioni arabe

Mentre i media in lingua inglese insistono con l’immagine di Peres come una colomba della pace, mercoledì i mezzi di informazione arabi hanno presentato un’altra immagine quando hanno informato della sua morte.

Sky News in arabo ha descritto Peres come un “padrino” del programma per la produzione delle armi nucleari di Israele e come il “fondatore delle colonie”. Al Jazeera in arabo lo ha etichettato come un “assassino di massa” che è stato “incoronato con il Premio Nobel”.

La dirigenza dell’Autorità Nazionale Palestinese – che Peres ha contribuito a creare – è stata più elogiativa a proposito del defunto leader israeliano: un importante consigliere del presidente Mahmoud Abbas lo ha descritto come un “uomo di pace”.

“Il suo decesso è sicuramente una grande perdita per l’umanità e per la regione,” ha detto al Jerusalem Post [giornale israeliano in lingua inglese. Ndtr.] Majdi al-Kahlidi, consigliere diplomatico di Abbas.

Tuttavia Awni Almashni, membro di Fatah, il partito di Abbas, ha detto a MEE che Peres era “un nemico del popolo palestinese.”

“Peres credeva nella pace, ma nel senso israeliano, che concede a Israele il potere e il controllo sulla terra,” ha affermato. “Non lo vediamo come un pacificatore.”

Il movimento Hamas di Gaza, fiero rivale di Abbas, ha descritto Peres come un “criminale” della cui morte è “molto contento”.

Il portavoce di Hamas Sami Abu Zuhri ha detto all’Associated Press [agenzia di stampa statunitense. Ndtr]: “Shimon Peres è stato l’ultima personalità importante israeliana rimasta ad aver dato vita all’occupazione, e la sua morte rappresenta la fine di un periodo nella storia di questa occupazione e l’inizio di una nuova fase di indebolimento.”

Il funerale di Peres avrà luogo venerdì nel cimitero nazionale israeliano sul monte Herzl a Gerusalemme, a cui si pensa parteciperanno dirigenti politici da tutto il mondo.

Ma uno che non ci sarà è il politico israeliano-palestinese Basil Ghattas, che ha provocato scandalo in Israele quando ha reagito all’ictus di Peres del 14 settembre scrivendo su Facebook che non sarebbe “corso a partecipare” a un ” festival di dolore e di lutto”.

“Peres era uno dei più poderosi pilastri dell’impresa del colonialismo d’insediamento sionista,” ha scritto il deputato della Knesset [il parlamento israeliano. Ndtr.]. “Uno dei più spietati, estremisti e dannosi per la nazione palestinese.”

“Peres è coperto dalla testa ai piedi del nostro sangue.”

Contattato mercoledì da MEE, Ghattas ha detto che non avrebbe potuto aggiungere niente a quello che aveva già detto su Facebook.

Diana Buttu, una ex-negoziatrice palestinese, ha detto a MEE che il torrente di elogi per Peres ignora la sua reale vita – e che le sue azioni rappresentano crimini di guerra.

“Non è abbastanza chiamare Peres un criminale di guerra perché gliela farebbe passare liscia – egli va oltre,” ha affermato. “Peres ha messo in atto tutta una serie di crimini di guerra da parte di Israele avvenuti senza che ne dovesse rispondere.”

“Quello per cui Peres dovrebbe essere ricordato non è solo il fatto di essere un criminale di guerra ma di aver svuotato di ogni significato la parola ‘pace’. Pace ora può significare pulizia etnica, appoggio all’espansione delle colonie, il bombardamento di un edificio dell’ONU e il possesso di un arsenale nucleare senza essere oggetto di alcuna ispezione internazionale.”

“Pace può significare contravvenire alle leggi internazionali – è per questo che Peres dovrebbe essere ricordato.”

La palestinese Nabila Espanioly, un’attivista femminista del partito Hadash, ha detto a MEE che Peres era “innanzitutto un leader sionista.”

“La sua eredità è rappresentata da massacri e discriminazione,” ha affermato. “Ha fatto un passo verso la pace ma non ha cambiato niente in concreto, tranne la confisca di sempre più terra palestinese.”

“Fino ai suoi ultimi giorni Peres ha affermato il suo impegno per la pace, ma ha sempre avuto chiaro in mente che il popolo ebraico era la sua priorità in ogni possibile accordo.”

Nel 2014 ha detto: “La principale priorità è preservare Israele come Stato ebraico. Questo è il nostro principale obiettivo, per il quale stiamo lottando.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




Shimon Peres è stato un uomo di pace?

Haaretz

Gideon Levy – 28 settembre 2016

Se Israele è sull’orlo di un abisso morale, allora Peres ha una responsabilità in questo. Se è un Paese che va verso l’apartheid, lui ne è stato un socio fondatore. Bisogna dire la verità: Shimon Peres voleva la pace, ma non ha mai visto i palestinesi come uguali agli ebrei.

E’ stato il mio maestro politico personale per quattro anni, giorno e notte. Non si è mai comportato come un insegnante, ma ho imparato molto da lui, su cosa fare, ma anche su cosa non fare. Ero molto giovane, e lui era già Shimon Peres. Ci siamo separati con sentimenti contrastanti.

Era l’ultimo degli israeliani di un tempo. Che cos’è “israeliano” per voi? Una volta era Shimon Peres. Ora Miri Regev [ex generale di brigata e portavoce dell’esercito israeliano, attuale ministra della Cultura e dello Sport, molto discussa per le sue iniziative censorie. Ndtr.] rappresenta l’essenza israeliana molto più di lui. Ma quando Israele ha voluto essere rappresentato come un Paese che vuole la pace, aveva Peres.

Quando era ancora importante essere accettati- Peres. Quando dire che uno era stato una guida era ancora rispettabile – Peres. Quando parlare di libri era ancora ammirato – Peres. Quando almeno un simulacro di chiaroveggenza e di modestia erano ancora importanti – Peres. Era un Paese diverso. E’ morto ieri [27 settembre. Ndtr.], ma quell’Israele è morto molto tempo fa. Non è sicuro che fosse così splendido come tendiamo a descriverlo.

Il suo Israele era un Paese di grandi risultati, ma anche di ombre e menzogne. Non lo si può incoronare come una figura stupenda, come tutto il mondo sta facendo ora, senza descrivere anche il suo Paese. Se Peres è stato un eroe della pace, allora lo Stato di Israele è un Paese che desidera la pace. C’è qualcuno che lo crede? Non lo si può chiamare un occupante, un depredatore, un paria, chiamando allo stesso tempo Peres un gigante della pace.

Se Israele è sull’orlo di un abisso morale, allora Peres ha una responsabilità in questo. Se è un Paese che va verso l’apartheid, lui ne è stato un socio fondatore.

Lo Stato era Peres e Peres era lo Stato, almeno fino a una certa misura. E’ stato una presenza fissa del panorama per tutti questi anni e in tutti gli incarichi di responsabilità. Guardate lui e vedrete noi.

Noi vogliamo tanto la pace ma facciamo molto poco per ottenerla. Egli era il volto presentabile del Paese ma anche quello ingannevole. Gli israeliani ora lo stanno ricordando con affetto; quanto è meraviglioso aver avuto un tale uomo. Anche questi leader mondiali che stanno arrivando per il suo funerale domani elogeranno affettuosamente il suo contributo alla pace.

Ma quale pace? Quest’uomo ci ha dato il reattore nucleare di Dimona e l’operazione “Sinai” [la partecipazione di Israele alla guerra di Francia e Gran Bretagna contro l’Egitto dopo la nazionalizzazione del Canale di Suez da parte di Nasser. Ndtr.] nel 1956, Nazaret Alta e Ofra [due colonie israeliane in Cisgiordania. Ndtr.], le industrie militari ed aerospaziali israeliane – per cui, quanta pace (e giustizia) ha realmente portato e quanta occupazione e colonizzazione?

Non ci sono dubbi che lui ha voluto la pace ed ha lavorato per questo. Ma si è fermato a metà strada ignorando il problema delle colonie durante il processo di Oslo, e non ci sono mezze misure per la pace. Non è solo la destra ad essere responsabile per questo fallimento.

Era un uomo notevole. L’ampiezza del suo sapere era più vasta di quella della maggioranza dei suoi contemporanei, come il suo fascino personale. Non abbiamo mai avuto un politico più curioso ed elegante, né un miglior conversatore. Andrò oltre: era anche un uomo onesto, certo non meno dei suoi colleghi. E nessuno poteva parlare di pace come lo ha fatto lui: persino il Mahatma Ghandi ne ha parlato meno di lui.

Nei lontani anni ’70 Peres stava già dicendo in ogni discorso: “E’ impossibile governare su un altro popolo contro la sua volontà.” All’epoca mi ha commosso. Ma durante i decenni seguenti, quando era al comando, questa dichiarazione è rimasta nei colloqui di partito. Che cos’ha fatto per porre fine all’occupazione? Ha contribuito moltissimo a Israele – alla sua sicurezza, alla sua prosperità – ma non alla sua giustizia. Per cui non dite che era un uomo di pace.

Voleva la pace. Chi non la vuole? Ma si deve dire la verità, anche in momenti difficili; non ha mai concepito i palestinesi come uguali agli ebrei, e sicuramente non con gli stessi diritti.

Dopo anni passati insieme a David Ben-Gurion forse era troppo difficile formulare un approccio diverso. I diritti umani e le leggi internazionali non lo interessavano, e le sofferenze dei palestinesi non lo commuovevano.

Quando il presidente degli USA Barak Obama lo loderà domani come un uomo di pace, si potrà avere il vago sospetto che egli possa essere la copia esatta di Peres. Com’è piacevole lodare Peres.Perché, al di là di tutto, Peres era il campione del desiderio israeliano di “andare con e sentirsi senza”. Dell’affermare quanto siamo fantastici. Ora non è rimasto più nessuno a dirlo.

(traduzione di Amedeo Rossi)




L’apartheid idrico israeliano asseta la Cisgiordania

Electronic Intifada

Charlotte Silver – 1 agosto 2016

La mancanza d’acqua non è una novità per i palestinesi. Sia nella Striscia di Gaza occupata che in Cisgiordania, compresa Gerusalemme est, la fornitura di acqua che scorre nelle case palestinesi è rigidamente limitata od ostacolata da Israele.

Appena durante l’estate la temperatura sale, i rubinetti si prosciugano. Clemens Messerschmid, un idrologo tedesco che ha lavorato per due decenni con i palestinesi nel loro servizio idrico, chiama la situazione ” apartheid idrico”.

Quest’anno la giornalista israeliana Amira Hass ha pubblicato dati che provano che l’Autorità Idrica Israeliana ha ridotto la quantità di acqua distribuita ai villaggi della Cisgiordania.

In alcuni luoghi l’approvvigionamento è stato ridotto alla metà. I suoi dati contraddicono le smentite ufficiali che la fornitura d’acqua alle città e villaggi palestinesi sia stata tagliata durante l’estate, benché neanche questo sia una novità.

Quest’estate cittadine e piccoli villaggi sono rimasti fino a 40 giorni senza acqua corrente, obbligando quelli che se lo possono permettere a rifornirsi da cisterne d’acqua.

Quando Israele ha occupato la Cisgiordania nel 1967 ha anche preso il controllo dell’Acquifero Montano della Cisgiordania, la principale riserva naturale d’acqua del territorio.

Gli accordi di Oslo dei primi anni ’90 hanno concesso ad Israele l’80% delle riserve dell’Acquifero. I palestinesi avrebbero dovuto avere il restante 20%, ma negli ultimi anni hanno potuto avere a disposizione solo il 14%, in conseguenza delle restrizioni israeliane alle perforazioni.

Per garantire le necessità minime della popolazione, l’Autorità Nazionale Palestinese è obbligata a comprare il resto dell’acqua da Israele. Ma anche così, non è sufficiente.

Israele ha intenzione di vendere solo una limitata quantità di acqua ai palestinesi. In conseguenza di ciò, i palestinesi utilizzano molta meno acqua degli israeliani, e un terzo in meno rispetto alle raccomandazioni dell’Organizzazione Mondiale della Salute di 100 litri a testa al giorno per uso domestico, ospedali, scuole e altre istituzioni.

“Electronic Intifada” ha parlato della programmata scarsità d’acqua per i palestinesi in Cisgiordania con Clemens Messerschmid, che ha lavorato nel settore idrico in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza fin dal 1997.

Charlotte Silver: la causa della crisi idrica in Cisgiordania è la scarsità d’acqua nella zona? O la scarsità è programmata?

Clemens Messerschmid: Ovviamente non c’è scarsità d’acqua in Cisgiordania. Quello che noi soffriamo in conseguenza di questa scarsità indotta si chiama l’occupazione. Questo è il regime imposto ai palestinesi subito dopo la guerra del giugno 1967.

Israele governa attraverso ordini militari, che hanno il diretto ed intenzionale risultato di tenere i palestinesi a corto d’acqua. Non si tratta di una costante e graduale espropriazione come con la terra e le colonie, ma è stato fatto in un colpo solo grazie all’ordine militare n° 92 dell’agosto 1967.

La Cisgiordania possiede una vasta falda acquifera. Ci sono grandi precipitazioni a Salfit, nella Cisgiordania settentrionale, ora nota per restrizioni idriche particolarmente drastiche.

La Cisgiordania beneficia di un tesoro di acque sotterranee. Ma questo è anche la sua maledizione, perchè Israele l’ha preso di mira immediatamente dopo averne assunto il controllo.

Quello di cui abbiamo bisogno è semplice: pozzi freatici per accedere a questo tesoro. Ma l’ordine militare israeliano n° 158 proibisce rigidamente di scavare pozzi o qualunque altro lavoro di carattere idrico, comprese le sorgenti, condutture, reti, stazioni di pompaggio, pozze utilizzate per l’irrigazione, riserve d’acqua, semplici cisterne per la raccolta dell’acqua piovana, che raccolgono la pioggia che cade sui tetti.

Ogni cosa è proibita, o piuttosto non “permessa”, dall’Amministrazione Civile, il regime di occupazione di Israele. Anche riparare o fare la manutenzione dei pozzi richiede permessi militari. E semplicemente noi non li otteniamo.

E’ semplicemente un caso di apartheid idrico – ben oltre qualunque altro regime del passato di cui io sia a conoscenza.

CS: Israele ha incrementato la quantità di acqua che vende ai palestinesi, ma non è ancora sufficiente ad evitare che i villaggi rimangano a secco. A parte il fatto che il controllo di Israele sulle risorse dell’Acquifero è un grave problema, perchè Israele non vuole vendere più acqua ai palestinesi?

CM: Innanzitutto Israele ha drasticamente ridotto la quantità di acqua a disposizione dei palestinesi. Ha vietato ogni accesso al fiume Giordano, che ora è letteralmente prosciugato nei pressi del lago di Tiberiade.

Inoltre Israele impone una quota sul numero di pozzi e nega metodicamente i permessi per le più indispensabili riparazioni dei vecchi pozzi dei tempi giordani – la Giordania ha amministrato la Cisgiordania dal 1948 fino all’occupazione israeliana -, soprattutto i pozzi per l’agricoltura. Ciò significa che il numero dei pozzi è costantemente in diminuzione. Ne abbiamo meno che nel 1967.

Ora, l’unica cosa che è aumentata è la dipendenza dall’acquisto di acqua dagli espropriatori, Israele e Mekorot, la società idrica pubblica israeliana.

Ciò è riportato continuamente nella stampa occidentale, perchè questo è il punto che Israele sottolinea: “Vedete quanto siamo generosi?”

Per cui, sì, da Oslo gli acquisti da Mekorot sono aumentati costantemente. Ramallah ora riceve il 100% della sua acqua da Mekorot. Neanche una goccia proviene da un solo pozzo che abbiamo noi.

La fornitura ai villaggi da parte di Israele non è stata fatta come un favore. E’ stata iniziata nel 1980 da Ariel Sharon, allora ministro dell’Agricoltura, quando è cominciata il rapido aumento della colonizzazione. La fornitura di acqua è stata “incorporata”, per rendere irreversibile l’occupazione.

Quello che più importa qui è l’apartheid strutturale, cementato e incastonato nel ferro di queste condutture. Una piccola colonia è rifornita attraverso grandi tubature di trasmissione da cui se ne dipartono altre più piccole per andare verso le aree palestinesi.

Israele è molto contento di Oslo, perchè ora i palestinesi sono “responsabili” della fornitura. Responsabili, ma senza un briciolo di sovranità sulle risorse.

La cosiddetta crisi idrica attuale non è affatto una crisi. Una crisi è un cambiamento improvviso, una novità o un punto di svolta durante lo sviluppo. La riduzione nella fornitura ai palestinesi è voluta, pianificata e accuratamente eseguita. La “crisi idrica estiva” è la più prevedibile caratteristica nel calendario dell’acqua per i palestinesi. E la quantità annuale di piogge o la siccità non hanno alcun rapporto con la presenza e le dimensioni di questa “crisi”.

Vorrei sottolineare che per quanto questo succeda regolarmente, in ogni singolo caso si tratta di una decisione consapevole di qualche burocrate e ufficio in Israele o nell’Amministrazione civile. Qualcuno deve andare sul campo e chiudere le valvole della deviazione verso il villaggio palestinese. Questo, come ogni estate, è stato fatto agli inizi di giugno. Da qui, crisi idrica in Cisgiordania.

CS: Quali fattori possono aver contribuito all’aggravamento di quest’anno nelle interruzioni della fornitura d’acqua?

CM: Sembra che la domanda [di acqua] delle colonie sia aumentata drasticamente dallo scorso anno. L’Autorità Israeliana per le Acque ha riscontrato una maggiore domanda dal 20 al 40%, che è molto significativa.

Alexander Kushnir, il direttore generale dell’Autorità per le Acque, la attribuisce all’espansione delle irrigazioni dei coloni sulle montagne melle colonie a nord della Cisgiordania, attorno a Salfit e a Nablus.

CS: Com’è possibile che la gente dell’attuale Israele sembri godere di un surplus di acqua da quando il Paese ha iniziato ad utilizzare la desalinizzazione, mentre la gente sotto occupazione in Cisgiordania è rimasta con così poca [acqua]? Si dice che anche i coloni israeliani abbiano riscontrato una riduzione nelle forniture idriche.

CM: E’ vero che per la prima volta Israele ha dichiarato qualche anno fa che ha un’economia con eccedenza d’acqua ed è interessato a vendere più acqua ai suoi vicini, a cui in primo luogo ha espropriato l’acqua.

I palestinesi stanno già comprando l’acqua che Israele ha rubato, ma, come segnalato, non in modo affidabile o in percentuali sufficienti.

Francamente non lo so. Perchè questo particolare, elevato ed aggravato desiderio di Israele di non vendere neppure acqua sufficiente alla Cisgiordania?

In alcune zone, come nella Valle del Giordano, l’acqua è attivamente utilizzata come uno strumento per la pulizia etnica. Fin dal primo giorno dell’occupazione l’agricoltura è sempre stata presa di mira.

Ma questa logica non si applica ai centri urbani palestinesi densamente popolati nella cosiddetta Area A della Cisgiordania [sotto totale controllo dell’ANP. Ndtr.], che stanno ancora lottando. Dopo 20 anni, mi lascia ancora perplesso.

E’ importante capire un altro elemento: Israele deve continuamente impartire una lezione ai palestinesi. Ogni fornitura di acqua, ogni goccia fornita deve essere intesa come un generoso favore, come un atto di pietà, non come un diritto.

Israele ha incrementato la vendita di acqua alla Cisgiordania da 25 milioni di m³ all’anno nel 1995 ai circa 60 milioni di m³ di oggi. Perchè non ne vende molta di più? Sicuramente dal punto di vista di una politica idrica oculata se lo potrebbe permettere – ha un enorme surplus.

Uno dei problemi materiali che posso riscontrare è quello del prezzo, e quindi il significato dell’acqua.

Israele vuole ottenere finalmente il prezzo più alto per l’acqua desalinizzata che vende ai palestinesi. Mentre si parla solo di qualche centinaio di milioni di shekel all’anno (qualche decina di milioni di dollari) – che per Israele non è molto -, Israele vuole chiudere una volta per tutte la discussione in merito ai diritti palestinesi sull’acqua.

Israele non chiede niente di meno che una resa totale: i palestinesi devono accettare che l’acqua sotto i loro piedi non appartiene a loro, ma per sempre agli occupanti.

Con la richiesta del prezzo intero per l’acqua desalinizzata, i palestinesi ammetterebbero ed accetterebbero una nuova formula.

Una parola sulla Striscia di Gaza: a differenza della Cisgiordania, Gaza non ha fisicamente un accesso possibile all’acqua. La circoscritta e densamente abitata Striscia non potrà mai essere autosufficiente. tuttavia Gaza non riceve simili forniture di acqua da Israele. Solo recentemente Israele ha iniziato a vendere a Gaza i 5 milioni di m³ all’anno stabiliti da Oslo. E’ stato adottato un piccolo aumento di facciata.

In un certo modo si potrebbe interpretare questo trattamento differenziato tra Gaza e la Cisgiordania come un’ammissione israeliana di un certo grado di dipendenza idrologica.

Israele riceve la maggior parte della sua acqua dai territori conquistati nel 1967, comprese le Alture del Golan, ma neppure una goccia da Gaza.

Dal punto di vista di una politica idrica oculata, Gaza non ha risorse da offrire a Israele. Ciò vale anche per la risorsa principale: la terra. Da qui un approccio molto diverso a Gaza fin da subito, nel 1967. Israele non dipende da Gaza da nessun punto di vista materiale. Fin da Oslo Israele ha chiesto a Gaza di rifornirsi da sola con i suoi mezzi, come attraverso la desalinizzazione dell’acqua di mare.

CS: In questo contesto, come si sono comportati i Paesi donatori? Hanno difeso gli standard minimi internazionali o hanno affermato e rafforzato il controllo israeliano sulle risorse idriche nella Cisgiordania occupata?

CM: Purtroppo nel secondo modo. Quando è iniziato Oslo, noi tutti ci siamo illusi che sarebbe iniziata una fase di sviluppo. Pozzi di cui era stata vietata la trivellazione per 28 anni sarebbero finalmente stati messi in funzione.

Abbiamo rapidamente imparato che Israele nei fatti non aveva mai voluto concedere “permessi…per espandere l’agricoltura o l’industria, che possano competere con lo Stato di Israele,” come l’allora ministro della Difesa Yitzhak Rabin disse nel 1986.

Quello di cui c’era bisogno allora e adesso – e tutti quanti lo sapevano – era una pressione politica per ottenere il minimo di permessi di perforazione garantiti dagli accordi tra palestini e israeliani. Questa pressione non c’è mai stata. L’Ue o il mio governo tedesco non hanno mai diramato una dichiarazione pubblica nella quale “deplorassero” o “si dispiacessero” per gli ostacoli nel settore idrico. E’ un vero scandalo.

Ma ancora peggio, qual è stata la risposta di noi occidentali a tutto ciò? Tutti i progetti finanziati dai donatori hanno addirittura abbandonato il settore vitale della perforazione di pozzi. L’ultimo pozzo finanziato dalla Germania è stato trivellato nel 1999.

Come per l’attuale cosiddetta crisi idrica, noi come donatori siamo ora impegnati a finanziare generosamente un’anacronistica distribuzione di acqua con cisterne ai centri urbani palestinesi tagliati fuori [dall’erogazione d’acqua] – adeguandoci e stabilizzando lo status quo dell’occupazione e dell’apartheid idrico.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Dopo Mahmoud Abbas, il diluvio per i palestinesi

Haaretz, 29 giugno 2016

di Amira Hass

Se il presidente avesse prestato attenzione alla realtà, a Bruxelles avrebbe parlato di acqua come un esempio della situazione assurda in cui gli israeliani hanno intrappolato i palestinesi

Ancora una volta Mahmoud Abbas ha provocato imbarazzo. Nel suo discorso al parlamento europeo, ha ripetuto cose senza senso in un “rapporto” che era comparso nei media palestinesi pochi giorni prima, secondo il quale il presidente del “Consiglio delle Colonie” avrebbe ordinato di avvelenare i pozzi palestinesi e l’acqua potabile in CIsgiordania.

Nel suo discorso il presidente palestinese lo ha modificato così: “Solo una settimana fa, una settimana, un gruppo di rabbini in Israele ha annunciato, in un comunicato esplicito, la richiesta al loro governo di avvelenare, di avvelenare, l’acqua dei palestinesi.” Un giorno dopo ha smentito questa affermazione attraverso il suo ufficio.

Ma il danno era stato fatto. Abbas è stato accusato di spargere una sanguinaria diffamazione anti-semita – un’accusa logora e scontata che ignora i reali e seri problemi che caratterizzano i massimi dirigenti palestinesi: la loro inconsapevolezza della realtà quotidiana del loro popolo; la mancanza di coordinamento e di scambio di informazioni e di idee tra diversi uffici del governo; il ricorso ad amici, adulatori e mezzi di comunicazione locali, che non verificano le cose, tutti quanti troppo frequentemente sono approssimativi ed esagerano persino quando la verità sulle politiche israeliane è di per sé compromettente.

Secondo la Reuters, la dichiarazione su riportata non era inclusa nella versione ufficiale del discorso (opaco e scontato) che l’ufficio di Abbas ha distribuito in anticipo. Sembra che si sia trattato di un’improvvisazione, come succede nelle riunioni del suo movimento, Fatah, o in un incontro con studenti israeliani, quando ha dichiarato che il coordinamento per la sicurezza con Israele è “sacro”.

Secondo il New York Times il “rapporto” è apparso su un sito web di qualche ufficio dell’OLP (senza specificare quale fosse), da lì è stato ripreso dal sito ufficiale turco “Anadolu” e da un giornale di Dubai. Palestinian Media Watch [organizzazione israeliana che monitora i media palestinesi, in particolare per quanto riguarda il terrorismo. Ndtr.] ha rintracciato un servizio trasmesso dall’emittente televisiva ufficiale palestinese il 20 giugno, che affermava che un’organizzazione dei diritti umani israeliana aveva “rivelato” l’ordine da parte di un rabbino di nome Shlomo Melamed.

Ma non c’è nessuna organizzazione che si chiami “Consiglio delle Colonie”, non c’è nessun rabbino che si chiami Shlomo Melamed e, secondo un articolo del Jerusalem Post (citato da Palestinian Media Watch), nessuna organizzazione israeliana dei diritti umani ha “rivelato” le sue parole.

Se Abbas fosse stato attento alla situazione, a Bruxelles avrebbe parlato di acqua – un problema scottante per il suo popolo, soprattutto durante l’estate – come un esempio dell’assurdità nella quale i palestinesi sono intrappolati. “Noi (e l’Europa con noi)”, potrebbe aver detto, “stiamo rispettando gli accordi di Oslo 17 anni dopo che sono scaduti, come un cammino che porta alla costituzione di uno Stato palestinese. Ma guardate come Israele approfitta della nostra pazienza e continua ad imporre la stessa divisione inumana dell’unica fonte di acqua di cui disponiamo.”

Oggi gli israeliani usano l’86% dell’acquifero montano, mentre le briciole che rimangono – il 14% – sono lasciate ai palestinesi. Invece di dire fesserie sull’avvelenamento dell’acqua, avrebbe potuto parlare della compagnia delle acque Mekorot, che sta tagliando i rifornimenti d’acqua nella zona di Salfit per soddisfare l’aumento della domanda nelle colonie.

E’ vero, non mancano rabbini che hanno detto cose terribili sugli arabi o sui non ebrei in generale. Oltretutto, come parte delle continue vessazioni dei villaggi palestinesi da parte di cittadini ebrei israeliani in Cisgiordania, ci siamo imbattuti nel metodo di gettare carcasse di animali morti nelle cisterne – benché cisterne per l’acqua piovana, come nel villaggio di Kharruba nelle colline a sud di Hebron, o cisterne per raccogliere il flusso d’acqua dalle sorgenti, come a Madma, a sud di Nablus.

Tuttavia, non ci voleva molto per capire che questo “rapporto” era dubbio. Israele e palestinesi bevono dallo stesso acquifero. Quindi “l’avvelenamento dell’acqua” avrebbe colpito tutti. Ed una scarsa conoscenza storica sarebbe stata sufficiente per mettere in guardia Abbas dall’associare acqua, veleno ed ebrei.

Ma così vanno le cose quando si è abituati al ruolo di capo supremo le cui parole sono legge, che viola le decisioni della dirigenza collettiva (e non eletta), che ripetutamente rimanda le elezioni all’interno di Fatah e dell’OLP, che beneficia di un parlamento paralizzato e che non consente un processo democratico per scegliere il suo successore in modo da risparmiare al suo popolo un pericoloso vuoto politico una volta che se ne sia andato.

(traduzione di Amedeo Rossi)




La “preghiera per la pioggia” della Palestina:in che modo Israele usa l’acqua come un’arma da guerra.

 

di Ramzy Baroud

Ma’an News – 22 giugno 2016

Intere comunità anche in Cisgiordania non hanno accesso all’acqua o hanno avuto una riduzione di circa la metà della fornitura.

Questo sviluppo allarmante è durato per settimane, da quando l’impresa idrica nazionale di Israele, “Mekorot”, ha deciso di interrompere, o ridurre in modo significativo, le sue forniture d’acqua a Jenin, Salfit e a molti villaggi attorno a Nablus, tra le altre zone.

Secondo il primo ministro dell’Autorità Nazionale Palestinese Rami Hamdallah, Israele ha intrapreso una “guerra dell’acqua” contro i palestinesi. L’ironia della vicenda risiede nel fatto che quella fornita da “Mekorot” è in realtà acqua palestinese, di cui Israele si è ingiustamente appropriato, proveniente dalle riserve acquifere della Cisgiordania. Mentre gli israeliani, comprese le colonie illegali in Cisgiordania, ne usano la grande maggioranza, i palestinesi ricomprano la loro stessa acqua a prezzi alti.

Riducendo le forniture idriche in un momento in cui i funzionari israeliani stanno progettando di esportare acqua essenzialmente palestinese, Israele ancora una volta sta utilizzando l’acqua come una forma di punizione collettiva.

Non è certo una novità. Ricordo ancora la preoccupazione nella voce dei miei genitori tutte le volte che temevano che la fornitura d’acqua stesse raggiungendo un livello pericolosamente basso. Si trattava di una discussione pressoché quotidiana in casa mia. Ogni volta che scoppiavano scontri tra ragazzini che lanciavano pietre e le forze di occupazione israeliane nei dintorni del campo di rifugiati, noi correvamo istintivamente sempre a riempire i pochi secchi d’acqua e bottiglie che avevamo sparsi in giro per la casa.

Questo accadeva durante la prima Intifada, o rivolta, palestinese scoppiata nel 1987 nei Territori Palestinesi Occupati.

Ogni volta che scoppiavano incidenti, una delle prime azioni messe in atto dall’amministrazione civile israeliana (una denominazione meno sinistra per indicare gli uffici dell’esercito di occupazione israeliano) era punire collettivamente l’intera popolazione di qualsiasi campo di rifugiati si ribellasse.

Le misure prese dall’esercito israeliano divennero copiose, anche se con il tempo si fecero sempre più vendicative: un rigido coprifuoco militare (che significava la chiusura dell’intera zona e il confinamento di tutti gli abitanti nelle loro case, sotto minaccia di morte); l’interruzione della corrente elettrica e la riduzione delle forniture idriche. Ovviamente, queste misure venivano prese solo nella prima fase della punizione collettiva, che durava per giorni o settimane, a volte persino mesi, punendo qualche campo di rifugiati fino alla fame. Poiché c’era poco che i rifugiati potessero fare per sfidare l’autorità di un esercito ben armato, essi investivano ogni loro magra risorsa o tempo a disposizione per ingegnarsi a sopravvivere.

Di qui l’ossessione per l’acqua, perché una volta che la fornitura era interrotta, non c’era niente da fare; tranne, naturalmente, la “Salat Al-Istisqa”, ossia la “Preghiera per la pioggia” che i musulmani osservanti invocano durante i periodi di siccità. Gli anziani del campo insistevano sul fatto che funzionasse davvero, e riportavano storie miracolose del passato, quando questa speciale preghiera aveva dato risultati durante l’estate, quando c’era meno da aspettarsi che piovesse.

In effetti molti più palestinesi che in ogni altra epoca hanno invocato la pioggia nelle loro preghiere dal 1967. Quell’anno, circa 49 anni fa, Israele ha occupato le due regioni rimanenti della Palestina storica: la Cisgiordania, compresa Gerusalemme est, e la Striscia di Gaza. E durante quegli anni, Israele ha fatto ricorso ad una costante politica di punizioni collettive, limitando ogni sorta di libertà e utilizzando il rifiuto di fornire l’acqua come un’arma.

In effetti l’acqua è stata utilizzata come un’arma per soggiogare i palestinesi ribelli durante molte fasi della loro lotta. Di fatto questa storia risale alla guerra del 1948, quando le milizie sioniste hanno interrotto le forniture di acqua a moltissimi villaggi palestinesi attorno a Gerusalemme per permettere la pulizia etnica di quella regione.

Durante la “Nakba” (o “Catastrofe”) del 1948, ogni volta che un villaggio o una cittadina venivano conquistati, le milizie distruggevano immediatamente i suoi pozzi per impedire agli abitanti di tornare. Oggi gli illegali coloni israeliani utilizzano ancora questa tattica.

Anche l’esercito israeliano ha continuato ad utilizzarla, soprattutto durante la prima e la seconda rivolta. Nel corso della seconda Intifada, gli aerei israeliani hanno bombardato il sistema idrico di qualunque villaggio o campo di rifugiati che avevano progettato di invadere e sottomettere. Durante l’invasione del campo di rifugiati di Jenin ed il massacro dell’aprile 2002, le forniture di acqua del campo sono state fatte saltare in aria prima che i soldati entrassero nel campo da ogni direzione, uccidendo e ferendo centinaia di persone.

Gaza rimane finora l’esempio più estremo di punizione collettiva riguardante l’acqua. Durante la guerra è stato preso di mira non solo il sistema idrico, ma anche i generatori di elettricità utilizzati per purificare l’acqua sono stati fatti saltare in aria dal cielo. E finché sarà in vigore l’assedio decennale, ci sono poche speranze di riparare in modo permanente entrambi.

C’è ormai una consapevolezza condivisa del fatto che gli accordi di Oslo siano stati un disastro politico per i palestinesi; è tuttavia meno noto come Oslo abbia facilitato l’attuale crescente diseguaglianza in Cisgiordania. Il cosiddetto “Oslo II”, o accordo interinale israeliano-palestinese del 1995, ha separato il sistema idrico di Gaza dalla Cisgiordania, lasciando così alla Striscia lo sviluppo delle sue fonti di acqua situate all’interno dei confini. Con l’assedio e le periodiche guerre le falde acquifere producono in totale tra il 5 e il 10% dell’acqua potabile. Secondo l’ANERA [ong statunitense che si occupa di interventi umanitari in Medio Oriente. Ndtr.], il 90% dell’acqua di Gaza “non è idonea per il consumo umano.”

Pertanto la maggior parte dei gazawi sopravvive con acqua inquinata dagli scarichi o non potabilizzata. Ma la Cisgiordania dovrebbe, per lo meno teoricamente, godere di un maggior accesso all’acqua rispetto a Gaza. Eppure non è così. La più grande risorsa idrica della Cisgiordania è l'”Acquifero montano”, che include una serie di bacini: settentrionale, occidentale e orientale. La disponibilità di questi bacini da parte degli abitanti della Cisgiordania è limitata da Israele, che nega loro anche l’accesso alle acque provenienti dal fiume Giordano e all'”Acquifero costiero”. “Oslo II”, che era stato pensato come un accordo temporaneo fino al termine dei negoziati per lo status definitivo, ha sancito l’attuale disparità, concedendo ai palestinesi meno di un quinto della quantità di acqua di cui gode Israele.

Ma neppure questo accordo sfavorevole è stato rispettato, in parte perché il comitato congiunto [tra l’ente di controllo israeliano e quello palestinese. Ndtr.] sulla questione dell’acqua concede ad Israele il diritto di veto sulle richieste palestinesi. Praticamente, ciò si traduce nel fatto che il 100% di tutti progetti idrici israeliani ricevono l’approvazione, compresi quelli nelle colonie illegali, mentre circa metà delle richieste palestinesi viene rifiutata.

Attualmente, secondo Oxfam [confederazione di ong internazionali. Ndtr.] Israele controlla l’80% delle risorse idriche palestinesi, mentre “i 520.000 coloni israeliani utilizzano circa sei volte la quantità di acqua rispetto a quella che utilizzano i 2.6 milioni di palestinesi della Cisgiordania.”

Secondo Stephanie Westbrook, che ha scritto sulla rivista israeliana “972”, i motivi che stanno dietro tutto ciò sono evidenti,: “L’impresa che fornisce l’acqua è ‘Mekorot’, l’azienda idrica nazionale israeliana. Non solo ‘Mekorot’ gestisce più di 40 pozzi in Cisgiordania, appropriandosi delle risorse idriche palestinesi, ma in pratica Israele controlla anche le valvole di derivazione, decidendo chi ha l’acqua e chi no.”

“Non c’è da sorprendersi che la priorità venga data alle colonie israeliane mentre il servizio alle città palestinesi è regolarmente ridotto o interrotto,” come in questo momento.

L’ingiustizia di tutto ciò è inoppugnabile. Infatti per circa cinque decenni Israele ha messo in atto le stesse politiche contro i palestinesi senza molte proteste o misure significative da parte della comunità internazionale.

Con le temperature di quest’estate in Cisgiordania, arrivate a 38°, secondo quanto riportato famiglie intere vivono con appena 2-3 litri a testa al giorno. Il problema sta raggiungendo proporzioni catastrofiche. Questa volta la tragedia non può essere ignorata, in quanto le vite ed il benessere di intere comunità sono a repentaglio.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale dell’agenzia Ma’an News.

Ramzy Baroud è un editorialista di fama internazionale, autore e fondatore di PalestineChronicle.com. Il suo ultimo libro è “Mio padre era un combattente per la libertà: la storia mai raccontata di Gaza.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




L’acqua è l’unica questione che mette (ancora) in difficoltà Israele con il pretesto della sicurezza e di dio.

di Amira Hass | 22 giugno 2016 | Haaretz

I portavoce israeliani hanno pronte tre risposte da utilizzare quando rispondono alle domande sulla carenza d’acqua nelle città palestinesi della Cisgiordania, che emerge chiaramente rispetto al pieno soddisfacimento idrico delle colonie:

1) Le condutture palestinesi sono vecchie e di conseguenza vi sono perdite d’acqua; 2) i palestinesi si rubano l’acqua tra loro e la rubano agli israeliani; 3) in generale, Israele nella sua grande generosità, ha raddoppiato la quantità d’acqua che distribuisce ai palestinesi in confronto a quella stabilita dagli accordi di Oslo.

Distribuzione”, i portavoce scriveranno nelle loro risposte. Non diranno mai che Israele vende ai palestinesi 64 milioni di m³ d’acqua all’anno invece dei 31 milioni di m³ stabiliti dagli accordi di Oslo. Accordi che sono stati firmati nel 1994 e che era previsto scadessero nel 1999. Non diranno che Israele vende ai palestinesi l’acqua dopo avergliela rubata.

Complimenti per la demagogia. Complimenti per rispondere solo con un ottavo della verità. L’acqua è l’unica questione per cui Israele è (ancora) in difficoltà nel difendere la sua politica discriminatoria, oppressiva e devastante con il pretesto della sicurezza e di dio. Per questo deve confondere e stravolgere questo fatto fondamentale: Israele controlla le risorse idriche. Ed avendone il controllo, impone il contingentamento della quantità di acqua che i palestinesi hanno il permesso di produrre e consumare. In media i palestinesi consumano 73 litri pro capite al giorno. Al di sotto della quantità minima necessaria. Gli israeliani consumano in media 180 litri al giorno, e c’è chi afferma che sono anche di più. E qui, a differenza di là, non troverete migliaia di persone che consumano 20 litri al giorno. D’estate.

Vero, alcuni palestinesi rubano l’acqua. Contadini disperati, i soliti imbroglioni. Se non ci fosse la mancanza d’acqua ciò non accadrebbe. Una gran parte dei ladri sta nell’area C, sotto il pieno controllo di Israele. Per cui, per favore, lasciate all’IDF e alla polizia il compito di trovare tutti i criminali. Ma giustificare la crisi con il furto, questo è un inganno.

Con gli accordi di Oslo, Israele ha imposto una suddivisione vergognosa, razzista , arrogante e brutale delle risorse idriche in Cisgiordania: l’80% agli israeliani (su entrambi i lati della Linea Verde) e il 20 % ai palestinesi ( da pozzi perforati prima del 1967, che i palestinesi continuano a sfruttare; dalla Mekorot, l’azienda idrica, da pozzi da trivellare in futuro dal bacino acquifero montano; da pozzi e da sorgenti per uso agricolo. Tra l’altro, molte sorgenti, si sono prosciugate a causa dei pozzi israeliani troppo profondi o perché i coloni se ne sono impadroniti. Le vie del furto non conoscono confini.

(Traduzione di Carlo Tagliacozzo)




Israele riconosce di aver tagliato le forniture idriche alla Cisgiordania ma incolpa l’Autorità Nazionale Palestinese

Israele sostiene che l’intensa ondata di calore nella regione, insieme al rifiuto dell’Autorità Palestinese per le Acque di approvare un incremento delle infrastrutture ha portato “all’incapacità delle condutture vecchie e insufficienti di far arrivare tutta l’acqua necessaria.”

di Amira Hass – 21 giugno 2016- Haaretz

Dall’inizio di questo mese decine di migliaia di palestinesi hanno patito i pesanti effetti di un drastico taglio nelle forniture idriche della Mekorot, la compagnia israeliana dell’acqua.

Nella regione di Salfit, in Cisgiordania, e in tre villaggi a est di Nablus le abitazioni sono rimaste senza acqua corrente per più di due settimane. Alcune fabbriche hanno chiuso, orti e vivai sono andati in rovina e animali sono morti di sete o sono stati venduti ad allevatori al di fuori delle zone colpite.

La gente ha cercato di arrangiarsi attingendo acqua da pozzi agricoli, comprando acqua minerale o pagando acqua distribuita da grandi cisterne per uso domestico e per innaffiare le loro coltivazioni. Ma procurarsi acqua in questo modo è estremamente dispendioso.

Fonti ufficiali dell’Autorità Palestinese per le Acque hanno affermato ad Haaretz che personale di Mekorot ha detto loro che i tagli nelle forniture dureranno per tutta l’estate. Queste fonti sostengono che gli è stato detto dagli israeliani che c’è una carenza d’acqua e che si deve fare il possibile per garantire che i serbatoi locali di acqua (situati nelle colonie) rimangano pieni in modo da mantenere la pressione necessaria per far scorrere l’acqua attraverso le condutture che portano alle altre colonie ed alle comunità palestinesi.

Impiegati municipali palestinesi affermano che i lavoratori palestinesi dell’Amministrazione civile [in realtà militare, autorità israeliana che governa sui territori occupati. Ndtr.], inviati a regolare le quantità di acqua nelle condutture di Mekorot [compagnia israeliana dei servizi idrici, che fornisce anche i palestinesi. Ndtr.] hanno detto loro che le interruzioni nelle forniture sono state fatte per soddisfare la richiesta di acqua da parte degli insediamenti della zona, in aumento per le alte temperature. Tagli nelle forniture simili ci sono stati lo scorso anno nelle stesse aree, quando avvennero gravi interruzioni del servizio idrico, anche in quel caso durante il Ramadan.

Mekorot non ha voluto rispondere alle domande, indirizzando Haaretz all’Autorità Israeliana delle Acque e al ministero degli Esteri. Uri Schor, portavoce dell’Autorità per le Acque, ha scritto che la quantità di acqua che Israele vende ai palestinesi in tutta la Cisgiordania, compresa la zona di Salfit, è aumentata durante gli anni.

“Si è determinata una carenza idrica sia per israeliani che per palestinesi localizzata nel nord della Samaria a causa del consumo particolarmente elevato dovuto al caldo intenso nella regione,” ha scritto Schor. Ha aggiunto che la carenza è dovuta al fatto che l’Autorità Palestinese delle Acque si rifiuta di approvare un aumento delle infrastrutture idriche in Cisgiordania attraverso il comitato dell’acqua congiunto, “che ha portato all’incapacità delle condutture vecchie e insufficienti di far arrivare tutta l’acqua necessaria nella regione.”

Una fonte della sicurezza israeliana ha detto che anche gli insediamenti [isrealiani] si stanno lamentando della carenza d’acqua.

I palestinesi smentiscono questo ostruzionismo e dicono che l’acqua arriva alle colonie.

Un importante funzionario dell’Autorità Palestinese per le Acque ha negato che il rifiuto palestinese abbia contribuito alla mancanza d’acqua.

“L’Autorità Israeliana sta mentendo all’opinione pubblica,” ha affermato. “Le tubature non necessitano di potenziamento. USAID [agenzia statale USA che si occupa degli aiuti all’estero. Ndtr.], per esempio, ha appena terminato un nuovo condotto a Deir Sha’ar per rifornire la popolazione di Hebron e di Betlemme. Israele dovrebbe aumentare il flusso dalla stazione di pompaggio di Deir Sha’ar e più di mezzo milione di palestinesi riceverebbero la quantità di acqua che gli spetta.

“Peraltro Israele ha proposto un progetto per aumentare la portata di una conduttura che serve le colonie israeliane nella zona di Tekoa, e l’Autorità Israeliana delle Acque sta ricattando l’Autorità Palestinese perché approvi questo progetto in cambio dell’aumento delle forniture dalla stazione di pompaggio di Deir Sha’ar.”

Schor ha fatto l’esempio dei mesi di gennaio-maggio degli ultimi quattro anni, che mostra che quest’anno c’è stato effettivamente un aumento da 2.7 milioni di m³ nel 2013 a 3.48 milioni di m³ della quantità di acqua fornita ai distretti di Salfit e Nablus,.

Ma i dati dell’Autorità Palestinese delle Acque mostrano che nel maggio di quest’anno c’è stato un taglio nelle forniture di acqua alla città di Bidya, con 12.000 residenti, da 50.470 m³ in marzo a 43.440 m³ in maggio. Nel maggio dello scorso anno, Bidya ha ricevuto 45.000 m³.

Nella cittadina di Qarawat Bani Hassan in maggio il consumo è stato superiore a quello di marzo (17.000 m³ rispetto a 15.000 m³), ma nel maggio dell’anno scorso il consumo aveva raggiunto 20.000 m³ e, secondo un funzionario palestinese, non c’è modo di spiegare la riduzione del consumo se non con una caduta delle forniture.

Nel contempo la riduzione delle forniture in giugno è stata molto più netta, fino al 50% all’ora.

Gli accordi di Oslo, che dovevano rimanere in vigore fino al 1999, hanno mantenuto il controllo israeliano sulle fonti idriche della Cisgiordania e sono discriminatorie nella distribuzione dell’acqua. In base agli accordi, Israele riceve l’80% dell’acqua dall’acquifero delle montagne della Cisgiordania, mentre il resto va ai palestinesi. L’accordo non pone limiti alla quantità di acqua che Israele può prelevare, ma impone ai palestinesi un massimo di 118 milioni di m³ dai pozzi esistenti prima degli accordi, e di altri 70 milioni di m³ da nuove perforazioni.

Per varie ragioni tecniche e per imprevisti errori di trivellazione nel bacino orientale dell’acquifero (l’unica parte in cui l’accordo consente ai palestinesi di effettuare perforazioni), in pratica i palestinesi producono meno acqua di quanto stabilito dagli accordi. Secondo B’Tselem [ong israeliana per i diritti umani. Ndtr.], fino al 2014 i palestinesi hanno avuto solo il 14% dell’acqua dell’acquifero. E’ anche per questo che Mekorot sta vendendo ai palestinesi il doppio della quantità di acqua previsto nell’accordo di Oslo, 64 milioni di m³, invece di 31.

Il coordinatore delle attività governative nei territori ha detto: “A causa dell’incremento dei consumi di acqua durante l’estate, è necessario controllare e regolare il flusso per rendere disponibile la maggior fornitura possibile di acqua a tutte le popolazioni. Dato questo problema, il capo dell’Amministrazione Civile ha approvato un regolamento d’emergenza per mettere in funzione la trivella “Ariel 1” e incrementare la quantità di acqua per i residenti della Samaria settentrionale, soprattutto nell’area di Salfit; altri 5.000 m³ di acqua all’ora sono stati approvati anche per le colline di Hebron, a sud.”

Il coordinatore ha anche sottolineato che l’Amministrazione Civile deve lottare contro i furti dalle condutture che arrivano alle comunità palestinesi. Ha detto che solo ieri ha scoperto due furti di acqua dalla conduttura che fornisce l’area di Salfit.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Pensa alla Striscia di Gaza la prossima volta che bevi acqua del rubinetto.

Il modo più facile, rapido e logico di prevenire un disastro umanitario ed ecologico sarebbe fornire acqua molto più a buon mercato da Israele nella Striscia.

di Amira Hass- 22 marzo 2016

Haaretz

Oggi, quando apri il tuo rubinetto, pensa alla Striscia di Gaza, dove centinaia di migliaia di bambini e ragazzi non sono abituati ad una cosa magnifica come bere acqua del rubinetto. Gli adulti hanno ormai scordato com’è facile dargli un giro, vedere l’acqua scorrere e sentire il suono che si riduce mano a mano che il bicchiere si riempie.

Ora devono andare giù in strada, aspettare che arrivi un camion con una cisterna di acqua potabilizzata, riempire qualche bottiglione e portarlo in casa, sperando che ci sia l’elettricità e che l’ascensore stia funzionando. Ogni metro cubo di acqua desalinizzata costa da 25 a 30 shekel (da 5,8 a 6,9 €), rispetto a 1 o 3 shekel (0,23 o 0,7 centesimi di €) del servizio idrico.

Oggi, quando ti lavi la faccia, pensa all’acqua che esce dai rubinetti di Gaza. E’ oleosa e ti lascia una patina salmastra. I vestiti lavati sembrano rigidi a causa del fatto che l’acqua è mescolata con quella di mare, con liquami e pesticidi.

A Gaza il 95% circa dell’acqua del rubinetto non è potabile. Questa è la ragione per cui c’è una notevole dipendenza delle 145 infrastrutture pubbliche e private dall’acqua desalinizzata e potabilizzata. Ora il gruppo di “Emergenza per la Purificazione dell’acqua e per l’igiene” (EWASH), un consorzio di organizzazioni locali ed internazionali che affronta i problemi dell’acqua e dell’igienizzazione in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, sta avvertendo che circa il 68% di quest’acqua purificata è esposta a contaminazioni biologiche.

Circa 200 milioni di metri cubi sono estratti ogni anno dalle falde acquifere di Gaza, che sono rinnovate solo con 55-60 milioni di metri cubi, la stessa quantità di 80 anni fa, quando ci vivevano solo 80.000 persone, rispetto alle attuali 1 milione 800 mila. Israele vende solo una quantità minima di acqua a Gaza, tra i 5 e gli 8 milioni di metri cubi all’anno. Le Nazioni Unite hanno avvertito che nel 2020 il danno alle falde acquifere sarà irreversibile.

Il modo più facile, rapido e logico per bloccare questo disastro umanitario ed ecologico sarebbe pompare acqua molto più economica da Israele alla Striscia. La nazione dell’ high-tech e dell’irrigazione a goccia può sicuramente organizzare tutto ciò.

Ma l’Autorità Nazionale Palestinese e i Paesi donatori stanno progettando grandi impianti di desalinizzazione dell’acqua di mare, la cui produzione è stata rimandata a causa delle restrizioni imposte da Israele all’introduzione di materiali e della irregolare fornitura di elettricità. L’ANP spiega il proprio impegno per questa soluzione costosa e anti-ecologica con il suo desiderio di minimizzare la dipendenza nei confronti di Israele. Però non si fa nessun problema a comprare più acqua da Israele per la Cisgiordania, 50 milioni di metri cubi all’anno, il doppio di quanto prevedessero gli accordi di Oslo.

Dunque le ragioni della sua opposizione risiedono altrove. Teme che il governo di Hamas non si preoccuperebbe di pagare le bollette dell’acqua, come è successo con quelle dell’elettricità. Israele dedurrebbe dunque quanto dovuto direttamente dai diritti doganali che riscuote per l’ANP e trasferisce a Ramallah [sede dell’ANP. Ndtr]. Ancora una volta il popolo palestinese è intrappolato nella faida tra Fatah e Hamas.

Ma il problema è iniziato molto prima che a Gaza si instaurasse il regime di Hamas. Gli accordi di Oslo hanno definito Gaza come autosufficiente per quanto riguarda la produzione ed il consumo di acqua. Si tratta di una delle più chiare prove possibili che fin da allora Israele aveva intenzione di separare Gaza dalla Cisgiordania, a differenza di quanto c’era scritto [negli accordi]. Lo stesso accordo ha imposto una distribuzione vergognosamente discriminatoria dell’acqua dalle sorgenti montane della Cisgiordania, con l’80% destinato agli israeliani (all’interno di Israele e nelle colonie) e il 20% per i palestinesi. L’attuale proporzione da allora è solo peggiorata, perché i pozzi palestinesi sono vecchi e le nuove perforazioni permesse da Israele si sono dimostrate meno fruttuose del previsto.

Il grandioso progetto di desalinizzazione dell’acqua marina a Gaza nasconde il peccato originale ecologico e politico: trattare Gaza come un’isola separata dal resto del Paese.

Molti residenti di Gaza e consumatori di acqua che non hanno sono originari di città e villaggi che sono oggi in territorio israeliano. A livello simbolico, ottenere il diritto all’acqua prodotta dagli israeliani è quasi come un riconoscimento del diritto al ritorno. A livello politico, può e ci deve essere un notevole incremento nella quantità di acqua fornita da Israele in compensazione dell’acqua che Israele ha rubato e continua a rubare ai palestinesi. Sarebbe un riconoscimento del nostro dovere di condividere equamente le sorgenti d’acqua tra arabi ed ebrei, un principio che non siamo pronti ad accettare.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Israele sta ripristinando la politica di confisca di ampi territori

15 marzo, 2016

Maannews

Betlemme(Ma’an). Martedì un rapporto di Peace Now [associazione israeliana che monitorizza lo sviluppo delle colonie ndt] ha affermato che Israele ha ripristinato la politica di confisca di vasti appezzamenti di terra palestinese per [consentire] l’espansione delle colonie con una frequenza mai vista dagli anni ’80, prima degli accordi di Oslo.

L’osservatorio delle colonie israeliane ha individuato principalmente una vasta area di territorio palestinese a sud di Gerico che è stata dichiarata la scorsa settimana dall’amministrazione civile di Israele “terra statale” in uno dei più grossi furti di terra degli ultimi anni da parte degli israeliani.

L’associazione ha verificato che il 10 marzo sono stati incamerati come proprietà del governo israeliano 2.342 dunam [234.2 ha, ndt] di terra dell’area meridionale della Cisgiordania occupata.

Secondo l’osservatorio l’ampiezza [del furto] ha di gran lunga superato i 1.500 dunam [150 ha, ndt] inizialmente approvati a gennaio per essere espropriati da parte del ministero della difesa.

Ciò apre la strada alla costruzione di 350 unità abitative nella colonia illegale di Almog e, sebbene appartenga al territorio palestinese occupato, destinerà ampie porzioni di territorio al commercio di Israele e al settore del turismo.

Definendo la recente dichiarazione di terra dello Stato come “una confisca di fatto”della terra palestinese, l’associazione ha notato che un certo numero di siti turistici israeliani, negozi di souvenir e una stazione di servizio operano da lungo tempo nel territorio.

L’associazione afferma che “invece di provare a calmare la situazione, il governo getta benzina sul fuoco mandando un chiaro messaggio ai palestinesi, ed anche agli israeliani, che non ha la minima intenzione di lavorare per la pace e per i due Stati.”

Il primo ministro Netanyahu ancora una volta mostra che la pressione dei coloni è più importante per lui che il deteriorarsi della situazione della sicurezza”.

L’associazione afferma che Israele non aveva confiscato un così ampio appezzamento di terra per espandere le colonie fin dal periodo precedente agli accordi di Oslo, negli anni ’80, indicando con le recenti mosse un chiaro cambiamento di politica.

La crescita delle colonie in quel lontano periodo ha giocato un ruolo importante nel provocare le tensioni che hanno poi portato agli accordi di Oslo del 1993.

Peace Now afferma che la recente presa di possesso segue quella di circa 5.000 dunam [50 ha, ndt] di terra palestinese nel distretto di Betlemme, dichiarata terra dello Stato nell’aprile e nell’agosto del 2014.

L’area a sud di Gerico, ora dichiarata territorio dello Stato, si trova sul lato opposto della fine del corridoio E1, una striscia di territorio che da Gerusalemme attraversa la parte centrale della Cisgiordania occupata.

I palestinesi sono stati lentamente espulsi da E1con l’espansione delle colonie nel cuore della Cisgiordania, e i palestinesi pensano che una totale acquisizione del corridoio spaccherebbe in due la Cisgiordania occupata, rendendo impossibile [la realizzazione ] di uno Stato palestinese con continuità territoriale.

Martedì il segretario generale dell’OLP Saeb Erekat ha condannato la confisca della terra [vicino a] Gerico come una continuazione “del progetto coloniale israeliano mantenendo la sua aggressiva occupazione e annettendosi altre terre palestinesi all’interno della Cisgiordania occupata”.

Egli ha detto che “ la consapevolezza dell’impunità garantita dalla comunità internazionale” è stata il maggiore ostacolo alla fine dell’occupazione israeliana e alla realizzazione “dei diritti fondamentali del popolo palestinese sistematicamente negati”.

Con una rara critica alle politiche israeliane, l’ambasciatore USA in Israele Dan Shapiro a gennaio ha condannato l’acquisizione israeliana di vaste porzioni di terre palestinesi come terra dello Stato.

Egli ha detto che la formazione dei due Stati “ sarebbe diventata sempre più difficile se Israele pianificasse la continua espansione dell’area delle colonie”.

(Traduzione di Carlo Tagliacozzo)




Perché è pericoloso confondere Hamas e ISIS

Al-Shabaka è un’organizzazione indipendente e no-profit il cui obiettivo è di informare e approfondire il dibattito pubblico sui diritti umani e sull’autodeterminazione dei palestinesi nel quadro delle leggi internazionali.

Questo editoriale politico è stato redatto da Belal Shobaki, membro della redazione politica di Al-Shabaka

Di Belal Shobaki

Al-Shabaka e Ma’an News

Mentre i suoi sforzi di mettere in relazione la resistenza palestinese contro l’occupazione militare con il terrorismo globale non sono una novità, Israele ha esteso la sua propaganda verso l’opinione pubblica araba e occidentale.

Così facendo, sta chiaramente tentando di sfruttare l’avversione internazionale nei confronti di movimenti che si sono spostati verso l’estremismo e il terrorismo sostenendo di rappresentare l’Islam. “Hamas è l’ISIS e l’ISIS è Hamas,” ha dichiarato il primo ministro Benjamin Netanyahu alle Nazioni Unite nel 2014.

Eppure Netanyahu e l’establishment politico israeliano, così come anche tutti quei regimi arabi che estendono lo stesso biasimo su ogni movimento islamista per i propri fini, sanno meglio di chiunque altro che Hamas e Daesh non sono legati tra loro.

Non solo Hamas e Daesh [acronimo dall’arabo Al Dawla Al Islamiya fi al Iraq wa al Sham, Stato Islamico dell’Iraq e della Siria, denominazione del gruppo fondamentalista prima della proclamazione dello Stato Islamico. Attualmente viene utilizzato da chi nega la legittimità di questa auto-proclamazione. Ndtr.] non sono collegati, essi sono acerrimi nemici, e Daesh ha denunciato Hamas come movimento di apostati. L’analista politico di Al-Shabaka Belal Shobaki analizza le principali caratteristiche per cui Hamas differisce da Daesh, compreso il suo approccio alla giurisprudenza, la posizione riguardo alla natura dello Stato e le relazioni con le altre religioni. Egli sostiene che è particolarmente importante per il movimento nazionale palestinese respingere questi tentativi di confondere Hamas con Daesh e sottolinea i rischi insiti nel non farlo.

Destinato ad un vantaggio politico a breve termine

La confusione tra Hamas e Daesh ignora la realtà dei fatti. Il contesto politico in Palestina è definito dall’occupazione, mentre quello dei Paesi arabi nei quali Daesh è nato sono determinati dall’autoritarismo e dalla repressione e anche da conflitti settari e religiosi, un contesto ideale per l’emergere di un’ideologia radicale motivata da una violenza indiscriminata.

Per Israele, però, il tentativo di legare i due gruppi potrebbe avere successo sia in ambito regionale che internazionale. Molti mezzi di comunicazione arabi non hanno scrupoli nel riferirsi a questa organizzazione terroristica come “Stato Islamico”, benché non lo sia affatto, mentre molti media occidentali accolgono senza esitazione la commistione fatta da Israele tra Hamas e Daesh. I regimi arabi non sono interessati a difendere l’immagine di Hamas. Persino l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) non si occupa di difendere l’immagine internazionale di Hamas a causa dell’avversione politica tra Fatah e Hamas.

Hamas è considerata parte della “Fratellanza musulmana”, che è vista come una minaccia per alcuni Stati arabi autoritari, soprattutto nel Mashreq arabo [termine che, a seconda delle denominazioni, può indicare i Paesi che si trovano dal sud est della Turchia all’Iraq e al nord dell’Arabia saudita, oppure anche l’Egitto, il Sudan e tutta la penisola arabica. Ndtr.]. Perciò per i regimi arabi un modo per lottare contro la “Fratellanza musulmana” è dichiarare che condivide una base comune o persino che sia sinonimo di Daesh, come sostiene il regime egiziano, e quindi utilizzare questa vicinanza come giustificazione per escluderla dalla partecipazione alla vita politica.

I rapidi sviluppi negli ultimi cinque anni in Egitto, il Paese che rappresenta l’unico sbocco per la Striscia di Gaza palestinese, ha spinto Hamas verso l’economia informale dei tunnel. L’atteggiamento ufficiale egiziano dopo il colpo di Stato di Abdel Fattah Sisi contro il governo eletto del presidente Mohammad Morsi è diventato più duro contro la Striscia di Gaza, con l’accusa ad Hamas di collaborare con i gruppi jihadisti nel Sinai, lo stesso discorso sostenuto da Israele e dai suoi media. Tuttavia questa affermazione è scorretta. Da un lato per Hamas è troppo rischioso mantenere uno stretto rapporto con i jihadisti del Sinai, dall’altro a Gaza reprime chi ne accoglie l’ideologia.

Qualunque rapporto Hamas abbia stabilito con questi gruppi è limitato a garantire le necessità dell’enclave assediata da Israele e dall’Egitto. Questa interazione non è motivata da una comune identità ideologica o da un’inimicizia condivisa contro il regime egiziano. Piuttosto, Hamas ha cercato ansiosamente di mantenere aperte linee di comunicazione con il regime egiziano persino quando dai media venivano mosse accuse di legami tra Hamas e i gruppi salafiti jihadisti del Sinai. Hamas ha anche ripetutamente detto di essere desiderosa di ricostruire i rapporti con l’Egitto per garantire il flusso legale di beni, servizi e persone a Gaza.

E’ importante rifiutare questo discorso relativo a uno dei maggiori movimenti politici palestinesi: escludere gli islamisti moderati dalla vita politica presenta il rischio di spingere la società palestinese verso il radicalismo, nel qual caso sia Fatah che Hamas si troverebbero a lottare contro gruppi di takfiri [sunniti che accusano altri sunniti di apostasia. Ndtr.]. La seguente argomentazione dimostrerà le effettive differenze tra Hamas e Daesh, così come l’estremamente concreta ostilità tra loro.

Differenze dottrinarie

Hamas si colloca come un movimento islamico moderato e una derivazione della “Fratellanza musulmana”, con una autorità giurisprudenziale basata sull’interpretazione, mentre Daesh adotta un approccio letterale che affronta i testi islamici isolandoli dal loro contesto storico e rifiuta di ‘interpretarli in base agli sviluppi attuali. Pertanto per Daesh, e per altri gruppi takfiri in generale, movimenti come Hamas sono secolari e non-islamici, in quanto Hamas è principalmente un movimento di resistenza contro l’occupazione israeliana e crede in uno Stato islamico moderato.

Inoltre, Hamas non prende in considerazione i testi in modo letterale, lascia spazio all’ ijtihad – interpretazione ed uso della discrezionalità. Alcuni studiosi hanno rappresentato questi movimenti lungo una linea orizzontale, con la destra che rappresenta i sostenitori della fedeltà al testo e la sinistra che rappresenta i sostenitori dell’interpretazione. Utilizzando questa classificazione, la “Fratellanza musulmana” si può trovare lungo la linea piuttosto verso sinistra, mentre Daesh è all’estrema destra.

Daesh definisce Hamas e il suo discorso come devianti. Da parte sua Hamas ha condannato le minacce di Daesh e le ha considerate come parte di una campagna diffamatoria che si estende oltre la Palestina. Quando queste minacce si sono materializzate, Hamas non ha mancato di condannarle. Mahmoud al-Zahar, un importante leader di Hamas, ha dichiarato: “La minaccia di Daesh si fa sentire sul campo, e stiamo gestendo la situazione dal punto di vista della sicurezza. Chiunque commetta un’offesa alla sicurezza verrà trattato in base alla legge, e con chiunque voglia discutere ideologicamente ci si confronterà ideologicamente; prendiamo questo argomento molto seriamente.”

Infatti Hamas si è confrontato decisamente con un gruppo simile a Daesh. Nell’agosto 2009, Abdul Latif Musa, leader del gruppo armato “Jund Ansar Allah (Sostenitori dei Soldati di Dio)”, ha annunciato nella moschea di Ibn Taymiyyah la creazione dell’Emirato Islamico a Gaza. In precedenza il gruppo era stato accusato della distruzione di bar e di altri luoghi nella Striscia di Gaza, spingendo il governo di Hamas allo scontro. Le forze di sicurezza, appoggiate dalle Brigate Al-Qassam (l’ala militare di Hamas), hanno circondato la moschea di Ibn Taymiyyah e, quando il gruppo di Musa si è rifiutato di arrendersi, Hamas ha posto fine sul nascere al progetto di emirato uccidendo i membri del gruppo.

Hamas è stato criticato per aver usato la violenza, ma ha giustificato le sue azioni sostenendo che la violenza che avrebbe potuto essere perpetrata da simili gruppi sarebbe stata molto peggiore di quella messa in atto per sradicare l’estremismo nella Striscia di Gaza.

I sostenitori di Daesh a Gaza sono molto meno di quelli di Hamas, soprattutto grazie al fatto che questi gruppi non hanno storicamente contribuito alla resistenza contro l’occupazione. Alcuni sondaggi suggeriscono che il 24% dei palestinesi pensa in modo positivo ai movimenti jihadisti, ma questa percentuale è esagerata. Quando qualche palestinese plaude all’ostilità dei gruppi jihadisti nei confronti degli USA, non è perché creda a questi gruppi ma piuttosto perché vede gli USA, con il loro illimitato appoggio ad Israele, giocare un ruolo distruttivo.

Diverse opinioni sullo Stato

Hamas e Daesh differiscono nella loro visione dello Stato moderno, sia in teoria che in pratica. Come già notato, Hamas ha sempre puntato sull’ ijtihad o discrezionalità, sviluppando il proprio pensiero e le proprie opinioni. E’ quindi scorretto giudicare la posizione di Hamas sullo Stato laico e sulla democrazia in base ai primi scritti del movimento da cui è derivato, la “Fratellanza musulmana”. Hamas sostiene di aver accolto a questo proposito nuove concezioni ed è arrivata ad accettare pienamente la democrazia e il concetto di Stato laico.

D’altronde la stessa “Fratellanza musulmana” è cambiata. Lo sceicco Yusuf al-Qaradawi, l’autorità giurisprudenziale della “Fratellanza musulmana” nel suo complesso, che vive in Qatar, ha stabilito in varie occasioni, anche nel suo libro “Lo Stato nell’Islam”, che nell’Islam non esiste il concetto di Stato confessionale.

Secondo al-Qaradawi, l’Islam sostiene uno Stato laico fondato sul rispetto dell’opinione del popolo fondata sull’Islam, ed anche sui principi della responsabilità e del pluralismo politico. Benché la discussione sul rapporto tra Islam e democrazia sia precedente alla “Fratellanza musulmana”, ha acquisito maggiore chiarezza dopo gli anni ’50, quando numerosi pensatori islamici, compresi al-Qaradawi, il leader tunisino co-fondatore di Ennahda Rached Ghannouchi e il filosofo algerino Malek Bennabi, hanno affermato che l’Islam e la democrazia non si escludono a vicenda.

All’estremo opposto, il movimento rappresentato da Daesh rifiuta la democrazia nella sua totalità e la considera un sistema di governo apostata. Benché alcuni gruppi jihadisti non denuncino gli islamici che partecipano al processo democratico come apostati, considerano errata questa scelta. Daesh vede in ogni espressione di democrazia, come le elezioni, una manifestazione di apostasia ed ogni movimento o individuo che vi partecipi come apostati.

Al contrario, la “Fratellanza musulmana” ha partecipato alle elezioni fin dalla sua nascita, quando il suo fondatore Hassan al-Banna decise di competere nelle elezioni parlamentari egiziane che il partito El-Wafd [partito laico e liberale egiziano. ndtr.] al potere cercò di tenere nel 1942. Benché Al-Banna non poté partecipare perché il governo rifiutò la sua candidatura, la “Fratellanza musulmana” è stata presente nei parlamenti arabi e a volte nel potere esecutivo.

Quando Hamas decise di non partecipare alle elezioni del 1996 per l’Autorità Nazionale Palestinese, la sua posizione si centrava su una presa di posizione politica ed ideologica nei confronti degli accordi di Oslo. Tuttavia Hamas permise ai suoi membri di partecipare alle elezioni come indipendenti. Quando le circostanze mutarono e gli accordi del Cairo del 2005 divennero il quadro di riferimento per le elezioni dell’ANP al posto degli accordi di Oslo, Hamas decise di partecipare. Candidò molti membri del movimento e alcuni indipendenti in una lista “Cambiamento e Riforma”, che prese parte alle elezioni per il parlamento, ottenendo la maggioranza dei voti.

Partecipando alle elezioni, Hamas ha dimostrato che intende operare in uno Stato moderno e in un sistema democratico. Ha invocato governi di coalizione che includessero partiti di sinistra e laici. Il suo governo, così come la lista di candidati al parlamento, includeva donne e il suo primo governo comprendeva ministri musulmani e cristiani.

Invece nelle zone sotto il suo controllo Daesh si è scagliato contro ogni istituzione moderna, rifiutandosi di riconoscere i confini o le identità nazionali. Governa in base a decisioni caotiche e soggettive. Benché Daesh sia stato ansioso di utilizzare termini amministrativi derivanti dalla tradizione islamica, come califfato e shura (consultazione), l’essenza del suo modo di governare contraddice sotto molti aspetti la maggioranza dei testi irrefutabili come fonti della legislazione islamica.

Per esempio, non si attiene alle condizioni stabilite nel Corano e nella Sunna (l’insegnamento del profeta Maometto) per dichiarare guerra o per la protezione dei civili e il trattamento riservato ai prigionieri durante un conflitto. Un altro esempio è l’imposizione della jizya (una tassa riscossa ai non-musulmani), che non si ritiene applicabile agli abitanti originari di un territorio anche se non sono musulmani. Inoltre ha attaccato luoghi di culto e ha assalito i fedeli nelle loro case, in chiara violazione del Corano e della Sunna.

In un certo senso Daesh assomiglia a regimi ibridi del Terzo Mondo che usano un vocabolario moderno e democratico per descrivere i propri processi politici, benché rimangano essenzialmente autoritari.

Punti di vista opposti nel modo di trattare l’Altro

La differenza più significativa tra Hamas e Daesh riguarda la loro posizione nei confronti dei fedeli di altre religioni. Durante la sua formazione, Hamas ha pubblicato uno statuto che utilizza un vocabolario religioso per descrivere il conflitto. In seguito a severe critiche, Hamas di fatto messo da parte questo capitolo e non l’ha più considerato un punto di riferimento autorevole, come alcuni dei suoi leader hanno confermato.

Nella sua intervista al giornale ebreo “Forward” [storico giornale ebraico di New York. Ndtr.], il presidente del Comitato centrale di Hamas Moussa Abu Marzouk ha confermato che lo statuto era marginale per il movimento e non una fonte d’ispirazione delle sue politiche. Ha aggiunto che molti membri stavano discutendo di cambiarlo perché una serie di politiche attuali di Hamas lo contraddicevano. I dirigenti della direzione di Hamas all’estero non sono stati gli unici a disconoscere lo statuto. Il leader di Hamas a Gaza Ghazi Hamad è andato anche oltre in un’intervista al giornale saudita “Okaz”, nella quale ha affermato che lo statuto era oggetto di discussione e valutazione per aprirsi al mondo. Sami Abu Zuhri, un giovane dirigente di Hamas che è stato il portavoce del movimento durante la Seconda Intifada, in un’intervista al “Financial Times” ha sollecitato un allontanamento dell’attenzione dallo statuto del 1988 e un giudizio su Hamas formulato in base alle affermazioni dei suoi dirigenti.

Oggi Hamas adotta il versetto del Corano che recita: “Allah non ti allontana da coloro che non lottano contro di te a causa della religione e non ti cacciano dalla tua casa – dall’essere giusto e dall’agire in modo corretto verso di loro. Quindi Allah ama quelli che si comportano bene.” Questo versetto impone correttezza e giustizia quando si affrontano popoli di altre religioni. A differenza di Daesh, Hamas l’ha messo in pratica. Oltre a nominare nel suo governo ministri cristiani, ha celebrato il Natale con i cristiani palestinesi inviando una delegazione ufficiale in visita durante la festa. Invece Daesh ha minacciato le vite di chi celebra il Natale in tutto il mondo.

Qualcuno potrebbe pensare che si tratta di passi con i quali Hamas cerca di imbellettare il suo governo autoritario.

Tuttavia ci sono poche differenze tra il potere di Hamas e quello di Fatah. Le violazioni dei diritti umani commesse dal governo di Gaza non possono essere un indice della somiglianza tra Hamas e Daesh, ma piuttosto un indicatore di malgoverno. La dirigenza politica di Hamas in qualche occasione ha denunciato queste pratiche, per esempio quelle commesse dal ministero degli Interni sotto la direzione di Fathi Hammad.

Quando alcune persone sono state aggredite da gruppi estremisti a Gaza, Hamas e il governo sono intervenuti per garantire la loro sicurezza e per punire gli aggressori, come nel caso del giornalista britannico Alan Johnston, che Hamas ha liberato dai suoi rapitori radicali, e dell’uccisione dell’attivista della solidarietà italiana Vittorio Arrigoni.

La posizione del movimento riguardo agli sciiti è simile a quella verso i cristiani. In un momento in cui il Medio Oriente sta vivendo una guerra mediatica tra sciiti e sunniti, Hamas si rifiuta di condannare gli sciiti come apostati ed ha mantenuto relazioni politiche con loro. Quando i rapporti con l’Iran hanno cominciato a diventare tesi durante la crisi siriana, il dissenso è stato politico piuttosto che dottrinario. Al contrario Daesh non solo considera apostati gli sciiti, ma anche tutti i gruppi sunniti che sostengono un’altra ideologia, e pensa che debbano essere combattuti.

Persino il trattamento che le due organizzazioni riservano ai nemici è differente. Hamas considera l’occupazione israeliana come il nemico, mentre Daesh ritiene che il nemico siano tutti gli altri. Daesh si è vantato dei suoi numerosi crimini contro l’umanità nel modo in cui ha trattato le vittime di sequestro ed i civili sotto il suo controllo, persino bruciando vivo il pilota giordano Muath al-Kasasbeh. Ha tentato di legittimare la propria condotta disumana distorcendo o mal interpretando i testi religiosi. Hamas ha porto le proprie condoglianze alla famiglia di Muath al-Kasasbeh ed ha condannato le azioni di Daesh. Si metta a confronto la brutalità di Daesh con il trattamento riservato da Hamas al soldato israeliano Gilad Shalit durante la sua prigionia, come ha riportato lo stesso Jerusalem Post [giornale israeliano di destra in lingua inglese vicino al Likud. Ndtr.].

Migliorare le relazioni con Hamas

Sia Hamas che Daesh sono sulla lista delle organizzazioni terroristiche in molti Paesi, compresi gli Stati membri dell’Unione Europea e degli Stati Uniti. Tuttavia la presenza di Hamas in queste liste è chiaramente motivata da ragioni politiche: a differenza di Daesh, Hamas non ha mai preso di mira o chiesto di colpire un’entità diversa dall’occupazione israeliana. Hamas è stata inserita nella lista delle organizzazioni terroristiche in seguito all’11 settembre 2001, benché non avesse niente a che fare con quell’attacco terroristico. La natura politica della posizione contro Hamas è sottolineata dal fatto che la Corte di Giustizia dell’Unione Europea il 17 dicembre 2014 ha emesso una sentenza in cui ha esortato a cancellare Hamas dalla lista delle organizzazioni terroristiche. La Corte ha sostenuto che l’ordine di inserire Hamas nel 2003 era basato su informazioni dei mezzi di informazione piuttosto che su solide prove.

Inoltre molti esponenti politici europei ed americani, noti per il loro impegno contro le organizzazioni terroristiche in tutto il mondo, si sono incontrati con dirigenti di Hamas in più di un’occasione, compresi parlamentari europei e l’ex presidente degli USA Jimmy Carter, che si è incontrato con Ismail Haniyeh a Gaza nel 2009 e con Khalid Meshaal al Cairo nel 2012.

La conclusione è che il tentativo di Israele di sfruttare un Medio Oriente caotico coinvolgendo Hamas come un gruppo terroristico legato a Daesh è senza fondamento. Hamas è ideologicamente, intellettualmente, dal punto di vista giurisprudenziale e politico diverso da Daesh. I mezzi di comunicazione che adottano la narrazione israeliana offendono la propria professionalità e la propria credibilità.

I movimenti palestinesi non devono permettere che i dissidi con Hamas giustifichino accuse che danneggiano la causa palestinese sul piano internazionale e creano tensioni su quello locale. Hamas deve anche capire che le differenze tra l’organizzazione e Daesh non significano che il suo controllo su Gaza sia privo di abusi e violazioni dei diritti umani, e di conseguenza deve rivedere la propria condotta ed essere più attenta nel suo discorso politico. Dovrebbe superare il doppio discorso, uno per un pubblico locale e un altro per quello internazionale, in quanto ogni parola proferita da un qualunque dirigente di Hamas è diffuso all’esterno come un messaggio di Hamas al resto del mondo.

Quando l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), guidata da Fatah, e i regimi arabi, soprattutto in Egitto, non si oppongono agli sforzi di mettere in relazione Hamas con Daesh -o, in effetti, occasionalmente contribuiscono a questi sforzi -, ne possono “beneficiare” a breve termine, indebolendo Hamas come oppositore politico. Tuttavia questo fatto comporta il rischio di destabilizzare la società palestinese a medio-lungo termine. L’esclusione degli islamisti moderati potrebbe spingere la società palestinese verso la radicalizzazione, nel qual caso sia Fatah che Hamas si troverebbero a combattere contro gruppi takfiri.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale dell’agenzia Ma’an News.

(trad. di Amedeo Rossi)