L’amministrazione statunitense uscente definisce il BDS “antisemita”

Tamara Nassar

19 novembre 2020 – ELECTRONIC INTIFADA

Giovedì il segretario di Stato Mike Pompeo ha formalmente etichettato il movimento per il boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (BDS) a favore dei diritti dei palestinesi come “antisemita” e ha promesso che l’amministrazione statunitense uscente lo combatterà.

Questa è l’ultima violazione della libertà di parola da parte del governo degli Stati Uniti nel suo tentativo di reprimere il sostegno ai diritti dei palestinesi.

“Come abbiamo chiarito, l’antisionismo è antisemitismo”, ha detto Pompeo, equiparando la critica nei confronti di Israele e della sua ideologia politica razzista al sionismo da un lato, al fanatismo contro gli ebrei dall’altro.

Gli Stati Uniti sono “impegnati a contrastare la campagna globale del BDS in quanto manifestazione di antisemitismo”, ha affermato Pompeo.

Giovedì, a Gerusalemme, in una conferenza stampa congiunta con il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, egli ha inoltre definito il BDS un “cancro”.

Pompeo ha affermato che l’inviato del Dipartimento di Stato per l’antisemitismo avrebbe “identificato le organizzazioni che si impegnano o in altro modo sostengono” il BDS per consentire al Dipartimento di Stato di interrompere qualsiasi finanziamento governativo.

Giovedì Amnesty International ha dichiarato che gli attacchi mirati di Pompeo contro i gruppi “che, in quanto antisemiti, utilizzano strumenti pacifici, come il boicottaggio, per porre fine alle violazioni dei diritti umani contro i palestinesi, violano la libertà di espressione e sono un regalo per chi cerca di mettere a tacere, perseguitare, intimidire e opprimere coloro che difendono i diritti umani in tutto il mondo”.

Le organizzazioni della società civile palestinese hanno lanciato la campagna BDS nel 2005 per fare pressione su Israele affinché rispettasse i diritti dei palestinesi e si attenesse al diritto internazionale. Si basa sul modello della campagna che ha contribuito a porre fine all’apartheid in Sud Africa.

Il movimento BDS si oppone a tutte le forme di razzismo e fanatismo, compreso l’antisemitismo, e sostiene l’uguaglianza come questione di principio.

Il Comitato nazionale palestinese per il boicottaggio, il gruppo direttivo della campagna globale del BDS, ha denunciato il verificarsi della “fanatica alleanza Trump-Netanyahu” che “continua a consentire e normalizzare la supremazia bianca e l’antisemitismo negli Stati Uniti e nel mondo, diffamando contemporaneamente il BDS.”

Omar Shakir di Human Rights Watch ha affermato che l’amministrazione Trump “sta compromettendo la lotta contro l’antisemitismo equiparando quest’ultimo alle forme di boicottaggio pacifico”.

Vendita delle merci dei coloni

Pompeo ha anche dichiarato che le merci prodotte nelle colonie insediate sulla terra palestinese occupata devono essere etichettate come “Made in Israel” – nascondendo che sono state prodotte in colonie costruite nel territorio occupato in violazione del diritto internazionale.

Ciò verrà applicato a tutti i prodotti dell’Area C – il 60% della Cisgiordania sotto il pieno controllo militare israeliano secondo gli accordi di Oslo degli anni ’90. È l’area in cui si trova la maggior parte delle colonie israeliane.

Questo avviene nel momento in cui quattro senatori repubblicani hanno scritto questa settimana una lettera al presidente Donald Trump chiedendogli di cambiare la politica doganale degli Stati Uniti per consentire alle merci prodotte nelle colonie di essere etichettate come “Made in Israel”.

Pompeo ha aggiunto che le merci prodotte nelle aree della Cisgiordania occupata nominalmente sotto il controllo dell’Autorità Palestinese saranno etichettate come prodotte in “Cisgiordania”.

Pompeo ha anche affermato che gli Stati Uniti “non accetteranno più” l’etichettatura congiunta dei prodotti della Cisgiordania occupata e di Gaza, poiché i due territori “sono separati politicamente e amministrativamente e devono essere trattati di conseguenza”.

Queste misure possono essere interpretate come un ulteriore riconoscimento da parte degli Stati Uniti dell’annessione de facto del territorio palestinese da parte di Israele, mentre negano ai palestinesi qualsiasi riconoscimento che la Cisgiordania e la Striscia di Gaza costituiscano un’unica entità politica.

Il Comitato nazionale del BDS ha definito la fusione intenzionale di antisionismo e antisemitismo da parte del Dipartimento di Stato un tentativo “revisionista e fraudolento” di mettere a tacere non solo i sostenitori del BDS, ma anche le organizzazioni per i diritti umani – come Human Rights Watch – che non sostengono il BDS ma si oppongono al commercio dei prodotti delle colonie.

Il vino delle colonie

Giovedì in un tweet Pompeo ha anche attaccato la politica della UE, scarsamente applicata, volta a richiedere che le merci delle colonie israeliane siano etichettate come tali.

A quanto pare Pompeo avrebbe poco dopo cancellato il tweet per poi ripubblicarlo senza l’immagine, originariamente inclusa, di quello che sembrava il villaggio palestinese di Mukhmas [a nord-est di Gerusalemme, nella Cisgiordania centrale, ndtr.]

Ciò è avvenuto quando Pompeo e l’ambasciatore statunitense David Friedman hanno visitato le Cantine Psagot, un’azienda coloniale che opera su terre palestinesi occupate e rubate.

“Oggi ho pranzato nella pittoresca cantina Psagot”, ha scritto Pompeo.

“Sfortunatamente, Psagot e altre aziende sono state prese di mira dalle dannose iniziative della UE riguardo l’etichettatura, le quali agevolano il boicottaggio delle aziende israeliane”.

Funzionari statunitensi avevano già visitato, nel corso dell’amministrazione Trump, i territori occupati.

La sosta di Pompeo presso le cantine Psagot era tuttavia chiaramente intesa a fornire un sostegno di alto profilo alle colonie illegali di Israele.

Il vino prodotto dalle Cantine Psagot è ottenuto da uve provenienti da diverse colonie della Cisgiordania.

Le cantine sono costruite su un terreno di proprietà dei palestinesi della vicina città di al-Bireh [adiacente a Ramallah, in Cisgiordania, ndtr.], i cui abitanti hanno protestato contro la visita di Pompeo.

Alla stregua di altri colonizzatori europei Israele ha cercato a lungo di vendere all’interno del mercato vinicolo internazionale vini prodotti su terreni palestinesi e siriani rubati, come ha scritto recentemente il professore della Columbia University Joseph Massad [docente di politica araba moderna e storia intellettuale, ndtr.].

Il vino prodotto sulle alture del Golan siriano occupate sarà presto in vendita anche negli Emirati Arabi Uniti.

Durante la sua visita Pompeo ha anche esaltato la costruzione della cosiddetta Città di David, un parco a tema costruito nel quartiere di Silwan, nella Gerusalemme est occupata, da dove Israele sta espellendo con la forza i residenti palestinesi.

Giovedì Pompeo ha inoltre visitato il sito battesimale vicino al fiume Giordano, al confine della Cisgiordania occupata con la Giordania.

Pompeo aveva anche in programma una sosta sulle alture del Golan. Trump ha riconosciuto la sovranità di Israele sull’area nel marzo 2019, in barba al diritto internazionale.

Rafforzamento dell’alleanza anti-Iran

La visita di Pompeo ha coinciso con quella del ministro degli Esteri del Bahrein Abdullatif bin Rashid Al Zayani, arrivato mercoledì a Tel Aviv per la sua prima visita ufficiale da quando, a settembre, il suo paese ha accettato di normalizzare i rapporti con Israele.

Al Zayani si è unito a Pompeo e Netanyahu a Gerusalemme per una conferenza stampa congiunta.

Al Zayani ha annunciato che Israele e Bahrein si scambieranno presto le ambasciate. Dal prossimo mese, ha aggiunto, israeliani e bahreiniti potranno ottenere visti elettronici e presto potranno viaggiare con voli regolari tra i due paesi.

Gli accordi di normalizzazione tra gli stati arabi e Israele fanno parte degli sforzi degli Stati Uniti per costruire un’alleanza anti-Iran tra Israele e gli stati del Golfo sotto la supervisione americana.

Pompeo si è vantato del fatto che i recenti accordi tra Israele e gli Stati arabi abbiano reso l’Iran “sempre più isolato”, con la sua influenza “in declino”.

Ciò avviene mentre l’amministrazione Trump intensifica le sanzioni economiche contro l’Iran nel tentativo di rendere irreversibile, dopo che Joe Biden lo avrà sostituito come presidente, il ritiro di Trump dall’accordo nucleare del 2015.

Trump, ha riferito il New York Times martedì, ha persino preso in considerazione di bombardare il principale impianto nucleare iraniano nel corso delle ultime settimane della sua presidenza.

Secondo quanto riferito, dei consiglieri, tra cui Pompeo e il vicepresidente Mike Pence, lo avrebbero dissuaso da ciò.

L’accordo del 2015 raggiunto dall’amministrazione Obama e da altri stati ha visto l’Iran limitare volontariamente il suo programma di produzione di energia nucleare in cambio della revoca delle sanzioni economiche.

Israele ha incessantemente fatto pressioni per intensificare la guerra economica contro l’Iran, che causa sofferenza ai normali cittadini iraniani e devasta l’economia del paese nel corso di una pandemia.

Mercoledì Pompeo ha strombazzato la campagna dell’amministrazione contro l’Iran “Massima pressione”.

“Oggi l’economia iraniana deve affrontare una crisi valutaria, un aumento del debito pubblico e un aumento dell’inflazione”, ha affermato Pompeo. Ha ammonito sulle “conseguenze dolorose” per gli stati e le società che sfidano le sanzioni statunitensi.

Lettera del Congresso

Prima dell’arrivo di Pompeo in Israele, il membro del Congresso Mark Pocan si è fatto promotore di una lettera con la richiesta al Segretario di Stato di condanna delle recenti demolizioni di case palestinesi da parte di Israele.

Co-firmata da altri 40 membri del Congresso, la lettera si riferisce alla demolizione, il 3 novembre, della comunità di Khirbet Humsa [villaggio nella parte settentrionale della valle del Giordano, ndtr.] nella Cisgiordania occupata.

La distruzione ha lasciato più di 70 palestinesi senza casa, inclusi 41 bambini – la più grande demolizione di questo tipo da molti anni.

Il membro del Congresso Ilhan Omar, una dei cofirmatari, ha definito la demolizione “un crimine grave” e ha affermato che gli Stati Uniti “non dovrebbero finanziare la pulizia etnica”.

La lettera chiede se siano stati utilizzati per la demolizione strumenti forniti dagli americani – il che Omar aveva precedentemente ammonito sarebbe stato illegale.

Chiede inoltre con forza che negli ultimi due mesi del mandato di Pompeo, “le violazioni dei diritti umani e le violazioni del diritto internazionale continuino ad essere respinte con la forza dal governo americano”.

È molto chiaro, tuttavia, che Pompeo è determinato a utilizzare il suo tempo restante per incoraggiare e premiare il maggior numero possibile di violazioni da parte di Israele.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Prevenire il terrorismo

Amira Hass

17 novembre 2020 – Haaretz

Non si tratta solo di Givat Hamatos [colonia israeliana nei pressi di Gerusalemme in cui il governo israeliano ha annunciato di voler costruire 1.200 nuove unità immobiliari, ndtr.]: Israele sta continuamente pianificando e costruendo infrastrutture e attività immobiliari su vasta scala a Gerusalemme est e in tutta la Cisgiordania, tutte intese a sabotare la possibilità di uno Stato palestinese. Ma per nostra gioia questa gara d’appalto per la costruzione di unità residenziali sulle riserve di terra di Beit Safafa e Betlemme sta facendo molto chiasso, perché è stata interpretata come una subdola manovra prima che il presidente eletto Joe Biden entri alla Casa Bianca.

Ieri diplomatici europei hanno visitato il luogo della colonia. Le condanne, o per essere più precisi le riserve riguardo alla gara d’appalto, verranno probabilmente presto rese pubbliche dai ministri degli Esteri dell’UE e da vari Stati europei. Il coordinatore speciale dell’ONU Nickolay Mladenov ha già manifestato la sua preoccupazione. sottolineando per la milionesima volta che la costruzione di colonie viola le leggi internazionali.

Non è stato solo il presidente USA Trump ad incoraggiare il progetto di furto di terra da parte di Israele. In due decenni di negoziati con l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina le espressioni rituali di deplorazione e condanna da parte dell’Unione Europea e dei Paesi che ne fanno parte hanno insegnato a Israele che non ha niente da temere. Se questi Paesi, che appoggiano il percorso degli accordi di Oslo come nessun altro, non fanno passi concreti contro la criminalità seriale di Israele, perché esso dovrebbe preoccuparsene? Può continuare a derubare e calpestare, e se necessario a tirare fuori l’arma dell’“antisemitismo” e dell’“Olocausto” per contrastare qualunque iniziativa per porre fine all’orgia israeliana di spoliazione immobiliare.

Perciò, per favore, “Givat Hamatos” è un’opportunità perché questi Paesi trasformino questo rituale in azioni concrete, che possono e devono adottare. Innanzitutto, devono rendere pubbliche le seguenti precisazioni:

• Costruire insediamenti su un territorio occupato è vietato dal diritto internazionale.

• L’apartheid è un crimine per il quale i responsabili, gli esecutori e quanti vi partecipano consapevolmente devono essere puniti.

• Una dichiarazione di “terra statale” supportata da armi e ordini militari e il trasferimento di questa terra a un gruppo etnico a spese di un altro sono una forma di terrorismo.

• Costruire colonie sul territorio palestinese occupato deriva dalla visione del mondo e dalle prassi di un regime di apartheid che considera superiori gli ebrei, e di conseguenza potrebbe ancora una volta mettere in atto azioni di espulsione di massa di palestinesi.

In base a queste precisazioni, i Paesi che si oppongono al terrorismo di stato e all’apartheid renderanno pubblici i seguenti avvertimenti:

• A qualunque impresa partecipi alla gara di appalto di Givat Hamatos non verrà consentito di partecipare a progetti in cui siano coinvolte imprese europee e ai suoi proprietari e dirigenti non verrà consentito di entrare in Europa.

• Se proprietari e dirigenti sono cittadini europei, essi verranno perseguiti nei loro Paesi per complicità con il crimine di apartheid.

• Il divieto di ingresso e di svolgere attività economica e il perseguimento dei colpevoli riguarda anche i progettisti e gli architetti.

• Tutto ciò riguarda gli altri dirigenti dell’Autorità Israeliana per la Terra e gli acquirenti delle unità abitative.

• Proprietari e dirigenti delle imprese operanti in Europa che concludano affari con questi sub-contrattisti e architetti verranno perseguiti per aver favorito la perpetrazione di un reato.

• Come vengono confiscati i conti bancari di chi viene sospettato di essere coinvolto in attività terroristiche, così lo saranno i conti bancari di tutti i summenzionati.

• La vendita di abitazioni a palestinesi come “foglia di fico” non renderà legale il progetto, a meno che non vi vadano ad abitare anche i palestinesi residenti in Cisgiordania.

Questo sarà l’inizio. In seguito gli stessi ammonimenti si applicheranno ad altri progetti di costruzione meno pubblicizzati e alle colonie già esistenti. Se vi opponete all’apartheid e se vi rendete conto che i suoi progettisti e beneficiari vogliono e sono in grado di espellere altri palestinesi dalla loro patria, non definite ciò “delirante”.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Intifada palestinese: come Israele orchestrò una sanguinosa conquista

Ali Adam

20 settembre 2020 – Al Jazeera

Nel ventesimo anniversario della Seconda Intifada i palestinesi ricordano come Israele cercò di consolidare la sua occupazione.

Gaza City – La Seconda Intifada, comunemente definita dai palestinesi l’Intifada di Al-Aqsa, iniziò dopo che il 28 settembre del 2000 l’allora capo dell’opposizione israeliana Ariel Sharon scatenò la rivolta quando fece irruzione con più di 1.000 poliziotti e soldati pesantemente armati nel complesso della moschea di Al-Aqsa nella Gerusalemme est occupata.

L’iniziativa scatenò sdegno unanime tra i palestinesi che avevano appena celebrato l’anniversario del massacro del 1982 a Sabra e Shatila [due campi profughi a Beirut in cui i falangisti libanesi, con l’appoggio dell’esercito israeliano occupante, commisero una terribile strage, ndtr.] per il quale Sharon [allora ministro della Difesa israeliano, ndtr.] era stato considerato responsabile per non aver bloccato lo spargimento di sangue, a seguito dell’invasione israeliana del Libano.

Ma già prima della controversa iniziativa di Sharon la frustrazione e la rabbia erano aumentati anno dopo anno tra i palestinesi sullo sfondo del rifiuto dei successivi governi israeliani di rispettare gli accordi di Oslo e porre fine all’occupazione.

Diana Buttu, analista residente a Ramallah ed ex- consigliera dei negoziatori palestinesi a Oslo, dice ad Al Jazeera: “Tutti, compresi gli americani, avevano avvertito gli israeliani che i palestinesi stavano raggiungendo un punto critico, e che fosse necessario acquietare la situazione. Invece alimentarono ancor di più il fuoco.

La visita di Sharon fu la scintilla che accese l’Intifada, ma le sue basi erano state poste negli anni precedenti.”

Secondo gli accordi di Oslo entro il 4 maggio 1999 avrebbe dovuto nascere una Palestina indipendente, nota Buttu, aggiungendo che dall’inizio dei negoziati nel 1993 fino all’inizio dell’Intifada “quello che vedemmo fu una rapida espansione delle colonie israeliane.”

“Di fatto vedemmo che solo nel breve periodo dal 1993 all’anno 2000 il numero dei coloni raddoppiò da 200.000 a 400.000. Si vedeva che quello che stava succedendo sul terreno era progettato per garantire che non ci sarebbe stato uno Stato palestinese indipendente,” afferma.

Soluzioni israeliane”

Le tensioni e la frustrazione crebbero anche dopo il fallimento dei colloqui di pace di Camp David che si tennero nel luglio 2000, quando l’allora leader palestinese Yasser Arafat e il primo ministro israeliano Ehud Barak non trovarono un accordo di pace a causa delle divergenze sullo status di Gerusalemme, la contiguità territoriale [del futuro Stato palestinese, ndtr.] e il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi.

Hani al-Masri, direttore generale di Masarat, il Palestinian Center for Policy Research and Strategic Studies [Centro Palestinese per la Ricerca Politica e gli Studi Strategici, Ong palestinese indipendente, ndtr.] aggiunge: “La principale ragione che stava dietro l’Intifada fu che i dirigenti israeliani volevano punire Arafat e i palestinesi per obbligarli ad accettare le soluzioni israeliane, in sostanza lo status quo dell’occupazione. Intendevano obbligare la coscienza palestinese ad accettare quello che voleva Israele.

Attraverso l’Intifada i palestinesi volevano migliorare le condizioni del dopo Oslo, che avevano raggiunto un punto bassissimo nel summit di Camp David, quando ad Arafat venne chiesto di lasciar perdere Gerusalemme e la questione dei rifugiati.”

Wasel Abu Yusuf, un importante politico palestinese e membro del Comitato Esecutivo dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) afferma: “Dopo il summit di Camp David, in cui Israele cercò di privare i palestinesi della loro capitale Gerusalemme est, del diritto al ritorno per i palestinesi, così come della contiguità territoriale, il panorama politico si era chiuso in faccia ai palestinesi.

“Con la visita di Sharon Israele voleva provocare i palestinesi perché reagissero con la violenza. Gli israeliani pensarono che, assestando un duro colpo militare ai palestinesi, essi avrebbero ridotto le richieste politiche nei negoziati all’indomani del summit di Camp David.”

Come Israele esacerbò la violenza nella Seconda Intifada

I primi giorni della rivolta vennero caratterizzati da grandi manifestazioni non violente che includevano la disobbedienza civile e qualche lancio di pietre. Iniziò a Gerusalemme e rapidamente si diffuse alla Cisgiordania occupata e a Gerusalemme est.

Le autorità israeliane reagirono alle manifestazioni con un uso eccessivo della forza che incluse proiettili ricoperti di gomma e pallottole vere. Subito dopo seguirono incursioni militari con il coinvolgimento di elicotteri e carrarmati in zone palestinesi densamente popolate.

Come rivelò Amos Malka, allora direttore dell’intelligence militare israeliana, si stima che durante i primi 5 giorni della Seconda Intifada i soldati israeliani abbiano sparato circa 1.3 milioni colpi di arma da fuoco. Ciò avvenne nonostante il fatto che nelle prime settimane la violenza dei palestinesi fosse minima.

“La violenza israeliana dimostrò che gli israeliani non erano interessati a una rapida fine del conflitto,” dice Abu Yusuf. “Il fatto che Israele abbia sparato più di un milione di proiettili, provocato molte vittime tra i palestinesi e violato i luoghi santi musulmani, tutto ciò dimostra che Israele voleva militarizzare l’Intifada. L’uso eccessivo della forza da parte dell’esercito israeliano intendeva trascinare i palestinesi in uno scontro militare.”

Buttu afferma che i leader israeliani volevano distogliere l’attenzione dalla costruzione delle colonie. “Fu una copertura per tutto quello che avevano voluto fare fino ad allora.”

Nei primi cinque giorni dell’Intifada vennero uccisi 47 palestinesi e altri 1.885 vennero feriti. Amnesty International scoprì che la maggioranza delle vittime palestinesi era composta da spettatori e che l’80% degli uccisi nel primo mese non rappresentava una minaccia letale per le forze israeliane. Durante quello stesso periodo vennero uccisi dai palestinesi cinque israeliani.

Gli analisti hanno a lungo sostenuto che l’uso eccessivo della forza sia stata la ragione per cui la fase della resistenza popolare palestinese nella Seconda Intifada terminò rapidamente e venne rimpiazzata dalla rivolta armata.

“Il livello dell’aggressione israeliana e delle perdite da parte palestinese non consentiva di conservare il carattere non violento dell’Intifada palestinese,” sostiene al-Masri.

Vittime di massa

Parlando della Seconda Intifada, gli israeliani citerebbero gli attentati suicidi palestinesi, ma alcuni osservatori affermano che fu solo dopo più di un mese che i palestinesi subivano mortali attacchi militari che alcuni fecero ricorso alla violenza suicida.

Secondo il Centro Palestinese per i Diritti Umani, nel corso della Seconda Intifada vennero uccisi almeno 4.973 palestinesi. Tra essi ci furono 1.262 minorenni, 274 donne e 32 operatori sanitari.

Secondo Defence for Children International, un’organizzazione indipendente con sede in Svizzera che si dedica alla promozione e alla protezione dei diritti dell’infanzia, più di 10.000 minori rimasero feriti nel corso dei cinque anni dell’Intifada.

Oltre ai morti e ai feriti, l’esercito israeliano demolì più di 5.000 case palestinesi e ne danneggiò in modo irreparabile altre 6.500, secondo il Centro Palestinese per i Diritti Umani.

In generale la Seconda Intifada adottò una resistenza non violenta, ignorata dai principali mezzi di comunicazione, mentre i palestinesi si organizzavano e protestavano in modo non violento contro la campagna militare, le colonie israeliane, le demolizioni di case palestinesi, così come contro la barriera di separazione.

“La stragrande maggioranza della Seconda Intifada fu non violenta. Ciò non venne metodicamente ignorato perché non rientrava nella narrazione tramessa ai media occidentali,” afferma Buttu.

“Ricordo di aver partecipato a molte di quelle manifestazioni a cui gli israeliani risposero con molta violenza. Venni colpita da un proiettile ricoperto di gomma alla gamba destra.”

Durante gli anni dell’Intifada i palestinesi fecero tentativi di porre fine alla violenza, ma gli israeliani rifiutarono questa disponibilità.

Nel febbraio 2003 fonti israeliane rivelarono una proposta presentata dall’Autorità Nazionale Palestinese a Israele. Si impegnava a porre totalmente fine agli attacchi contro Israele in cambio di un graduale ritiro dell’occupazione israeliana alle posizioni precedenti all’Intifada.

Nel 2002, quando Arafat appoggiò l’iniziativa di pace araba lanciata dall’Arabia Saudita, i leader palestinesi rinnovarono i tentativi di porre fine allo scontro militare. Israele, da parte sua, ignorò la proposta e continuò le sue operazioni militari.

Come Israele continui a utilizzare la Seconda Intifada come pretesto

Buttu nota che in seguito Israele ha utilizzato la rivolta per accampare pretese basate sulla necessità di “sicurezza”.

“Iniziarono a fare pesanti richieste per prendersi tutta la valle del Giordano, tutta Gerusalemme, mantenendovi le colonie. In seguito si sono trasformate nella costruzione del muro, nei posti di controllo e nelle basi dell’esercito all’interno della terra palestinese.

“È per questo che il piano di Trump è così com’è oggi. Il piano di Trump si conforma a tutte le richieste che Israele ha posto in seguito alla Seconda Intifada, che Israele ha cercato e voluto.”

Abu Yusuf, politico palestinese, afferma che 20 anni dopo l’inizio della Seconda Intifada Israele rifiuta ancora diritti ai palestinesi in qualunque forma.

“Continua ad espandere le colonie, demolisce case palestinesi e mette in pratica la sua annessione di fatto dei territori palestinesi con l’appoggio dell’amministrazione Trump,” afferma Abu Yussuf.

“Esattamente come 20 anni fa il popolo palestinese, nonostante tutto, è ancora impegnato a resistere contro l’occupazione e per i propri diritti in base alle leggi internazionali, e lo rimarrà finché otterrà la libertà in uno Stato palestinese sovrano e indipendente con Gerusalemme est come capitale e la soluzione del dramma dei rifugiati in base alla risoluzione 194 dell’ONU.

Anni dopo gli attacchi israeliani contro i palestinesi durante la Seconda Intifada, Israele ancora “commette ogni sorta di crimini”, dice al-Masri. “Il silenzio da parte della comunità internazionale è ciò che ancora incoraggia Israele a commettere crimini e flagranti violazioni dei diritti umani.”

Abu Yusuf afferma che le recenti sfide, come il cosiddetto piano per il Medio Oriente del presidente USA Donald Trump, l’annessione israeliana e la normalizzazione tra Israele ed alcune Nazioni Arabe, mirano tutte “a obbligare i palestinesi ad accettare di vivere in cantoni e bantustan [territori destinati alla popolazione nera nel Sudafrica dell’apartheid, ndtr.].”

“Ma come hanno fatto negli anni dell’Intifada e in quelli prima di Oslo, i palestinesi rifiutano di accettare qualcosa meno della fine dell’occupazione e continueranno a farlo ora e in futuro.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Pace senza giustizia: perché la sinistra in Israele sostiene gli accordi di Netanyahu coi Paesi del Golfo

Orly Noy,

23 settembre 2020 – Middle East Eye

Senza coraggio storico e priva di una solida determinazione morale, la sinistra sionista plaude ai pericolosi accordi conclusi dal governo più di destra che Israele abbia mai avuto

Se ci fosse stato bisogno di un’ulteriore prova dell’intrinseca incapacità della sinistra sionista di Israele di analizzare correttamente le circostanze politiche e rispondere di conseguenza, l’abbiamo avuta quando i leader di questo fronte si sono affrettati a concedere la loro benedizione agli “accordi di pace” tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti e successivamente con il Bahrain.

Tamar Zandberg, leader del partito Meretz [storico partito della sinistra sionista, ndtr.], ha dichiarato di “plaudire alla decisione di rinunciare all’annessione e di passare invece a un accordo con un importante Paese arabo”. Peace Now [movimento israeliano non-governativo pacifista, ndtr.] ha dichiarato che “l’accordo con gli Emirati Arabi Uniti è un grande passo nella giusta direzione”.

Nitzan Horowitz, presidente del partito Meretz, ha affermato che “l’instaurazione di relazioni con gli Emirati Arabi Uniti dimostra che la revoca dell’annessione e [il perseguimento] di una soluzione a due Stati è la via per la normalizzazione regionale”.

Il New Israel Fund [organizzazione statunitense no profit per la giustizia e uguaglianza in Israele, ndtr.] lo ha descritto come un importante sviluppo. Anche Gideon Levy, il giornalista di solito più critico e attento, ha plaudito all’iniziativa: “Qualsiasi tentativo da parte di Israele di essere accettato con mezzi non violenti nel contesto regionale in cui è entrato con passo pesante circa un secolo fa è uno sviluppo positivo”.

Un triste scherzo

Indaffarata a concedere le sue benedizioni, la sinistra ebraica israeliana è stata del tutto cieca alla reazione ovunque profondamente critica dei palestinesi all’accordo. Che avrebbe dovuto essere in sé un campanello di allarme.

Ma a prescindere dalla ferma opposizione palestinese, la natura problematica della posizione della sinistra israeliana sarebbe stata evidente, se qualcuno si fosse preso la briga di chiedersi in cosa consistessero veramente quegli accordi, cosa spingesse il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu a firmarli, a favore di chi fossero stati progettati e quale fosse il loro obiettivo.

Normalizzazione: che scherzo triste.

Basta guardare agli accordi di pace che Israele ha firmato con l’Egitto e la Giordania per capire esattamente quanto Israele sia oggi “normalizzato” agli occhi dei cittadini di quei Paesi. Non solo non si sono mai visti turisti egiziani o giordani per le strade di Israele, gli accordi non sono serviti a mitigare il modo in cui gli egiziani e i giordani vedono Israele – come un brutale occupante.

Non appena i nuovi accordi sono stati resi pubblici, il popolo del Bahrein stava già protestando con rabbia contro qualsiasi normalizzazione con Israele. Mentre gli accordi di Israele con l’Egitto e la Giordania hanno portato almeno a un’era senza guerre con due dei vicini e hanno risolto controversie di confine di vecchia data, l’accordo con gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrein non servono nemmeno a qualcosa di simile. Quale conflitto risolvono esattamente questi accordi?

Quand’è che abbiamo paventato una guerra con gli Emirati Arabi Uniti? Quale nostro confine è ora più sicuro? Israele non ha confini con gli Emirati Arabi Uniti o il Bahrein.

Eludere la questione palestinese

È triste e scoraggiante che la sinistra ebraica in Israele si sia affrettata a sposare un accordo il cui obiettivo principale, oltre all’apertura di un altro mercato per l’industria delle armi israeliana, è di eludere la questione palestinese e ottenere la legittimità regionale pur continuando a perpetrare l’occupazione, le violenze e la spoliazione del popolo palestinese.

L’argomento della sinistra secondo cui un accordo con Emirati Arabi Uniti e Bahrein “ha tolto dal tavolo l’opzione dell’annessione” è infantile in modo imbarazzante. Sin dall’inizio l’annessione è stata una minaccia architettata per fornire a Israele proprio questo spazio di manovra.

Bisognerebbe essere davvero ingenui per pensare che le relazioni con gli Emirati Arabi Uniti o il Bahrein possano eliminare dal programma l’annessione. Dopotutto, Netanyahu e il suo governo di estrema destra esistono da oltre un decennio. Se davvero avessero voluto l’annessione, l’avrebbero realizzata molto tempo fa.

Ma poiché l’annessione de facto si rafforza quotidianamente senza comportare alcun costo reale per Israele né a livello locale né internazionale, Netanyahu non ha alcun interesse a scatenare l’opinione pubblica mondiale attraverso un’annessione de jure.

Al contrario con quella vuota minaccia miete capitale politico, mentre la deplorevole stoltezza della sinistra alimenta la sua corsa.

Contrariamente a quanto sostiene la sinistra, non solo questi accordi non fanno nulla per risolvere il conflitto con i palestinesi, peggio, ribadiscono il vecchio slogan della destra: puoi ottenere la pace per la pace, non è necessario pagare per la pace restituendo la terra.

L’etica della “pace”

Come spiegare allora il sostegno della sinistra ebraica israeliana a un accordo così irrealistico e dannoso?

Ha molto a che fare con l’etica della “pace” abbracciata tanto orgogliosamente dalla sinistra israeliana come fronte israeliano della pace. Penso non sia un caso che la sinistra sionista abbia scelto come emblema la “pace”, piuttosto che l’idea di giustizia.

Questo è in realtà da sempre uno dei maggiori inganni nel ruolo di quella che è conosciuta come la sinistra sionista: convertire la richiesta di giustizia in vaghi sogni di pace. Non che la pace non sia un valore importante; anzi. I Paesi, come le persone, dovrebbero certamente aspirare alla pace. Ma quando la pace diventa una via per aggirare la giustizia, non solo la giustizia viene fatta a pezzi, di fatto non si raggiunge nemmeno la pace.

La ragione per cui la sinistra sionista in Israele preferisce parlare più di pace e meno di giustizia ha a che fare con il carattere del sionismo. Il sionismo può offrire vuoti accordi di pace ma non può offrire alcun tipo di giustizia, perché per sua natura aspira a preservare ed estendere la superiorità ebraica e i privilegi che ne derivano.

Così, questa sinistra immaginaria a Oslo è stata in grado di imporre ai palestinesi un “accordo di pace” progettato per perpetuare l’inferiorità palestinese nei confronti di Israele (e nemmeno il poco che Oslo ha promesso ai palestinesi è stato reso effettivo da Israele) – ma Israele si è attentamente astenuto da qualsiasi accenno alla giustizia storica per non aprire il vaso di Pandora dell’ingiustizia intrinseca che è stata la Nakba.

Oggi, senza coraggio storico e priva di una solida determinazione morale, una sinistra che sta gradualmente scomparendo plaude agli accordi manipolatori e pericolosi conclusi dal primo ministro del governo più a destra che Israele abbia mai avuto.

Le opinioni espresse in questo articolo sono all’autrice e non riflettono necessariamente la politica della redazione di Middle East Eye.

Orly Noy è una giornalista e attivista politica che risiede a Gerusalemme.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Una “rivoluzione stradale”: i coloni fanno pressione su Israele perché espanda le infrastrutture della Cisgiordania

Meron Rapoport

27 agosto 2020 – + 972 Magazine

L’Alta Corte israeliana ha stabilito che la strada 935 “danneggerebbe in misura sproporzionata” le proprietà palestinesi. Ciò non impedisce al governo di riprenderne la costruzione.

Il ministero dei Trasporti israeliano ha recentemente intrapreso il progetto di una nuova strada per i coloni allo scopo di accorciare la distanza tra Ramallah ovest nella Cisgiordania occupata e Gerusalemme.

Secondo i coloni della zona, la strada 935 consentirà la creazione di un blocco con 100.000 coloni ebrei in una “posizione strategica” a nord di Gerusalemme. In realtà la strada rinchiuderà tra blocchi di insediamenti israeliani l’intera area urbana di Ramallah, che ha una popolazione di 200.000 palestinesi.

La strada dovrebbe passare attraverso terreni privati palestinesi a ovest di Ramallah, anche se l’Alta Corte israeliana aveva precedentemente stabilito che la sua costruzione avrebbe arrecato “danni sproporzionati” alle proprietà palestinesi.

La strada 935 dovrebbe collegare il cosiddetto “raccordo a ferro di cavallo”, vicino all’insediamento coloniale di Dolev e al villaggio palestinese di Deir Ibzi’, alla strada 443 nei dintorni del villaggio di Beit Ur a-Fauqa e della colonia di Beit Horon. Il suo percorso è particolarmente critico, poiché dovrebbe intersecarsi con la strada principale che collega Ramallah alle zone occidentali della Cisgiordania. Inoltre, passerebbe anche attraverso aree che, secondo una mappa contenuta nel piano per il Medio Oriente del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, sarebbero situate nei territori che dovrebbero diventare parte del futuro Stato palestinese.

Per cui, se la strada venisse realizzata, lo “Stato” palestinese proposto nel piano, che risulta già piccolo e diviso, si restringerà e si frammenterà ulteriormente.

La strada dovrebbe favorire i coloni nel blocco degli insediamenti di Dolev-Talmonim. Oggi circa 10.000 coloni vivono in questa sorta di enclave, che separa le città palestinesi di Ramallah e Beitunia dalle zone occidentali della Cisgiordania.

All’inizio della Seconda Intifada un posto di controllo venne spostato dall’ingresso di Talmonim ad una strada principale utilizzata anche dagli abitanti palestinesi dell’area, bloccando così l’accesso a decine di migliaia di dunam [unità di misura terriera adottata a partire dall’età ottomana: un dunum = 0,1 ettaro, ndtr.] di terra palestinese privata tra gli insediamenti coloniali rispettivamente di Dolev, Nahliel e Halamish, a circa 10 miglia a nord.

Secondo Dror Etkes di Kerem Navot, una ONG israeliana che monitora l’organizzazione degli insediamenti coloniali nei territori occupati, i proprietari terrieri palestinesi possono visitare la loro terra solo pochi giorni all’anno previo accordo e scortati dall’esercito.

In effetti, mentre guidavo la scorsa settimana lungo un tratto di 10 chilometri di questa strada, non ho visto una sola macchina palestinese. Gli ulivi e gli alberi da frutto lungo la strada apparivano chiaramente trascurati rispetto agli oliveti ben curati vicini ai villaggi palestinesi.

Fino alla prima Intifada, alla fine degli anni ’80, i coloni che vivevano nella zona si recavano a Gerusalemme via Ramallah e Beitunia, circa 20 minuti di auto.

Dopo l’Intifada, e ancor di più dopo gli accordi di Oslo e la designazione di Beitunia e Ramallah come facenti parte dell’Area A (sotto il pieno controllo dell’Autorità Palestinese), i coloni dell’area di Dolev-Talmonim che vogliono raggiungere Gerusalemme devono viaggiare verso ovest fino all’incrocio di Shilat prima di prendere la strada 443, un viaggio che, senza traffico, può richiedere più di un’ora.

La terra resta in abbandono

Già a metà degli anni ’90 i coloni della zona iniziarono a fare pressioni per una tangenziale che li collegasse direttamente alla strada 443 e abbreviasse il viaggio verso Gerusalemme di oltre mezz’ora.

La loro richiesta fu accolta e, per spianare la strada, tra la fine degli anni ’90 e l’inizio degli anni 2000, circa 60 ettari di terra palestinese furono espropriati a Deir Ibzi’, Ein Arik e Beitunia. Furono iniziati i lavori su un tratto di strada lungo circa un chilometro e mezzo vicino a Deir Ibzi’, ma con l’intensificarsi della violenza durante la Seconda Intifada – la parte meridionale del percorso avrebbe dovuto passare molto vicino alla città palestinese di Beitunia – i lavori vennero bloccati.

Nel 2007, sotto la guida di Adi Mintz, un residente di Dolev ed ex membro anziano del Consiglio di Yesha – il braccio politico e lobbistico degli insediamenti coloniali della Cisgiordania – alcuni coloni ebrei della zona presentarono una petizione all’Alta Corte israeliana perché venisse completata la costruzione della strada.

Nella petizione i coloni affermavano di essere stati “discriminati” rispetto ai palestinesi della zona, per i quali, nell’ambito della costruzione del muro di separazione nell’area, Israele aveva aperto una rete alternativa di strade “di sicurezza”, che collegano i palestinesi a Ramallah. I coloni inoltre sostenevano che, poiché il viaggio in auto verso Gerusalemme può richiedere al mattino fino a due ore a causa del traffico, ciò riduce il valore delle loro proprietà e “vengono violati i loro diritti di proprietà“.

Lo Stato si oppose alla petizione, sostenendo che dal punto di vista della sicurezza sarebbe stato molto difficile proteggere la strada, che avrebbe attraversato un’area palestinese densamente popolata. Lo Stato affermò anche che la realizzazione della strada avrebbe comportato problemi sia di pianificazione che archeologici, poiché avrebbe attraversato due importanti siti archeologici risalenti al periodo del Secondo Tempio (516 a.C.-70 d.C.).

Lo Stato sostenne inoltre che la realizzazione della strada “comporta l’espropriazione di terreni privati [palestinesi] in un modo che danneggia in misura sproporzionata le loro proprietà“.

Infine, nel 2009 tre giudici dell’Alta Corte israeliana respinsero la petizione evitando di interferire con la decisione dello Stato di non realizzare la strada. Il giudice Asher Grunis dichiarò nella sua decisione che “il danno causato ai palestinesi sarebbe particolarmente grave poiché si presume che, una volta realizzata, la strada verrebbe utilizzata dai residenti israeliani”.

Nel 2012, l’Alta Corte si rivolse all’organizzazione israeliana per i diritti umani Yesh Din, che rappresentava i palestinesi le cui terre erano state espropriate e, con una decisione insolita, decise di revocare l’esproprio e restituire la terra ai legittimi proprietari.

Eppure i primi tratti della strada, che erano già stati realizzati sul loro terreno, non vennero ricoperti. Nel corso di un’ispezione dell’area fatta la scorsa settimana è emerso che i contadini palestinesi non sono tornati a coltivare quegli appezzamenti. I coloni utilizzano la strada sterrata già tracciata per raggiungere la sorgente di Ein Bubin.

I coloni non si sono arresi e hanno continuato a chiedere la creazione di una strada che li connetta all’autostrada 443 e abbrevi il loro viaggio verso Gerusalemme e Tel Aviv.

Nel febbraio 2018, nel corso di una riunione della sottocommissione della Knesset per la Giudea e la Samaria, Mintz ha affermato che gli accordi di Oslo avrebbero “imprigionato” i coloni nell’area di Gush Dolev-Talmonim e che recarsi al lavoro la mattina sarebbe diventato un “incubo indescrivibile”, costringendoli ad alzarsi ancora prima.

“Annessione nella pratica”

Negli ultimi mesi, il Ministero dei Trasporti e della Sicurezza Stradale ha deciso di porre fine a quell’incubo. Secondo Mintz, egli sarebbe riuscito a convincere il governo a riprendere il progetto. “Siamo in fasi avanzate di progettazione”, ha detto Mintz. “Questa è la mia creatura.”

L’attuale lunghezza del percorso proposto è di sole quattro miglia, ma un’ispezione svolta la scorsa settimana nell’area ne ha rivelato le difficoltà. La strada dovrebbe attraversare almeno tre crinali piuttosto ripidi, così come la strada principale tra Ramallah e le aree della Cisgiordania tra Ein Arik e Dir Ibzi’. Intanto esperti nel settore ambientale hanno espresso preoccupazione per i gravi danni all’ambiente circostante.

Mintz comunque afferma che la strada “non è né complicata né costosa”, e ritiene che il progetto sarà completato entro quattro anni. Tuttavia si è rifiutato di entrare nei dettagli su quanto costerà esattamente la strada. Nella riunione della sottocommissione della Knesset Mintz ha detto che c’è anche la possibilità di realizzare un “ponte e un tunnel” che ridurranno notevolmente i tempi di percorrenza.

Sembra che il Ministero dei Trasporti non abbia ancora trovato soluzioni per i problemi topografici, l’espropriazione della terra e le disposizioni sul traffico per i palestinesi.

Mintz non fa mistero del fatto che il suo obiettivo è utilizzare la strada per sviluppare l’area, che attualmente è scarsamente abitata da coloni, in particolare se paragonata ad altre zone intorno a Gerusalemme. “Qui c’è spazio per 100.000 persone, è territorio dello Stato”, ha detto.

Secondo Mintz esisterebbe già un piano regolatore per 15.000 famiglie. “Questa strada è fondamentale perché la nostra posizione è strategica. Siamo l’immagine speculare di Gush Etzion (blocco di insediamenti coloniali). Proprio come Gush Etzion si collega al corridoio di Gerusalemme dal sud (della Cisgiordania), noi saremo in grado di connetterci all’area di Gerusalemme da nord.”

Se l’idea di Mintz si avverasse, il progetto della destra israeliana di una “Grande Gerusalemme” inizierebbe dall’insediamento coloniale di Nahliel, a circa nove miglia a nord-ovest della città, e finirebbe con la colonia di Efrat, nove miglia a sud-ovest di Gerusalemme.

Mintz non è preoccupato dal fatto che la strada dovrebbe passare all’interno di aree destinate, secondo il piano di Trump, a far parte di uno Stato palestinese. Crede che l’accordo con gli Emirati Arabi Uniti abbia reso irrilevante il “piano del secolo” e in ogni caso, ha aggiunto, “i funzionari israeliani hanno presentato agli americani una mappa in base alla quale la questione è stata risolta”, il che implica che l’area in cui passerebbe la strada rimarrà sotto controllo israeliano.

Mintz ha affermato che anche i palestinesi “godranno” delle strade, poiché potranno raggiungere i villaggi vicini alla strada 443. Tuttavia i palestinesi di Ein Arik hanno detto che realizzare una strada proprio sulla loro terra porterebbe a una dura resistenza. “Morirò sulla mia terra”, ha detto un abitante del villaggio.

Etkes, di Kerem Navot, vede la decisione di attuare il piano come parte di un più ampio progetto infrastrutturale inteso a favorire i coloni israeliani nella Cisgiordania occupata come non abbiamo più visto dai tempi degli accordi di Oslo a metà anni 90.

Secondo Etkes, “questi progetti infrastrutturali sono destinati a servire come la base su cui Israele intende insediare centinaia di migliaia di cittadini ebrei nei prossimi decenni. La vera storia dell’apartheid israeliano in Cisgiordania non è l’annessione formale, che non si è concretizzata nonostante le promesse, ma l’annessione nella pratica, che è continuata per 53 anni e ora sta battendo ogni record”.

Il Consiglio regionale di Mateh Binyamin [che governa 46 colonie e avamposti israeliani nella Cisgiordania centro-settentrionale, ndtr.] ha dichiarato a +972 che il piano fa parte della “rivoluzione stradale” che ha promosso per “sviluppare l’intera regione e compensare gli anni in cui lo Stato ha trascurato la pianificazione stradale a Binyamin, Giudea e Samaria [cioè in Cisgiordania, ndtr.] in generale.” Le strade favoriranno “tutti gli abitanti della zona, inclusi gli arabi, e ridurranno notevolmente i tempi di percorrenza”, ha aggiunto il consiglio.

In una dichiarazione rilasciata a +972, il ministero dei Trasporti ha affermato che “la decisione relativa alla strada 935 è stata presa nel corso di un incontro con il consiglio regionale di Mateh Binyamin, con l’obiettivo di fornire una soluzione sul piano dei trasporti al problema dei collegamenti delle comunità di Talmon e Beit Horon. La strada è attualmente nella fase di progettazione iniziale”.

Meron Rapoport è un redattore di Local Call [versione in ebraico di +972, ndtr.]

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




“Morire per pescare”: come la pirateria israeliana ha distrutto la prospera industria ittica di Gaza

Ramzy Baroud

28 agosto 2020 – Middle East Monitor

Il 16 agosto la marina israeliana ha dichiarato zona militare chiusa il mare di Gaza. Il giorno dopo un gruppo di pescatori di Gaza ha deciso di cercare di pescare a meno di due o tre miglia nautiche dalla costa di Gaza. Appena gettate le reti attorno a loro hanno iniziato a fischiare le pallottole della marina israeliana.

Poco dopo lincidente ho parlato con uno dei pescatori. Il suo nome è Fathi.

Mia moglie, i miei otto figli ed io, tutti viviamo della pesca. La marina israeliana oggi ci ha sparato e ci ha chiesto di lasciare il mare. Ho dovuto tornare dalla mia famiglia a mani vuote, senza pesce da vendere e senza niente da dare ai miei figli, dice Fathi.

La storia di questo pescatore è tipica. Secondo lassociazione israeliana per i diritti umani BTselem circa il 95% dei pescatori di Gaza vive al di sotto del livello di povertà.

I pescatori di Gaza sono dei veri eroi. Contro ogni previsione, per assicurare la sopravvivenza delle loro famiglie ogni giorno affrontano il mare.

In questo contesto la marina israeliana equivale agli odierni pirati, apre il fuoco contro questi uomini – e in qualche caso donne – palestinesi, a volte affondando le barche e riportandole sulla costa. A Gaza da quasi 13 anni questa è stata la routine.

Appena Israele ha dichiarato la chiusura completa della zona di pesca di Gaza, ha impedito a migliaia di pescatori di poter mantenere le loro famiglie, distruggendo così un ulteriore settore della falcidiata economia di Gaza.

Lesercito israeliano ha giustificato la sua azione come una rappresaglia contro i manifestanti palestinesi che, a quanto è stato affermato, negli ultimi giorni hanno lanciato palloni incendiari contro Israele. Quindi, in base alle carenti regole dei principali giornali, la decisione israeliana può sembrare razionale. Tuttavia una semplice verifica sullargomento rivela tuttaltra storia.

Di fatto i manifestanti palestinesi hanno lanciato contro Israele palloni incendiari che, a quanto si dice, provocano incendi in alcune zone agricole nei pressi di Gaza occupata. Tuttavia lazione in sé è stata una disperata richiesta di attenzione.

Gaza è quasi priva di carburante. Lunico generatore di energia della Striscia è stato spento ufficialmente il 18 agosto. Anche il valico di Karem Abu Salem, che consente che approvvigionamenti appena sufficienti arrivino a Gaza attraverso Israele, è stato chiuso per un ordine militare israeliano. Il mare, lultima risorsa di Gaza, è diventato di recente una guerra unilaterale tra la marina israeliana e la sempre più ridotta popolazione di pescatori di Gaza. Tutto ciò ha inflitto gravi danni a una zona che ha già dovuto patire terribili sofferenze.

Una volta florido, il settore della pesca a Gaza è stato quasi distrutto in seguito all’assedio israeliano. Nel 2000, per esempio, l’industria ittica di Gaza contava più di 10.000 pescatori. Gradualmente il loro numero si è ridotto a 3.700, benché molti di essi siano pescatori solo di nome, dato che non possono più uscire in mare, riparare le proprie imbarcazioni danneggiate o permettersene di nuove.

Quelli che continuano a praticare la professione lo fanno perché è, letteralmente, il loro ultimo mezzo di sopravvivenza: se non pescano, le loro famiglie non mangiano. La storia dei pescatori gazawi è anche la storia dellassedio di Gaza. Nessunaltra professione è stata così direttamente legata ai mali di Gaza quanto la pesca.

Quando nel 1993 vennero firmati gli accordi di Oslo tra il governo israeliano e lOrganizzazione per la Liberazione della Palestina, si disse ai palestinesi che uno dei molti frutti della pace sarebbe stato lallargamento della zona peschiera di Gaza, esattamente fino a 20 miglia nautiche (circa 37 km).

Come il resto delle promesse non rispettate di Oslo, neppure laccordo sulla pesca venne mantenuto. Invece fino al 2006 lesercito israeliano consentì agli abitanti di Gaza di pescare allinterno di una zona che non ha mai superato le 12 miglia nautiche. Nel 2007, quando Israele impose lattuale assedio contro Gaza, la zona di pesca venne ulteriormente ridotta, prima a sei miglia nautiche e, infine, a tre.

Dopo ogni guerra israeliana o scontro violento a Gaza la zona di pesca viene completamente chiusa. Viene riaperta dopo ogni tregua, insieme ad altre vuote promesse che la zona di pesca verrà estesa a varie miglia nautiche per migliorare i mezzi di sussistenza dei pescatori.

Dopo la tregua negoziata dallEgitto, che ha fatto seguito a una breve ma letale campagna israeliana nel novembre 2019, la zona di pesca è stata di nuovo estesa fino ad arrivare a 15 miglia nautiche, la maggior estensione da molti anni.

Tuttavia questa tregua è stata di breve durata. Poco tempo dopo la marina israeliana si è messa ad affondare barche, sparando ai pescatori e respingendoli indietro nei ridotti spazi originari nei quali operavano.

Benché nel 2005 Israele abbia ritirato le proprie forze fuori da Gaza, in base al diritto internazionale continua ad essere considerato una potenza occupante, obbligata a garantire il benessere e i diritti dei palestinesi occupati che vi abitano. Ovviamente Israele non ha mai rispettato il diritto internazionale, né a Gaza né in nessun altro luogo della Palestina occupata.

Nel febbraio 2018 Isma’il Abu Ryalah è stato assassinato dalla marina israeliana mentre pescava con la sua piccola imbarcazione a cinque miglia nautiche dalla costa di Gaza. Come era immaginabile, nessun israeliano è stato considerato responsabile per lassassinio di Abu Ryalah. Poco dopo lincidente, la disperazione, ma anche il coraggio, hanno fatto sì che migliaia di pescatori di Gaza ritornassero in mare, nonostante il pericolo immediato che rappresentavano i pirati di oggi che si fanno passare per un esercito.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dellautore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dallo spagnolo di Amedeo Rossi)




“Una rara opportunità”: palestinesi attraversano un varco nella barriera di separazione per godersi il mare

Ahmad Al-Bazz e Oren Ziv 

11 agosto 2020 – +972

Migliaia di famiglie palestinesi stanno passando attraverso grandi buchi nella barriera della Cisgiordania per visitare la costa, mentre l’esercito israeliano per lo più fa finta di niente.

Nelle ultime due settimane decine di migliaia di palestinesi della Cisgiordania hanno viaggiato liberamente nelle città e paesi al di là della Linea Verde [il confine tra Israele e i territori occupati, ndtr.] attraverso brecce nella barriera di separazione israeliana, e la maggior parte di loro si è diretta verso le spiagge.

Questo attraversamento di massa, avvenuto mentre i soldati israeliani stavano a guardare, ha coinciso con la festa musulmana del Eid al-Adha [festa del sacrificio], che dura quattro giorni ed è iniziata il 30 luglio. Ogni anno i palestinesi che celebrano la ricorrenza in occasione della festa presentano domanda per avere permessi, che a volte il ministero della Difesa concede in base a condizioni molto restrittive.

Quest’anno Israele non ha concesso permessi festivi, apparentemente a causa della crisi da COVID-19, ma il varco nella barriera di separazione ha consentito ai palestinesi di andare comunque verso la costa, in genere a loro vietata, per festeggiare i giorni di festa.

I buchi nella barriera si trovano soprattutto lungo la parte centro-settentrionale della Cisgiordania, benché ce ne siano alcuni anche nei pressi di Hebron [Al-Khalil in arabo] e Modi’in [nella zona centro-meridionale, ndtr.]. Uno dei principali punti di passaggio si trova nei pressi del villaggio cisgiordano di Far’oun, a ovest di Tulkarem, dove sono stati usati dai viaggiatori locali almeno due buchi larghi tre metri.

Lo scorso mercoledì, quando +972 ha visitato quella parte della barriera, che è attrezzata con sensori di movimento e telecamere di sorveglianza, i palestinesi attraversavano tranquillamente in sicurezza sotto gli occhi di due soldati israeliani che stavano controllando la zona. +972 ha visto tre jeep militari israeliane passare davanti ai varchi senza impedire ai palestinesi di attraversare.

Sul lato israeliano della barriera decine di autisti di autobus offrivano ai palestinesi che passavano dalla loro parte di portarli ad Haifa, Giaffa e Acre [città israeliane da cui nel ’48 furono espulsi molti palestinesi, ndtr.]. Dalla parte opposta, oltre a qualche ambulante che vendeva i propri prodotti nell’affollato punto di passaggio, c’erano autisti che offrivano di riportarli nelle città cisgiordane di Nablus e Tulkarem.

Questa mattina l’esercito israeliano ha chiuso con filo spinato il buco nella barriera a Far’oun e sparato lacrimogeni contro i palestinesi che si trovavano lì vicino e stavano cercando di attraversare. Tuttavia i viaggiatori si sono spostati verso altri varchi aperti più avanti lungo la barriera.

Che permesso potrei avere?”

Dalla fondazione di Israele nel 1948 i palestinesi sono stati sottoposti a limitazioni sempre diverse sugli spostamenti, prima sotto il governo militare all’interno della Linea Verde sui cittadini palestinesi di Israele fino al 1966, poi sotto l’occupazione della Cisgiordania e della Striscia di Gaza.

Queste restrizioni sono state notevolmente estese in seguito alla firma degli accordi di Oslo negli anni ’90 e alla costruzione del muro di separazione israeliano iniziata negli anni 2000. Mentre ai palestinesi della Cisgiordania con permessi viene in genere richiesto di attraversare certi posti di controllo per soli palestinesi, i cittadini israeliani viaggiano liberamente senza permessi e con pochi controlli attraverso i checkpoint per soli israeliani sulla Linea Verde.

Sto visitando Giaffa per la prima volta dal 1999,” dice K.J., che ha chiesto l’anonimato per la sua sicurezza personale e ha viaggiato con sua moglie e due figlie. Aggiunge di non aver potuto andare al di là della Linea Verde o all’estero a causa di un “divieto dovuto a motivi di sicurezza” imposto alla sua famiglia dalle autorità israeliane. “Questo buco è una rara opportunità di visitare il territorio del 1948 (all’interno della Linea Verde).

Il sistema di permessi di Israele, gestito dal ministero della Difesa, vieta agli uomini palestinesi con meno di 50 anni e alle donne con meno di 45 di attraversare la Linea Verde senza un permesso. Chiunque sia più giovane deve fare richiesta per ragioni specifiche, come lavoro o cure mediche.

Alcuni palestinesi che attraversano i varchi nella barriera affermano di non avere i requisiti per ottenere i permessi in base alla rigida normativa israeliana. “Sono giovane e celibe. Che permesso potrei avere?” dice M.A., affermando che non gli è mai stato concesso un permesso di viaggio.

Lunedì pomeriggio centinaia di palestinesi hanno continuato ad attraversare la barriera nella zona di Tulkarem. La mattina soldati israeliani che stazionavano a Far’oun hanno lanciato lacrimogeni contro quelli che cercavano di attraversare, ma in seguito la gente ha continuato a passare dall’altra parte senza problemi.

La polizia militare israeliana ha arrestato e rimandato indietro decine di palestinesi che cercavano di attraversare la barriera tra Zeita, un villaggio palestinese nella zona di Tulkarem, e Jatt, una cittadina palestinese in Israele. Uno degli arrestati afferma di essere entrato in Israele con un permesso, ma che voleva tornare indietro attraverso quel punto di passaggio. “Possiamo tornare da dove vogliamo,” dice.

Salah, un altro palestinese arrestato, mentre veniva preso da una jeep militare ha raccontato a +972: “Se non vogliono che entriamo, perché hanno aperto la barriera? O chiudono i buchi o smettono di intervenire quando noi entriamo (in Israele) per andare a lavorare o alla spiaggia.” Un soldato gli ha risposto: “È una barriera, perché di punto in bianco la state attraversando? Non potete attraversare qui.”

Chi ha fatto il buco?

Secondo gli abitanti palestinesi di Far’oun il buco nella barriera, come molti altri come questo, è stato praticato in origine da passeur che portano lavoratori palestinesi a giornata all’interno della Linea Verde. Questo varco è stato a lungo una causa di conflitto tra l’esercito israeliano e i lavoratori palestinesi “che a volte è finito con incursioni nel mio villaggio e persino con spari contro i lavoratori,” afferma Khaled Badir, un giornalista palestinese che vive a Far’oun.

Secondo lui, in seguito alla crisi del COVID-19 e alle conseguenti restrizioni imposte sui lavoratori con permesso, un numero maggiore di persone ha iniziato a utilizzare i buchi nella barriera, ma l’esercito israeliano non ha fatto niente per bloccare il crescente uso. “Abbiamo iniziato a renderci conto che l’esercito sta implicitamente consentendo ai lavoratori di attraversare non presentandosi vicino alla barriera durante le ore in cui passano i pendolari,” dice.

È stata la prima volta che Badir ha assistito al fatto che i soldati israeliani abbiano fatto finta di niente mentre i palestinesi passavano attraverso la breccia nella barriera per entrare in Israele. “Sono sicuro che si tratta di una decisione presa dagli alti comandi. Ma non capisco la ragione che ci sta dietro,” afferma.

All’inizio di agosto, durante l’Eid, il buco nei pressi di Far’oun è diventato sempre più trafficato, in quanto i palestinesi sono stati informati attraverso le reti sociali della rara opportunità di attraversare la barriera. Ci sono state reazioni contrastanti riguardo a quelli che approfittavano del varco: anche se alcuni invitavano gli amici a visitare luoghi in genere a loro vietati, altri hanno criticato il fatto di contravvenire alla chiusura totale dovuta al COVID-19 imposta dall’Autorità Nazionale Palestinese durante l’Eid.

L’ANP deve ancora emanare un comunicato ufficiale riguardo agli spostamenti a Far’oun. Tuttavia i mezzi di informazione palestinesi hanno riportato che la ministra della Salute dell’ANP, Mai Kaileh, ha evidenziato i “gravi rischi” di viaggiare nelle “zone del ‘48” a causa dell’alto numero di casi di COVID-19 tra gli israeliani.

Nel contempo Bashar Masri, un imprenditore e uomo d’affari palestinese, ha chiesto all’ANP di riconsiderare le attuali regole riguardanti il COVID-19, affermando che queste “provocano una depressione economica sul mercato palestinese… dopo che improvvisamente l’occupazione ha aperto i posti di controllo, cosa che ha spinto le persone a viaggiare per svago e per fare spese (nei mercati israeliani).”

Ma le affermazioni di Masri, ed altre simili, hanno provocato grandi proteste da parte dei palestinesi, che hanno invitato altri come loro “a viaggiare ed andare a vedere le città da cui sono stati espulsi nel 1948.” In risposta alcuni palestinesi hanno postato su Facebook storie in cui i visitatori cantano canzoni palestinesi di liberazione, mentre altri foto dei loro parenti rifugiati che visitano, per la prima volta dopo molti anni, le città di origine da cui vennero cacciati.

Se solo potessimo entrare sempre”

A poche decine di chilometri di distanza, lungo il litorale tra Giaffa e Tel Aviv, migliaia di palestinesi si sono goduti la spiaggia, e qualcuno ci è rimasto fino a notte. Quelli che hanno viaggiato dalla Cisgiordania erano facilmente identificabili, perché continuavano a stare in acqua persino dopo che per quel giorno i bagnini erano tornati a casa. Molti di loro hanno postato sulle reti sociali immagini riprese in diretta per le loro famiglie rimaste a casa.

Osama, 43 anni, di Nablus, che è andato in spiaggia a Giaffa con la moglie e i figli, non aveva visto il mare da 34 anni. i suoi familiari ci sono stati per la prima volta.

È una sensazione incredibile,” dice. “Mio nonno era di Giaffa, di Kufr Salame [villaggio a sud di Tel Aviv, distrutto dalle milizie sioniste nel 1948, ndtr.]. Per guadagnarsi da vivere confezionava arance, e venne espulso durante la Nakba [la “catastrofe” in arabo, cioè la pulizia etnica a danno dei palestinesi nel ’48, ndtr.].”

Osama aggiunge di non essere sicuro se sia stato per ragioni economiche o politiche che gli è stato concesso di attraversare la Linea Verde, ma ciò non incide sulla sua gioia per aver avuto questa possibilità. “Spero di poter tornare, ma chissà cosa succederà domani,” dice.

Rashid, 16 anni, di Deir Abu Mash’al, nei pressi di Ramallah, racconta come lui e i suoi amici sono entrati in Israele attraverso il varco nei pressi del villaggio di Ni’lin senza essere bloccati dai soldati.

Questa è la seconda volta nella mia vita che vado al mare,” afferma. “Sono contentissimo. Se solo potessimo entrare sempre!”

Alaa, una laureata in pubbliche relazioni di Nablus, è andata in spiaggia con i suoi amici, con cui ha raccolto conchiglie e ha scritto parole sulla sabbia. “Sono entusiasta di essere qui,” dice. “Non ho avuto paura di attraversare la barriera.”

Basel, 42 anni, di Qalquilya, dice di non essere mai stato sulla spiaggia prima. È stato accompagnato da sua moglie e da tre figli, che sono rimasti in mare dopo il tramonto. “Siamo rimasti rinchiusi per cinque mesi, per via del coronavirus, in isolamento a casa. Dovevamo uscire a prendere aria,” dice Basel. “La gente è disoccupata. È meglio che (la barriera) sia aperta, in modo che la gente possa lavorare e andare a farsi un giro. È meglio che morire chiusi in casa imprigionati.”

Anche il valico di Allenby dalla Cisgiordania alla Giordania è soggetto a nuove restrizioni a causa della pandemia da coronavirus, facendo sentire i palestinesi ancor più in gabbia del solito.

Basel stenta a descrivere le sue impressioni su Giaffa: “È veramente la sposa del mare, come si dice. Dopo la spiaggia andremo al (famoso ristorante di Giaffa) “Il vecchio e il mare”, che ci hanno detto essere eccellente.” Benché il viaggio sia stato dispendioso, dato che è disoccupato, Basel afferma di aver intenzione di tornare il prossimo mese.

La scorsa settimana sono tornato qui tre volte,” dice un giovane di Jayyous, nei pressi di Qalqilya. “Sono passati cinque anni dall’ultima volta che sono stato in spiaggia.”

Le scene sulla spiaggia di Giaffa hanno ricordato quanto il litorale sia vicino alla Cisgiordania, e come sarebbe una situazione “normale”, senza separazioni.

Se fosse un vero confine, pensi che lo lascerebbero attraversare dalle persone?”

Questa settimana il confine tra Israele e la Cisgiordania era praticamente del tutto cancellato,” ha twittato sabato un giornalista israeliano. Questa è stata infatti l’impressione presso la barriera di separazione e in spiaggia. Molte persone hanno evidenziato che non c’erano soldati presenti nei vari punti attraverso i quali sono passati in Israele, o se c’erano, i soldati sono semplicemente rimasti a guardare da lontano.

Un cinquantenne di Betlemme, che con la moglie e la figlia ha viaggiato da Far’oun a Giaffa, dice: “La situazione della Cisgiordania è arrivata a un punto di rottura. C’è tensione, e trovare la barriera aperta sta consentendo alle persone di respirare un po’, di godersi la spiaggia.”

Benché l’Eid sia finito la scorsa settimana, durante il fine settimana e anche dopo il flusso di visitatori verso la spiaggia è continuato. Anche se non si sa per quanto tempo questa politica ufficiosa durerà, i media israeliani sono rimasti relativamente indifferenti alla questione, e qualcuno ha notato che la situazione pone scarsi rischi per la sicurezza o per la salute. Ci sono stati persino commenti ironici sul fatto che, in assenza dei turisti dall’estero, ci sono stati almeno turisti palestinesi dalla Cisgiordania.

Si sono fatte varie supposizioni sul perché sia stato consentito ai palestinesi di entrare in Israele attraverso buchi nella barriera di sicurezza, e un’ipotesi è che ciò rappresenti un’esibizione di autorità da parte di Israele.

La ragione per cui è tutto aperto è politica,” dice un autista di Taybeh in attesa di passeggeri. “(Israele) vuole dimostrare chi comanda, e indebolire l’ANP. Quando l’ANP istituisce una chiusura totale, Israele apre tutto.”

Nei pressi di uno dei varchi nella barriera un palestinese di 60 anni dà una spiegazione simile. “Vogliono dimostrare che non ci sono Israele e Palestina, ma solo un unico territorio. Si stanno preparando ad annettere tutta la Cisgiordania. Se ci fosse un vero confine, pensi che lascerebbero passare la gente? Vogliono annullare la frontiera.”

Ci hanno impedito di entrare, ma io sto andando in Palestina,” ha detto un altro mentre stava attraversando la barriera con la sua famiglia. “Abbiamo aspettato per decenni che (il confine) fosse aperto, e ora possiamo andare liberamente in spiaggia.”

Il portavoce dell’esercito israeliano ha affermato che loro non si occupano della questione del movimento dei palestinesi attraverso i varchi nella barriera di separazione.

Ahmad Al-Bazz è un giornalista e documentarista che vive nella città cisgiordana di Nablus. Dal 2012 è membro del collettivo di fotografi “Activestills” [collettivo di fotografi impegnato nel sostegno dei diritti dei popoli oppressi con particolare riguardo ai palestinesi, ndtr.].

Oren Ziv è fotoreporter, membro fondatore del collettivo di fotografia “Activestills” e redattore di Local Call [versione in lingua ebraica di +972, ndtr.]. Dal 2003 ha documentato una serie di questioni sociali e politiche in Israele e nei territori palestinesi occupati, con particolare attenzione alle comunità che si mobilitano e alle loro lotte. I suoi reportage si sono concentrati sulle proteste popolari contro il muro e le colonie, sulle case popolari e altre questioni socio-economiche, sulle lotte contro il razzismo e la discriminazione e su quelle a favore della libertà degli animali.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




La bomba Peter Beinart: “Non credo più in uno Stato ebraico”

Sylvain Cypel

24 luglio 2020 – Orient XXI

È una bomba che l’accademico americano Peter Beinart ha lanciato all’inizio di luglio nel suo ambiente intellettuale ed affettivo con la pubblicazione uno dopo l’altro di due articoli nei quali mette in discussione l’esistenza stessa dello Stato di Israele. “Yavneh: A Jewish Case for Equality in Israel-Palestine” (Yavneh: un appello ebraico per l’uguaglianza in Israele – Palestina) è comparso il 7 luglio nel trimestrale progressista Jewish Currents, di cui Beinart è redattore capo. Il secondo, sotto il titolo più provocatorio “I No Longer Believe in a Jewish State” (Non credo più in uno Stato Ebraico), è uscito il giorno dopo sul New York Times.

Fortemente impregnato di cultura ebraica, osservante senza essere praticante, Peter Beinart (49 anni) è politologo, docente alla City University di New York. È anche giornalista, collaboratore fisso del mensile the Atlantic [rivista progressista USA di cultura, letteratura, politica estera, salute, economia, tecnologia e scienza politica, ndtr.] e del quotidiano ebraico di New York The Forward [storico giornale della comunità ebraica USA, ndtr.]. Si definisce da sempre sionista progressista (“liberal”). Nel suo articolo sul New York Times si rivolge direttamente a quelli che hanno la sua stessa affiliazione sionista, alla quale intende essere fedele, per dire a loro di aver aderito con entusiasmo all’idea degli accordi di Oslo, firmati nel 1993, quella dei due Stati per due popoli che vivessero in pace uno di fianco all’altro. Così, scrive, si poteva continuare ad essere “al contempo progressisti e sostenitori di uno Stato ebraico.” Ma “gli avvenimenti (che hanno fatto seguito ad Oslo) hanno spento questa speranza.” Non possiamo esimerci dal constatare che “nella pratica, Israele ha già annesso la Cisgiordania da molto tempo.” Quanto alla possibilità di due Stati sovrani separati, essa è svanita (è divenuta, precisa in un altro articolo, un “mascheramento” per meglio inasprire la spoliazione dei palestinesi occupati. Noi ebrei progressisti dobbiamo affrontare questa realtà e “deciderci”. Quanto a lui, la questione è risolta: bisogna, conclude, “sposare l’obiettivo non dei due Stati, ma quello dell’uguaglianza dei diritti per gli ebrei ed i palestinesi” che abitano questa stessa terra.

Israele, uno Stato intrinsecamente segregazionista

Sul piano politico questa uguaglianza, secondo lui, può prendere la forma di uno Stato unico con diritti uguali per tutti – un uomo, una donna, un voto -, oppure di una “confederazione di due Stati profondamente integrati” tra loro. In questi due casi, continua, Israele smetterà di essere uno Stato ebraico. A quelli che pretendono nel migliore dei casi che sia un utopista, e nel peggiore un traditore della causa sionista, Beinart ribatte in anticipo che in primo luogo Israele è già di fatto uno Stato binazionale, dove una nazione ne domina un’altra. E in secondo luogo che “la soluzione dell’uguaglianza dei diritti è diventata più realista di quella della separazione” dati gli sviluppi sul terreno, dove le due popolazioni vivono sempre più interconnesse, mentre ogni giorno tra loro si rafforza la segregazione. In breve, dato che lo Stato ebraico non potrà più essere altro che quello che è diventato, uno Stato intrinsecamente segregazionista, ritiene che sia venuto il momento di trarne le conseguenze: questo Stato non ha più un futuro, almeno un futuro degno di essere appoggiato.

Quale sarebbe pertanto il futuro politico degli ebrei su questa terra comune agli israeliani e ai palestinesi? In subordine, come rimanere sionisti rinunciando nel contempo allo Stato ebraico? Beinart tenta di rispondere più nel dettaglio a queste domande nell’altro articolo, più lungo e più intimo. Il nocciolo della sua risposta risiede in un’idea…a dir poco bizzarra: “L’essenza del sionismo, proclama, non è di costruire uno Stato ebraico sulla Terra d’Israele, ma di crearvi un focolare ebraico.” D’altra parte “i primi sionisti si preoccupavano, innanzitutto, di creare un posto che servisse come rifugio e un luogo di rivitalizzazione” dell’ebraismo, non uno Stato.

Egli fa appello ai mani di Ahad Haam (Asher Ginsburg), uno dei primi sionisti che, contro il fondatore del movimento Théodor Herzl, alla fine del XIX secolo sostenne la creazione non di uno Stato ebraico, ma di un centro culturale sulla terra d’Israele che costituisse essenzialmente un polo spirituale per gli ebrei di tutto il mondo. Ahad Haam criticò anche l’atteggiamento dei primi coloni ebrei in Palestina nei confronti della popolazione locale.

Beinart fa anche riferimento a Martin Buber, filosofo ebreo tedesco sionista che negli anni ’30 propugnava l’edificazione di uno Stato binazionale di ebrei e arabi palestinesi insieme. Promuovere l’uguaglianza tra ebrei israeliani e arabi palestinesi “non vuol dire necessariamente abbandonare il sionismo”, ma solo l’idea di uno Stato ebraico, sostiene Beinart. Meglio: sarebbe tornare in qualche modo a un sionismo originario. Preservare il futuro degli ebrei israeliani passerebbe per l’abbandono di un Stato ebraico a beneficio di uno Stato binazionale (o di una confederazione) in cui gli ebrei non avrebbero più a disposizione un loro Stato, ma un “focolare” culturale che potrebbero sviluppare in pace.

L’uguaglianza e la parità al cuore del progetto

Nell’immediato, è improbabile che l’argomento della preservazione del sionismo convinca i sionisti contemporanei, e neppure i palestinesi, in primo luogo perché il libro fondatore del sionismo non si intitola “Il focolare ebraico”, né “Il centro spirituale ebraico”, ma piuttosto “Lo Stato ebraico”, e che non si tratta di un equivoco. Inoltre perché i pensatori a cui Beinart fa riferimento rimasero entrambi estremamente marginali in seno al sionismo. Infine, e soprattutto, perché si può difficilmente cancellare più di un secolo di storia del sionismo “reale”, che ha costantemente mostrato che intendeva erigere uno Stato etnico ebraico a danno della popolazione autoctona della Palestina.

Ma in fondo la questione che sembra assillare Beinart, cioè la conservazione della legittimità iniziale del sionismo, non ha nessuna importanza pratica per l’oggetto stesso del suo articolo, perché l’essenziale è che egli colloca al centro delle sue preoccupazioni le nozioni di uguaglianza, di parità tra di due protagonisti del conflitto, gli ebrei israeliani e i palestinesi. Si può condividere o essere in disaccordo con la prospettiva di uno Stato in comune evocata da Beinart, o anche considerarla possibile ma irrealistica nell’immediato. In ogni caso, non si può eludere la questione della necessaria uguaglianza “in dignità e diritti”, come dice la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, dei palestinesi con i loro oppressori. Ponendo questo presupposto come la chiave per la fine del conflitto, Beinart ammette di giungere a una rottura radicale con lo Stato d’Israele e la sua politica segregazionista, e chiede ai suoi lettori di portare fino in fondo questa rottura insieme a lui.

Ciò che è necessario, ritiene, è uscire dalla trappola infernale che blocca ogni sviluppo della situazione. Perché, secondo lui, l’apparente status quo attuale porta al peggio, cioè all’esasperazione di una tendenza israeliana il cui vero obiettivo mira a una nuova “espulsione massiccia” dei palestinesi. L’annessione di una grande parte della Cisgiordania prevista da Israele, scrive, “non è la fine del viaggio. Non è che una stazione lungo la via che porta all’inferno.”

Una legge del ritorno per gli ebrei e i palestinesi

A partire da qui Beinart propone di promuovere lo Stato binazionale come unica opzione, innanzitutto perché una simile prospettiva, l’idea dell’uguaglianza, porta a pensare al suo contenuto. Così, a differenza del Sudafrica del dopo apartheid, l’uguaglianza dei cittadini in uno Stato comune tra palestinesi e israeliani dovrà non solo proteggere i diritti individuali di ognuno, ma anche i diritti nazionali delle due popolazioni. Beinart immagina una legge del ritorno che, contrariamente a quella che attualmente esiste in Israele a favore esclusivo degli ebrei, riguarderebbe sia gli ebrei che i palestinesi della diaspora, come l’aveva immaginata a suo tempo l’intellettuale palestinese Edward Said, E ne conclude:

Dopo generazioni, gli ebrei hanno concepito lo Stato ebraico come un tikun (il termine, di origine biblica, significa “riparazione”), un rimedio, un mezzo per superare l’eredità del genocidio. Ma ciò non ha funzionato. Per giustificare l’oppressione dei palestinesi da parte nostra, l’idea di uno Stato ebraico ha richiesto che vedessimo in loro dei nazisti (…) Il vero tikun risiede nell’uguaglianza, in un focolare ebraico che sia anche un focolare palestinese. Solo aiutando i palestinesi ad avere accesso alla libertà noi ci libereremo del peso del genocidio.”

E sogna, in uno Stato comune, un “museo della Nakba [la “Catastrofe”, la pulizia etnica che ha cacciato buona parte della popolazione palestinese dall’attuale territorio dello Stato di Israele, ndtr.]” che sarebbe costruito sul luogo che ospita il cimitero di Deir Yassin, luogo simbolo di un massacro commesso nel 1948 dalle forze israeliane. Deir Yassin, villaggio raso al suolo diventato il quartiere ebraico di Kfar Shaul, si trova solo a 1,5 km dallo Yad Vashem, il museo memoriale della Shoah.

Sviluppando questa visione, Beinart aderisce a quella di Avraham Burg, ex-presidente del parlamento israeliano e dell’Organizzazione Sionista Mondiale che, dopo il fallimento dei negoziati di Camp David nel luglio 2000, ha progressivamente cambiato opinione a favore di un abbandono delle basi ideologiche del sionismo, sostenendo l’idea che uno Stato ebraico porterà alla rovina gli israeliani ebrei “chiusi in un ghetto sionista”, in quanto questo Stato strumentalizza il passato degli ebrei per meglio imporre ai palestinesi un regime di ingiustizia permanente.

Beinart aderisce soprattutto alle idee del grande storico anglo-americano Tony Judt, che nel 2003 aveva suscitato negli Stati Uniti una clamorosa polemica interrogandosi sulla possibilità di uno Stato unico comune degli ebrei israeliani e dei palestinesi, cioè un futuro in cui non ci sarebbe più posto per uno Stato ebraico. Riservando solo ai cittadini ebrei una serie di diritti, l’idea stessa di uno Stato ebraico, riteneva, era “ancorata ad un altro tempo”, quello di un nazionalismo su base etnica. Quindi la società israeliana non poteva che sprofondare in una chiusura criminale senza futuro. In conclusione Israele “è diventato oggi dannoso per gli ebrei.”

La sua posizione appoggia una campagna antisemita”

Diciassette anni fa Judt era stato oggetto di una virulenta campagna da parte delle istituzioni ebraiche americane, che intendevano rendere illegittima la sua voce. Nonostante il sostegno della New York Review of Books [prestigiosa rivista culturale statunitense, ndtr.], si era ritrovato molto isolato. Oggi gli articoli di Peter Beinart sono stati accolti nella comunità ebraica e fuori da essa in modo molto diverso. Da questo punto di vista sono sintomatici dell’evoluzione in atto negli Stati Uniti.

In Israele gli articoli di Beinart sono stati nel complesso ignorati (e in Francia ancor di più). Sul quotidiano Haaretz [principale quotidiano israeliano di centro sinistra, ndtr.] Gideon Levy, anche lui sostenitore di uno Stato binazionale, l’ha calorosamente applaudito: finalmente, scrive, “Beinart ha visto la luce.” Il suo collega Anshel Pfeffer, al contrario, respinge la “realtà pratica” della sua visione, sia per gli ebrei israeliani che per i palestinesi. Beinart, sostiene, non vive dove succedono le cose, ma in un ambiente di intellettuali palestinesi e israeliani emigrati negli Stati Uniti. Su Yedioth Aharonoth, il principale quotidiano israeliano, Dror Yemini scrive: “Negare agli ebrei il diritto di possedere un focolare nazionale è antisemita. Beinart non è antisemita. Le sue intenzioni sono diverse, ma la sua posizione sostiene una campagna antisemita.” Un classico…

Al contrario negli Stati Uniti gli articoli sono stati molto discussi, provocando reazioni spesso prevedibili. Alan Dershowitz, l’“avvocato” compulsivo di Israele in ogni circostanza, ha ovviamente evocato una “soluzione finale alla Beinart”. Ma in un tweet l’ex-consigliere per la sicurezza nazionale di Barak Obama, Ben Rhodes, ha lodato il suo “coraggio” e la sua “riflessione”. E Rob Eshman, editore di The Forward, il sito quotidiano ebraico di New York, il giorno dopo è andato oltre: “Che ci piaccia o meno, Peter Beinart descrive la realtà.”

Lo status quo è inaccettabile”

Sul Los Angeles Times l’editorialista Nicholas Goldberg fornisce una chiave di lettura delle molteplici reazioni registrate: “Alcuni diranno che Beinart tradisce il sionismo e mette in pericolo gli ebrei, altri che propone la sola alternativa etica, moderna ed ugualitaria a un secolo di nazionalismi falliti. Molti preferiranno rilanciare l’opzione dei due Stati. Io faccio parte di quest’ultima categoria. Ma il cambiamento di opinione di Beinart, benché provocatorio, è stimolante. Ci ricorda che lo status quo è inaccettabile.”

Questa reazione è sintomatica del cambiamento epocale a cui si assiste negli Stati Uniti. A differenza del fiume di ingiurie che ha subito Judt 17 anni fa, l’idea di una vita di ebrei e palestinesi in uno Stato comune è ammessa da molti come legittima. Certo, su questo punto Pfeffer ha ragione: senza dubbio ciò è più vero negli ambienti accademici che in quelli politici, così come il sostegno al boicottaggio di Israele è più diffuso nei campus americani che altrove. Ma, fino a nuovo ordine, è proprio in quegli ambienti che in genere nascono le idee nuove. E la legittimità delle idee professate da Beinart è significativa del processo di delegittimazione che riguarda ormai lo Stato d’Israele negli Stati Uniti in circoli che non smettono di allargarsi – in primo luogo nel cuore stesso dell’ebraismo americano.

Sylvain Cypel

È stato membro del comitato di redazione di Le Monde, e in precedenza direttore di redazione del Courrier international [settimanale francese simile a Internazionale, ndtr.]. È autore di Les emmurés. La société israélienne dans l’impasse [I murati vivi. La società israeliana in un vicolo cieco] (La Découverte, 2006) e di L’État d’Israël contre les Juifs [Lo Stato d’Israele contro gli ebrei] (La Découverte, 2020).

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)




Come i lobbysti israeliani si sono impossessati dell’eredità di Mandela

Nkosi Zwelivelile Mandela

21 luglio 2020 – Middle East Monitor

I tentativi di chi difende Israele di presentare mio nonno come un pacifista moderato è un travisamento della sua eredità

Dov’è il Mandela palestinese?” è la domanda che ho sentito spesso fare dai sostenitori di Israele. Quello che in realtà chiedono è dov’è l’equivalente palestinese di Nelson Mandela – un uomo che, secondo quello che credono, offrì solo ramoscelli d’ulivo e dialogo. Dov’è la versione palestinese di Mandela che – nella loro immaginazione – adorava tanto il proprio oppressore da essere disposto a riconciliarsi con lui condizionatamente?

I gruppi di pressione di Israele – sia in Sudafrica come nel resto del mondo – hanno risuscitato mio nonno come pacifista moderato che ha fatto la pace con i suoi nemici in modo benevolo. Ridurre la vita di Rolihlahla (secondo nome di Nelson Mandela, che significa “quello che sradica”) a pacificatoria e riconciliatrice è una deliberata distorsione della sua eredità.

Il presidente Mandela fu all’altezza del suo secondo nome. Fu un rivoluzionario, intellettuale e combattente per la libertà. La sua vita fu dedicata a resistere all’oppressione e a riconquistare la dignità. La forma di resistenza che difendeva era definita dall’oppressore. “ E’ assolutamente inutile che continuiamo a parlare di pace e nonviolenza contro un governo che risponde solo con brutali aggressioni,” affermò Mandela nel maggio 1961, sette mesi prima di diventare il primo comandante del neonato braccio armato del Congresso Nazionale Africano, chiamato uMkhonto we Sizwe [Lancia della Nazione].

Tuttavia quando i sostenitori di Israele parlano di Nelson Mandela si concentrano esclusivamente nel suo messaggio di dialogo e riconciliazione. Di conseguenza la storia della transizione di Madiba e del Sudafrica alla democrazia si riduce a un raccontino per bambini del perdono, invece che una lunga e dura – a volte rabbiosa – cronaca di giustizia e libertà. Il dialogo, il perdono e la riconciliazione debbono tornare ad essere inseriti nel contesto e nel luogo come meritano nella storia di Mandela e del Sudafrica.

La causa di Mandela non era pace e riconciliazione, ma giustizia e liberazione. La riconciliazione e il perdono sono arrivati dopo che si è ottenuta la liberazione. Prima Nelson Mandela considerava qualunque forma di “riconciliazione” con l’oppressore come una sottomissione e uno strumento di cooptazione per ingabbiare il movimento di liberazione.

Né gli alleati del Sudafrica nel movimento mondiale contro l’apartheid ci hanno mai chiesto di fare la pace con i nostri oppressori prima di ottenere la liberazione. Chiedere ai sudafricani di dialogare con il governo dell’apartheid nel contesto del brutale stato di polizia caratterizzato dalla spoliazione implacabile, dalle restrizioni contro la libertà di movimento, dalla repressione violenta delle proteste e dalla detenzione senza processo, avrebbe significato chiederci di collaborare con i nostri oppressori. Il mondo non ci ha mai chiesto né si è aspettato questo dai sudafricani, ma lo chiede ai palestinesi che vivono la stessa, se non peggiore, condizione.

Il Mandela che perdona è adorato in particolare dai gruppi di pressione israeliani. Si dilettano a raccontare di come si conquistò la fiducia dei suoi nemici, o prese il tè con Betsie Verwoerd, la vedova dell’architetto dell’apartheid, Hendrik Verwoerd. Gli apologeti di Israele vogliono che il mondo creda che, appena Nelson Rolihlahla Mandela venne liberato, abbandonò la lotta armata ed iniziò tranquillamente negoziati con il governo dell’apartheid, senza prerequisiti né precondizioni.

Persino dopo 27 anni di prigione, quando venne liberato, Mandela offrì dialogo, non violenza,” dice lo scrittore sudafricano [israeliano di origini sudafricane, ndtr.] Benjamin Pogrund. Non è vero.

Il giorno in cui venne liberato dalla prigione, Nelson Mandela disse: “I fattori che hanno reso necessaria la lotta armata continuano tuttora ad esistere. Non abbiamo altra opzione che continuare. Manifestiamo la speranza che presto si determini un clima propizio per un accordo negoziato, in modo che la lotta armata non sia più necessaria.”

Mandela non iniziò negoziati mentre i negri sudafricani erano ancora spogliati e perseguitati violentemente, o mentre i dirigenti della nostra liberazione erano in carcere, torturati ed assassinati. “La continuazione dei negoziati e la retorica sulla pace mentre contemporaneamente il governo sta portando avanti una guerra contro di noi è una posizione che non possiamo accettare,” dichiarò Madiba nel settembre 1990 davanti all’allora Organizzazione dell’Unità Africana (OUA).

Prima che Mandela iniziasse i negoziati c’erano condizioni fondamentali che dovevano essere rispettate. Esse includevano la fine della spoliazione e della violenza organizzate dallo Stato contro i negri sudafricani, la liberazione dei prigionieri politici e il ritorno degli esiliati. Quando i palestinesi chiedono le stesse condizioni prima di iniziare trattative vengono definiti irragionevoli e cocciuti.

I difensori di Israele sono convinti che i palestinesi siano il contrario di quello che rappresentava Mandela. Quando i palestinesi resistono ad essere cooptati da Israele, gli si dice che Madiba non si sarebbe mai comportato così.

Secondo loro Mandela, a differenza di Yasser Arafat, avrebbe accettato i posti di controllo, la costruzione di colonie illegali e sette anni di negoziati infruttuosi durante gli accordi di Oslo e Camp David.

Nella loro immaginazione Nelson Mandela, a differenza di Mamhoud Abbas, avrebbe accettato l’accordo segreto del 2008 di Ehud Olmert del bantustan [territori che nel Sudafrica dell’apartheid erano autonomi e gestiti da “governi” dei neri sudafricani, ndtr.] palestinese, abbozzato in fretta e furia su un tovagliolo. I Madiba che hanno creato non avrebbero mai rifiutato l’“accordo epocale” di Israele per uno Stato palestinese smilitarizzato con i suoi principali centri abitati separati tra loro e con Israele che avrebbe controllato gli spostamenti tra la Striscia di Gaza e la Cisgiordania, lo spazio aereo palestinese, la sua politica economica ed estera, le risorse idriche e le frontiere.

Il Mandela che hanno in testa i sostenitori di Israele sarebbe sempre stato disponibile ad arrivare a compromessi sulla giustizia e la dignità. In vero Mandela, tuttavia, rifiutò varie “offerte generose” del governo dell’apartheid, tra cui l’immediata liberazione se avesse rinunciato alla lotta armata, ai diritti del suo popolo e si fosse limitato al Bantustan Traskei.

I sostenitori di Mandela il Perdonatore dimenticano che Madiba non cedette mai su nessun argomento che compromettesse il suo obiettivo finale: la liberazione dei sudafricani. Durante i negoziati lui e i suoi compagni, come i palestinesi, spesso preferirono non arrivare ad alcun accordo che non rispettasse almeno la dignità e i diritti umani.

Negli ultimi vent’anni Israele non ha mai avviato conversazioni di pace per negoziare realmente con i palestinesi. Ha utilizzato il processo di pace come un giochetto per tenere occupati (letteralmente e in senso figurato) i palestinesi, mentre rafforzava con la violenza l’occupazione della Cisgiordania e intensificava l’assedio di Gaza. Però, finché il “processo di pace” continua, Israele può mettere a tacere gli appelli al boicottaggio. Ciò sarà più difficile da fare ora che i dirigenti israeliani discutono apertamente dell’annessione, ammettendo che non ci sarà mai uno Stato palestinese.

In Palestina – Israele c’è più che mai bisogno dell’eredità di Nelson Mandela, non per predicare perdono e riconciliazione, ma per elaborare soluzioni politiche radicate nella giustizia e nella dignità. La principale lezione che Israele e i suoi sostenitori possono imparare dalla vita di Nelson Mandela è che la pace, il perdono e la riconciliazione si otterranno solo quando tutti godranno della giustizia, della libertà e della dignità.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

Nkosi Zwelivelile Mandela è un deputato sudafricano e nipote di Nelson Mandela.

(traduzione dallo spagnolo di Amedeo Rossi)




Il piano di annessione di Israele: una catastrofe generata da una catastrofe più grande

Azzam Tamimi

1 luglio 2020 – Middle East Eye

L’attuale crisi ha le sue radici negli accordi di Oslo, che hanno trasformato l’OLP in un’entità palestinese collaborazionista

La catastrofe cui faccio riferimento nel titolo di questo articolo non è la Nakba del 1948, quando Israele venne creato su due terzi della Palestina, né la Naksa del 1967, quando i sionisti divorarono il rimanente terzo della Palestina (la Cisgiordania e Gaza) insieme alla penisola del Sinai e alle Alture del Golan.

Sono invece gli accordi conclusi a Oslo, Norvegia, in seguito a negoziati segreti tra l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) e Israele. La firma degli accordi di Oslo tra le due parti sul prato della Casa Bianca nel settembre 1993 è stato il maggior successo sionista dalla creazione dell’entità sionista in Palestina.

Mossa disastrosa

Perché è così? Gli accordi di Oslo furono il primo riconoscimento ufficiale della legittimità dello Stato ebraico da parte di Israele.

L’OLP, che avrebbe dovuto guidare la lotta per la liberazione della Palestina – e che era stata fondata prima che la Cisgiordania e Gaza diventassero territori occupati – venne riconosciuta dagli Stati membri della Lega Araba come l’unico legittimo rappresentante del popolo palestinese. Questa mossa disastrosa venne fatta durante il summit di Rabat nel 1974.

L’implicazione immediata di questa decisione fu trasformare quello che era noto come il conflitto arabo-israeliano in palestinese-israeliano. In pratica ciò significò affidare le chiavi della questione palestinese al leader dell’OLP Yasser Arafat e ai suoi sodali all’interno del movimento Fatah, che dominava l’OLP, esimendo il mondo arabo nel suo complesso da ogni responsabilità riguardo alla Palestina e al suo popolo. Da allora l’OLP ne fu responsabile.

La dichiarazione di Rabat arrivò proprio qualche mese dopo una decisione dell’assemblea non eletta dell’OLP, il Consiglio Nazionale Palestinese, di approvare quello che divenne noto come il “Programma dei Dieci Punti”, che preparò la strada per negoziare un accordo pacifico che avrebbe finito per riconoscere il diritto all’esistenza di Israele in cambio della fondazione di uno Stato palestinese confinante.

Tuttavia Israele e il suo principale alleato occidentale, gli Stati Uniti, non mostrarono alcun reale interesse nel trattare con l’OLP, nonostante il desiderio di quest’ultima, finché nel dicembre 1987 scoppiò la prima Intifada. Solo quando la legittimità dell’OLP sembrò minacciata come mai prima – non solo dalla nascita di Hamas, ma anche dalla crescente sensazione tra i palestinesi, sia localmente che nella diaspora, che l’organizzazione non parlasse più per loro né agisse per raggiungere il loro sogno di liberazione e ritorno –, americani e israeliani decisero di parlare con la dirigenza dell’OLP.

Reprimere l’Intifada

Sembrerebbe che fin dall’inizio gli israeliani e i loro alleati sapessero quello che intendevano ottenere. È molto difficile dire lo stesso dei loro interlocutori dell’OLP.

Gli israeliani avevano assolutamente bisogno di un partner palestinese per aiutarli non solo a reprimere l’Intifada, ma anche ad aprire le porte della regione e del mondo nel suo complesso per ottenere la legittimità della loro entità. Quello che in sintesi fecero gli accordi di Oslo fu di trasformare l’OLP in un organismo palestinese collaborazionista chiamato Autorità Nazionale Palestinese (ANP).

Concludendo gli accordi di Oslo con Israele, l’OLP ne riconobbe il diritto. Ciò non avvenne in cambio del riconoscimento da parte di Israele del dramma del popolo palestinese, della sua spoliazione ed espulsione, né fu in cambio del riconoscimento del loro diritto a tornare alla loro patria, o del riconoscimento dei crimini che erano stati perpetrati contro di loro.

È stato solo in cambio del riconoscimento dell’OLP come unico rappresentante legittimo del popolo palestinese. Non eletta e senza dover rendere conto a nessuno, la dirigenza dell’OLP da allora poté fare per la causa quello che riteneva “conveniente”.

Questo accordo catastrofico venne venduto come una grande vittoria. A molti palestinesi venne fatto credere che prima o poi da lì sarebbe sorto uno Stato palestinese, che avrebbe preparato la via per il loro ritorno a casa. La comunità internazionale giocò un ruolo in questo inganno, definendo quello che stava avvenendo come un processo che avrebbe portato a quella che divenne generalmente nota come una “soluzione dei due Stati”.

Tuttavia, settimana dopo settimana, mese dopo mese, anno dopo anno fin dal 1993, Israele è riuscito – con la collaborazione dell’ANP – a perpetuare la sua occupazione a un costo molto basso per sé, confiscando nel contempo più terre, costruendo più colonie o espandendo quelle esistenti, demolendo le case dei palestinesi, opprimendoli e perseguitandoli.

Sconfitte su sconfitte

Nel frattempo la causa palestinese ha continuato a incorrere in sconfitte su sconfitte a livello politico e diplomatico. Molte Nazioni, che in precedenza erano filo-palestinesi, colsero l’occasione del riconoscimento di Israele da parte dell’OLP per abbandonare le loro precedenti posizioni di critica o condanna di Israele per la sua occupazione e oppressione dei palestinesi.

Molte Nazioni, compresi Paesi come India e Cina, svilupparono rapporti di cooperazione commerciale, per la sicurezza e persino militare con Israele a spese della causa palestinese. “Non possiamo essere più palestinesi dei palestinesi”, era il pretesto per tali spostamenti radicali, non solo tra i Paesi dell’Asia Meridionale, africani e alcuni latinoamericani, ma anche all’interno dello stesso mondo arabo.

Qualcuno ha persino sostenuto pubblicamente: come osano i palestinesi criticare altri per “aver normalizzato” le relazioni con Israele quando il loro “unico e legittimo rappresentante” collabora in tutto e per tutto con le autorità dell’occupazione?

Ci fu un tempo in cui la maggior parte del mondo equiparava il sionismo al razzismo. Quelli che sostennero quella posizione lo fecero per l’ammirevole risolutezza dei palestinesi nella loro lotta contro questo Stato spudoratamente razzista. Per molti decenni Israele venne paragonato al defunto regime dell’apartheid in Sudafrica, e a ragione. Tuttavia l’apartheid israeliano è riuscito dove ha fallito quello sudafricano: la creazione di un’entità indigena collaborazionista.

È su quel successo che oggi Israele costruisce. La differenza tra dove ci troviamo oggi e dove ci trovavamo 30 anni fa è l’ANP, la cui funzione è stata principalmente contribuire al controllo delle masse palestinesi e bloccare ogni minaccia che essi potessero rappresentare per le autorità dell’occupazione israeliana.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Azzam Tamimi è accademico e attivista politico anglo-palestinese. Attualmente è il direttore del canale Alhiwar [televisione satellitare in lingua araba con sede a Londra, ndtr.] e suo capo redattore.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)