Trump denigra i palestinesi per l’uso della stessa violenza che ha fatto nascere Israele

Edo Konrad

30 gennaio 2020 – +972

Il discorso sull’ “accordo del secolo” di Trump ha condannato i palestinesi per terrorismo ed elogiato Israele per la pace – ignorando del tutto la storia violenta di Israele.

Il presidente Trump ha cercato a malapena di nascondere il suo disprezzo per il popolo palestinese. Martedì la sua esposizione dell’“Accordo del Secolo” ha rivelato nel modo più chiaro possibile ciò che egli pensa dei milioni di palestinesi – nei territori occupati, all’interno di Israele e nella diaspora – che verrebbero interessati dal suo “accordo di pace”.

Le considerazioni di Trump sono state intrise del classico immaginario razzista. Anzitutto nel suo discorso ha usato i termini “terrorismo” e “terrore” nove volte riferendosi ai palestinesi. Ciò contrasta con l’apprezzamento che ha mostrato nei confronti di Israele, che il presidente ha descritto come un’isola di democrazia e prosperità. Agli occhi del presidente i palestinesi sono “intrappolati in una spirale di terrorismo, povertà e violenza”, e devono rinunciare al terrorismo come condizione per creare un proprio Stato.

La caricatura fatta dal presidente dei palestinesi come terroristi è del resto consueta. Fin dalla fondazione di Israele i palestinesi sono stati descritti come violenti rivoluzionari il cui unico scopo nella vita era annientare lo Stato ebraico e tutti gli ebrei. Quella posizione fu assecondata dai vertici dell’establishment politico israeliano – compreso il Primo Ministro David Ben Gurion, che ordinò ai soldati israeliani di attuare una “politica di fuoco indiscriminato” lungo i confini del Paese. Ciò significa che potevano sparare ed uccidere “infiltrati” palestinesi, molti dei quali erano rifugiati che cercavano di tornare nella loro terra.

Ciò che è peculiare riguardo a questi mantra degli arabi “selvaggi violenti” è che essi trascurano la stessa storia di terrorismo del sionismo, che ricoprì un ruolo centrale nella nascita di Israele. Questa amnesia, soprattutto nell’opinione pubblica israeliana, è ciò che la ricercatrice in studi culturali Marita Sturken definisce “dimenticanza strategica”, con cui le Nazioni scelgono quali storie ignorare privilegiando invece memorie nazionali e culturali più positive.

Per esempio gli israeliani preferiscono dimenticare che, prima che diventassero Primi Ministri, Menachem Begin e Yitzhak Shamir furono solerti miliziani che pianificarono brutali atti di terrorismo contro civili palestinesi, attaccarono soldati e alti ufficiali inglesi e addirittura assassinarono personalità politiche straniere.

Il libro di Begin del 1951 “La rivolta” – che non solo divenne una lettura canonica per la destra israeliana, ma ispirò anche persone come Nelson Mandela – espone in dettaglio, e con grande spavalderia, i modi in cui i miliziani sionisti dei gruppi paramilitari Etzel [noto anche come Irgun, ndtr.] e Lehi[la banda Stern, ndtr.] facevano saltare in aria i mercati arabi e combattevano una sanguinosa guerriglia contro le forze britanniche, a cui Begin si riferiva come “esercito di occupazione.”

La celebrazione del terrorismo sionista va oltre questi ricordi. Tutto intorno a Tel Aviv si possono trovare targhe di bronzo che celebrano le vittorie e le sconfitte delle milizie sioniste antecedenti allo Stato. Una targa a sud della città commemora un tunnel scavato dai miliziani di Etzel che conduceva ad un’installazione militare britannica, che intendevano fare esplodere. Un’altra targa nei pressi segnala il luogo in cui due combattenti di Lehi, facendosi passare per operatori telefonici, guidarono un’autobomba dentro un centro di comunicazioni britannico, uccidendo diversi poliziotti.

Ci sono decine di queste targhe sparse per tutta la città. Alcune commemorano le fabbriche di armi dell’ Etzel, altre i luoghi dove il Lehi stampava i suoi volantini, altre ancora dove l’Haganah – la formazione paramilitare sionista più grande e più importante, che attuò  la maggior parte delle espulsioni durante la guerra del 1948 e costituì la spina dorsale del nascente esercito israeliano – teneva le riunioni segrete e i centri di addestramento. Tutte queste targhe non solo riportano le insegne delle milizie sioniste, ma anche il timbro ufficiale del Comune di Tel Aviv-Giaffa.

La città è anche sede di quattro musei dedicati alla memoria dei gruppi paramilitari. Camminando a sud lungo la Tel Aviv Promenade, si arriva ad un vecchio edificio palestinese. È l’ultima vestigia del quartiere un tempo conosciuto come Manshiyyeh, che oggi ospita il Museo di Etzel in onore del gruppo che “liberò” Giaffa durante la guerra del 1948. Una lapide accanto all’entrata dell’edificio riporta i nomi dei membri di Etzel uccisi nell’operazione.

Quella “liberazione” comportò l’espulsione di circa 95.000 palestinesi dall’area della Grande Giaffa, molti dei quali furono mandati con la forza nei campi profughi in Cisgiordania e a Gaza. Migliaia di altri palestinesi, molti in fuga dai villaggi nelle vicinanze di Giaffa, furono radunati in una piccola zona della città circondata da filo spinato, a cui le autorità israeliane informalmente facevano riferimento come al “ghetto”.

Le espulsioni, i massacri, i depositi segreti di armi e i tunnel delle milizie sioniste si estendevano ben oltre i confini dell’area di Tel Aviv-Giaffa. Erano parte di uno sforzo bellico di tutta la nazione, senza il quale lo Stato di Israele non avrebbe potuto vedere la luce. Come ho scritto diversi anni fa, quando l’esercito israeliano scoprì tunnel di Hamas da Gaza fin dentro il territorio di Israele, “se l’odierno Stato di Israele si fosse scontrato con i movimenti sionisti precedenti allo Stato, sicuramente avrebbe condannato le loro violazioni dei diritti umani e li avrebbe eliminati per sempre.”

Una simile storia violenta non è sicuramente peculiare solo di Israele, ma costituisce una grande lezione per il conflitto. Data la loro storia, gli israeliani dovrebbero essere i primi a capire perché chi combatte un occupante straniero per la propria liberazione e autodeterminazione diventa violento. Ovviamente non sarà Trump a risvegliare Israele sul suo passato, né oserà fare paragoni tra la violenza politica palestinese e quella ebraica. Ma prima o poi potrebbe arrivare un presidente USA che lo farà.

Edo Konrad è caporedattore di +972 Magazine. Vive a Tel Aviv ed in precedenza ha lavorato come redattore per Haaretz

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Perché di fronte al piano di Trump gli Stati arabi si sono “divisi”?

Farah Najjar

31 gennaio 2020 – Al Jazeera

Diversi Paesi che attraversano sconvolgimenti sociali ed economici e percepiscono l’Iran come minaccia non riescono a contestare il piano di Trump.

Le reazioni divergenti tra gli Stati arabi al cosiddetto piano per il Medio Oriente del presidente degli Stati Uniti Donald Trump non sono state una sorpresa, affermano gli analisti, osservando che il motivo principale del sostegno – forte o discreto che sia – è quello di garantire il sostegno a Washington contro un comune nemico nella regione, l’Iran.

Dicono che ciò è indicativo anche delle divergenze tra Paesi arabi e dell’impossibilità per alcuni, nelle loro relazioni con l’amministrazione Trump, di dare la priorità alla situazione del popolo palestinese rispetto alle agende economiche nazionali e ai calcoli politici.

Che non ci sia stato un ripudio compatto e deciso del piano di Trump presentato martedì segnala la volontà di alcuni Stati arabi di normalizzare i propri rapporti con Israele, per garantire un “fronte unito” contro le presunte minacce dell’Iran.

“Il breve conflitto militare USA-Iran a gennaio [a seguito dell’assassinio del generale Qassem Soleiman. ndtr.] ha convinto alcuni Paesi del Golfo che Washington è il loro unico protettore”, ha detto ad Al Jazeera Ramzy Baroud, scrittore e giornalista palestinese.

“Alcuni fra gli arabi hanno completamente abbandonato la Palestina e stanno abbracciando Israele per difendersi da una immaginaria minaccia iraniana”, ha detto Baroud.

Negli ultimi anni alcuni Paesi del Golfo come l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrein, che tradizionalmente sostenevano la causa palestinese, hanno cercato di ingraziarsi Israele perché vedono l’Iran come la maggiore minaccia nella regione.

Penso che ciò che è successo sia che queste persone abbiano adottato l’approccio secondo cui il nemico del mio nemico è mio amico”, ha detto ad Al Jazeera Diana Buttu, analista ed ex consulente legale dei negoziatori di pace palestinesi.

“E non dovrebbe essere necessario neutralizzare l’Iran, o occuparsi dell’Iran … finirebbe per essere a spese dei palestinesi”, ha detto.

Stato di decadenza morale”

Trump, insieme al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, ha presentato la sua proposta alla Casa Bianca ad un pubblico filoisraeliano. Tra i presenti alla riunione inaugurale c’erano gli ambasciatori del Bahrain, degli Emirati Arabi Uniti e dell’Oman.

Muscat [capitale dell’Oman, ndtr.], che ha tradizionalmente condotto una politica estera neutrale, nel 2018 con una mossa a sorpresa ha ricevuto Netanyahu, prima visita in Oman di un leader israeliano in oltre due decenni.

Mentre l’Arabia Saudita ha affermato di apprezzare gli sforzi di Trump e ha auspicato colloqui diretti israelo-palestinesi, l’ambasciatore degli Emirati Arabi Uniti a Washington, Yousef al-Otaiba, ha dichiarato che il piano “offre un importante punto di partenza per un ritorno ai negoziati all’interno di un quadro internazionale guidato dagli Stati Uniti.”

L’Egitto ha seguito l’esempio, sollecitando “un attento e approfondito esame del progetto statunitense”, mentre la Giordania ha messo in guardia contro “l’annessione delle terre palestinesi”. Amman custodisce il complesso della moschea Al-Aqsa nella Gerusalemme est occupata, considerato il terzo sito santo dell’Islam.

Nonostante alcuni di questi Paesi si siano sempre opposti alla crescente influenza dell’Iran nella regione, in passato avevano preso posizioni più forti contro la politica israeliana in Palestina.

Da quando ha assunto la carica il 20 gennaio 2017, Trump è apparso sostenitore dichiarato di Israele e Netanyahu e delle loro politiche anti-palestinesi, che includono una serie di misure criticate come “razziste” e “discriminatorie”.

In particolare, il controverso riconoscimento da parte di Trump di Gerusalemme come capitale di Israele e il trasferimento dell’ambasciata nel 2018 hanno suscitato una condanna unanime da parte dei leader arabi, mentre i leader palestinesi, che vedono Gerusalemme Est come capitale del loro futuro Stato, hanno affermato che gli Stati Uniti non sono più un mediatore onesto nei negoziati.

L’amministrazione Trump ha anche dichiarato che non considera più illegali gli insediamenti israeliani nella Cisgiordania occupata e a Gerusalemme est, invertendo decenni di politica americana – una mossa contrastata con forza da palestinesi e associazioni per i diritti.

Washington ha anche chiuso gli uffici della missione dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) a Washington per il rifiuto dell’autorità palestinese di avviare colloqui con Israele guidati dagli Stati Uniti.

A queste mosse contro il popolo palestinese e la sua leadership, le Nazioni arabe hanno reagito condannando apertamente le politiche USA-israeliane come violazioni del diritto internazionale, specialmente in merito allo status di Gerusalemme e al trasferimento dell’ambasciata americana da Tel Aviv.

“Penso che il valore simbolico di Gerusalemme renda più difficile per gli Stati legati agli USA andare contro l’opinione pubblica”, ha affermato Sam Husseini, direttore dell’Institute of Public Accuracy [Istituto per il contrasto alla falsa informazione, ndtr] con sede a Washington.

“È più facile abbandonare i palestinesi come popolo”, ha detto.

Analogamente, Baroud ha affermato che il sostegno al piano di Trump con il conseguente abbandono del popolo palestinese riflette lo “stato di decadenza morale e la disunione del mondo politico arabo”.

“Da un lato, cercano timidamente di mostrare il loro sostegno ai palestinesi, ma dall’altro non vogliono trovarsi in uno scontro politico con Washington e i suoi alleati”, ha detto.

Alaa Tartir, consulente politico di Al-Shabaka: Palestinian Policy Network [rete politica palestinese, ndtr.] afferma che i Paesi arabi non vogliono sfidare gli Stati Uniti.

“In assenza di una potente Lega di Stati arabi … i singoli Stati arabi danno priorità al proprio programma, ai propri bisogni e alle aspirazioni e ambizioni nella regione “, ha detto Tartir ad Al Jazeera.

“Dire un ‘no’ diretto all’amministrazione americana avrebbe conseguenze che molti Stati arabi non sono disposti a sostenere”, ha osservato.

Dipendenza dagli Stati Uniti”

La proposta di Trump ha tolto di mezzo i palestinesi e viola la risoluzione 242 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che invitava Israele a ritirare le sue forze dai territori occupati nella guerra dei Sei Giorni, e auspicava anche il ritorno dei rifugiati

Prevede l’annessione israeliana di vaste aree della Cisgiordania occupata, compresi gli insediamenti illegali e la Valle del Giordano, offrendo a Israele un confine orientale definitivo lungo il fiume Giordano.

Per contrastare il piano, gli Stati arabi dovrebbero elaborare un “piano e una visione operativa parallela e dettagliata”, ha affermato Tartir.

“Potrebbero iniziare un processo di riforma delle istituzioni di governance globale; e investire in procedure e norme internazionali per rafforzare quella governance di fronte alle continue violazioni americane-israeliane”.

Ma la maggior parte degli Stati arabi è intrappolata in una sequenza di “frammentazione, polarizzazione, debolezza” e, soprattutto, “dipendenza dall’amministrazione americana”, ha affermato Tartir, riferendosi agli sconvolgimenti sociali ed economici in diversi Paesi della regione.

Alcuni dipendono dagli Stati Uniti per mantenere il potere politico; altri, come la Giordania e l’Egitto, dipendono anche dai finanziamenti statunitensi – entrambi i Paesi sono tra i principali beneficiari degli aiuti statunitensi.

Dal 1979, l’Egitto ha ricevuto aiuti per una media di 1,6 miliardi di dollari l’anno, la maggior parte dei quali è stata destinata all’esercito. Il finanziamento statunitense è stato brevemente sospeso durante l’amministrazione del presidente Barack Obama in seguito al colpo di stato militare del 2012.

Amman e il Cairo, stretti alleati degli Stati Uniti e uniche Nazioni arabe ad avere legami diplomatici con Israele, sembrano essere economicamente troppo fragili per contrastare le politiche di USA e Israele nella regione.

“Parlare di potere politico arabo e di una eventuale unità a difesa dei diritti dei palestinesi sembra del tutto incompatibile con l’attuale natura della realtà politica”, ha osservato Baroud.

“I diritti del popolo palestinese e, diciamolo, i diritti dei popoli arabi al momento non incidono minimamente sull’agenda politica araba”, ha affermato.

(Traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Cosa c’è dietro il riavvicinamento tra Russia e Hamas?

Adnan Abu Amer

27 novembre 2019 – Al Jazeera

Hamas spera che la Russia possa essere d’aiuto per uscire dall’isolamento internazionale. Ma funzionerà?

Nelle ultime settimane c’è stato un considerevole aumento del numero di scambi ufficiali ad alto livello tra il governo russo e Hamas. Ma quest’intensificazione delle relazioni potrebbe aiutare a spezzare il recente isolamento imposto dagli Stati Uniti e dai loro alleati?

A luglio Mousa Abu Marzouk, vice-presidente dell’ufficio politico di Hamas, ha guidato una delegazione in visita a Mosca e ha incontrato Mikhail Bogdanov, vice-ministro degli esteri russo e inviato speciale per il Medio Oriente e l’Africa.

A metà ottobre si sono nuovamente incontrati a Doha, in Qatar, e poi alcune settimane più tardi l’inviato russo ha avuto una conversazione telefonica con Ismail Haniya, il leader di Hamas.

Secondo le due parti in queste conversazioni si è discusso del cosiddetto “accordo del secolo” del presidente USA Donald Trump e dei motivi del rifiuto di Hamas. 

Le dichiarazioni di vari funzionari russi che sembrano criticare “l’accordo del secolo ” sono state ben accolte sia a Gaza che a Ramallah. A metà ottobre, il presidente russo Vladimir Putin ha detto che avrebbe appoggiato ogni patto che avesse portato la pace, ma ha definito la proposta di Washington “piuttosto vaga”.

La Russia sembra voler rivaleggiare con gli USA nella mediazione fra Israele e la Palestina. Per questo motivo è ansiosa di coinvolgere non solo l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), ma anche Hamas.

L’impegno russo con il movimento non è sorto dal nulla, dato che negli ultimi dieci anni si sono mantenute delle relazioni con i suoi dirigenti. Mentre gli USA e l’Unione Europea hanno etichettato fin da subito Hamas come ” gruppo terroristico “, la Russia ha mantenuto contatti di alto livello fin dal 2006 quando, dopo la sua vittoria nelle elezioni parlamentari, assunse il controllo a Gaza.

 

La Russia ha giustificato questa scelta dicendo che Hamas è il rappresentante eletto di un settore significativo della società palestinese ed è rappresentato nel Consiglio Legislativo Palestinese e nei governi palestinesi.

 Negli anni Mosca ha anche ospitato parecchie sessioni di negoziati volte a forgiare una riconciliazione fra il gruppo di Gaza e il partito “Fatah” del presidente palestinese Mahmoud Abbas. 

Anche se Hamas ha goduto da lungo tempo di cordiali relazioni con la Russia, ha ancora molto da guadagnare rafforzando ulteriormente questo legame.

La Russia è una grande potenza con un seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Fa anche parte del Quartetto per il Medio Oriente [composto anche da ONU, USA e UE, ndtr.] che lavora per risolvere il conflitto israelo-palestinese. Inoltre la Russia mantiene strette relazioni con i tre interlocutori che più interessano ad Hamas: Israele, l’Autorità Nazionale Palestinese e l’Egitto. La Russia quindi potrebbe aiutare Hamas non solo a tener testa nell’arena internazionale a Trump e al suo “accordo del secolo “, ma anche a risolvere i suoi problemi con l’ANP e l’Egitto.

I leader a Gaza sanno che le relazioni russo-israeliane si sono ulteriormente rafforzate in seguito all’intervento russo in Siria nel 2015 e dopo l’apertura di un centro di coordinamento delle operazioni degli eserciti russo e israeliano per prevenire incidenti sul campo.

Nonostante ciò, Hamas non considera le relazioni tra la Russia e Israele un ostacolo nello stabilire delle relazioni più strette con Mosca. Al contrario, Hamas crede che Mosca possa usare i suoi legami con Israele per aiutare il movimento a prevenire attacchi politici e militari di Israele a Gaza.

Inoltre Hamas vuole che la Russia aiuti a ristabilire le relazioni con il regime siriano che si sono interrotte nel 2012, quando [Hamas] ha dato il suo appoggio alle proteste contro il regime siriano.

In questo contesto, l’intensificarsi delle attività fra Mosca e Gaza sembra essere una grande vittoria per Hamas, che crede possa porre fine al suo isolamento politico permettendole di unirsi al gruppo dei rappresentanti legittimi del popolo palestinese agli occhi della comunità internazionale.

Ci sono comunque dei motivi per andar cauti nella valutazione sul significato e sulla durata di questo riavvicinamento.

La Russia è interessata a esercitare un influsso maggiore in Medio Oriente in generale, e in Palestina in particolare. Essa crede che spezzare il monopolio americano nel processo di pace sia la chiave per ripristinare il suo controllo dell’intera regione. Vuole avere delle relazioni più strette con Hamas perché considera il movimento un attore chiave in Palestina estraneo all’influsso USA.
Inoltre, Mosca vuole usare Hamas per sviluppare delle relazioni più strette con altri movimenti politici islamici della regione, come la Fratellanza Musulmana.

Non si può valutare l’avvicinamento della Russia a Hamas indipendentemente dalla sua alleanza nella regione con l’Iran. Mosca vuole avere dalla propria parte quante più potenze possibili nella regione per fronteggiare gli USA e pensa che Hamas possa prendere posto nell’asse guidato dall’Iran contro gli alleati degli USA.

Tutto ciò comunque non significa che Mosca sia sulla stessa lunghezza d’onda quando si parla della sua visione del futuro della Palestina. A differenza di Hamas, Mosca sostiene la soluzione dei due Stati e si oppone alla resistenza armata. E inoltre, come membro del Quartetto del Medio Oriente, vuole il riconoscimento di Israele da parte di tutte le fazioni palestinesi.

Tutto ciò fa sorgere serie domande circa le prospettive di una collaborazione a lungo termine fra la Russia e Hamas che possa offrire dei reali benefici politici a quest’ultimo.

Infatti la Russia ha già deluso il movimento su parecchi fronti. Per esempio, l’ufficio di Hamas nella capitale russa non è ancora “ufficiale”, nonostante le ripetute richieste dei suoi funzionari. Ha inoltre fino ad ora fatto poco per alleviare il suo isolamento internazionale.

Anche se senza dubbio Hamas ci guadagnerà ad avere relazioni più strette con una superpotenza, è difficile che Mosca possa offrire tutto quello di cui il movimento ha bisogno, a meno che il movimento stesso non sia d’accordo ad arrivare a dei compromessi, incluso l’accordo a favore di uno Stato palestinese entro la Linea Verde [cioè i confini tra Israele e Cisgiordania del 1967, ndtr.]. Questo potrebbe avere un notevole costo politico sul campo e danneggiare la sua popolarità fra i palestinesi, ma aiuterebbe a farlo uscire dall’isolamento internazionale e a mettere in discussione l’etichetta di “terrorista”.

I segnali del miglioramento delle relazioni con la Russia costituiscono già una svolta importante per il movimento. Ma per essere in grado di massimizzare i vantaggi di questa relazione e rafforzare ancora di più i suoi legami con la Russia, Hamas dovrebbe adottare un approccio pragmatico alla politica internazionale. 

Le opinioni contenute in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente quelle della redazione di Al Jazeera.

 

Il dottor Adnan Abu Amer è il direttore del Dipartmento di Scienze Politiche dell’Università della Ummah [la comunità dei fedeli musulmani, ndtr.] a Gaza.

(Traduzione di Mirella Alessio)




Rifugiati: l’”accordo del secolo” di Trump è destinato al fallimento

Mustafa Abu SneinehChloé Benoist

19 giugno 2019 – Middle East Eye

La proposta segue lo stesso percorso di altri inutili negoziati del passato e minaccia lo status di milioni di palestinesi

In un conflitto centrato sulla relazione tra terra e popolo, la questione dei rifugiati palestinesi è stata il punto su cui sin dall’istituzione dello Stato di Israele si sono incagliati gli sforzi diplomatici – e sembra che il cosiddetto “accordo del secolo” del presidente americano Donald Trump non faccia eccezione a questa regola.

Israeliani e palestinesi hanno sempre aspramente dissentito su chi sia un rifugiato, su quali diritti abbia e su quale dovrebbe essere il suo destino a lungo termine, visto che gli innumerevoli tentativi da parte della comunità internazionale di raggiungere un consenso sulla questione hanno sempre fallito.

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L’ultima proposta, questa volta da parte dell’amministrazione Trump, sembra non solo orientata al fallimento proprio come i negoziati precedenti, ma addirittura fondata sul tentativo di eliminare completamente il problema dei rifugiati.

A milioni in tutta la regione

Circa 750.000 palestinesi sono fuggiti o sono stati cacciati con la forza dalle loro case da gruppi paramilitari ebrei nel 1948 alla nascita dello Stato israeliano.

Secondo i dati delle Nazioni Unite all’epoca quel numero corrispondeva a più della metà della popolazione palestinese. A settant’anni da quel moderno esodo, quasi 5,5 milioni di quei palestinesi e dei loro discendenti sono registrati come rifugiati presso le Nazioni Unite.

Circa 2,2 milioni di rifugiati vivono in decine di campi profughi tra la Cisgiordania e Gaza occupate, mentre la maggioranza degli altri vive nei paesi confinanti di Giordania, Libano e Siria.

Il “diritto al ritorno” per i palestinesi sfollati a causa del conflitto è stato stabilito nella risoluzione 194 approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1949 e ribadito dalla stessa istituzione in un’altra risoluzione nel 1974, che ha definito la sua attuazione “indispensabile per la soluzione della questione palestinese”.

È sostenuto da altre risoluzioni e convenzioni internazionali, che affermano in modo più generale il diritto delle popolazioni al ritorno nella propria patria.

La lotta per il diritto al ritorno

Ma il diritto al ritorno è stato a lungo considerato da Israele come una minaccia demografica alla sua auto-identificazione come Stato ebraico. Secondo i dati della Banca Mondiale la popolazione di Israele nel 2017 era di 8,7 milioni, di cui circa il 20% cittadini palestinesi di Israele.

Di conseguenza, la posizione di Israele nei negoziati è improntata al rifiuto di accettare la potenziale prospettiva di milioni di palestinesi che ritornano alle proprie case.

Gli accordi di Oslo del 1993 istituirono l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) come organismo governativo ad interim, con l’obiettivo dichiarato di creare uno Stato palestinese indipendente entro la fine del secolo.

L’accordo prevedeva il raggiungimento di una soluzione permanente del conflitto entro cinque anni, dopo di che un accordo su questioni di “status finale” – come gli insediamenti israeliani, il destino di Gerusalemme e dei rifugiati – sarebbe stato presumibilmente concluso durante una seconda fase dei negoziati.

Ma quando nel 1999 si arrivò alla scadenza dei cinque anni, tutti i tentativi di raggiungere un accordo permanente erano falliti.

Tra il 2000 e il 2001, quando l’allora presidente americano Bill Clinton cercò di raggiungere un nuovo accordo durante i vertici di Camp David e Taba, la posizione israeliana oscillò.

A Camp David, il famoso ritiro presidenziale nel Maryland, l’allora capo dello staff israeliano, Gilead Sher, scrisse che i negoziatori israeliani avevano chiaro come qualsiasi accordo che consentisse ai rifugiati di ritornare avrebbe previsto nientemeno che 100.000 persone.

Fu anche discussa l’istituzione di un fondo internazionale tra i 10 e i 20 miliardi di dollari per aiutare i rimanenti rifugiati a reinsediarsi permanentemente nei Paesi di accoglienza – lo scenario preferito da Israele.

Ma quando le parti si incontrarono di nuovo sei mesi più tardi nella località egiziana di Taba, gli israeliani cercarono di far abbandonare del tutto l’ipotesi.

In una riunione di gabinetto in vista del vertice di Taba, il governo israeliano affermò che una delle sue posizioni imprescindibili nei colloqui era che “Israele non permetterà mai ai rifugiati palestinesi il diritto di tornare nello Stato di Israele”.

I negoziatori discussero dei risarcimenti ai rifugiati palestinesi, ma di nuovo non fu possibile raggiungere alcun accordo. I negoziatori palestinesi discutevano la restituzione e il risarcimento in base a valutazioni legate alle proprietà [perse dai profughi e che si trovavano nel territorio diventato israeliano, ndtr.], mentre gli israeliani discutevano del risarcimento solo nei termini di una somma fissa.

I summit di Camp David e Taba si svolsero in tempi molto vicini alle elezioni statunitensi e israeliane, ciò che condannò i colloqui a non raggiungere mai una conclusione positiva.

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Nel 2004, Tzipi Livni, all’epoca ministro israeliano per l’Integrazione degli Immigrati e politicamente di centro, aveva convinto il presidente degli Stati Uniti George W. Bush a far proprio il totale rifiuto di Israele del diritto al ritorno – una posizione intransigente, che in seguito il Segretario di Stato americano Condoleeza Rice disse come l’avesse colpita in quanto ” strenua difesa della purezza etnica dello Stato israeliano”.

Israeliani e palestinesi hanno continuato a dissentire sulla questione dei rifugiati nei successivi importanti colloqui di pace avviati dal 2013 al 2014 dal Segretario di Stato americano John Kerry.

Netanyahu ha respinto il diritto al ritorno dei palestinesi e ha posto come requisito per la pace il riconoscimento di Israele come Stato ebraico, ma il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas ha rifiutato, sostenendo che questo avrebbe compromesso le rivendicazioni dei profughi palestinesi di tornare alle loro case.

L’ UNRWA nel mirino

Adesso, il cosiddetto “accordo del secolo” del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, insieme alla sua decisione di porre fine ai finanziamenti statunitensi per l’UNRWA, l’UN Relief and Works Agency (l’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e il Lavoro) che sostiene i milioni di profughi palestinesi, sembra essere un tentativo di rimuovere completamente il problema dal tavolo dei negoziati.

Creato dalle Nazioni Unite nel dicembre 1949 come organizzazione temporanea, da allora l’UNRWA ha fornito istruzione, assistenza sanitaria, infrastrutture e servizi di soccorso di emergenza ai palestinesi sfollati, oltre a dare lavoro a migliaia di persone nei territori occupati.

Operando in Giordania, Siria, Libano, Cisgiordania e Gaza, l’UNRWA vede il suo mandato rinnovato ogni tre anni ed è finanziato quasi interamente da contributi volontari degli Stati membri delle Nazioni Unite, tra cui gli Stati Uniti, che sono stati per decenni il maggior donatore.

Lo scorso agosto si è saputo che Trump intendeva cambiare la politica degli Stati Uniti nei confronti dei rifugiati palestinesi in modo che i discendenti degli sfollati del 1948 e della guerra arabo-israeliana del 1967 non venissero calcolati.

Ciò ridurrebbe il numero a circa 500.000, ossia a circa un decimo del numero attualmente riconosciuto e supportato dall’UNRWA.

Ciò ha anche portato Washington ad allinearsi ad Israele, che sostiene che ereditare lo status di rifugiato, dalla prima generazione di palestinesi sfollati ai loro discendenti, vale solo per i palestinesi e di per sé “perpetua il conflitto”.

Accogliendo con favore la fine dei finanziamenti statunitensi all’UNRWA, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha affermato che gli Stati Uniti “hanno fatto qualcosa di molto importante bloccando i finanziamenti per l’agenzia di perpetuazione dei rifugiati nota come UNRWA”.

“Sta finalmente iniziando a risolvere il problema. I fondi devono essere presi e utilizzati per aiutare veramente a reinserire i rifugiati, il cui numero reale è una frazione del numero indicato dall’UNRWA “, ha detto. “Questo è un cambiamento molto positivo e importante, e lo sosteniamo.”

Netanyahu ha anche sottolineato le differenze tra le definizioni di rifugiato dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) e dell’UNRWA, e ha chiesto all’UNHCR di assumere gradualmente il mandato dell’UNRWA.

La definizione dell’UNHCR esclude dallo status di rifugiato chiunque abbia successivamente acquisito la cittadinanza di un altro Paese, mentre l’UNRWA conta come rifugiati anche quanti abbiano un’altra cittadinanza e i discendenti della prima generazione sfollata dalla propria terra.

L’UNRWA ha ripetutamente smentito le accuse di trattamento speciale per i rifugiati palestinesi e ha addossato direttamente la responsabilità della continua crisi dei rifugiati all’inconcludente processo di pace.

Perché Trump perseguita i rifugiati?

Nel frattempo, l’interruzione dei finanziamenti statunitensi all’UNRWA ha proiettato ulteriore incertezza e scompiglio nel futuro di milioni di palestinesi in tutta la regione.

Trump ha sostenuto che gli Stati Uniti hanno elargito grandi contributi finanziari ai palestinesi senza ottenerne abbastanza “apprezzamento o rispetto” – sottintendendo che i tagli agli aiuti siano un mezzo per esercitare pressioni sui leader palestinesi nei negoziati del piano di pace detto “accordo del secolo”.

Nonostante le risoluzioni e le convenzioni internazionali che hanno posto la questione dei rifugiati, per lo più i passati colloqui di pace non hanno affrontato in modo concreto il destino dei palestinesi in esilio.

Alcuni vedono quindi lo smantellamento dell’UNRWA da parte di Trump e le sue pressioni per rimuovere la maggioranza dei palestinesi dalla lista dei rifugiati come parte di un piano per portare a termine un accordo in cui uno dei principali punti controversi nella precedente serie di colloqui sia semplicemente rimosso dalla discussione.

Tuttavia, alcuni osservatori hanno sottolineato che la lunga storia statunitense di finanziamento dei palestinesi è perfettamente in linea con il suo sostegno a Israele.

Sostengono che l’esternalizzazione degli aiuti umanitari, ad organizzazioni internazionali e a potenze mondiali, ha permesso a Israele di sganciarsi dalla sua stessa responsabilità come potere occupante di provvedere alle popolazioni civili sotto il suo controllo, come definito dal diritto internazionale.

Queste preoccupazioni sembrano essere condivise da alcuni dirigenti israeliani. A settembre, è stato riferito che i responsabili della sicurezza israeliana hanno sollecitato il loro governo a trovare una fonte alternativa per gli aiuti a Gaza nel timore che la fine dei finanziamenti dell’UNRWA potesse portare a un ulteriore deterioramento della situazione umanitaria nell’enclave e ad un’eventuale guerra.

Il precipitoso calo degli aiuti, quindi, potrebbe ritorcerglisi contro – poiché i profughi palestinesi, la maggior parte dei quali continua a resistere con fermezza nella speranza di tornare in patria, potrebbero avere ora ancora meno da perdere.

(traduzione di Luciana Galliano)




Il piano di Trump per cancellare le ragioni dei palestinesi gode di sostegno bipartisan nel Congresso

Jonathan Cook

14 giugno 2019 – Middle East Eye

Gli Stati Uniti cercano di orchestrare una situazione favorevole nella regione prima di cominciare ad attuare l’“accordo del secolo’

Il prolungato bullismo finanziario della Casa Bianca nei confronti dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), possibile futuro governo palestinese, è arrivato al punto che sono ora credibili le avvisaglie circa un suo prossimo collasso. La crisi ha fornito agli oppositori un’ulteriore prova dell’approccio apparentemente caotico e spesso autolesionista dell’amministrazione Trump nei confronti delle questioni di politica estera.

Nel frattempo, i funzionari statunitensi incaricati di risolvere il conflitto israelo-palestinese manifestano in modo ancora più palese la loro parzialità, come nel caso delle recenti affermazioni di David Friedman, ambasciatore in Israele, secondo cui Israele è “dalla parte di Dio” e dovrebbe avere il “diritto di annettere” gran parte della Cisgiordania.

E ancora, i critici vedono l’approccio dell’amministrazione Trump come un pericoloso allontanamento dal tradizionale ruolo statunitense di “mediatore imparziale”.

Tali analisi, per quanto diffuse, sono profondamente fuorvianti. Lungi dal non avere una strategia, la Casa Bianca ne ha una chiara e precisa per imporre una soluzione al conflitto israelo-palestinese – il cosiddetto “accordo del secolo” del presidente Donald Trump. Anche senza aver finora reso pubblico alcun documento formale, i contorni del piano si stanno delineando sempre più chiaramente, e si può già cominciare a vederne la realizzazione sul campo.

Il continuo ritardo nell’annunciare il piano è semplicemente un’indicazione del fatto che la squadra di Trump ha bisogno di più tempo per costruire un contesto politico adatto affinché il piano venga alla luce.

Inoltre, la visione dell’amministrazione Trump sul futuro di israeliani e palestinesi – per quanto estremista ed unilaterale – ha un ampio sostegno bipartisan a Washington. Non c’è nulla di particolarmente “trumpiano” nel “processo di pace” prodotto dall’amministrazione.

Bloccare gli aiuti

Paradossalmente, ciò è apparso chiaro la scorsa settimana, quando i membri del Congresso degli Stati Uniti da entrambi i lati dell’aula hanno presentato una proposta di legge per aiutare l’economia palestinese in difficoltà con 50 milioni di dollari. La speranza è quella di creare un “Fondo di Partnership per la Pace” che offra un appiglio finanziario a israeliani e palestinesi in cerca di una risoluzione al conflitto – o, almeno, questo è quanto viene affermato.

Questa improvvisa preoccupazione per la salute dell’economia palestinese è un’inversione di tendenza spettacolare e poco chiara. Da più di un anno il Congresso è stato partner attivo ed entusiasta della Casa Bianca nel togliere gli aiuti all’Autorità Nazionale Palestinese.

La settimana scorsa Mohammad Shtayyeh, primo ministro palestinese, ha dichiarato al New York Times che l’Autorità Nazionale Palestinese sta per implodere. “Siamo al collasso”, ha detto al giornale.

La crisi dell’ANP non è una sorpresa. Il Congresso l’ha attivamente promossa approvando nel marzo 2018 il Taylor Force Act, che prevede che gli Stati Uniti interrompano i finanziamenti all’Autorità Nazionale Palestinese fino a quando l’ANP pagherà un sussidio a circa 35.000 famiglie di palestinesi incarcerati, uccisi o mutilati da Israele.

Sull’orlo del collasso

Le precedenti amministrazioni statunitensi avrebbero potuto firmare una deroga per impedire che tale legge entrasse in vigore – proprio come hanno fatto tutti i presidenti fino a quando Trump non ha bloccato una legge del Congresso, approvata nel 1995, proponendo che gli Stati Uniti trasferissero la propria ambasciata a Gerusalemme.

Ma la Casa Bianca di Trump non è interessata a salvarsi la faccia dal punto di vista diplomatico o a tenere a freno il fanatismo filo-israeliano dei parlamentari statunitensi. Condivide con fervore ed esplicitamente la parzialità da tempo intrinseca nel sistema politico statunitense.

In linea con il Taylor Force Act, la Casa Bianca ha tagliato fondi vitali per i palestinesi, tra cui quelli all’UNRWA, l’agenzia per i rifugiati delle Nazioni Unite per i palestinesi e agli ospedali nella Gerusalemme est occupata da Israele.

La decisione del Congresso di soffocare l’ANP ha avuto ulteriori ripercussioni, smascherando il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu in patria. Non osando essere considerato meno anti-ANP dei parlamentari statunitensi, all’inizio di quest’anno Netanyahu ha messo in pratica la sua versione del Taylor Force Act.

Da febbraio ha trattenuto una percentuale delle tasse che Israele raccoglie per conto dell’Autorità Nazionale Palestinese, la maggior parte delle sue entrate, pari ai sussidi trasferiti alle famiglie palestinesi di prigionieri e alle vittime della violenza israeliana – o a quelli che Israele e gli Stati Uniti chiamano semplicemente “terroristi”.

Questo, a sua volta, ha messo il presidente palestinese Mahmoud Abbas in una situazione impossibile. Non può accettare un diktat israeliano che legittimi la ritenuta di Israele del denaro palestinese, né che definisca “terroristi” coloro che hanno sacrificato la vita per la causa palestinese. Quindi ha rifiutato l’intero trasferimento fiscale mensile fino al ripristino dell’intero importo.

E ora, proprio mentre tutti questi colpi contro l’ANP stanno finalmente per rovesciarla, il Congresso USA si prepara improvvisamente ad intervenire e salvare l’economia palestinese con 50 milioni di dollari. Cosa diavolo sta succedendo?

‘Soldi in cambio di tranquillità’

Le clausole scritte in piccolo sono rivelatrici. L’ANP, il nascente governo palestinese, non ha diritto a nessuna delle generose promesse del Congresso degli Stati Uniti.

Se passa la legge, i soldi saranno consegnati a “imprenditori e società palestinesi” e ad organizzazioni non governative disposti a lavorare con Stati Uniti e Israele su programmi di “costruzione della pace tra i popoli” e di “riconciliazione tra israeliani e palestinesi”.

In altre parole, la legge è in realtà concepita come un altro attacco contro l’attuale leadership palestinese. L’ANP è stata scavalcata ancora una volta, mentre gli Stati Uniti e Israele cercano di rafforzare una leadership alternativa, più economica che politica.

Questa mossa da parte dei rappresentanti degli Stati Uniti non capita nel vuoto. Dopo l’effettivo collasso degli accordi di Oslo, quasi due decenni fa, Washington ha cercato di ridurre un conflitto nazionale che ha bisogno di una soluzione politica a crisi umanitaria che ha bisogno di una soluzione economica.

È una variante del vecchio obiettivo di Netanyahu, distruggere la lotta nazionale palestinese e sostituirla con la cosiddetta “pace economica”.

Se un tempo l’obiettivo del processo di pace era “terra in cambio di pace” – cioè uno Stato palestinese in cambio della fine delle ostilità – ora lo scopo è “denaro in cambio di tranquillità”. Gli Stati Uniti stanno ora formalmente sostenendo gli sforzi di Israele per la pacificazione economica.

L’indignazione per le nuove elezioni

L’amministrazione Trump ha escogitato un processo in due fasi per neutralizzare i palestinesi.

In primo luogo, il genero di Trump, Jared Kushner, è stato incaricato di puntare sugli Stati arabi, in particolare quelli del Golfo ricchi di petrolio, per accumulare denaro al fine di pacificare i palestinesi e i loro vicini.

Questo è l’obiettivo della conferenza sugli investimenti che si terrà nel Bahrain alla fine di questo mese, perno dell’ “accordo del secolo” e non solo suo preludio.

Ecco perché lo stesso Trump era visibilmente indignato per il ritardo causato dalla decisione di Netanyahu di sciogliere il parlamento israeliano il mese scorso, un riflesso della sua debolezza politica nell’affrontare i prossimi processi per corruzione. Le nuove elezioni in Israele, brontolava Trump, sono “ridicole” e “incasinate”.

L’intento della conferenza del Bahrain è di disporre delle decine di miliardi di dollari raccolti da Washington per comprare l’appoggio all’accordo di Trump, principalmente da parte di Egitto e Giordania, fondamentali per il successo del programma di pacificazione.

Qualsiasi rifiuto ad arrendersi da parte dei palestinesi, a Gaza o in Cisgiordania, potrebbe avere gravi ripercussioni su questi stati confinanti.

Alla ricerca di leader alternativi

In secondo luogo, c’è Friedman al centro degli sforzi per identificare i destinatari delle mazzette finanziate dal Golfo. Ha cercato di creare una nuova alleanza tra i coloni, ai quali è strettamente allineato, e i palestinesi che potrebbero essere disposti a cooperare nel progetto di pacificazione. Alla fine dello scorso anno, ha partecipato a un incontro di imprenditori palestinesi e israeliani nella città di Ariel, in Cisgiordania.

Dopo di che ha twittato che la comunità imprenditoriale era “pronta, disponibile e in grado di far progredire la comune opportunità e la coesistenza pacifica. La gente vuole la pace e noi siamo pronti a dare una mano! La leadership palestinese sta ascoltando? “

Friedman non ha fatto mistero su dove si trovino le sue – e presumibilmente di Dio – priorità, mettendo tutto il suo peso in appoggio alla richiesta sempre più pressante di Israele di annettere gran parte del territorio che una volta era considerato parte integrante nella creazione di uno Stato palestinese. Con questo fiore all’occhiello dell’amministrazione, il compito è ora trovare una leadership palestinese disposta a mettersi in stand by mentre vengono approntati gli ultimi ritocchi a una Grande Israele voluta da Dio.

Le preoccupazioni di Washington sulla riluttanza dell’ANP ad adeguarsi sono state espresse la settimana scorsa da Kushner, anche se le ha presentate come dubbi sulla capacità dei palestinesi ad autogovernarsi. Ha detto dell’ANP: “La speranza è che, col tempo, diventeranno capaci di governare”. Ha aggiunto che la vera prova del piano dell’amministrazione sarebbe che le aree palestinesi diventino “appetibili per gli investimenti”.

“Quando parlo con i palestinesi, quello che dicono è che vogliono opportunità di vivere una vita migliore. Vogliono essere in grado di pagare il mutuo “, ha detto.

Washington sta quindi considerando se le famiglie influenti in Cisgiordania potrebbero eventualmente essere reclutate con tangenti per servire da leadership alternativa e consenziente. A febbraio è stata data la notizia che circa 200 tra uomini d’affari, sindaci israeliani e capi delle comunità palestinesi si sono incontrati a Gerusalemme “per promuovere partnership commerciali tra imprenditori israeliani e palestinesi”.

Feudi tribali corrotti

È naturale che l’amministrazione Trump guardi a un élite imprenditoriale – che, si spera, sarebbe disposta a rinunciare all’opzione nazionale se la situazione economica fosse liberalizzata tanto da consentire nuove opportunità di investimento a livello regionale e globale.

Questi individui appartengono alle grandi famiglie che dominano le principali città della Cisgiordania. Queste potenti famiglie possono essere disposte a collaborare all’eliminazione dell’ANP in cambio di un sistema di clientelismo corrotto che consenta loro di assumere il controllo delle rispettive città.

Alcuni analisti palestinesi, tra cui Samir Awad, professore di politica alla Bir Zeit University vicino a Ramallah, mi hanno detto che la visione israeliana e statunitense di “autonomia” palestinese potrebbe essere più o meno un sistema di feudi tribali simile all’Afghanistan.

Stanno già comparendo alcuni “partner” palestinesi, come l’uomo d’affari di Hebron Ashraf Jabari, che si dice stia pensando di partecipare alla conferenza del Bahrain.

Lui e altri dirigenti d’azienda hanno tranquillamente stabilito legami con controparti nel movimento dei coloni, come Avi Zimmerman. Insieme, hanno creato una camera di commercio comune che opera in Cisgiordania.

Sono proprio queste le iniziative promosse da Friedman e che potrebbero beneficiare delle sovvenzioni del fondo da 50 milioni di dollari che il Congresso americano sta attualmente deliberando.

Alla fine, questi palestinesi “partner” in affari potrebbero formare un élite che visibilmente funga da referente nazionale per la comunità internazionale nei rapporti con il popolo palestinese.

La spada di Damocle sulla testa dell’ANP

Non è necessario togliere di mezzo l’ANP per far progredire il piano di Trump. Ma Washington deve coltivare leadership alternative, nazionali e locali, che servano sia da spada di Damocle sulla testa dell’Autorità Nazionale Palestinese per spingerla a capitolare, sia da classe dirigente alternativa, se l’ANP non dovesse sottomettersi all’“accordo del secolo”.

In breve, Washington sta giocando con Abbas e l’ANP al gioco del coniglio, a chi frena prima davanti al dirupo. È chiaro che i palestinesi cederanno per primi.

Profondamente coinvolti nel progetto di Washington, anche se per lo più invisibili, ci sono gli Stati arabi, il cui ruolo è quello di rafforzare una qualsiasi leadership palestinese necessaria all’attuazione dell’ “accordo del secolo” della Grande Israele.

Il fardello della gestione del conflitto israelo-palestinese cambierà ancora una volta. Quando Israele occupò i territori palestinesi nel 1967, divenne direttamente responsabile per il benessere dei palestinesi che ci vivevano.

Dalla metà degli anni ’90, quando in base gli accordi di Oslo è stata autorizzata la formazione di una leadership palestinese, l’Autorità Nazionale Palestinese ha dovuto assumersi il compito di mantenere tranquilli i territori per conto di Israele. Ora, dopo che l’ANP si è rifiutata di accettare le pretese di Israele di prendersi Gerusalemme Est e gran parte della Cisgiordania, l’ANP è vista sempre più come sopravvissuta al suo scopo.

Piuttosto, le aspettative palestinesi dovrebbero poter essere gestite in altro modo, tramite i principali Stati arabi: l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti, l’Egitto e la Giordania. O, come ha recentemente osservato l’analista palestinese Hani al-Masri, la conferenza del Bahrain “prefigura l’inizio dell’abbandono dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina come rappresentante palestinese, aprendo così la porta … all’affermarsi di una nuova era di clientelismo arabo nei confronti dei palestinesi.”

Anni di supremazia imperialista

Sotto Trump, ciò che è davvero cambiato nell’approccio statunitense al conflitto israelo-palestinese è l’urgenza degli sforzi di Washington di mettere da parte una volta per tutte la lotta nazionale palestinese.

Dalla guerra dei Sei Giorni nel 1967, le amministrazioni degli Stati Uniti – con la possibile eccezione di quella di Jimmy Carter – avevano poco interesse a costringere israeliani e palestinesi a trovare un accordo. Al di là delle espressioni generiche in sostegno della pace, erano per lo più contenti di lasciare le due parti impegnate in una lotta asimmetrica che favorisse sempre Israele. La cosa veniva spacciata come “gestione del conflitto”.

Ma dopo 15 anni di supremazia imperialista degli USA in Medio Oriente – e di fronte ai gravi fallimenti della sua politica estera in Iraq e Siria e al relativo insuccesso di Israele in Libano – Washington ha disperatamente bisogno di consolidare la sua posizione contro rivali anche potenziali in questa regione ricca di petrolio .

Russia, Cina, Turchia, Iran e persino l’Europa stanno sgomitando in diversi modi per conquistare un ruolo più decisivo in Medio Oriente. Cercando di contrastare questi poteri, gli Stati Uniti vogliono mettere insieme i principali alleati nella regione: Israele e gli Stati arabi più importanti, guidati dall’Arabia Saudita.

Sebbene da un po’ si stiano stringendo legami segreti tra le due parti, molte tensioni rimangono irrisolte rispetto alla richiesta di Israele di mantenere la propria superiorità militare e di intelligence nella regione. Questo è evidente nelle lotte di potere che si stanno svolgendo a Washington.

Il mese scorso l’amministrazione Trump ha introdotto misure straordinarie per bypassare il Congresso e poter vendere più di 8 miliardi di dollari di armamenti ad Arabia Saudita, Emirati Arabi e Giordania. Per rappresaglia, i leader del Congresso vicini a Israele hanno deciso di bloccare le vendite di armi.

Spina in gola nella regione

Secondo la Casa Bianca, si possono fare pochi progressi fino a quando non verrà rimossa la spina palestinese piantata profondamente nella gola del Medio Oriente.

La maggior parte dei leader arabi non si preoccupa affatto della causa palestinese ed è molto infastidita dal modo in cui l’eterna lotta dei palestinesi per ottenere uno Stato ha complicato i loro rapporti nella regione, specialmente con Iran e Israele.

Abbraccerebbero con entusiasmo una piena partnership con gli Stati Uniti e Israele nella zona, se solo potessero permettersi di farlo apertamente.

Ma la lotta dei palestinesi contro Israele – e il suo forte simbolismo in una regione che ha subito tante malefiche interferenze occidentali – continua a frenare gli sforzi di Washington a stringere alleanze più strette ed esplicite con gli Stati arabi.

Un grave caso di arroganza

Di per sé, l’amministrazione Trump ha concluso che “la gestione del conflitto” non è più un interesse degli Stati Uniti. Vuole isolare ed eliminare la spina palestinese. Una volta che l’impedimento sia tolto di mezzo, la Casa Bianca ritiene di poter andare avanti a creare una coalizione con Israele e la maggior parte degli Stati arabi per riaffermare il proprio dominio sul Medio Oriente.

Tutto ciò sarà molto più difficile da realizzare di quanto immagini l’amministrazione Trump, come suggeriva la settimana scorsa in privato Mike Pompeo.

Ma sarebbe comunque sbagliato presumere che la strategia dietro l’ “accordo del secolo” di Trump, per quanto irrealistica, non sia lungimirante sia negli scopi che nel metodo.

Sarebbe ugualmente fuorviante credere che la politica dell’amministrazione sia anticonformista. Sta operando entro i limiti ideologici dell’élite della politica estera di Washington, anche se il “piano di pace” di Trump si trova ai margini estremi del consenso della classe dirigente.

L’amministrazione Trump gode di un sostegno bipartisan nel Congresso sia riguardo allo spostamento dell’ambasciata a Gerusalemme che alle misure economiche che minacciano di schiacciare l’ANP, governo in divenire – che ha già fatto enormi compromessi accettando di amministrare solo una piccola parte della storica patria del suo popolo.

Non c’è dubbio che la Casa Bianca di Trump sia affetta da un grave caso di arroganza nel suo tentativo di eliminare definitivamente la causa palestinese. Ma dovremmo ricordare che quella arroganza, per quanto pericolosa, è condivisa da gran parte dell’establishment politico statunitense.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Jonathan Cook

Jonathan Cook, giornalista britannico stabilitosi a Nazareth dal 2001, è autore di tre libri sul conflitto israelo-palestinese. Ha vinto in passato il Martha Gellhorn Special Prize for Journalism.




I palestinesi che vivono in Israele sono dimenticati dall’“accordo del secolo” di Trump

Awad Abdelfattah

11 giugno 2019 – Middle East Eye

I palestinesi all’interno dei confini israeliani devono unirsi ai rifugiati fuori da Israele per contrastare questo piano di liquidazione dei loro diritti nazionali

I palestinesi all’interno di Israele non sono mai stati considerati dalla comunità internazionale come parte del conflitto arabo-sionista, ma piuttosto come un gruppo etnico non ebraico nello Stato di Israele e che subisce discriminazioni.

L’“accordo del secolo”, che va avanti da quando il presidente USA Donald Trump ha assunto il potere, è stato preceduto da un duro colpo contro milioni di rifugiati palestinesi come il taglio agli aiuti finanziari all’UNRWA, l’Agenzia delle Nazioni Unite che fornisce loro servizi fondamentali.

Lo spostamento dell’ambasciata USA a Gerusalemme è stato un ulteriore passo inteso a eliminare il più elementare principio della causa palestinese: il diritto dei rifugiati palestinesi alle proprie case nella Palestina storica.  

Pochi hanno dedicato attenzione al fatto che i rifugiati palestinesi, sparsi nei campi di Gaza, Cisgiordania, Libano, Siria e altri luoghi, sono parenti di primo grado dei palestinesi all’interno di Israele. Io ho parenti in campi profughi di Libano, Giordania e Siria. Nel 1992 incontrai per la prima volta un’allora settantanovenne zia che, insieme a una serie di altri familiari, era stata obbligata a scappare dal nostro villaggio nel 1948. Arrivò dal Libano dopo aver ottenuto un permesso israeliano per visitare i parenti. La sua visita ci provocò grande tristezza e pena, dopo che ci sorprese chiedendoci di cercare di sapere dalle autorità israeliane il luogo in cui si trovava il corpo di uno dei suoi tre figli, ucciso durante la brutale invasione israeliana del Libano nel 1982.

Quello che ci angosciò ulteriormente fu il suo desiderio di passare il resto della sua vita con noi, nel luogo in cui era nata e cresciuta – ma l’apartheid israeliana non l’avrebbe mai permesso, perché non era ebrea. Questa storia straziante non è che un simbolo delle sofferenze di milioni di rifugiati che stanno languendo in condizioni spaventose – comprese guerre – in attesa di tornare a casa da più di settant’anni.

La “Legge del Ritorno” israeliana concede il diritto solo agli ebrei, di qualunque parte del mondo, di immigrare, e in molti casi di vivere in case da cui questi rifugiati sono stati espulsi. Ogni conferenza o iniziativa internazionale di pace intesa a trovare una soluzione al problema palestinese ha ignorato questi diritti nazionali dei rifugiati, e persino la loro stessa esistenza.

La più deludente e frustrante tra queste furono gli accordi di Oslo del 1993, che li presero di sorpresa, insieme al resto del popolo palestinese – soprattutto i rifugiati.

Questa frustrazione derivava dall’approvazione da parte della dirigenza dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) di escludere dall’accordo la comunità di 1.5 milioni di palestinesi sopravvissuti alla pulizia etnica del 1948 condotta dalle bande sioniste, e che da allora hanno vissuto sotto un sistema di discriminazioni, furto di terre, de-nazionalizzazione e altre forme di oppressione.

Aggiungere la beffa al danno

L’imminente “accordo del secolo” USA ha solo aggiunto la beffa al danno. Ma, contrariamente ad Oslo – che all’epoca sembrò a molti come una svolta fondamentale e un promettente percorso verso una vera pace – l’accordo di Trump è visto da molti palestinesi come un piano israelo-americano per liquidare definitivamente i diritti nazionali e politici di tutti i palestinesi, anche di quelli che vivono all’interno dei confini israeliani del 1948.

La cosa più umiliante riguardo a questo accordo è il modo in cui affronta come una questione economica la tragedia pluridecennale dei diritti umani dei palestinesi.

L’Arabia Saudita ha annunciato che agli uomini d’affari palestinesi con passaporto israeliano potrebbe essere concesso un permesso di residenza permanente nel regno: “Come parte di una tendenza al disgelo dei rapporti tra Israele e l’Arabia Saudita, il nuovo piano consentirà anche agli arabo-israeliani di lavorare in Arabia Saudita,” ha sottolineato un articolo sulla rivista economica israeliana “Globes”.

Questo annuncio ha sollevato tra i dirigenti politici e intellettuali palestinesi seri sospetti che si tratti di un passo nel costante processo di normalizzazione con il nemico e un mezzo per la promozione dell’“accordo del secolo” – un accordo già rifiutato ovunque dai palestinesi.

Questo approccio è in consonanza con la politica ufficiale israeliana, perseguita dal 1948, di domare e cooptare i palestinesi all’interno di Israele. Il recente cambiamento di atteggiamento dei media sauditi, degli Emirati e del Bahrain nei confronti di Israele mostra chiaramente una spinta per preparare l’opinione pubblica saudita alla normalizzazione con Israele.

Lotta contro l’apartheid        

Negli ultimi anni, dato che Israele ha virato ulteriormente verso l’estrema destra, il panorama geografico e politico della Palestina è diventato un’entità unica sottoposto a un unico sistema di separazione e colonialismo d’insediamento. Questa deriva di fatto del progetto colonialista contrasta con la soluzione dei due Stati sostenuta a livello internazionale.

Ora l’amministrazione Trump, attraverso l’imminente “accordo del secolo”, ha inflitto un colpo definitivo all’illusione dei due Stati. Sta legittimando la continua colonizzazione sionista di tutta la Palestina, aprendo la porta a ulteriori guerre e spargimenti di sangue.

Poiché una delle cause più serie al mondo dal punto di vista politico e umanitario viene ridotta dalla più grande potenza imperialista al mondo a un piano economico, ovunque i palestinesi – compresi quelli con la cittadinanza israeliana – si troveranno a dover affrontare una sfida enorme.

Devono cercare l’unità per ingaggiare una prolungata lotta per smantellare non solo l’assedio di Gaza, ma tutto il sistema dell’apartheid israeliana e sostituirlo con un’entità democratica ed egualitaria per tutti.

Voci che invocano l’unificazione della politica palestinese e movimenti di base su questa opzione stanno crescendo. Li ispira la lotta contro l’apartheid del Sud Africa.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Awad Abdelfattah

Awad Abdelfattah è un giornalista politico ed ex-segretario generale del partito Balad [partito arabo-israeliano antisionista e di sinistra, ndtr.]. È coordinatore della “Campagna per lo Stato unico democratico”, con sede ad Haifa, fondata alla fine del 2017.

(traduzione di Amedeo Rossi)




L’ “accordo del secolo” di Jared Kushner è stato ideato per fallire fin dall’inizio

Bill Law

6 giugno 2019 – Middle East Eye

Al di là delle critiche, Kushner sta giocando un’importante partita sulla questione israelo-palestinese

Il genero del presidente USA Donald Trump e negoziatore per il Medio Oriente, Jared Kushner, non rilascia molte interviste – perciò quando lo fa, gli organi di informazione non sono solo attenti, ma ci si buttano a capofitto. E alcuni settori dei media statunitensi lo hanno fatto, dopo l’intervista a Kushner di Axios della [emittente televisiva americana via cavo, ndr.] HBO del 2 giugno.

Slate’ [rivista americana in rete, ndtr.] ha pubblicato un articolo dal titolo: “Le più imbarazzanti risposte dell’intervista di Jared Kushner ad Axios”. ‘Vanity Fair’ ha commentato: “In un’intervista comicamente disastrosa, il ‘primo genero’ ha imbastito risposte su nazionalismo, rifugiati, Arabia Saudita e sul suo piano di pace per il Medio Oriente.” La CNN è stata più gentile, optando per una disamina selettiva punto per punto delle “29 righe più assurde” dell’intervista.

L’ipotesi di queste ed altre apprezzate pubblicazioni nell’establishment dei media progressisti, che a Trump piace odiare, è che Kushner è al massimo un perfetto idiota, che si aggira beatamente in un paesaggio complicato senza avere idea dei pericoli in agguato – che è un ragazzino ricco e privilegiato con una storia fatta di automobili e di affari immobiliari ed una moglie che è la figlia preferita del presidente, e che è troppo complicato per lui.

Vincere perdendo

Queste convinzioni sono errate. Fin dal momento in cui a Kushner è stato assegnato l’incarico sul Medio Oriente, ha giocato una partita subdola, e quindi molto efficace, a favore sia del movimento dei coloni in Cisgiordania che dell’amico di famiglia Benjamin Netanyahu, il primo ministro israeliano.

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Kushner, la cui fondazione di famiglia ha finanziato generosamente i progetti dei coloni, ha costruito un’attenta strategia atta a vincere perdendo.

L’ “accordo” non è mai stato pensato perché funzionasse.

Piuttosto, il suo modus operandi consiste nel costringere i palestinesi in un angolo da cui non c’è via di fuga e in cui l’unica risposta all’accordo di pace è “no”.

Kushner ha imparato questo trucco nel periodo in cui pare abbia acquistato proprietà con affitto bloccato, scacciando gli inquilini, ristrutturando gli appartamenti e poi rimettendoli sul mercato come proprietà di lusso.

É un gioco al massacro: una combinazione di cancellazione di servizi e di offerta di qualche compensazione finanziaria, ben impacchettata all’interno di minacce velate e non tanto velate, sulla linea di “accettate questo o le cose andranno solo peggio”. Kushner ha accuratamente applicato all’ “accordo del secolo” in Medio Oriente le lezioni apprese a Manhattan.

Ha colto la sua opportunità quando Trump ha sorpreso il mondo vincendo le presidenziali del novembre 2016. Nel dicembre di quell’anno Trump ha annunciato che l’avvocato fallimentarista David Friedman veniva nominato ambasciatore USA in Israele.

Nel marzo 2017 Friedman, che ha alle spalle una lunga storia di sostegno all’illegale movimento dei coloni in Cisgiordania, è stato debitamente confermato dal Senato. A Kushner è stato affidato il portafoglio del Medio Oriente, mentre un altro avvocato di Trump e strenuo difensore dei coloni, Jason Greenblatt, lo ha affiancato in qualità di inviato.

Uccidere la soluzione di due Stati

Kushner ha convinto il presidente che il suo primo viaggio oltreoceano avrebbe dovuto essere in Arabia Saudita nel maggio 2017. In quel momento Kushner aveva già instaurato uno stretto rapporto di lavoro con il vice principe ereditario Mohammed Bin Salman, che in seguito è diventato il principe ereditario. Un elemento centrale della strategia di Kushner è stato allontanare i sauditi dall’iniziativa araba di pace proposta nel 2002 dall’ex re saudita Abdullah, che all’epoca era principe ereditario.

Il piano di Abdullah includeva il riconoscimento di un credibile Stato palestinese a fianco di Israele. Quando l’ Arabia Saudita ed altri Stati del Golfo, in particolare gli Emirati Arabi Uniti, si sono avvicinati ad Israele, Kushner sembrava, almeno in privato, essere riuscito a distruggere la soluzione di due Stati di Abdullah.

Nel dicembre 2017 il presidente ha annunciato che l’ambasciata USA sarebbe stata spostata a Gerusalemme. Gli esperti erano sconcertati e Trump è stato attaccato perché concedeva qualcosa senza ottenere niente in cambio. Ma Kushner non mirava a nulla: voleva semplicemente fare una dichiarazione forte di fronte ai palestinesi. Lo ha fatto e gli USA l’hanno spuntata: il 14 maggio 2018, nel settantesimo anniversario della fondazione di Israele, l’ambasciata è stata aperta a Gerusalemme, mentre a circa 90 chilometri di distanza i palestinesi venivano abbattuti a fucilate sul confine di Gaza.

In quel momento il presidente ha annunciato che gli USA stavano abbandonando la soluzione dei due Stati. Mettendo sale sulla ferita, Washington ha tagliato più della metà del previsto finanziamento (65 milioni di dollari dei 125 milioni di aiuti complessivi) all’UNRWA, l’agenzia dell’ONU per i rifugiati palestinesi che assiste oltre cinque milioni di rifugiati registrati. Lentamente ed inesorabilmente stava avvenendo un giro di vite.

Cadono colpi di maglio

Ad agosto 2018 gli USA hanno tagliato più di 200 milioni di dollari di aiuti economici, e poi hanno proseguito cancellando il resto dei finanziamenti all’UNRWA. A settembre è stato chiuso uno dei pochi programmi di aiuti rimasti, 25 milioni di dollari per i palestinesi negli ospedali di Gerusalemme est. Poi è stato chiuso l’ufficio di Washington dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, il contatto diplomatico formale con i palestinesi.

Mentre i colpi di maglio continuavano a cadere, i governi occidentali non hanno detto niente. Kushner ha capito, al di là di ogni dubbio, che stava vincendo.

La mossa successiva sono state le Alture del Golan, annesse da Israele con il pieno appoggio ed approvazione dell’amministrazione Trump a marzo. La vittoria di Netanyahu nelle elezioni israeliane di aprile doveva essere la ciliegina sulla torta per poi procedere con l’annessione delle colonie della Cisgiordania nel grande Israele.

Purtroppo per Netanyahu e Kushner, è intervenuto il destino, sotto forma di Avigdor Lieberman. L’ex Ministro della Difesa e acerrimo rivale di Netanyahu ha rifiutato di entrare nella coalizione, mandando tutto all’aria e costringendo a nuove elezioni a settembre.

Trump non è stato contento. Il suo piano, che guardava al 2020 e alla speranza della rielezione, era di lasciare la sua impronta avvantaggiando Israele e mettendo i palestinesi al loro posto. “Israele è proprio messo male con le elezioni”, ha detto. “Bibi (Netanyahu) è stato eletto, adesso all’improvviso dovranno passare di nuovo per un processo elettorale, fino a settembre? É ridicolo. Perciò noi non siamo contenti di questo.”

Incrollabile fiducia

Intanto gli Stati arabi del Golfo hanno frenato l’entusiasmo per l’accordo di Kushner. Il padre di Bin Salman, il re Salman, ha criticato il sostegno di suo figlio a Israele, riabilitando pubblicamente la soluzione di due Stati. L’accordo che non doveva essere un accordo si sta allontanando e Kushner sta per vedere il suo lavoro completamente cancellato.

Kushner non ha una buona faccia da poker. La sua arroganza e la certezza di essere vincente trapelano in ogni cosa dica e faccia. Ma i suoi critici sbagliano a sottovalutarlo.

Kushner finora ha giocato una significativa partita. La sua fiducia di vincere a favore del movimento dei coloni e di un Israele più grande, di Netanyahu o di chiunque gli succederà, e di suo suocero il presidente, resta assolutamente incrollabile.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Bill Law

Bill Law è un giornalista vincitore del premio Sony. É entrato alla BBC nel 1995 e dal 2002 è stato corrispondente dal Medio Oriente. Si è recato molte volte in Arabia Saudita. Nel 2003 è stato uno dei primi giornalisti a informare sull’inizio della rivolta che ha travolto l’Iraq. Il suo documentario ‘Il Golfo: armato e pericoloso’, che è stato trasmesso alla fine del 2010, ha anticipato le rivoluzioni che sono diventate la Primavera Araba. In seguito ha lavorato sulle rivolte in Egitto, Libia e Bahrein. É stato anche corrispondente dall’Afghanistan e dal Pakistan. Prima di lasciare la BBC nel 2014, Law è stato il suo analista esperto del Golfo. Adesso lavora come giornalista indipendente che si occupa del Golfo.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Accordo del secolo

L’“accordo del secolo”? La benedizione americana al furto di terre e alla ghettizzazione dei palestinesi da parte di Israele

Nel corso degli ultimi 18 mesi la squadra di Trump per il Medio oriente sembra aver iniziato ad applicare il piano anche se non l’ha ancora reso pubblico

 

Jonathan Cook

 

Venerdì 10 maggio 2019 – Middle East Eye

 

Un rapporto pubblicato questa settimana dal giornale Israel Hayom che svelerebbe in apparenza “l’accordo del secolo” di Donald Trump dà l’impressione di un piano di pace che avrebbe potuto essere elaborato da un agente immobiliare o da un venditore di automobili.

Ma se l’autenticità del documento non è dimostrata, e al contrario persino messa in discussione, esistono seri motivi per credere che apra la strada a ogni futura dichiarazione dell’ amministrazione Trump.

 

Grande Israele

Si tratta soprattutto di una sintesi della maggior parte delle pretese della destra israeliana per la creazione del Grande Israele, con qualche concessione destinata ad ammansire i palestinesi – la maggior parte delle quali con l’obiettivo di alleggerire parzialmente lo strangolamento dell’economia palestinese da parte di Israele.

È esattamente ciò a cui assomiglierebbe l’“accordo del secolo” in base alle dichiarazioni del mese scorso di Jared Kushner che davano un primo quadro di questo piano.

L’organo di stampa che ha pubblicato la fuga di notizie è altrettanto significativo: Israel Hayom. Questo giornale israeliano appartiene a Sheldon Adelson, un miliardario americano dei casinò, uno dei principali donatori del partito repubblicano [USA, ndtr.] e uno dei maggiori finanziatori della campagna elettorale di Trump per la campagna presidenziale.

Adelson è anche un fedele alleato del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Nell’ultimo decennio il suo giornale non ha fatto altro che servire da portavoce dei governi ultranazionalisti di Netanyahu.

 

Netanyahu responsabile della fuga di notizie?

Adelson e Israel Hayom  hanno facile accesso alle figure più rappresentative delle amministrazioni americana e israeliana. Ed è stato ampiamente denunciato che nel giornale si scrivono poche cose interessanti senza che non siano state approvate in precedenza da Netanyahu o dal suo proprietario all’estero.

Il giornale ha rimesso in dubbio l’autenticità e la credibilità del documento, che è stato diffuso sulle piattaforme delle reti sociali, suggerendo persino che “è assolutamente possibile che il documento sia un falso” e che il ministero degli Esteri israeliano aveva deciso di occuparsi della questione.

La Casa Bianca aveva già informato che, dopo lunghi rinvii, aveva l’intenzione di svelare finalmente “l’accordo del secolo” il mese prossimo, dopo la fine del mese sacro per i musulmani del Ramadan.

Un responsabile anonimo della Casa Bianca ha dichiarato al giornale che il documento divulgato era “ipotetico” e “inesatto” – il genere di debole smentita che potrebbe ugualmente significare che il rapporto è, in effetti, in gran parte esatto.

Se il documento si rivela autentico, Netanyahu sembra essere il colpevole più probabile della divulgazione. Ha supervisionato il ministero degli Esteri per anni e Israel Hayom è spesso definito come il “Bibiton”, o il giornale di Bibi, dal soprannome del primo ministro.

Tastare il terreno

Il presunto documento, come l’ha pubblicato Israel Hayom, sarebbe un disastro per i palestinesi. Supponendo che Netanyahu ne approvi la divulgazione, le sue motivazioni non sarebbero forse molto difficili da individuare.

Da un certo punto di vista la divulgazione potrebbe costituire un mezzo efficace per Netanyahu e l’amministrazione Trump per tastare il terreno, per lanciare un ballon d’essai e decidere se osare pubblicare il documento così com’è o se devono apportarvi delle modifiche.

Ma è anche possibile che Netanyahu sia forse arrivato alla conclusione che mettere palesemente in pratica l’essenza di quello che già riesce a fare di nascosto potrebbe avere un prezzo non gradito – un prezzo che al momento potrebbe preferire evitare.

La fuga di notizie intende provocare un’opposizione anticipata al piano che arrivi sia da Israele che dai palestinesi e dal mondo arabo, nella speranza di impedire chee venga reso pubblico?

Forse ha sperato che le indiscrezioni, e la reazione che esse suscitano, obblighino la squadra di Trump per il Medio Oriente a rimandare di nuovo la pubblicazione del piano o a impedirne totalmente la diffusione.

Tuttavia, che “l’accordo del secolo” sia o no svelato tra poco, il documento divulgato – se è autentico – dà un’idea plausibile del pensiero dell’amministrazione Trump.

Dato che la squadra di Trump per il Medio oriente sembra aver cominciato ad applicare il piano, anche se quest’ultimo non è stato reso pubblico, durante gli ultimi otto mesi – dallo spostamento dell’ambasciata americana a Gerusalemme al riconoscimento dell’illegale annessione da parte di Israele delle alture siriane del Golan – questa fuga di notizie permette di far luce su come si articolerebbe la “soluzione” americano-israeliana del conflitto israelo-palestinese.

 

Annessione della Cisgiordania

L’entità palestinese proposta sarebbe denominata “Nuova Palestina”, ciò che costituirebbe probabilmente una pagina del manuale di strategia di Tony Blair, ex-primo ministro britannico diventato ambasciatore della comunità internazionale in Medio oriente dal 2007 al 2015.

Negli anni ’90 Blair ha allontanato il suo stesso partito, il partito Laburista, dalla sua tradizione socialista, poi lo ha ribattezzato il partito favorevole alle imprese, che ha dato come risultato – sbiadita copia di quello che era – il “New Labour”.

Il nome “Nuova Palestina” maschera efficacemente il fatto che questa entità demilitarizzata sarebbe sprovvista dei caratteri e dei poteri normalmente attribuiti a uno Stato. Secondo le rivelazioni, la Nuova Palestina non esisterebbe che su un’infima frazione della Palestina storica.

Tutte le colonie illegali di popolamento in Cisgiordania sarebbero annesse a Israele, ciò che sarebbe in linea con l’impegno preso da Netanyahu poco prima delle elezioni legislative dello scorso mese. Se il territorio annesso comprende la maggior parte della zona C, il 62% della Cisgiordania su cui in base agli accordi di Oslo Israele si è visto accordare un controllo temporaneo e che la destra israeliana intende insistentemente annettere, alla Nuova Palestina resterebbe il controllo del 12% della Palestina storica.

In altre parole l’amministrazione Trump sembra pronta a dare la propria benedizione a un Grande Israele che comprenda l’88% delle terre rubate ai palestinesi nel corso degli ultimi 70 anni.

“Nuova Palestina”

Ma è molto peggio di questo. La Nuova Palestina esisterebbe sotto forma di una serie di cantoni separati, o Bantustan, circondati da un oceano di colonie israeliane – ormai definite parte di Israele. L’entità sarebbe fatta a pezzi e tagliata come nessun altro Paese al mondo.

La Nuova Palestina non avrebbe un esercito, ma solo una forza di polizia con armi leggere. Non potrebbe agire che come una serie di municipalità scollegate tra loro.

In realtà è difficile immaginare come la “Nuova Palestina” cambierebbe in modo sostanziale la triste situazione attuale dei palestinesi. Non si potrebbero spostare tra questi cantoni se non attraverso lunghi giri, delle circonvallazioni e dei tunnel. Più o meno come ora.

 

Municipalità osannate

Il solo vantaggio proposto dal presunto documento è un progetto di bustarelle proveniente dagli Stati Uniti, dall’Europa e da altri Stati sviluppati, anche se finanziato principalmente dai ricchi Stati petroliferi del Golfo, in modo da alleviare la loro coscienza per aver spogliato i palestinesi delle loro terre e della loro sovranità.

Questi Stati forniranno 30 miliardi di dollari (26 miliardi di euro) in cinque anni per aiutare la Nuova Palestina a creare e a gestire i suoi municipi osannati. Se vi sembra una grossa somma di denaro, ricordatevi che ciò rappresenta otto miliardi di dollari in meno rispetto all’aiuto che gli Stati Uniti consegnano da un decennio a Israele per comprare armi e aerei da guerra.

Nel documento non compare chiaramente quello che succederà alla Nuova Palestina dopo questo periodo di 5 anni. Ma, considerato che il 12% della Palestina storica attribuita ai palestinesi costituisce il territorio più povero di risorse della regione – privato da Israele di risorse idriche, di coesione economica e di risorse chiave utilizzabili come le cave della Cisgiordania – è difficile non vedere il naufragio annunciato dell’entità dopo l’affievolirsi del flusso iniziale di denaro.

Anche se la comunità internazionale accettasse di destinare più soldi, la Nuova Palestina sarebbe per sempre totalmente dipendente dagli aiuti.

Gli Stati Uniti e altri Paesi sarebbero in grado di aprire o chiudere i rubinetti in base al “buon comportamento” dei palestinesi – come avviene attualmente. I palestinesi vivrebbero in modo permanente nel timore per le conseguenze delle critiche dei guardiani della loro prigione.

Fedele al suo impegno di far pagare al Messico la costruzione del muro lungo la frontiera sud degli Stati Uniti, a quanto pare Trump vorrebbe che l’entità palestinese pagasse Israele per fornirle una sicurezza militare. In altri termini, gran parte di questo aiuto di 30 miliardi di dollari ai palestinesi si ritroverebbe probabilmente nelle tasche dell’esercito israeliano.

È interessante notare che il presunto articolo sostiene che sono gli Stati produttori di petrolio, e non i palestinesi, che sarebbero i “principali beneficiari” dell’accordo. Ciò indica come l’accordo di Trump sia venduto agli Stati del Golfo: è un’occasione per loro di legarsi totalmente a Israele, alla sua tecnologia e alle sue capacità militari, in modo che il Medio oriente possa seguire le orme delle “tigri economiche” dell’Asia.

 

Pulizia etnica a Gerusalemme

Gerusalemme è descritta come una “capitale condivisa”, ma le clausole scritte in piccolo dicono tutt’altro. Gerusalemme non sarebbe divisa, con da una parte l’est palestinese e dall’altra l’ovest israeliano, come per lo più si era previsto. Invece di ciò, la città sarebbe diretta da una municipalità unificata sotto controllo israeliano. Esattamente come ora.

La sola concessione significativa ai palestinesi sarebbe che gli israeliani non sarebbero autorizzati a comprare case palestinesi, impedendo – almeno in teoria – l’assunzione del controllo di Gerusalemme est in modo più pesante da parte dei coloni ebrei.

Ma, dato che in cambio i palestinesi non sarebbero autorizzati a comprare delle case israeliane e che la popolazione palestinese a Gerusalemme est soffre già di una grave carenza di alloggi e che un’amministrazione comunale israeliana avrebbe il potere di decidere dove le case potrebbero essere costruite e per chi, è facile immaginare che la situazione attuale – Israele che si serve del controllo della gestione del territorio per cacciare i palestinesi da Gerusalemme – semplicemente continuerebbe.

In più, siccome i palestinesi a Gerusalemme sarebbero dei cittadini della Nuova Palestina, e non di Israele, quelli che sarebbero incapaci di installarsi in una Gerusalemme sotto dominazione israeliana non avrebbero altra scelta che emigrare in Cisgiordania. Sarebbe esattamente la stessa forma di pulizia etnica burocratica che i palestinesi stanno sperimentando attualmente.

Gaza aperta verso il Sinai

Riprendendo le recenti affermazioni di Jared Kushner, genero di Trump e consigliere per il Medio oriente, i vantaggi del piano per i palestinesi sono tutti legati ai potenziali utili economici e non politici.

I palestinesi sarebbero autorizzati a lavorare in Israele, come avveniva normalmente prima di Oslo, e verosimilmente, come allora, unicamente nei lavori peggio pagati e più precari, nei cantieri edili e in agricoltura.

Un corridoio terrestre, sicuramente sorvegliato da contractors militari israeliani che i palestinesi dovranno pagare, dovrebbe ricollegare Gaza alla Cisgiordania. Confermando informazioni precedenti relative ai progetti dell’amministrazione Trump, Gaza sarebbe aperta al mondo, e sul vicino territorio del Sinai sarebbero creati una zona industriale e un aeroporto.

Questa terra – la cui estensione sarebbe da definire nei negoziati – sarebbe presa in affitto all’Egitto.

Come sottolineato in precedenza da Middle East Eye, tale decisione rischierebbe di incoraggiare progressivamente i palestinesi a considerare il Sinai, invece di Gaza, come il centro della loro vita, un altro mezzo per procedere alla progressiva pulizia etnica.

Nel contempo la Cisgiordania sarebbe collegata alla Giordania da due passaggi di frontiera – probabilmente attraverso corridoi terrestri che attraverserebbero la valle del Giordano, che dovrebbe essere annessa anch’essa a Israele. Di nuovo, con i palestinesi chiusi in cantoni non collegati e circondati dal territorio israeliano, c’è da supporre che con il tempo molti cercherebbero una nuova vita in Giordania.

Nel corso di tre anni i prigionieri politici palestinesi sarebbero liberati dalle prigioni israeliane sotto l’autorità della Nuova Palestina. Tuttavia il piano non dice niente sul diritto al ritorno per i milioni di rifugiati palestinesi, i discendenti di quelli che sono stati cacciati da casa loro durante le guerre del 1948 e del 1967.

Pistola alla tempia

Alla maniera di don Corleone, l’amministrazione Trump sembra pronta a mettere una pistola alla tempia dei dirigenti palestinesi per obbligarli a firmare l’accordo.

Secondo il rapporto divulgato, gli Stati Uniti vieterebbero qualunque trasferimento di denaro ai palestinesi dissidenti, con lo scopo di obbligarli a sottomettersi.

Questo presunto piano esigerebbe che Hamas e la Jihad islamica si disarmino consegnando le loro armi all’Egitto. Se rifiutassero l’accordo, il rapporto sostiene che gli Stati Uniti autorizzerebbero Israele ad “attentare” contro i dirigenti – per mezzo di assassini extragiudiziari che costituiscono da molto tempo il pilastro della politica israeliana riguardo ai due gruppi.

Ciò che è meno credibile è il fatto che il presunto documento suggerisce che la Casa Bianca sarebbe pronta a dimostrare la propria fermezza anche nei confronti di Israele, tagliando l’aiuto americano se Israele non rispettasse i termini dell’accordo.

Dato che Israele ha regolarmente infranto gli accordi di Oslo – e il diritto internazionale – senza dover affrontare gravi sanzioni, è facile immaginare che in pratica gli Stati Uniti troverebbero delle soluzioni per evitare che Israele debba pagare le conseguenze di ogni violazione dell’accordo.

Imprimatur americano

Il presunto documento presenta tutte le caratteristiche del piano Trump, o almeno di una sua versione recente, perché descrive nero su bianco la situazione che Israele ha creato per i palestinesi nel corso di questi ultimi vent’anni.

Ciò dà semplicemente a Israele l’imprimatur ufficiale degli Stati Uniti per il furto massiccio delle terre e la riduzione in cantoni dei palestinesi.

Dunque, se offre alla destra israeliana la maggior parte di quello che vuole, che interesse ha Israel Hayom – portavoce di Netanyahu – a compromettere il suo successo divulgandolo?

Alcune ragioni potrebbero spiegarlo.

Israele ha già raggiunto tutti i suoi obiettivi – rubare la terra, annettere le colonie di insediamento, consolidare il suo controllo esclusivo su Gerusalemme, fare pressione sui palestinesi perché se ne vadano dalla loro terra e partano per gli Stati vicini – senza annunciare ufficialmente che si tratta del suo piano.

Ha realizzato grandi progressi in tutti i suoi obiettivi senza dover ammettere pubblicamente che la creazione di uno Stato per i palestinesi è un’illusione. Per Netanyahu, la questione deve essere sapere perché dovrebbe rendere pubblica la visione globale di Israele quando può essere realizzata di nascosto.

Timore di un contraccolpo

Ma, peggio ancora per Israele, una volta che i palestinesi e il mondo che sta a guardare capiranno che l’attuale situazione catastrofica per i palestinesi non migliorerà, ci sarà probabilmente un contraccolpo.

L’Autorità Nazionale Palestinese potrebbe crollare, la popolazione palestinese scatenerebbe una nuova ribellione, la cosiddetta “opinione pubblica araba” accetterebbe probabilmente questo piano meno di quanto i suoi dirigenti o di quanto Trump non desideri, e gli attivisti solidali in Occidente, soprattutto il movimento per il boicottaggio, beneficerebbero di un’ enorme spinta per la loro causa.

Inoltre sarebbe impossibile per i difensori di Israele continuare a negare che Israele ha messo in atto quello che l’accademico israeliano Baruch Kimmerling aveva definito “politicidio”: la distruzione dell’avvenire dei palestinesi, del loro diritto all’autodeterminazione e della loro integrità in quanto un solo popolo.

Se questa è la versione della pace in Medio oriente proposta da Trump, egli gioca alla roulette russa – e Netanyahu esiterà forse a lasciargli premere il grilletto.

 

 

Jonathan Cook è un giornalista britannico residente dal 2001 a Nazareth. E’ l’autore di tre libri sul conflitto israelo-palestinese. È stato vincitore del Martha Gellhorn Special Prize for Journalism.

 

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

 

 

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Indiscrezioni sull’accordo del secolo*

 

 

Rivelazione in anteprima assoluta dei dettagli dell’“Accordo del secolo”

 

7 maggio  2019 – Ma’an News

 

 

Betlemme (Ma’an) – I punti principali dell’anticipazione del piano di pace per il Medio Oriente degli Stati Uniti, il cosiddetto “Accordo del secolo”, sono stati rivelati martedì da un mezzo d’informazione in ebraico.

Il sito di notizie israeliano Israel Hayom [giornale finanziato dal  miliardario americano filoisraeliano Sheldon Adelson, finanziatore della campagna elettorale di Trump e sostenitore delle colonie, ndtr.] ha pubblicato i punti principali dell’“Accordo del secolo” ricavati da un documento fatto filtrare e che è stato fatto circolare dal ministero degli Esteri israeliano.

Quelli che seguono sono i principali punti dell’accordo proposto dall’amministrazione degli Stati Uniti:

 

  1. Accordo

Sarà firmato un accordo tripartito tra Israele, un “assistente” (un servizio che aiuta a redigere un documento), e Hamas, sarà fondato uno Stato palestinese che sarà chiamato “la nuova Palestina” e si costituirà in Giudea, Samaria [denominazione israeliana della Cisgiordania, ndtr.] e Gaza, con l’eccezione delle colonie.

 

  1. Evacuazione di territori

I blocchi di colonie così come sono oggi rimarranno nelle mani di Israele e ad essi si uniranno alcuni insediamenti sparsi. Le aree dei blocchi si espanderanno in base all’area degli insediamenti isolati che vi verranno inclusi.

 

  1. Gerusalemme

Non sarà divisa, condivisa tra Israele e la nuova Palestina e sarà la capitale di Israele e della nuova Palestina. Gli abitanti arabi saranno cittadini della nuova Palestina. Il Comune di Gerusalemme sarà responsabile di ogni settore di Gerusalemme salvo dell’educazione, che verrà gestita dal governo della nuova Palestina e la nuova Autorità Palestinese pagherà al Comune di Gerusalemme le tasse comunali e l’acqua.

Agli ebrei non verrà consentito di comprare case arabe, e agli arabi di comprare quelle degli ebrei. Nessuna ulteriore zona verrà annessa a Gerusalemme.

I luoghi santi continueranno ad essere gestiti come lo sono ora.

 

  1. Gaza

L’Egitto concederà nuovo territorio alla Palestina con lo scopo di costruire un aeroporto, per la edificazione di fabbriche, edifici commerciali e per l’agricoltura, oltre che di abitazioni. Le dimensioni del territorio e il prezzo saranno determinati tra le parti attraverso la mediazione dei Paesi che sostengono l’accordo (un chiarimento per i Paesi che sostengono la prosecuzione del cammino).

 

  1. I Paesi che sostengono [il piano]

I Paesi che sosterranno finanziariamente la messa in pratica di questo accordo sono: gli Stati Uniti, l’Unione Europea e gli Stati petroliferi del Golfo.

I Paesi che lo appoggeranno forniranno una somma di 30 miliardi di dollari in cinque anni per i progetti nazionali per la nuova Palestina. (Il costo per l’evacuazione degli avamposti isolati e la loro sistemazione nei blocchi di insediamenti saranno a carico di Israele).

 

  1. La divisione tra i Paesi sostenitori
  2. USA 20%
  3. UE 10%
  4. Gli Stati petroliferi del Golfo – 70% – li divideranno in base alla loro produzione di petrolio.
  5. Il peso maggiore sui Paesi produttori di petrolio è dovuto al fatto che saranno i principali beneficiari di questo accordo.

 

  1. Esercito

La nuova Palestina non avrà più un esercito. Le uniche armi saranno armi leggere in possesso della polizia.

Verrà firmato un accordo di difesa tra Israele e la nuova Palestina, in cui Israele garantirà la nuova Palestina da ogni aggressione esterna e la nuova Palestina pagherà Israele per questa protezione.

Il costo di questo finanziamento dovrà essere negoziato tra le parti, con la mediazione dei Paesi sostenitori.

 

  1. Calendario e fasi di esecuzione

Alla firma dell’accordo:

  1. Hamas deporrà tutte le armi, comprese quelle personali degli egiziani.
  2. I membri di Hamas, compresi i dirigenti, continueranno a ricevere salari dai Paesi sostenitori fino alla formazione del governo.
  3. Tutti i confini della Striscia saranno aperti al passaggio di beni e lavoratori verso Israele e l’Egitto, come sono adesso con Giudea e Samaria, e via mare.
  4. Entro un anno si terranno elezioni democratiche e verrà eletto un governo per la nuova Palestina. Ogni cittadino palestinese potrà presentarsi alle elezioni.
  5. Prigionieri – Un anno dopo le elezioni e la formazione del governo, i prigionieri verranno liberati gradualmente in tre anni.
  6. Entro 5 anni verranno costruiti nella nuova Palestina un porto e un aeroporto e nel frattempo verranno utilizzati l’aeroporto e i porti in Israele.
  7. Il confine tra la muova Palestina e Israele sarà aperto per il passaggio di cittadini e beni come tra Paesi amici.
  8. Un’autostrada unirà con un ponte a trenta metri dal suolo Gaza e Giudea e Samaria. L’autostrada costituirà una società cinese. Il finanziamento del ponte autostradale verrà realizzato da:

Cina 50%, Giappone 10%, Corea del Sud 10%, Australia 10%, Canada 10%, Stati Uniti e Unione Europea 10%.

 

  1. La valle del Giordano
  2. La valle del Giordano rimarrà nelle mani di Israele come lo è oggi.
  3. La Route 90 diventerà una strada a quattro corsie con pedaggio.
  4. Israele pubblicherà un bando di appalto per l’asfaltatura della strada.
  5. Concederà due valichi dalla nuova Palestina alla Giordania. Questi passaggi saranno sotto il controllo della nuova Palestina.

 

  1. Responsabilità
  2. Se Hamas e l’OLP si opporranno a questo accordo, gli USA cancelleranno ogni appoggio finanziario ai palestinesi e faranno in modo che nessun Paese al mondo fornisca loro denaro.
  3. Se Abbas accetterà i termini di questo accordo e Hamas e Jihad Islamica non lo faranno, i dirigenti di Hamas e della Jihad Islamica saranno considerati responsabili e nel prossimo ciclo di violenze tra Israele e Hamas gli USA sosterranno Israele per colpire di persona i dirigenti di Hamas e della Jihad Islamica. Un gruppo di qualche decina di persone deciderà le vite di milioni di persone.
  4. Se Israele si oppone a questi accordi, cesserà il sostegno economico a Israele.

*Nota redazionale: il seguente articolo descrive il presunto piano per la soluzione del conflitto israelo-palestinese in base a illazioni fatte filtrare da fonti israeliane. Non si tratta quindi di un documento ufficiale e si potrebbe trattare di un tentativo per sondare gli umori dei palestinesi riguardo ad ipotesi di accordo estremamente favorevole a Israele. Inoltre la traduzione in inglese dall’ebraico è a dir poco approssimativa, il che rende ulteriormente confusi alcuni punti. Tuttavia riteniamo che si tratti di una notizia rilevante e per questo la proponiamo ai lettori di Zeitun.

 

 

(traduzione di Amedeo Rossi)

 

 




La strategia di Trump in Medio Oriente è destinata a fallire

Joe Macaron

28 febbraio 2019, Al Jazeera

Far pagare ai palestinesi l’alleanza arabo-israeliana contro l’Iran sarà un disastro per gli USA e per i loro alleati arabi

Appena una settimana dopo aver partecipato a Varsavia all’inizio di questo mese a quella che è stata universalmente vista come una conferenza contro l’Iran, Jared Kushner, consigliere del presidente USA Donald Trump, ha intrapreso un viaggio diplomatico speciale in Medio Oriente per promuovere e cercare finanziamenti per il suo piano di pace per risolvere il conflitto israelo-palestinese. Com’era prevedibile, nel suo giro nella regione ha portato con sé il rappresentante speciale USA per l’Iran Brian Hook.

L’incontro di Varsavia e il viaggio di Kushner in Medio Oriente riflettono quello che sembra essere un pilastro fondamentale della politica estera dell’amministrazione Trump, che lega il molto atteso “accordo del secolo” alla formazione di un’alleanza arabo-israeliana contro l’Iran.

La Casa Bianca si aspetta che gli arabi firmino l’accordo di Kushner, normalizzino le relazioni con gli israeliani e lavorino con loro contro l’Iran. Questa è la ragione per cui, mentre molti hanno considerato un fallimento la conferenza di Varsavia, in quanto non ha convinto gli alleati europei a sostenere appieno le politiche USA contro il regime iraniano, l’amministrazione Trump l’ha vista come un successo, in quanto ha riunito allo stesso tavolo il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e rappresentanti di vari Paesi arabi.

Tuttavia questa strategia piuttosto miope di politica estera per il Medio Oriente ignora importanti realtà sul terreno ed è, di conseguenza, destinata a fallire.

Un Iran spavaldo

Da quando nel gennaio 2017 è arrivato alla Casa Bianca, Trump ha fatto in modo di distruggere sistematicamente la politica messa a punto dal suo predecessore nei confronti dell’Iran.

Il presidente Barack Obama pensava che gli USA non dovessero scontrarsi con l’Iran per conto degli alleati arabi e ha cercato di coinvolgere l’Iran. La sua amministrazione ha accentuato la pressione attraverso sanzioni internazionali e al contempo ha spinto per il dialogo.

Tra il 2014 e il 2016 gli USA e l’Iran hanno tacitamente lavorato insieme per lottare contro la comune minaccia dello Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (ISIL o ISIS), appoggiando i governi in Iraq e in Libano mentre evitavano uno scontro in Siria. Il tentativo di coinvolgimento dell’Iran è culminato con il “Joint Comprehensive Plan of Action” [Piano Complessivo Comune di Azione] (JCPOA), che ovviamente non era gradito a Israele e all’Arabia Saudita.

Dopo che Trump ha preso il potere, si è ritirato dallo JCPOA ed ha di nuovo imposto pesanti sanzioni all’Iran, cercando di far pressione su Teheran perché faccia concessioni sul programma di missili balistici e sulle sue attività regionali. Ma finora l’escalation ha solo reso l’Iran più spavaldo.

Il regime iraniano ha ripetutamente chiarito che non ha intenzione di negoziare a queste condizioni. Recentemente il leader supremo iraniano Ali Khamenei ha affermato che per il suo regime parlare con gli USA nell’attuale contesto è come “andare in ginocchio davanti al nemico”.

Nonostante l’escalation dell’amministrazione Trump contro l’Iran, le regole di condotta dell’era Obama rimangono in vigore in Iraq, Siria e Libano, dove gli USA continuano ad evitare uno scontro diretto con le forze iraniane e i loro alleati.

Tuttavia a Teheran l’attuale guerra psicologica sta alimentando la paranoia, il che incrementa il rischio di un errore di calcolo. Se Washington e Teheran continuano a spingersi troppo oltre, i loro alleati ne pagheranno le conseguenze.

Un regime iraniano messo all’angolo potrebbe facilmente diventare un ostacolo per le politiche Usa in Medio Oriente. Potrebbe motivare le sue risorse a Gaza ad agire contro Israele o forzare la mano del governo iracheno o libanese per prendere l’iniziativa contro interessi USA.

Attività sovversive iraniane possono non solo indebolire gli alleati USA nella regione, ma anche sabotare i tentativi statunitensi di far progredire i colloqui tra palestinesi e israeliani.

Un traballante tentativo di normalizzazione tra arabi e israeliani

Trump ha anche rovesciato la tradizionale politica USA riguardo al processo di pace israelo-palestinese. La sua amministrazione ora sta spingendo per rompere un principio base della politica araba, che lega la normalizzazione con Israele a un equo accordo israelo-palestinese che riconosca uno Stato palestinese sostenibile, preveda un ritiro di Israele sui confini del 1967 e definisca lo status di Gerusalemme. Gli alleati arabi degli USA vogliono un accordo che rispetti queste esigenze fondamentali; in patria sarebbe difficile far accettare qualunque cosa meno di questo.

I dirigenti arabi continuano a sentirsi a disagio riguardo a una normalizzazione ufficiale con Israele, dato che l’opinione pubblica araba rimane sensibile all’idea che flirtino con Israele. Se i dirigenti arabi appoggiassero un accordo tra palestinesi e israeliani percepito come sbagliato potrebbero facilmente scoppiare rivolte popolari in tutto il mondo arabo.

Riconoscendo questo pericolo, il re saudita Salman ha recentemente ripreso da suo figlio, il principe Mohammed bin Salman, il dossier sulla Palestina e riproposto la posizione tradizionale di Ryad sulla questione palestinese. Questa posizione è stata espressa il 13 febbraio in un’intervista con il Canale 13 israeliano dall’ex-capo dell’intelligence saudita, il principe Turki bin Faisal al-Saud, che ha lasciato intendere che l’Arabia Saudita sta aspettando a braccia aperte Israele se e quando farà un giusto accordo con i palestinesi.

L’altro rischio che i leader arabi devono affrontare nell’intraprendere una normalizzazione prematura con Israele è che in cambio l’amministrazione Trump potrebbe non volere andare al di là delle parole e delle sanzioni per tenere a bada l’Iran nella regione.

Una palude palestinese

Tuttavia la questione palestinese rimane la sfida fondamentale per la normalizzazione tra gli arabi e Israele e la costruzione di una coalizione contro l’Iran.

Jared Kushner ha imbastito un accordo di pace che dovrebbe essere reso pubblico in aprile dopo le elezioni politiche israeliane. Il cosiddetto “accordo del secolo” è probabilmente il primo tentativo di risolvere il conflitto di cui la parte palestinese non è stata informata o resa partecipe.

Ciò che è interessante in questo piano è il suo approccio alla politica palestinese. Dopo che Hamas ha preso il controllo di Gaza nel 2007, la politica dell’amministrazione Bush è stata di punire la Striscia bloccando ogni aiuto e al contempo assistere l’Autorità Nazionale Palestinese per mostrare come la Cisgiordania poteva prosperare rispettando le norme internazionali ed accettando negoziati con Israele.

Trump sta invertendo questo approccio, punendo l’Autorità Nazionale Palestinese in Cisgiordania per aver rifiutato di accettare l’“accordo del secolo” dopo che lui ha spostato l’ambasciata USA da Tel Aviv a Gerusalemme.

Nel contempo la Casa Bianca sta corteggiando Hamas con finanziamenti per importanti progetti economici a Gaza, che, come l’atteggiamento dell’amministrazione Bush, incoraggiano le divisioni palestinesi invece di rafforzarne l’unità.

Trump ha bisogno di un fronte palestinese unito che approvi il piano di pace che suo genero sta proponendo, ma sia Fatah che Hamas hanno puntato sulla divisione tra Cisgiordania e Gaza e vedono la possibile riunificazione in base all’accordo come dannosa per i propri interessi.

Benché non tutte le condizioni dell’accordo siano state ancora divulgate, i dettagli già noti al pubblico indicano che non rispetteranno l’interesse superiore dei palestinesi.

Il 25 febbraio, in un’intervista per la rete televisiva Sky News Arabia degli Emirati, Kushner ha dichiarato: “Se puoi eliminare il confine e avere pace e meno timori del terrorismo, potresti avere un flusso più libero di prodotti, di persone, e ciò creerebbe molte opportunità.”

Ciò che questa dichiarazione criptica significa è che la debole economia palestinese verrà ancora più integrata in quella israeliana, rendendo i palestinesi ancora più dipendenti dallo Stato di Israele, che continuerà ad avere il totale controllo sulla sicurezza, e di conseguenza la possibilità di reprimere il dissenso politico palestinese.

Quindi Trump sta legando la normalizzazione tra gli arabi e Israele e la deterrenza contro l’Iran a un accordo tra palestinesi e israeliani in termini che istituzionalizzerebbero il controllo israeliano sui territori palestinesi e avrebbe conseguenze disastrose per i palestinesi.

Far pagare ai palestinesi l’alleanza arabo-israeliana probabilmente creerà in futuro problemi ai dirigenti arabi. Potrebbe compromettere la deterrenza nei confronti di Teheran, rafforzando la popolarità del regime iraniano nella regione e delegittimando ulteriormente i già deboli regimi arabi.

In questo senso la strategia dell’amministrazione Trump di legare un accordo israelo-palestinese sbagliato a un’alleanza tra arabi e israeliani come deterrente nei confronti dell’Iran pregiudica questi due obiettivi USA in Medio Oriente e potrebbe persino ritorcersi contro gli alleati e gli interessi USA nella regione.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera.

Joe Macaron

Joe Macaron è borsista presso il Centro Arabo di Washington DC [centro di ricerca USA sui Paesi arabi, ndt.].

(traduzione di Amedeo Rossi)