La battaglia persa di Israele: il sostegno per la Palestina nelle università

Hatem Baziam

21 Aprile 2020 – Al-Shabaka

Sintesi

Palestine Legal [organizzazione indipendente impegnata nella difesa dei diritti dei palestinesi negli Stati Uniti, ndtr.] ha recentemente pubblicato un rapporto in cui rileva che la maggior parte delle azioni repressive nei confronti delle attività di sostegno per la Palestina negli Stati Uniti è rivolta contro studenti e docenti. Nel dettaglio, tali episodi si sono verificati nei campus universitari per l’89% nel 2014 e per il 74% nel 2019. Mentre queste statistiche mettono in luce l’attuale battaglia che i sostenitori dei diritti dei palestinesi stanno affrontando nelle università, è anche fondamentale delineare lo sviluppo del sostegno per la Palestina nei campus universitari statunitensi. Tracciare quest’arco di 20-30 anni di storia consente una migliore comprensione non solo di come siamo arrivati a questo punto, ma anche dell’attuale crescente fenomeno delle campagne contro studenti e facoltà – e di come contrastarlo.

Questa testimonianza prevede innanzitutto un esame storico sul movimento di sostegno per la Palestina negli Stati Uniti e su come da esso si sia sviluppato il sostegno nei confronti dei palestinesi nei campus universitari, citando come esempio particolare Students for Justice in Palestine [Studenti per la Giustizia in Palestina, ndtr.]. Analizzerà quindi la risposta di Israele e dei suoi sostenitori a questo fenomeno. L’ articolo, in definitiva, offre delle indicazioni su come il contesto universitario, nonostante gli attacchi, possa continuare a costituire e persino amplificare un clima che promuova la ricerca critica e il pensiero sulla Palestina, che a sua volta favorisca la lotta per i diritti e l’autodeterminazione dei palestinesi.

Nascita del movimento di sostegno per la Palestina negli Stati Uniti

Il movimento per i diritti dei palestinesi negli Stati Uniti è cresciuto contemporaneamente ad altre battaglie globali, in particolare quelle contro il regime di apartheid sudafricano, contro l’intervento americano in America Centrale e contro l’attacco americano all’Iraq nella prima guerra del Golfo. Negli anni ’80 furono simultaneamente avviate campagne politiche interne, in particolare contro i tagli dell’amministrazione Reagan all’educazione, alla sanità e all’ambiente, così come contro la sua discutibile guerra alla droga, con il supporto del Comprehensive Crime Control Act del 1984 [la prima revisione complessiva del Codice Penale negli Stati Uniti dai primi anni del xx secolo, ndtr.], che ampliò il complesso industriale carcerario e promosse la criminalizzazione di massa di neri e ispanici. L’attivismo interno ha anche combattuto la riorganizzazione economica che, col pretesto di una riforma del welfare, ha rimosso la rete di protezione sociale e ha gettato nella povertà milioni di persone.

I movimenti progressisti sono nati da queste campagne che hanno collocato la Palestina in un ruolo più centrale rispetto a prima. L’attivismo palestinese e gli attivisti palestinesi hanno affrontato i cambiamenti nelle priorità nazionali e hanno sostenuto la lotta anti-apartheid, la campagna che ha combattuto l’espansionismo americano in America Centrale e il movimento contro la guerra in Iraq.

All’estremo opposto le organizzazioni filo-israeliane si sono collocate dalla parte sbagliata della storia: si sono opposte alle sanzioni contro il Sudafrica e hanno cercato di sostenere le vendite di armi israeliane al regime dell’apartheid. Allo stesso modo, hanno sostenuto Israele nel momento in cui offriva consigli e aiuti agli squadroni della morte centroamericani sponsorizzati dallo Stato. E in occasione dell’intervento americano in Medio Oriente, anche Israele e i suoi alleati hanno sostenuto gli sforzi bellici degli Stati Uniti, ritenendoli utili alla sicurezza di Israele.

Le mobilitazioni politiche progressiste e le lotte interne hanno reso la Palestina un tema centrale su cui organizzarsi. Solo 30 anni fa la sinistra politica degli Stati Uniti, nelle sue mobilitazioni per la pace, la giustizia e l’occupazione, dibatteva regolarmente sul consentire o meno la presenza di una bandiera palestinese, per non parlare di un oratore, su un palco. Oggi non si può tenere una mobilitazione politica su qualsiasi argomento, locale o globale, senza che la Palestina ne faccia parte, se non come principale soggetto, almeno come uno dei temi. Coloro che vorrebbero sostenere o parlare a favore di Israele, al contrario, hanno difficoltà ad ottenere spazio in queste tribune perché si sono completamente schierati dalla parte del complesso industriale militare di destra e dei suoi interventi perniciosi.

L’attacco israeliano del 2012 contro la Striscia di Gaza ha determinato un cambiamento decisivo nelle opinioni su Israele, sia dal basso che tra gli analisti politici. Entrambi i gruppi sono consapevoli che Israele infrange il diritto internazionale e che non dimostra nessun limite nel suo abuso dei diritti umani palestinesi. Inoltre, mentre un punto di vista filo-israeliano dominava inizialmente i media popolari, con il costante ritornello degli opinionisti secondo cui Israele ha “il diritto di difendersi”, gli spazi meno controllati dei social media e di Internet hanno ospitato una diversa narrazione che favorisce un settore più critico dello schieramento politico, tanto che i media popolari hanno effettivamente iniziato a cambiare.

Il sostegno per la Palestina nelle università

Insieme, e in parte grazie, al lavoro instancabile degli attivisti progressisti, gli sviluppi descritti sopra hanno consentito il rafforzamento del sostegno per la Palestina nei campus universitari. In effetti, una visione di solidarietà con la lotta dei palestinesi è diventata, nelle università, la posizione dominante. Un esempio di questo cambiamento è la fondazione e la proliferazione del gruppo Students for Justice in Palestine (SJP).

SJP venne fondata presso l’Università di Berkeley in California nel 1992, dopo la prima guerra del Golfo. Prima della guerra negli Stati Uniti arrivava un numero considerevole di palestinesi per studiare, ma tale numero si ridusse quando lo scontro militare lasciò il passo agli anni del regime di sanzioni. Dato che Yasser Arafat aveva sostenuto Saddam Hussein durante la guerra, i palestinesi del Kuwait e del resto dei Paesi del Golfo vennero licenziati o costretti ad andarsene, con il risultato che molti di quei palestinesi che erano stati in grado di permettersi un’istruzione americana per i loro figli non ne ebbero più la possibilità. Senza studenti palestinesi nelle università statunitensi, scemarono i tentativi di organizzarsi a favore dei diritti dei palestinesi.

Allo stesso modo, questo fenomeno si verificò subito dopo gli Accordi di Oslo, che ridussero l’attivismo palestinese collegato al più ampio movimento transnazionale palestinese, poiché attraverso Oslo l’OLP accettò di limitare il proprio impegno internazionale contro Israele. Di conseguenza, gli attivisti palestinesi nei campus universitari non avevano più una base di supporto con un fondamento storico. Nel contesto dell’attivismo nelle università, l’OLP ebbe, sin dal suo esordio, un braccio universitario e giovanile forte, che si concretizzò nell’Unione Generale degli Studenti Palestinesi (GUPS), con sezioni in tutto il mondo, compresi gli Stati Uniti. In seguito alla trasformazione dell’OLP in Autorità Nazionale Palestinese, il ruolo, le capacità istituzionali e l’importanza del GUPS si ridussero.

Un modo alternativo di impegnarsi era quello di organizzarsi a favore della liberazione dei palestinesi come principio, accogliendo tutti gli studenti che desideravano lavorare per la giustizia in Palestina. Questa è stata la genesi di SJP, che ora ha più di 200 sezioni negli Stati Uniti, in Canada e in Nuova Zelanda. Molti di quegli studenti che si sono impegnati nel sostegno delle lotte di liberazione e dell’antirazzismo in Sud Africa, America Centrale e negli Stati Uniti hanno aderito a SJP perché hanno visto le connessioni tra le battaglie.

Allo stesso tempo, il numero di ebrei americani che non considerano più Israele la parte centrale della propria identità e che si identificano come antisionisti è in aumento. Un numero significativo è ora membro di SJP. Questi giovani non possono impegnarsi nella ribellione al complesso industriale carcerario, al militarismo, al razzismo e al discorso anti-immigrazione senza vedere nella Palestina una rappresentazione paradigmatica di ciò che sanno istintivamente che è sbagliato: l’apartheid israeliano.

In gran parte a causa del lavoro di SJP e di altri gruppi nelle università degli Stati Uniti e del mondo, Israele non ha più una causa da difendere dal punto di vista intellettuale e accademico. Questa evoluzione politica venti – trentennale deve essere presa in considerazione quando si ricerca il motivo per cui Israele stia ora agendo in modo disordinato nel cercare di ricostruire un sostegno, quando la diga delle menzogne e dell’opacità è già crollata.

La risposta disperata di Israele 

La perdita della posizione di Israele nel campo dell’istruzione superiore e tra l’intellighenzia americana ha spinto il Ministero degli Affari Strategici israeliano (IMSA) e i sostenitori di Israele a tentare freneticamente di invertire questa situazione. Vi è quindi una percentuale enorme di attacchi ai campus universitari. Tuttavia, l’unico strumento che i sostenitori di Israele e l’IMSA hanno per cercare di recuperare posizioni all’interno delle università è il rozzo potere della diffamazione. Pertanto progetti come Canary Mission [sito web che raccoglie dossier su attivisti, professori e organizzazioni studentesche che considera anti-israeliane e ne minaccia l’invio ai potenziali datori di lavoro, ndtr.] e il Lawfare Project [ong americana che professa un impegno contro l’antisemitismo attraverso il finanziamento di azioni legali, ndtr.] si rivolgono a studenti e docenti affermando che il sostegno per la Palestina e il movimento per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni (BDS) sono antisemiti.

Queste forze stanno contemporaneamente cercando di mobilitare gli organi legislativi statali e il Congresso perché vengano approvate delle leggi che proteggano Israele dal diritto alla libertà di parola quando si tratti della Palestina. Questo è un errore strategico, perché l’attenzione su un bavaglio preventivo sposta il dibattito su uno dei principali emendamenti [della costituzione USA, ndtr.] e diritti costituzionali, che finora rimane un diritto generalmente ben protetto nel contesto americano.

L’ uso della forza bruta da parte del governo israeliano dimostra la sua paura. In effetti, una dimostrazione di effettivo potere consiste nella possibilità di esercitare moderazione e di astenersi dall’uso della forza grazie alla paura del suo esercizio da parte delle persone. In questo senso Israele tenta disperatamente di ricostituire una barriera contro il calo della sua reputazione anche nella società statunitense nel suo complesso.

La base del Partito Democratico, nonché i suoi militanti, ad esempio, hanno abbandonato Israele come componente centrale del loro programma politico. Si può rintracciare questo fenomeno negli attacchi al presidente Obama da parte del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e dell’AIPAC [American Israel Public Affairs Committee, principale gruppo di pressione americano noto per il forte sostegno allo Stato di Israele, ndtr.] a partire dal discorso di Obama al Cairo nel 2009 e fino agli attacchi contro il suo accordo con l’Iran, incluso il discorso di Netanyahu del marzo 2015 in una sessione congiunta del Congresso, che ha espresso l’esplicita opposizione del leader del governo israeliano al presidente degli Stati Uniti in carica. Questi attacchi hanno portato molti componenti del Partito Democratico a capire il collegamento degli attacchi mirati contro Obama all’ascesa del Tea Party [fazione di estrema destra del partito Repubblicano, ndtr.] e, in definitiva, di Trump, contribuendo a modificare nettamente la linea tradizionale del partito su Israele.

Anche i tentativi di Israele di usare il potere puro e semplice per mettere a tacere le critiche non sono piaciuti a molti democratici. Non sorprende quindi che Bernie Sanders stia cominciando a riconoscere che opporsi a Israele e mettere da parte l’AIPAC – sottolineando anche come l’AIPAC sia una “tribuna per il fanatismo” – non abbia più le stesse conseguenze negative in gran parte dell’elettorato del partito.

Anche se il decreto di Trump del dicembre 2019 per combattere l’antisemitismo nei campus universitari può apparire disastroso – l’ordine consente di de-finanziare le istituzioni sulla base della definizione di antisemitismo da parte dell’Alleanza Internazionale della Memoria dell’Olocausto [L’International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA) è un’organizzazione intergovernativa fondata nel 1998 che unisce i governi e gli esperti per rafforzare, promuovere e divulgare l’educazione sull’Olocausto, ndtr.] che include le critiche allo Stato israeliano, facendo sì che il sostegno alla Palestina sia “antisemita” – esso è importante per capire che lo status quo su Israele sia crollato fin dagli Accordi di Oslo. Questo decreto è uno sconsiderato tentativo di arginare quella spirale discendente. Inoltre, quando Trump mette il suo nome su qualcosa, una grande quantità di persone si oppone se non altro perché lo ha fatto lui. 

Naturalmente a breve termine ci saranno degli effetti negativi su studenti e docenti, come tentativi di chiusura degli studi sulla Palestina, molestie online e condanne contro dipartimenti e gruppi di studenti. Recenti attacchi contro il Center for Contemporary Arab Studies [Centro per gli studi Arabi Contemporanei, ndtr.] presso la Georgetown University e il SJP e la Columbia University Apartheid Divest [Columbia University Libera dall’Apartheid, ndtr.] alla Columbia University illustrano queste difficoltà.

Tuttavia, sebbene tali azioni possano avvantaggiare il governo israeliano e Trump nel breve termine, a lungo termine i cambiamenti nella posizione di Israele saranno irreversibili. Non è più possibile ridefinire la posizione di Israele nel contesto universitario e nella società civile in generale come uno Stato non ritenuto un trasgressore dei diritti umani e del diritto internazionale. Chi milita nel campo dell’istruzione superiore può impegnarsi per sostenere questa tendenza attraverso una serie di sforzi.

Promuovere la Palestina all’università

Gli studenti, i docenti e coloro che lavorano nelle istituzioni accademiche devono chiedere che la Palestina sia inclusa e coinvolta alle proprie condizioni. Pertanto, devono insistere su studi che esaminino e contestualizzino la Palestina senza interrogarsi se siano “buoni per Israele” o riguardo la loro relazione con il sionismo.

In questo senso è fondamentale un approccio alla Palestina nel contesto delle lotte internazionaliste per l’emancipazione, rendendola una parte della storia moderna condivisa dell’umanità, piuttosto che un’eccezione. Un corso potrebbe, ad esempio, mettere a confronto i movimenti di liberazione nell’Africa sub-sahariana e in Palestina. Tali studi prenderebbero in considerazione non solo il Sudafrica, ma esaminerebbero anche il collegamento del movimento palestinese con le campagne per l’unità africana e il loro impegno collettivo nei movimenti anti-coloniali e de-coloniali negli anni ’60 e ’70. Un altro corso potrebbe esaminare il rapporto tra Palestina e America Latina, dove esistono solide comunità palestinesi.

Docenti e studenti dovrebbero anche insistere sullo sviluppo delle capacità istituzionali all’interno di diverse università e contesti. Finora, Studi sulla Palestina è disponibile come programma di studio a sé stante solo alla Brown University e alla Columbia University. Gli studenti possono mobilitarsi nelle università per insistere sulla realizzazione di programmi allo stesso modo dei programmi di studi etnici sviluppati istituzionalmente negli anni ’60 e ’70. E’ anche fondamentale la creazione di programmi di studio all’estero in Palestina.

Anche gli accademici che lavorano in Palestina dovrebbero mobilitare risorse finanziarie per sostenere questi programmi. I palestinesi negli Stati Uniti e altrove non hanno prodotto uno sviluppo strategico di importanti finanziatori. Devono mobilitare questi donatori per investire in iniziative che avranno conseguenze positive a lungo termine per la lotta palestinese.

Infine, devono essere rafforzati studi legali che forniscono protezione in ambito accademico. Palestine Legal, fondata nel 2012, offre già un irrinunciabile supporto, ma tale impegno deve essere rafforzato e intensificato.

In breve, gli attacchi agli accademici, agli attivisti del SJP e alla Palestina devono essere compresi in un ambito storico di lunga durata e con una profonda consapevolezza del cammino verso la giustizia in atto nei campus universitari, a livello nazionale e internazionale. Le argomentazioni morali, etiche e intellettuali che si oppongono con successo agli sforzi israeliani ben finanziati e istituzionalmente connessi per la demonizzazione, dovrebbero aiutare a continuare la lotta per la liberazione palestinese e la fine dell’apartheid. Al cospetto di circostanze avverse, il futuro della Palestina si sta realizzando in primo luogo all’interno della Palestina storica, così come nei movimenti di solidarietà e del BDS in tutto il mondo e nei campus universitari. Proprio come l’apartheid in Sudafrica è stato messo nella pattumiera della storia, ci stiamo avvicinando a una libera Palestina.

Hatem Bazian

Consulente politico di Al-Shabaka, Hatem Bazian è professore associato presso i Dipartimenti di Studi Etnici e del Medio Oriente dell’Università di Berkely in California. Ha insegnato alla Boalt Hall School of Law di Berkeley ed è anche professore ospite in Studi Religiosi al Saint Mary’s College of California e tutor presso il Centro di religione, politica e globalizzazione di Berkeley, nonché presidente della Academic Affairs presso lo Zaytuna College of California [università musulmana di Berkeley]. Ha anche fondato il Centro per lo studio e la documentazione sull’islamofobia di Berkeley, un’unità di ricerca dedicata allo studio sistematico dell’ostilità preconcetta contro l’Islam e musulmani. È anche Presidente del Board of American Muslims for Palestine.

(traduzione dall’inglese di Aldo lotta)