Il parlamento israeliano approva una legge che spiana la strada alla chiusura di Al Jazeera

Redazione di Al Jazeera

1 aprile 2024 – Al Jazeera

Il primo ministro Benjamin Netanyahu promette di usare la nuova legge per chiudere gli uffici locali di Al Jazeera.

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha promesso di “agire immediatamente per interrompere” nel Paese le attività di Al Jazeera dopo l’approvazione del parlamento israeliano di una legge che concede ai ministri poteri di chiudere le reti di informazione straniere ritenute un rischio per la sicurezza.

Al Jazeera ha danneggiato la sicurezza di Israele partecipando attivamente al massacro del 7 ottobre e ha incitato contro i soldati israeliani,” ha scritto Netanyahu su X lunedì.

Intendo agire immediatamente in conformità con la nuova legge per fermare le attività del canale,” ha detto.

La rete qatarina ha respinto quelle che ha descritto come “accuse diffamanti” e ha accusato Netanyahu di “incitamento [all’odio]”.

In seguito al suo incitamento e a queste false accuse ignobili Al Jazeera ritiene il primo ministro israeliano responsabile della sicurezza del proprio personale e delle sedi della rete nel mondo,” ha detto in una dichiarazione.

Al Jazeera ribadisce che tali accuse infamanti non ci dissuaderanno dal continuare la nostra copertura coraggiosa e professionale e ci riserviamo il diritto di intraprendere ogni azione legale.”

Netanyahu cercava da tempo di chiudere l’emittente qatarina adducendo un pregiudizio contro Israele.

La legge approvata dalla Knesset con una votazione di 71 a 10 dà al primo ministro e al ministro delle Comunicazioni l’autorità di ordinare la chiusura di reti televisive straniere che operano in Israele e confiscare le loro apparecchiature se si ritiene che pongano “un pericolo alla sicurezza dello Stato”.

Lunedì Karine Jean-Pierre, la portavoce della Casa Bianca, ha detto che la decisione israeliana di chiudere Al Jazeera sarebbe “preoccupante”.

Gli Stati Uniti sostengono il lavoro estremamente importante dei giornalisti in tutto il mondo e ciò include coloro che ci stanno informando sul conflitto a Gaza,” ha detto Jean-Pierre ai reporter.

Quindi noi crediamo che il lavoro sia importante. La libertà di stampa è importante. E se quei reportage sono veritieri ciò ci riguarda.”

Il Comitato per la Protezione dei Giornalisti (CPJ), che controlla che i media siano liberi, ha detto che la nuova legge israeliana “pone una significativa minaccia per i media internazionali”.

Ciò contribuisce a un clima di autocensura e ostilità verso la stampa, una tendenza in crescita dall’inizio della guerra tra Israele e Gaza,” ha detto il CPJ.

Una lunga campagna

Dall’inizio della guerra di Israele a Gaza in ottobre il governo israeliano ha approvato con il consenso dei tribunali norme di guerra che consentono di chiudere temporaneamente media stranieri giudicati una minaccia per gli interessi nazionali.

L’approvazione della legge arriva circa cinque mesi dopo che Israele ha affermato che avrebbe bloccato il canale libanese Al Mayadeen. Si era astenuto dal chiudere contemporaneamente Al Jazeera.

Lunedì, dopo il voto, il ministro delle Comunicazioni di Israele, Shlomo Karhi [del principale partito di governo, il Likud, ndt.], ha detto che intende procedere con la chiusura e che Al Jazeera agisce come “un braccio della propaganda di Hamas incoraggiando la lotta armata contro Israele”.

È impossibile tollerare un organo di stampa con credenziali dell’Ufficio Stampa governativo e con uffici in Israele che agisca dall’interno contro di noi, e certamente non in tempo di guerra,” ha proseguito.

Il suo ufficio ha detto che l’ordine avrebbe cercato di bloccare le trasmissioni del canale in Israele e di impedirne le attività nel Paese. L’ordine non si applicherebbe alla Cisgiordania occupata o a Gaza.

Israele si è spesso scagliato contro Al Jazeera che ha uffici nella Cisgiordania occupata e a Gaza. Nel maggio 2022 l’esercito israeliano ha ucciso la giornalista di Al Jazeera Shirin Abu Akleh mentre stava coprendo un attacco dell’esercito israeliano nella città cisgiordana di Jenin.

Una relazione commissionata dalle Nazioni Unite ha concluso che per ammazzarla le forze israeliane hanno usato “una forza letale senza giustificazioni”, violando il suo “diritto alla vita”.

Durante la guerra a Gaza sono stati uccisi dai bombardamenti israeliani parecchi giornalisti e loro familiari.

Il 25 ottobre un raid aereo ha ucciso la famiglia di Wael Dahdouh, capo dell’ufficio [di Al Jazeera] a Gaza: moglie, figlio, figlia, nipote e almeno altri otto parenti.

La legge è stata approvata mentre Netanyahu fronteggia enormi proteste contro la sua gestione della guerra a Gaza e il fallimento della sicurezza che non ha scoperto in anticipo l’attacco del 7 ottobre guidato da Hamas nel sud di Israele.

Secondo le autorità israeliane almeno 1.139 persone sono state uccise in quegli attacchi e circa 250 ostaggi sono stati portati a Gaza.

Secondo le autorità palestinesi la guerra israeliana contro Gaza ha ucciso almeno 32.782 persone, in maggioranza donne e bambini.

Domenica decine di migliaia di persone si sono riunite davanti all’edificio del parlamento israeliano a Gerusalemme Est nella più grande manifestazione antigovernativa dall’inizio della guerra.

I manifestanti hanno chiesto al governo di garantire un cessate il fuoco che liberi gli ostaggi detenuti da Hamas e ha invocato elezioni anticipate.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Questi bambini hanno lasciato Gaza ma soffrono ancora di traumi psichici a causa della guerra israeliana

Monjed Jadou

19 marzo 2024 – AlJazeera

Attraverso larte e stringendosi gli uni agli altri 68 bambini sfollati a Betlemme stanno affrontando il loro dolore.

Betlemme, Cisgiordania occupata Un gruppo di bambini di Gaza è impegnato in un laboratorio artistico nel Villaggio di SOS Children [organizzazione internazionale impegnata nel fornire una casa e dei legami familiari a bambini orfani di guerra, ndt.] a Betlemme, a 102 km da Rafah, la città più meridionale della Striscia di Gaza.

I bambini stanno lavorando sulla rappresentazione del viaggio di tre giorni che hanno intrapreso da Rafah a Betlemme, un viaggio tortuoso per coprire una distanza che potrebbe essere percorsa in un’ora.

Come per tutti i palestinesi, i loro spostamenti sono impediti dal governo israeliano, che già in tempi normali limita fortemente la possibilità di movimento dei palestinesi, una situazione aggravata dalla guerra che Israele sta conducendo a Gaza.

Questo mese con il sostegno del governo tedesco sessantotto bambini sono stati evacuati dal Villaggio di SOS Chidren a Rafah e inseriti nella struttura dellorganizzazione benefica a Betlemme, accompagnati dagli 11 operatori che si prendevano cura di loro a Gaza.

Esprimere dolore e paura

Per loro salvaguardia e privacy, i bambini di età compresa tra i due e i 14 anni non possono essere intervistati o fotografati direttamente, ma ad Al Jazeera è stato permesso di osservare le loro attività e interazioni.

Una ragazza era concentrata nel ritagliare la parola Rafahe incollarla in un angolo del suo foglio, scrupolosamente intenta nell’operazione con un’espressione triste, spaventata e accigliata.

Da quel punto percorreva la pagina con un filo di lana di un giallo brillante con cui avvolgeva all’interno di un nodo allentato una faccia arrabbiata, quindi lo lo avvolgeva in ampi cerchi fino a raggiungere “Betlemme”, che aveva incollato nell’angolo opposto.

Per quanto già affiatati grazie al tipo di organizzazione degli SOS Villages sembra che durante il loro lungo viaggio verso Betlemme i bambini si siano ulteriormente avvicinati tra di loro.

Un ragazzo si china per aiutare un bambino più piccolo a capire cosa fare con il suo foglio, spiegando che le diverse faccine sonoperché il bambino esprima cosa avesse provato nei diversi momenti del viaggio e aspetta che il suo amico più giovane le posizioni prima di spiegare l’uso del tubetto della colla.

All’altra estremità della stanza un bambino di cinque anni è rimasto impigliato nella sua giacca a causa delle maniche rovesciate. Una sua amica di 14 anni gliela sfila e lo sistema rinfilandogliela, e appena lui è pronto a partecipare all’attività lo tira a sé per abbracciarlo.

Il dottor Mutaz Lubad, esperto in arte e terapia psicologica, afferma che queste sedute di creazione artistica guidata consentono ai bambini di provare un po’ di sollievo, aprendo loro uno spazio per esprimere ciò che hanno in mente attraverso la loro arte.

I bambini elaborano un insieme spaventoso di emozioni: tristezza nel lasciare la propria casa assieme ai tanti bambini le cui famiglie non hanno dato il consenso allo sfollamento, sollievo per la fuga dalla guerra, paura dei rumori forti dopo aver subito i bombardamenti, una gioia fugace nel raggiungere Betlemme e il sogno di tornare a casa, a Rafah.

“Poiché i bambini spesso trovano difficile esprimere verbalmente ciò che provano lavoriamo per esaminare le loro difficoltà attraverso la loro arte”, ha detto Lubad ad Al Jazeera.

Nelle attività artistiche guidate come questa, in cui a tutti viene chiesto di riprodurre lo stesso soggetto, i bambini possono scegliere i colori, le espressioni delle faccine preferite per i diversi punti del loro viaggio e il grado di tortuosità applicato al percorso del filo di lana incollato per rappresentare i loro tre giorni di viaggio.

Alla domanda sul significato dei nodi allentati che alcuni bambini inseriscono nel percorso del loro viaggio Lubad risponde: I nodi rappresentano momenti in cui i bambini sono stati esposti a situazioni di turbamento o spavento, ma il fatto che abbiano generalmente inserito dei nodi allentati dimostra che si tratta di situazioni che sentono di essere in grado di superare.

Il lavoro di un ragazzo è particolarmente espressivo. Quando gli è stato detto che sarebbe stato trasferito da Rafah ha avuto paura dellignoto, di lasciare la sua stanza e la sua casa. Poi durante il viaggio si è sentito di volta in volta preoccupato e stressato finché, alla fine, si è sentito rincuorato trovandosi al sicuro a Betlemme. Tutto ciò si riflette nelle espressioni delle faccine che ha scelto”.

Proteggere i bambini

L’SOS Village di Rafah è ancora aperto e accoglie bambini le cui famiglie sono morte in guerra o che si sono separate dai loro parenti. Molti bambini sono rimasti nella struttura di Rafah in quanto i loro tutori legali hanno rifiutato il loro sfollamento da Gaza.

Mantenere i contatti – quelli già esistenti – con le famiglie dei bambini è un importante elemento per mantenere i legami con la comunità, ma cercare di scoprire quali parenti siano sopravvissuti e quali morti è stato quasi impossibile, dice ad Al Jazeera Sami Ajur, responsabile del programma presso la Children’s Village Foundation a Gaza.

Aggiunge che nonostante le difficoltà che sta affrontando durante la guerra la fondazione continua il suo lavoro e sottolinea che la struttura di Rafah sta anzi cercando sostegno per espandere le sue attività in modo da poter accogliere un numero maggiore dei bambini che ogni giorno a Gaza rimangono orfani o vengono separati dalle loro famiglie.

Il trauma che a Gaza i bambini stanno vivendo a causa della guerra si manifesta in molti modi, tra cui ansia, incontinenza, incubi e insonnia, afferma Ghada Harazallah, direttrice nazionale dei Villaggi dei Childrens Villages in Palestina, aggiungendo che la loro missione proteggere i bambini non è cambiata.

Al tramonto i bambini di Gaza e quelli che vivono nel villaggio di Betlemme avranno un iftar [cena rituale, ndt.] di gruppo per interrompere il digiuno del Ramadan.

La struttura di SOS Childrens Villages nel mondo incoraggia un rapporto di tipo familiare tra i bambini e tra loro e lo staff adulto. Un membro dello staff viene assegnato come genitorea ciascun gruppo di bambini, che vengono cresciuti in gruppi familiaridove possono formare legami reciproci.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




L’amore ai tempi del genocidio

Susan Abulhawa

12 marzo 2024 – Al Jazeera

Continuano gli atti di amore e di eroismo in mezzo alla carneficina di Israele a Gaza.

Durante un recente viaggio nel sud di Gaza, per settimane ho raccolto storie di donne ricoverate in ospedale, ognuna delle quali era là per ristabilirsi da quelle che si chiamano “ferite di guerra”. Ma non si tratta di una guerra perché solo una delle parti ha un vero esercito. Solo una delle parti è uno Stato con una completa dotazione militare.

Queste vittime erano madri, donne e bambini, i cui deboli corpi sono stati straziati, lacerati, spezzati e bruciati. Le loro ferite più profonde non sono visibili finché loro non rivelano come hanno vissuto durante gli ultimi cinque mesi.

All’inizio raccontano le cose principali: una bomba ha distrutto la casa, sono state estratte dalle macerie, hanno riportato gravi ferite, membri della famiglia sono stati uccisi e la situazione era terribile. Questo è quanto hanno sempre detto sugli orrori inimmaginabili che hanno vissuto e continuano a vivere.

Ma io cerco i dettagli. Che cosa stavi facendo pochi minuti prima? Quale è stata la prima cosa che hai visto, la prima che hai sentito? Quale era l’odore? Fuori era buio o chiaro?

Le spingo a guardare a fondo nella struttura molecolare di ogni fatto – la sabbia in bocca, la polvere nei polmoni, il peso di qualcosa, il liquido tiepido che scende per la schiena, il dito deformato che si vede ma non si sente, il momento in cui ci si rende conto, l’attesa di essere salvate e la paura che nessuno arrivi, il suono nelle orecchie, gli strani pensieri, ciò che si muove e ciò che non può muoversi, l’attesa della morte e la speranza che sia rapida, il desiderio di vivere.

Nei mesi e settimane da quando uno degli eserciti più potenti del mondo ha preso di mira le loro vite non hanno ancora affrontato, né tantomeno verbalizzato, i dettagli di questo genocidio. Appena si avventurano oltre le linee generali delle proprie storie i loro occhi si incupiscono e a volte incominciano a tremare. Il minimo rumore inatteso le spaventa.

Le lacrime si addensano e potrebbero scendere, ma solo in poche si consentono di piangere. Poche lasciano che gli orrori che hanno in testa oltrepassino le barriere. Non si tratta di qualche forza sovrumana. Proprio il contrario. Sono stordite in modo tale che è come dovessero ancora comprendere l’enormità di ciò che hanno vissuto e continuano a vivere.

Jamila

Una giovane madre, Jamila (non è il vero nome), ha pianto per la prima volta quando ha toccato il corpo senza vita di suo figlio di sei anni nel buio, con le dita accidentalmente affondate nel suo cervello. Lei è una delle poche che hanno pianto, sopraffatta dal ricordo.

La loro famiglia era stata presa di mira da un carro armato, non da un missile. Un drone, secondo lei forse con sensori termosensibili, ha aleggiato fuori dal loro edificio e un bombardamento li ha inseguiti mentre correvano da un lato all’altro del loro appartamento, incapaci di uscire.

Era certa che qualcuno dietro a uno schermo stesse giocando con loro prima di assestare il colpo finale che ha trapassato il bambino e ha ferito suo padre. Poi si è fatto silenzio. I colpi del carro armato sono terminati, “come se fossero arrivati solo per uccidere il mio adorato figlio”, dice.

Non ha pianto allora. Non ha emesso alcun suono. “Mio marito era preoccupato e mi ha detto di piangere, ma io non l’ho fatto. Non so perché”, dice.

Due settimane dopo, dopo essere fuggita da un posto all’altro, un soldato israeliano ha sparato a sua figlia Nour di tre anni mentre la teneva in braccio, frantumandole entrambe le gambe, mentre si nascondevano in preda al terrore dentro un ospedale che pensavano fosse sicuro.

Quando l’ho incontrata la piccola Nour aveva barre di metallo sporgenti dalle sue magre cosce e una lunga cicatrice che correva lungo il polpaccio destro, da dove era uscito il proiettile. I medici l’avevano dimessa alcuni giorni prima, ma le avevano permesso insieme a sua madre Jamila di restare qualche giorno in più fino a che potessero in qualche modo ottenere una tenda da qualche parte.

Il marito di Jamila, a malapena in grado di camminare per le ferite riportate, aveva vissuto in una tenda con un gruppo di uomini, il massimo che può fare è procurarsi un po’ di cibo e di acqua ogni giorno. E’ venuto a trovarle una volta mentre ero là dopo essere riuscito a risparmiare 10 shekel (circa 3 dollari) per il trasporto e per un regalino a sua figlia.

La manifestazione della minima intimità fisica tra innamorati è un fatto privato a Gaza, ma non esiste privacy in un ospedale dove 40 pazienti e chi li assiste dividono una singola stanza, con file di letti appiccicati con solo lo spazio sufficiente a camminare tra l’uno e l’altro.

Jamila era al settimo cielo per aver trascorso un’ora con suo marito dopo un mese che non lo vedeva né sapeva nulla di lui (il suo telefono era stato distrutto nel bombardamento). Ma in seguito mi ha detto che le sarebbe piaciuto abbracciarlo, magari anche baciarlo sulle guance. “Soffre così tanto”, ha detto, reggendo il suo dolore con il proprio e quello di un’intera nazione sulle sue esili spalle.

Nina

Nina (non è il vero nome) ha un sorriso disarmante ed è di un espansivo buon carattere. E’ ansiosa di raccontarmi come ha salvato suo marito dalle grinfie dei soldati israeliani.

Si era sposata da appena un anno quando il bombardamento vicino a casa sua si è intensificato. Le registrazioni diffuse online da alcune di quelle notti sono inimmaginabili. Un esercito di draghi che calpestano e bruciano tutto intorno facendo tremare gli edifici, rompendo i vetri, terrorizzando giovani e vecchi; tuoni e terremoti, mostri che si avventano da sopra e da sotto.

Il marito di Nina, Hamad (anche questo non è il vero nome), prese la decisione di andare via insieme a diversi membri della sua famiglia – i genitori, gli zii, le zie e i loro congiunti e figli – e alcuni loro vicini. In tutto erano circa 75 persone, che andavano di città in città, senza trovare un posto sicuro in cui rimanere per più di pochi giorni ogni volta.

Circa una settimana dopo la partenza Nina ha saputo che la casa della sua famiglia era stata bombardata. In un solo istante, da un bottone schiacciato da un israeliano di una ventina d’anni, 80 membri della sua famiglia sono stati assassinati – padre, fratelli, zie, zii, cugini, nonni, nipoti.

Inizialmente le era stato detto che sua madre era morta, ma per fortuna si è saputo che era sopravvissuta. E’ stata gravemente ferita e ricoverata in ospedale, dove Nina è diventata la sua cara assistente. Ecco come mi è capitato di incontrare questa straordinaria giovane donna.

Nina, suo marito e gli altri del gruppo alla fine si sono fermati temporaneamente a Gaza City, da cui sono andati via lungo i muri di barriera per raggiungere un riparo. Si sono mossi uno alla volta, considerando che se Israele gli avesse sparato non sarebbero morti tutti. Perdere una persona era meglio di 75 in un colpo solo.

Effettivamente una persona fu colpita da un cecchino dopo che quasi la metà di loro ce l’aveva fatta, frazionando il gruppo per un po’ finché nuovamente hanno trovato il coraggio di correre, di nuovo uno per volta. I bambini sono stati divisi tra i genitori. Mezza famiglia uccisa è meglio che una intera. Queste erano le scelte che dovevano fare, non diversamente da La scelta di Sofia (romanzo di William Styron, 1976, ndt.)

Dopo non molto il loro rifugio è stato circondato dai carri armati. Un elicottero “quadrirotore” – una nuova invenzione del terrore israeliana – è volato nelle stanze, cospargendo i muri sopra di loro di pallottole. Tutti gridavano e piangevano, “anche gli uomini”, dice Nina. “Mi ha spezzato il cuore vedere i forti uomini della nostra famiglia tremare di paura in quel modo.”

Infine sono entrati i soldati. “Almeno 80”, dice. Hanno separato gli uomini dalle donne e dai bambini, spogliando i primi di tutto tranne i boxer, in pieno inverno. Le donne e i bambini sono stati ammassati in uno sgabuzzino, gli uomini divisi in due aule. Per tre notti e quattro giorni hanno sentito le grida dei loro mariti, padri e fratelli che venivano picchiati e torturati nelle altre stanze, finché alla fine i soldati hanno ordinato alle donne, in un arabo sgrammaticato, di prendere i loro figli e “andare a sud”.

Tutte le donne hanno obbedito, tranne Nina. “Non mi importava più niente. Ero pronta a morire, ma non sarei partita senza mio marito.” E’ andata di corsa nelle stanze dove venivano tenuti gli uomini, chiamando Hamad. Nessuno ha osato rispondere. Era buio e i soldati la stavano trascinando via. Ha lottato con loro mentre ridevano, probabilmente divertiti dalla sua isteria. La chiamavano “pazza”.

Ha riconosciuto i boxer rossi di suo marito nella seconda stanza ed è corsa da lui, strappandogli la benda dagli occhi, baciandolo, abbracciandolo, promettendo di morire con lui se fosse stato il caso. Alternava le imprecazioni contro i soldati alle preghiere di rilasciare suo marito. Infine gli hanno tagliato i lacci di plastica e lo hanno lasciato andare.

Ma lei non aveva finito. Mentre Hamad si avviava, è tornata dentro per raccogliere i vestiti per lui e per i suoi zii seduti nudi al freddo. Non sarebbero stati rilasciati ancora per settimane. Alcuni di quegli uomini sarebbero stati uccisi.

Lei e Hamad sono scappati insieme. Quando finalmente sono arrivati in un posto sicuro si sono resi conto che la gamba di lui era rotta, i suoi polsi erano tagliati dai lacci di plastica e sulla schiena aveva impressa la stella di Davide.

Tra le urla che Nina aveva sentito nei giorni precedenti vi erano quelle di suo marito, mentre un soldato con un coltello incideva il simbolo ebraico sulla sua schiena.

Susan Abulhawa è una scrittrice palestinese

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autrice e non riflettono necessariamente la linea editoriale di Al Jazeera.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)

 

 




Cultura della memoria in Germania, i sionisti antisemiti e la liberazione della Palestina

Rachael Shapiro *-

1 marzo 2024 – Aljazeera

La tanto proclamatacultura della memoria” tedesca è nient’altro che vuota propaganda autocelebrativa.

Sono un’attivista ebrea solidale con la causa filo-palestinese originaria dell’area di New York e ora residente a Berlino. Mia nonna, di Colonia, era sopravvissuta all’Olocausto, fuggita a 16 anni negli Stati Uniti nel corso della Seconda Guerra Mondiale. I suoi genitori e gran parte della sua famiglia furono assassinati durante l’Olocausto. Sono tornata” in Germania circa cinque anni fa, una decisione nata in gran parte dal desiderio di guarire i traumi intergenerazionali miei e di mia nonna, allepoca ancora viva. Ho imparato il tedesco e nel corso degli ultimi anni della sua vita ho potuto parlarle nella sua lingua madre. Le raccontavo storie sulla vita in Germania, lei ha conosciuto alcuni dei miei amici ed apprezzava il modo in cui il Paese e la sua gente sembravano aver progredito elaborando le colpe della loro orribile storia.

Sono contenta che sia morta prima che avessi l’occasione di capire quanto fosse un’ingenua e idealistica illusione.

Negli ultimi anni della mia formazione sono diventata un’attivista nel movimento per la liberazione della Palestina liberandomi dal condizionamento estremista sionista e dal lavaggio del cervello insiti nella mia educazione; il mio apprezzamento per la Erinnerungskultur” (cultura della memoria”) tedesca si è rapidamente trasformato nella consapevolezza che lintero concetto non è altro che vuota propaganda autocelebrativa. Si basa sullo spostamento intenzionale e razzista dellantisemitismo e della responsabilità per lOlocausto dai tedeschi che lo hanno perpetuato agli arabi, ai musulmani e soprattutto ai palestinesi, che ora demonizzano e fanno capro espiatorio attraverso un meccanismo di deviazione e diversione.

Un documentario del 1985, Maloul Celebrates Its Destruction [Ma’loul commemora la sua distruzione, ndt.], fornisce un resoconto della distruzione di interi villaggi durante la Nakba del 1948. In esso, un intervistatore dice a un palestinese sfollato: Ma hanno ucciso sei milioni di ebrei”. La sua giusta risposta è: Li ho uccisi io? Coloro che li hanno uccisi devono essere ritenuti responsabili. Io non ho fatto male a una mosca. Il fatto che una verità così fondamentale sia stata sepolta così profondamente nel linguaggio della complessità” e del conflitto” è una prova dell’impegno e dell’estensione della narrazione imperialista diffusa da Israele, Stati Uniti e Germania (e dallOccidente in generale). Nel frattempo, più del 90% di tutti gli incidenti antisemiti in Germania è attribuibile allestrema destra, nonostante i dilaganti sforzi dei media di ignorare le statistiche, distorcere la realtà della violenza e del razzismo verso i palestinesi e mascherare il reale disinteresse per la così detta lotta allantisemitismo”.

Mentre gli episodi reali di antisemitismo rimangono in gran parte impuniti quelli di noi che sono solidali con la Palestina sono avvezzi alla brutale violenza di Stato, alla repressione e alla sorveglianza da parte della polizia e del governo tedesco in risposta a proteste pacifiche e boicottaggi. Ciò si è intensificato enormemente da quando è iniziato il genocidio a Gaza in ottobre, come sempre sotto il pretesto delle accuse di antisemitismo e Judenhass” (odio verso gli ebrei”). Ci impegniamo pertanto a rimanere forti e visibili, anche attraverso il nostro rifiuto di essere esclusi dalla lotta contro il crescente fascismo e il partito di estrema destra Alternativa per la Germania (AfD).

Il 3 febbraio ho partecipato a una manifestazione anti-AfD a Berlino nellambito della coalizione filo-palestinese con il gruppo rivoluzionario marxista Sozialismus von Unten (Socialismo dal basso”), di cui sono membro attivo. Avevo un po’ di trepidazione allidea di partecipare a questa protesta dopo le esperienze violente, razziste e inquietanti vissute dai miei compagni palestinesi e filo-palestinesi durante le proteste anti-AfD delle ultime settimane. In tutta la Germania le persone che protestavano contro lAfD esprimendo anche solidarietà alla Palestina sono state vessate e attaccate senza pietà, denunciate alla polizia e allontanate violentemente sia dai manifestanti che dalla polizia.

In generale l’atmosfera era positiva e sembrava esserci una solidarietà più tangibile rispetto alle manifestazioni precedenti. Portavo un cartello che diceva: Jüdin gegen die AfD und Zionismus, für ein freies Palaestina” (Ebrea contro AfD e sionismo, per una Palestina libera”). Abbiamo distribuito volantini che sostenevano una mobilitazione strategica e sistematica contro lAfD. Abbiamo parlato con i manifestanti del legame tra la lotta al fascismo e la lotta per la liberazione della Palestina. Abbiamo spiegato che i palestinesi in Palestina stanno attualmente soffrendo a causa delle politiche fasciste contro le quali stiamo manifestando in Germania e che in Germania i palestinesi e coloro che sono solidali con loro sono già vittime di una concreta violazione e negazione di diritti umani fondamentali (libertà di parola, libertà di espressione, libertà di riunione). Abbiamo sottolineato limportanza di una solidarietà internazionale incondizionata.

Alcuni manifestavano con prudenza, evidentemente per paura di essere considerati antisemiti, ma molti erano curiosi, interessati e aperti a saperne di più. Per quanto i media tradizionali abbiano cercato di distorcere e manipolare le notizie sul genocidio in corso a Gaza un recente sondaggio ha mostrato che tra gli elettori tedeschi solo il 25% ha risposto affermativamente alla domanda se credano che gli attacchi di Israele a Gaza siano giustificati; Il 61% crede di no. Quest’ultimo gruppo era chiaramente presente alla manifestazione.

Dopo circa un’ora sono entrata in contatto con un rappresentante del 25% del sondaggio. Un uomo tedesco anziano con unespressione aggressiva si è avvicinato fermandosi davanti a me e ha quasi urlato: Allora quali sono secondo te le somiglianze tra lAfD e Israele? Capivo che non era disponibile ad affrontare una conversazione ragionevole, ma comunque ho iniziato a cercare di spiegare. Dopo poche parole ha alzato gli occhi al cielo e mi ha sputato addosso.

È difficile descrivere la particolare tonalità di rosso che ci ho visto, l’amaro del sangue che pompava alla testa, il gusto acre della furia sulla mia lingua. Era come se vedessi i volti senza vita dei miei bisnonni in balia dei nazisti, deportati e assassinati nel Ghetto di Varsavia così come appaiono nei miei sogni fin da quando ero bambina. Era la risolutezza con cui avrei difeso incondizionatamente fino al mio ultimo respiro la resistenza palestinese, il diritto di ogni popolo a resistere al proprio oppressore in qualsiasi forma. Ho sentito il sapore della rabbia e dellincredulità che tracimano dagli angoli delle nostre bocche mentre urliamo a squarciagola, vedendo il mondo osservare passivamente il massacro di uomini, donne e bambini palestinesi da più di quattro mesi e mezzo – muto, complice e accompagnato dall’eco implacabile di oltre 75 anni di occupazione, apartheid, furto, pulizia etnica, menzogne, disumanizzazione ed impressionante ingiustizia.

Ho rincorso quelluomo urlandogli che la mia famiglia era stata uccisa durante un genocidio a causa del fascismo; in risposta mi ha di nuovo sputato addosso.

Mi ha provocato: Che ne sai? LAfD è un partito fascista. Cosa centra questo con Israele?” Ho cominciato a sostenere l’evidenza: Mentre parliamo Israele sta commettendo un genocidio a Gaza…”, ma prima che finissi la frase mi ha sputato in faccia per la terza volta.

Mentre tremavo, infuriata e disgustata, il mio commento finale è stato: Sei chiaramente un antisemita”. Fino a quel momento era stato borioso e carico di disprezzo, ma (come già sapevo) questa battuta finale lo ha reso furioso. Mentre mi voltavo e me ne andavo, ha urlato: “COSA hai detto?”

Di recente un mio amico mi ha detto: I tedeschi non perdoneranno mai gli ebrei per lOlocausto”. Queste parole riecheggiano nelle mie orecchie e le sento vagare senza sosta nel petto, una dura e orribile verità nel cuore della società tedesca che riflette esattamente la mia esperienza di vita al suo interno. È sconcertante, comico e corrisponde al vero.

Dai neonazisti dellAfD agli esponenti della sinistra anti-tedeschi”, che affermano di combattere lantisemitismo tedesco sostenendo ossessivamente e incondizionatamente il sionismo, molti tedeschi di oggi sono carichi di rabbia repressa nei confronti degli ebrei. Che ne siano consapevoli o meno, ciò emerge in modo clamoroso dalla profonda, isterica ipocrisia di una reazione come quella dell’uomo della manifestazione, che ha sputato in faccia a una ebrea che manifestava contro il fascismo e il genocidio sulla base del suo rapporto personale e generazionale con il fascismo e il genocidio e si è di conseguenza arrabbiato per essere stato identificato come antisemita.

Questa furia è apparentemente una reazione all’”ingiustizia” dei tedeschi, che devono pentirsi per le azioni dei loro antenati, qualcosa per cui sono stati ampiamente lodati sulla scena globale. Il risentimento prende la forma di ottusità e fondamentalismo: gli unici concetti accettabili di ebraismo, popolo ebraico e vita ebraica” sono quelli che loro stessi, i tedeschi non ebrei, approvano esplicitamente. (Un esempio sono i commissari per la lotta all’antisemitismo” che affermano di rappresentare gli interessi del popolo ebraico in Germania, nessuno dei quali è ebreo o esperto in qualsiasi campo attinente o correlato.) Per molti tedeschi, lunico ebraismo accettabile è il sionismo, che in realtà non è affatto una forma di ebraismo. Quando sono costretti a confrontarsi con prospettive in conflitto con questa narrazione tossica o con un ebraismo non in linea con ciò che loro intendono la loro rabbia emerge in modo violento ed esplosivo. Gli Anti-tedeschisi armano della feticizzazione degli ebrei con il loro sionismo ossessivo, guidando aggressive campagne di odio e diffamazione contro coloro che non condividono le loro opinioni (inclusi gli ebrei antisionisti). Come osa qualcuno, soprattutto gli ebrei, mettere in discussione l’autorità dei tedeschi nel definire e relazionarsi con l’ebraismo, l’antisemitismo e il genocidio?

La pluridecennale collaborazione patologica tra Israele e Germania e la diffusa affermazione secondo cui la sicurezza di Israele è una ragione di Stato tedesca” (Staatsräson”), che sostiene l’integrazione sionista a fini politici e razzisti, hanno creato unatmosfera di paura, vergogna, senso di colpa e, in definitiva, ipocrisia che permea gran parte della società tedesca. Punisce le domande, dissuade dallapprendimento e annulla la necessaria comprensione dellebraismo come cultura ampia, differenziata e storicamente diasporica che esisteva molto prima del sionismo, ed esisterà molto tempo dopo.

La definizione di tutti gli ebrei e di tutto lebraismo come ununica entità uniforme, che parla necessariamente la stessa lingua (lebraico moderno), sostiene gli stessi valori (sionismo) e condivide unidentica cultura (che in Germania deve essere determinata dai tedeschi) è di fatto la precisa definizione di segregazione razziale antisemita e nazista e anche la retorica alienante e disumanizzante impiegata al suo servizio. La concezione rigida e intrinsecamente antisemita degli ebrei come popolo indifferenziato nativo” di ununica terra strutturata dal movimento nazionalista-coloniale sionista è semplicemente servita a continuare lopera di Hitler. Ha cancellato l’ebraismo laico in Europa. Ha sradicato lo yiddish, il ladino, l’ebraico-arabo, l’ebraico-persiano e altre lingue ebraiche. Ottantanni dopo lOlocausto è riuscita a sostenere la visione degli ebrei come un monolite, un incomodo straniero lontano dalla società tedesca, il cui tentativo di annientamento può ora essere sfruttato per giustificare lannientamento di un altro gruppo.

In Germania ormai da generazioni si tramanda la tradizione di controllo dellebraismo che, come nel caso delluomo della manifestazione anti-AfD, non ruota solo intorno ad una definizione consolidata e omogenea di ebrei ma anche e soprattutto al diritto e obbligo esclusivo dei tedeschi di dettarla.

Allora cosa ci rimane? Credo che possiamo vederlo nella statistica riportata sopra. La maggioranza dei tedeschi sa, nonostante quello a cui è stato portato a credere col condizionamento, che ciò che sta accadendo a Gaza è quanto meno sbagliato. Molti si accorgeranno che manca qualcosa di significativo e rilevante nella narrazione tradizionale sullantisemitismo, su Israele e sulla Palestina. Oserei dire che la maggior parte di coloro che marciano nelle strade contro lAfD lo fa perché vuole sinceramente stare dalla parte giusta della storia. Contemporaneamente, quella che in realtà è una minoranza è semplicemente più rumorosa, più arrabbiata e più visibile nel propagare il proprio razzismo anti-arabo, anti-musulmano e anti-palestinese, lantisemitismo e le opinioni a favore del genocidio e, così facendo, intimidisce gli altri coll’imporre loro un docile silenzio.

Nessuno nei principali media tedeschi ha riferito della mia esperienza alla protesta anti-AfD. Considerato il contesto culturale, questa non è una sorpresa. Ma mettere in rilievo questa ipocrisia e le narrazioni prevalenti e sempre più distruttive evidenziate da un simile incidente rappresenta una potente opportunità di educazione e responsabilizzazione. L’evidenziare le cause profonde e il contesto sociale di questi fatti consente di metterli a disposizione di tutti perché ognuno vi si possa confrontare. Dato che in così tanti scendono in strada è nostra responsabilità dargli i fatti come carburante per consentire a ogni singola persona di alzare la voce e sapere con fermezza di cosa parla e contro cosa parla. Così continueremo con più determinazione che mai nella lotta per una Palestina libera e nella mobilitazione contro il razzismo, il sionismo, lantisemitismo (di fatto), il fascismo e il genocidio. Lo ripeteremo ancora e ancora finché il ritmo delle nostre parole non diventerà il battito del cuore di una società che tenta di spegnere la nostra resistenza ma alla fine non ci riuscirà: Mai più significa mai più per nessuno.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono allautrice e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera.

*Attivista ebrea antisionista residente a Berlino

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Amnesty International: l’“agghiacciante disprezzo” di Israele per la vita nella Cisgiordania occupata

Redazione Al Jazeera

5 febbraio 2024 – Al Jazeera.

Durante la guerra a Gaza Israele ha scatenato una violenza mortale illegale contro i palestinesi in Cisgiordania, afferma l’organizzazione per i diritti umani.

Israele ha scatenato una forza mortale al di fuori della legge contro i palestinesi nella Cisgiordania occupata, commettendo uccisioni illegali e mostrando “un agghiacciante disprezzo per le vite dei palestinesi”, afferma Amnesty International.

L’organizzazione per i diritti umani ha affermato in un rapporto pubblicato lunedì che le azioni di Israele nel territorio si sono intensificate durante la guerra a Gaza e che il suo esercito e altri corpi armati stanno commettendo numerosi atti illegali di violenza che costituiscono chiare violazioni del diritto internazionale.

Gli occhi del mondo sono puntati soprattutto sulla Striscia di Gaza, dove l’esercito israeliano ha ucciso più di 27.000 palestinesi, soprattutto donne e bambini, dall’inizio della guerra il 7 ottobre. Ma Amnesty ha scritto nel suo rapporto che le forze israeliane stanno commettendo uccisioni illegali anche nei territori palestinesi occupati.

Il documento è stato redatto mediante interviste a distanza con testimoni, primi soccorritori e residenti locali, nonché video e foto verificati.

Sotto la copertura degli incessanti bombardamenti e delle atrocità commesse a Gaza, le forze israeliane hanno scatenato la loro mortale violenza in contrasto con le norme internazionali contro i palestinesi nella Cisgiordania occupata, compiendo uccisioni illegali e mostrando un agghiacciante disprezzo per le vite dei palestinesi”, ha dichiarato Erika Guevara-Rosas, direttore della ricerca globale, del patrocinio e delle linne guida di Amnesty International.

Questi omicidi illegali sono in palese violazione del diritto umano internazionale e sono commessi impunemente nel contesto del mantenimento del regime istituzionalizzato di oppressione e dominio sistematici di Israele sui palestinesi”.

Già prima della guerra i palestinesi in Cisgiordania erano sottoposti regolarmente a raid israeliani mortali, ma da ottobre si è verificato un aumento esponenziale nel numero di attacchi.

Secondo i dati dell’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA), nel 2023 Israele ha ucciso almeno 507 palestinesi nella Cisgiordania occupata, tra cui almeno 81 minori, rendendolo l’anno più letale da quando l’organizzazione ha iniziato a registrare vittime nel 2005.

I numeri delle Nazioni Unite mostrano anche che 299 palestinesi sono stati uccisi dall’inizio della guerra fino alla fine del 2023, un aumento del 50% rispetto ai primi nove mesi dell’anno. Almeno altri 61 palestinesi, tra cui 13 minori, sono stati uccisi dalle forze israeliane a gennaio, ha detto l’ONU.

Uccisioni deliberate”

L’analisi di Amnesty International di un raid israeliano durato 30 ore nel campo profughi di Nour Shams a Tulkarem, avvenuto il 19 ottobre, dimostra le tattiche impiegate dall’esercito israeliano.

In quel raid i soldati israeliani hanno utilizzato un gran numero di veicoli militari e soldati per assaltare più di 40 case. Hanno distrutto effetti personali, praticato buchi nei muri per le postazioni dei cecchini, tagliato acqua ed elettricità al campo profughi e usato bulldozer per distruggere strade pubbliche, reti elettriche e infrastrutture idriche.

Alla fine del raid avevano ucciso 13 palestinesi, tra cui sei minori, quattro dei quali sotto i 16 anni, e avevano arrestato 15 palestinesi.

Un agente della polizia di frontiera israeliana è stato ucciso dopo che un ordigno esplosivo improvvisato è stato lanciato contro un convoglio militare.

Tra le persone uccise durante il raid c’era un quindicenne disarmato di nome Taha Mahamid, a cui le forze israeliane hanno sparato uccidendolo davanti a casa sua mentre usciva per verificare se le forze israeliane avevano lasciato l’area, ha affermato Amnesty.

Non gli hanno dato alcuna possibilità”, ha detto Fatima, la sorella di Taha. “In un attimo mio fratello è stato eliminato. Tre proiettili sono stati sparati senza alcuna pietà. Il primo proiettile lo ha colpito alla gamba. Il secondo nello stomaco il terzo in mezzo agli occhi. Non ci sono stati scontri. … Non c’è stato alcun conflitto.”

Il padre di Taha, Ibrahim, ha cercato di portare in salvo suo figlio e nonostante fosse disarmato è stato raggiunto da colpi di arma da fuoco e ha riportato gravi lesioni interne.

“Questo uso non necessario della forza letale dovrebbe essere indagato come possibile crimine di guerra in quanto omicidio volontario o intenzione di cagionare grandi sofferenze o gravi lesioni al corpo o alla salute”, ha affermato Amnesty.

Ma questo per quella famiglia non è stata la fine dell’operazione israeliana. Circa 12 ore dopo l’omicidio di Taha l’esercito israeliano ha fatto irruzione nella casa e ha rinchiuso i familiari, compresi tre bambini, in una stanza sotto la supervisione di un soldato per circa 10 ore.

Hanno anche praticato dei fori nei muri di due stanze per posizionare i cecchini con vista sul quartiere. Un testimone ha detto che i soldati hanno perquisito la casa, picchiando un membro della famiglia, e uno è stato visto urinare sulla soglia.

Gli estesi danni arrecati dai bulldozer israeliani alle strette strade del campo profughi hanno impedito il passaggio delle ambulanze, ostacolando l’evacuazione medica dei feriti.

Prendere di mira le ambulanze, uccidere i manifestanti

Amnesty ha anche documentato casi in cui le forze israeliane hanno aperto il fuoco direttamente su ambulanze e personale medico.

Impedire l’assistenza medica ai palestinesi è ormai “una pratica di routine” da parte delle forze israeliane, ha affermato l’organizzazione per i diritti umani.

Ha documentato un caso in cui i soldati israeliani hanno impedito alle ambulanze di raggiungere le vittime che hanno finito col morire dissanguate.

“Le vittime sono state successivamente raccolte da un’ambulanza militare israeliana e i loro corpi devono ancora essere restituiti alle famiglie”, ha detto Amnesty.

L’organizzazione ha anche documentato come l’esercito israeliano reprima sparando proiettili veri e lacrimogeni sulla folla le proteste pacifiche dei palestinesi tenute in solidarietà con il popolo di Gaza.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Voci dalla Cisgiordania occupata: “Continuerò a parlare con amore”

Dylan Hollingsworth

30 gennaio 2024 al Jazeera

Cisgiordania occupata – Proseguendo le conversazioni di Al Jazeera con persone della Cisgiordania occupata, su come considerino le infinite tragiche notizie dalla Striscia di Gaza assediata e bombardata, e sulle circostanze del tentare di rifarsi una vita come palestinese sotto occupazione, ecco quattro storie di palestinesi:

Un giovane cristiano sconcertato per come il messaggio di pace e di perdono nato con Cristo in Palestina possa essere dimenticato così barbaramente.

Un difensore dei diritti umani il cui lavoro di una vita è stato di proteggere il popolo palestinese dalla negazione dei suoi diritti.

Un padre che si sveglia ogni giorno nell’angoscia perché ha il terrore che uno dei suoi figli a Gaza sia stato ucciso durante la notte.

E una madre il cui figlio ha compiuto il sacrificio estremo della sua giovane vita perché ha intrapreso l’unica strada che gli è sembrata possibile per combattere contro l’ingiustizia.

Nota: le interviste sono state modificate per motivi di lunghezza e chiarezza.

Abu Ghazaleh, cristiano palestinese, Ramallah

Siamo palestinesi.

Siamo rimasti qui nel corso della storia, musulmani, ebrei o cristiani… la [nostra] prima identità è palestinese.

E anche se sono cristiano palestinese… questo non mi pone fuori dall’ambito del conflitto palestinese. Non consideriamo la religione come la forza trainante o il motivo per difendere la mia terra o rivendicare i miei diritti.

Per me la religione è un modo per contattare Dio, mentre il mio diritto di esistere su questa terra è un mio diritto come palestinese, indipendentemente dalla mia religione.

Questa è la terra di Gesù, la terra dove Cristo ha predicato, dove Gesù è venuto e da qui il cristianesimo si è diffuso nel mondo.

Se vogliamo parlarne dal punto di vista religioso noi cristiani siamo più legati a questa terra di chiunque altro, musulmani o ebrei.

Ma non facciamo distinzioni in base alla religione, piuttosto se si crede nel diritto di vivere in libertà, pace e felicità.

“Le due cose che amo di più nella Bibbia sono: ‘Amate i vostri nemici, benedite coloro che vi maledicono.’ Dio dice che anche se il tuo nemico ti augura la morte e ti odia, devi amarlo perché attraverso l’amore gli insegnerai la strada giusta.

‘Ma con la violenza non gli insegnerai la retta via. Se tu uccidi e lui uccide, le uccisioni continueranno. Se ami, l’amore crescerà.’

Questa frase… è magnifica. Significa che ami qualcuno che ti augura la morte e molte cose orribili.

Non importano le nostre divergenze con gli israeliani, continuerò a parlar loro con amore, affetto e pace.

Ma questo non significa che se un israeliano mi uccide io rimango in silenzio. Se mi uccide l’accuserò, ma il mio obiettivo principale non sarà toglierlo di mezzo, ucciderlo o eliminarlo, come fa lui con me”.

Shawan, direttore generale di Al-Haq [ONG palestinese indipendente per i diritti umani fondata nel 1979, ndt.], Ramallah

“I funzionari americani, l’amministrazione, posso dire che stanno aiutando e sono complici dei crimini di guerra che avvengono in Palestina. Siamo uccisi dalle armi americane.

Noi veniamo uccisi e gli israeliani godono dell’impunità, perché gli americani usano il veto per non ritenere responsabile Israele della sua prolungata occupazione e delle atrocità che accadono quotidianamente contro i palestinesi.

Come l’uccisione di palestinesi. Come espandere qui gli insediamenti o le colonie. Come la confisca delle terre. Come le demolizioni di case. Come il saccheggio delle nostre risorse naturali… come l’acqua, i minerali, la terra, tutto. Gli israeliani non ci hanno lasciato nulla.

Ora molti delle giovani generazioni americane sono più consapevoli della situazione rispetto a prima. E per questo motivo credo che dagli Stati Uniti venga una speranza, nonostante questa orribile situazione.

Ma il nostro caso non è iniziato il 7 ottobre. Il nostro caso ha ormai 75 anni.

Metà della nostra gente è rifugiata in tutto il mondo. L’80% della popolazione della Striscia di Gaza. Gaza misura 360 km quadrati. Si tratta di 2,3 milioni di persone in un luogo molto piccolo e densamente popolato.

E comunque gli israeliani attaccano e uccidono i civili. E l’hanno dichiarato fin dall’inizio, hanno detto: ‘Sono animali umani’, proprio per disumanizzare da subito i palestinesi.

“E hanno detto: ‘Taglieremo l’acqua’, e lo hanno fatto. ‘Taglieremo l’assistenza umanitaria’, e lo hanno fatto.

Che cosa possono ottenere gli israeliani se non seminare sempre più odio nelle menti del popolo palestinese? Questo non porterà la pace. Ciò che porterà la pace è se godiamo del nostro diritto fondamentale all’autodeterminazione.

Questo è il vostro risultato, il risultato americano. Ma sei il principale sostenitore di Israele e non dici al tuo amico: “Ehi, ragazzi, questo non va bene e non è giusto”. Perché se sei un vero amico devi dire ai tuoi amici di evitare di commettere atti illeciti. L’America, in questo momento, non lo sta facendo”.

Raed, palestinese di Gaza con permesso di lavoro israeliano, Ramallah

“Questa guerra non è né la prima né l’ultima per me.

Ho perso metà della mia famiglia nella guerra del 2014 in al-Wehda Street, vicino all’ospedale al-Shifa, quando più di 100 persone furono uccise in una sola zona.

Bambini innocenti sono stati presi di mira dagli aerei israeliani. Sostenevano che ci fossero dei tunnel sotto le case. Mia madre era lì, la moglie di mio fratello e i figli di mio fratello sono stati uccisi.

Ogni corpo che ho recuperato era mutilato, ognuno peggio del precedente. Alcuni erano stati decapitati…

“Soffriamo moltissimo, non riusciamo a dormire e siamo perseguitati dagli incubi. I miei figli soffrono e la maggior parte delle volte preferisco spegnere il telefono per evitare di parlare con loro.

«Dicono: ‘Papà, eri qui con noi prima del 7 ottobre’. Ma io non posso, sento morire i miei figli e non posso fare niente per loro.

Questa non è solo la mia sofferenza, ma quella di tutti i giovani qui. Capita di perdere un amico carissimo una volta in 20 o 30 anni, ma qui ogni giorno perdi le persone più care.

E non siamo responsabili di questa guerra. Siamo lavoratori rispettabili e i nostri figli sono innocenti. Non hanno niente a che fare con questa faccenda. Israele prende di mira coloro che sono coinvolti e coloro che non lo sono. Cerca vendetta sui bambini.

“Perché? O è per annientarci una volta per tutte oppure per non permetterci di piangere gli uni per gli altri. È difficile, come padre, svegliarsi e guardare il telefono per controllare come sta tuo figlio solo per scoprire che è morto, o sapere che tua moglie o tuo fratello sono morti.

Dammi un motivo per cui uno qualsiasi dei nostri figli debba essere coinvolto in questo atto barbarico.

Sono d’accordo, Hamas ha ucciso centinaia di persone il 7 ottobre, ma non puoi annientare un’intera nazione… stanno distruggendo l’intero Paese”.

Amal, madre in lutto e casalinga, Dair Jarir

“Qais era di buon cuore ed era molto colpito dalle cose che accadevano intorno a lui.

Tutti i giovani qui, quando hanno visto cosa stava succedendo ad Al-Aqsa… quelle madri e quelle donne trascinate dagli israeliani, gli si è spezzato il cuore e si sono sentiti impotenti.

Quando sono comparse a Nablus la Fossa dei Leoni e a Jenin le Brigate Jenin, i giovani hanno cominciato a credere di avere uno spazio per agire.

Certo, non ne sapevamo nulla, non ne avevamo idea. Ci raccontava che era con i suoi amici. Non sapevamo che avrebbe fatto quello che ha fatto.

Non poteva sopportare di vedere i giovani martirizzati a Jenin, Nablus, e gli assalti ad Al-Aqsa sono stati la goccia che ha fatto traboccare il vaso… riposi in Dio la sua anima. Non abbiamo ancora ricevuto il suo corpo.

Qais ha portato la vita nella nostra casa, lui e suo fratello. Ci prendeva in giro e qualche volta era testardo, ma la nostra casa era piena di vita.

Adesso siamo come zombi, non c’è più vita in casa nostra. Se avessimo avuto il suo corpo fin da subito e lo avessimo seppellito sarebbe più facile.

Non penso ad altro che a come è Qais, che aspetto ha, cosa hanno prelevato dal suo corpo e cosa gli hanno lasciato.

A volte mio marito viene e mi trova congelata, con il corpo così freddo anche se fa caldo e mi copre con delle coperte. Ma non riesco a scaldarmi. Dico: ‘Qais è gelato’.

So, e nella nostra religione tutti sappiamo, che l’anima è con Dio, ma… non lo so. Le madri non vogliono mai seppellire i propri figli, ma in questa situazione preferiremmo poterli seppellire.

Quando sarà sepolto, potrò recitare il Corano per lui, visitare la sua tomba e piangere accanto ad essa.

Vogliono torturare le famiglie detenendo i corpi dei martiri… una punizione collettiva per le famiglie”.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Cosa implica per la guerra contro Gaza la sentenza provvisoria della CIG?

Justin Salhani

26 gennaio 2024 – Al Jazeera

Secondo alcuni esperti, se le misure provvisorie della CIG hanno evitato di chiedere un cessate il fuoco, potrebbero rendere più difficile per Israele continuare la guerra.

Venerdì la Corte Internazionale di Giustizia ha emesso una serie di misure provvisorie che chiedono a Israele di rispettare la convenzione sul genocidio del 1948, consentire l’ingresso a Gaza di più aiuti umanitari e agire contro quanti esprimono affermazioni genocidarie.

La sentenza provvisoria della Corte Internazionale nella causa intentata dal Sudafrica, che accusa Israele di commettere un genocidio a Gaza, ha evitato di ordinare a Israele di sospendere o porre fine alla sua devastante guerra contro Gaza, che dal 7 ottobre ha ucciso più di 26.000 palestinesi nell’enclave.

Ma ha rigettato la tesi di Israele secondo cui la Corte non ha giurisdizione per imporre misure provvisorie e ha evidenziato che le sue conclusioni sono vincolanti.

L’Autorità Palestinese ha accolto positivamente la sentenza: “La decisione della CIG è un importante richiamo al fatto che nessuno Stato è al di sopra della legge e fuori dalla portata della giustizia,” ha affermato in un comunicato il ministro degli Esteri palestinese Riyadh Maliki. “Ciò infrange la radicata cultura israeliana di criminalità e impunità, che ha caratterizzato le sue pluridecennali occupazione, spoliazione, persecuzione e apartheid in Palestina.”

Mentre la Corte di per sé non ha il potere di imporre l’applicazione della sentenza provvisoria, e neppure il verdetto definitivo che emetterà sul caso, secondo alcuni analisti le sue decisioni di venerdì potrebbero influire sulla guerra a Gaza. Nelle scorse settimane sono aumentate le pressioni su Israele e sui suoi sostenitori americani, mentre continuano a guadagnare terreno gli appelli internazionali per un cessate il fuoco.

La sentenza di venerdì non stabilisce se Israele stia commettendo un genocidio, come ha sostenuto il Sudafrica. Ma la giudice Joan Donahue, attuale presidentessa della CIG, annunciando le misure provvisorie ha affermato che la Corte ha concluso che la “situazione catastrofica” a Gaza potrebbe peggiorare ulteriormente durante il periodo che passerà prima del verdetto finale, e ciò richiede misure transitorie.

“La sentenza invia il forte messaggio a Israele che la Corte vede la situazione come molto grave e che Israele dovrebbe fare quello che può per esercitare moderazione nel portare avanti la sua campagna militare,” afferma Michael Becker, docente di diritto internazionale umanitario al Trinity College di Dublino e che è stato anche un giurista associato presso la Corte Internazionale di Giustizia all’Aia dal 2010 al 2014.

La guerra può continuare?

Nei suoi provvedimenti provvisori la CIG non ordina a Israele di interrompere la campagna militare a Gaza. Nella sua richiesta di interventi temporanei il Sudafrica, citando la possibilità di un genocidio a Gaza, aveva sollecitato una decisione per la cessazione immediata.

Nel marzo 2022, un mese dopo l’inizio dell’invasione dell’Ucraina, la Corte aveva ordinato alla Russia di interrompere la sua guerra in Ucraina, ma Mosca ha ignorato quella sentenza.

Quindi Israele non violerebbe le indicazioni di venerdì della CIG continuando la guerra che, insiste ad affermare, proseguirà finché non avrà distrutto Hamas, il gruppo armato palestinese che il 7 ottobre ha attaccato Israele uccidendo circa 1.200 persone e rapito altre 240.

Tuttavia il governo del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu sarà probabilmente più che mai sottoposto a controllo riguardo alle azioni dei suoi soldati a Gaza e alle affermazioni dei suoi leader e generali.

In base alla sentenza della CIG, a Israele viene chiesto di sottoporre un rapporto entro un mese per dimostrare che sta rispettando le misure provvisorie. Il Sudafrica avrà la possibilità di smentire le affermazioni di Israele.

Israele darà seguito alla sentenza della CIG?

Quando, alla fine di dicembre, il Sudafrica ha presentato la sua denuncia alla CIG, i politici israeliani l’hanno liquidata come una “menzogna” e accusato i sudafricani di “ipocrisia”. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha annunciato che Israele non si sarebbe lasciato influenzare da alcuna sentenza.

“Ripristineremo la sicurezza sia a sud che a nord,” ha scritto Netanyahu sulla piattaforma X, ex Twitter, dall’account ufficiale della presidenza del consiglio israeliana. “Nessuno ci fermerà, né l’Aia, né l’asse del male, né altri.”

Ma, anche se Israele decidesse di non rispettare la sentenza della CIG, ci saranno pressioni sui suoi sostenitori internazionali.

“I politici israeliani hanno già detto che ignoreranno l’ordine della CIG,” dice ad Al Jazeera Mark Lattimer, direttore esecutivo del Ceasefire Centre for Civilian Rights [Centro del Cessate il Fuoco per i Diritti dei Civili, ong britannica, ndt.]. “È molto più difficile, soprattutto per gli USA e gli Stati europei, compresa la Gran Bretagna, ignorare l’ingiunzione, perché essi hanno una storia molto più solida di sostegno e supporto alla Corte Internazionale di Giustizia.”

Alcuni giuristi prevedono che gli alleati occidentali di Israele, tra cui gli USA, rispetteranno la sentenza della CIG. Non farlo avrebbe gravi ripercussioni.

Ciò minerebbe la “credibilità dell’ordine internazionale basato sulle regole che gli USA sostengono di difendere,” afferma Lattimer. Aggiunge che ciò “rafforzerà anche una crescente divisione” tra gli USA e i Paesi occidentali nei confronti del Sud globale, che vede con scetticismo questa asserita “difesa dell’ordine internazionale”.

La sentenza accrescerà le pressioni internazionali per un cessate il fuoco?

Mentre la sentenza di per sé non chiede il cessate il fuoco, essa potrebbe rendere più difficile per gli alleati di Israele continuare a ostacolare i tentativi internazionali di porre fine alla guerra.

“La sentenza della CIG accentua notevolmente la pressione sugli USA e gli altri alleati occidentali perché portino avanti una risoluzione per il cessate il fuoco,” dice ad Al Jazeera Zaha Hassan, avvocata per i diritti umani e ricercatrice presso il Carnegie Endowment for International Peace [gruppo di ricerca indipendente sulla pace con sede a Washington, ndt.]. “Ciò rende molto più difficile agli USA, insieme a Israele, far accettare ai governi occidentali, che si preoccupano ancora molto della legittimità internazionale, di continuare a sostenere che a Gaza Israele sta agendo all’interno dei limiti delle leggi internazionali e per autodifesa.”

Alcune prove suggeriscono che lo sa anche Israele. Secondo alcuni esperti, poco dopo che il Sudafrica ha annunciato che avrebbe portato il caso davanti alla CIG, la strategia di Israele sul terreno ha iniziato a cambiare.

C’è stata “una corsa per eliminare ogni possibilità di un ritorno dei palestinesi nel nord di Gaza,” sostiene Hassan, evidenziando i bombardamenti mirati contro università e ospedali. “Una volta che hai tolto di mezzo gli ospedali hai reso impossibile alle persone restare durante una guerra. È parte di una strategia per obbligare la popolazione palestinese a trasferirsi e per uno sfollamento permanente.”

Ma questo dovrebbe essere la consapevolezza del fatto che il tempo a disposizione di Israele per portare avanti la sua campagna militare sta per scadere.

“C’è bisogno di una pressione internazionale sufficiente a creare sostanzialmente più incentivi per negoziare un cessate il fuoco,” afferma Lattimer. “L’ordinanza della CIG è un importante contributo.”

Compagni d’armi

Soprattutto gli USA hanno fornito l’aiuto militare su cui si basa Israele per continuare a condurre la guerra. Il presidente Joe Biden ha eluso il Congresso USA due volte in un mese per dare l’approvazione alla vendita d’emergenza di armi a Israele.

L’amministrazione Biden sostiene di aver chiesto a Israele di proteggere la vita dei civili, ma ciò non gli ha evitato pesanti critiche, anche interne, per non aver convinto Israele a prestare maggiore attenzione alle vite innocenti a Gaza.

“Questa amministrazione è preoccupata del crescente numero di membri del Congresso, soprattutto senatori democratici moderati che stanno dando segnali d’allarme contro l’uso scorretto delle armi americane e la possibile complicità degli USA se continuano a inviare rifornimenti incondizionati a Israele,” dice Hassan.

La sentenza della CIG potrebbe dare maggiore impulso alla promozione di un cessate il fuoco a Gaza e affinchè gli USA insistano per un maggiore livello di controllo quando si tratta delle azioni dell’esercito israeliano.

“Nel momento stesso in cui gli USA diranno ‘Non continueremo più a rifornirvi’ questa guerra contro Gaza finirà,” sostiene Hassan.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Un ‘genocidio culturale’: quali sono i siti storici distrutti a Gaza?

Indlieb Farazi Saber

14 gennaio 2023 – Al Jazeera

Negli ultimi 100 giorni circa 200 siti di importanza storica sono stati distrutti o danneggiati dai raid aerei israeliani contro l’enclave palestinese.

Secondo un’ong che documenta i danni di guerra ai siti storici un porto antico datato all’800 a.C., una moschea che conserva rari manoscritti e uno dei più antichi monasteri cristiani del mondo sono solo alcuni degli oltre 195 siti distrutti o danneggiati dal 7 ottobre quando è iniziata la guerra di Israele contro Gaza.

Spazzare via il patrimonio culturale di un popolo è uno dei molti crimini di guerra che il Sudafrica cita nella causa intentata contro Israele esaminata la scorsa settimana dalla Corte Internazionale di Giustizia. In essa si legge: “Israele ha danneggiato e distrutto numerosi centri di studio e cultura palestinesi”, fra cui biblioteche, luoghi religiosi e importanti siti storici antichi.

Secondo gli storici Gaza, una delle aree del mondo abitate da più tempo, è stata patria di una mescolanza di popoli almeno fin dal XV secolo a.C.

Gli imperi dell’antico Egitto, degli assiri e dei romani sono andati e venuti, dominando in momenti diversi la terra dei Cananei, gli antenati dei palestinesi, lasciando reperti del proprio patrimonio culturale. Nel corso dei secoli anche greci, ebrei, persiani e nabatei sono vissuti in questa striscia costiera.

Situata strategicamente sulla costa orientale del Mediterraneo, Gaza è sempre stata in una posizione eccellente sulle vie commerciali fra Eurasia verso l’Africa. I suoi porti l’hanno resa un polo regionale per commerci e cultura. Almeno dal 1300 a.C. la Via Maris che da Eliopolis, nell’antico Egitto, tagliava la costa occidentale di Gaza e poi entrava in Siria era il principale passaggio per i viaggiatori diretti a Damasco.

Il crimine di prendere di mira e distruggere siti archeologi dovrebbe spronare il mondo e l’UNESCO ad agire per conservare questa grande civiltà e il suo patrimonio culturale,” ha detto il ministero per il Turismo e le Antichità di Gaza dopo la distruzione della grande moschea di Omari nel corso di un attacco aereo israeliano l’8 dicembre.

Come conseguenza di quel particolare attacco, un’antica collezione di manoscritti conservata nella moschea potrebbe essere andata persa per sempre. “La collezione di manoscritti resta nelle vicinanze della moschea e al momento inaccessibile perché il conflitto è ancora in corso,” ha detto ad Al Jazeera subito dopo l’attacco padre Columba Stewart, direttore esecutivo dell’Hill Museum and Manuscript Library (HMML).

Secondo la convenzione dell’Aja del 1954, ratificata sia da palestinesi che da israeliani, si dovrebbero difendere i monumenti dalle devastazioni della guerra. Isber Sabrine, presidente di un’ong internazionale che documenta il patrimonio culturale, ha spiegato che i crimini che riguardano il patrimonio culturale fanno parte “dei danni collaterali del genocidio”.

Le biblioteche fungono da contenitori di cultura e un attacco contro di esse è un attacco contro il patrimonio culturale. Ciò che sta accadendo ora è un crimine di guerra. Contravviene alla prima convenzione dell’Aja,” dice Sabrine. “Israele sta tentando di cancellare il legame del popolo con la propria terra. È molto chiaro e intenzionale. L’eredità di Gaza fa parte del suo popolo, è la sua storia e il suo legame.”

Se il genocidio culturale cancella il patrimonio tangibile come musei, chiese e moschee, quello immateriale include costumi, cultura e manufatti. Anche questi sono stati danneggiati, come [la sede del] sindacato degli artisti palestinesi in Jalaa Street a Gaza City e i famosi vasi di argilla prodotti un tempo nel quartiere di al-Fawakhir.

In una dichiarazione ad Al Jazeera l’UNESCO ha detto: “Se la priorità è giustamente data alla situazione umanitaria, anche la protezione del patrimonio culturale in tutte le sue forme deve essere tenuta in conto. Secondo il suo mandato l’UNESCO fa appello a tutti gli attori coinvolti a rispettare rigorosamente il diritto internazionale. Un bene culturale non dovrebbe essere preso di mira o usato a scopi militari in quanto è considerato una infrastruttura civile.”

Ecco un elenco di alcuni dei siti che sono stati distrutti o danneggiati:

Musei

Ci sono quattro musei a Gaza e due sono stati spianati, come confermato ad Al Jazeera dall’International Council of Museums-Arab (ICOM-Arab).

Il Museo Rafah aveva completato un progetto trentennale di curatela di una collezione di monete antiche, piatti di rame e gioielli che ne faceva il principale museo di Gaza del patrimonio palestinese. È stato una delle prime vittime della guerra, distrutto in un attacco aereo l’undici ottobre.

Il museo Al Qarara (anche noto come il Museo Khan Younis), più ad oriente e una volta situato in cima a una collina, fu aperto nel 2016 dai coniugi Mohamed e Najla Abu Lahia che volevano conservare per le generazioni future la storia del territorio e del patrimonio di Gaza.

La collezione consisteva di circa 3.000 manufatti risalenti ai Cananei, la civiltà dell’età del Bronzo che visse a Gaza e in gran parte del Levante nel secondo secolo a.C.

Ora tutto ciò che resta del museo sono frammenti di ceramica e vetri rotti che sono schizzati fuori dalle vetrine durante un attacco aereo in ottobre.

ICOM-Arab ha detto ad Al Jazeera che a questo museo era stato dato un preavviso dalle forze israeliane di svuotarlo del suo contenuto ed evacuarlo nel sud di Gaza.

Il Mathaf al-Funduq, un piccolo museo aperto nel 2008 e ospitato nel Mathaf Hotel a Gaza nord, è stato danneggiato da bombardamenti il 3 novembre.

A Gaza City Qasr Al-Basha, o Palazzo del Pasha, del XIII secolo, fu trasformato in un museo nel 2010 dal ministero del Turismo palestinese e in mostra c’era una collezione di oggetti di periodi diversi della storia di Gaza. L’undici dicembre è stato colpito da un attacco aereo israeliano che ha danneggiato i muri, il cortile e i giardini.

Come molti degli edifici storici di Gaza, ha cambiato proprietà e funzioni parecchie volte nella sua vita. Il forte a due piani, costruito dal sultano mamelucco Zahir Baybars a metà del XIII secolo, fu un tempo sede del potere, costruito per difendersi dalle armate crociate e mongole. Durante il XVII secolo venne usato dagli Ottomani e ci abitò il comandante dell’armata francese Napoleone Bonaparte nel 1799 quando entrò a Gaza per cercare di prevenire l’incombente invasione ottomana dell’Egitto, dove i francesi avevano il quartier generale.

Prima della Nakba del 1948, quando centinaia di migliaia di palestinesi divennero rifugiati nel corso della creazione di Israele e molti fuggirono a Gaza, il palazzo servì come stazione di polizia per gli inglesi che governavano l’area e poi divenne una scuola femminile palestinese.

Biblioteche

Durante una pausa di una settimana nei bombardamenti israeliani iniziata il 24 novembre, i palestinesi hanno potuto ispezionare velocemente la vastità dei danni alla propria patria. È diventato rapidamente chiaro che molti edifici pubblici erano stati distrutti, incluso il Centro culturale Rashad El Shawa a Gaza City, un tempo sede dei colloqui di pace fra il leader dell’OLP Yasser Arafat e il presidente americano Bill Clinton negli anni ‘90. Anche la libreria comunitaria Samir Mansour, accuratamente restaurata dopo i bombardamenti israeliani del 2021, è stata gravemente danneggiata.

La biblioteca della Grande moschea Omari a Gaza City era un tempo ricolma di manoscritti rari, fra cui antiche copie del Corano, biografie del profeta Maometto e antichi tomi di filosofia, medicina e del misticismo sufi. La biblioteca, fondata dal sultano Zahir Baybars e aperta nel 1277 vantava una volta una collezione di 20.000 libri e manoscritti.

Molti dei libri e manoscritti rari là conservati andarono perduti o distrutti durante le Crociate e la prima guerra mondiale, lasciando solo 62 libri, anche questi ora distrutti in un attacco l’8 dicembre.

Un progetto di digitalizzazione di questi libri è stato completato lo scorso anno dall’Hill Museum and Manuscript Library e dalla British Library e sono ora accessibili online su HMML Reading Room.

Moschee

Il Ministero del Turismo e delle Antichità di Gaza stima che dall’inizio dell’attacco israeliano ben 104 moschee siano state danneggiate o distrutte. Sono incluse la moschea Othman bin Qashqar a Gaza City nel quartiere di Zeitoun, costruita nel 1220 sul sito dove si crede sia sepolto il bisnonno del profeta Maometto. È stata gravemente danneggiata in un attacco aereo il 7 dicembre.

La moschea Sayed al-Hashim, costruita nel XII e ricostruita nel 1850 ‘ stata danneggiata in un attacco aereo in ottobre. Questo edificio costruito di solido calcare nella città vecchia di Gaza è di grande importanza per i musulmani perché si dice che ospiti la tomba di un altro bisnonno del profeta Maometto, Hashim bin Abd Manaf. Secondo tradizioni locali sarebbe stato un mercante che si ammalò e morì nel viaggio di ritorno in Siria dalla Mecca e sia quindi sepolto in quello che ora è il sobborgo di Daraj.

La Moschea Hashim bin Abd Manaf. Foto: Abdelhakim Abu Riash/Al Jazeera

Alla costruzione della moschea fece seguito un breve intervallo di dominio crociato prima che si insediassero al potere i Mamelucchi che la ricostruirono. Fu in seguito restaurata nel 1850 sotto la guida del sultano ottomano Abdul Majide e di nuovo dopo i danni nel 1917 durante la prima guerra mondiale.

Agli inizi del presente conflitto la moschea ha preso fuoco durante un attacco aereo israeliano che ne ha danneggiato i muri e i soffitti.

La Grande moschea Omari è stata luogo di venerazione religiosa in forme diverse per circa due millenni.

Conosciuta in arabo come Al-Masjid al-Omari al-Kabir, si pensa sia stata la prima moschea costruita nella Striscia di Gaza 1.400 anni fa. L’otto dicembre è stata distrutta da un attacco aereo israeliano.

Costruita di arenaria locale per accogliere 5.000 fedeli per momenti di preghiera collettiva, tutto quello che ne rimane è il minareto dell’era mamelucca, spezzato e danneggiato.

Per la comunità era più di una moschea,” dice Sabrine. “Un signore mi ha detto che si sentiva più addolorato per la distruzione della moschea che della propria casa.”

Chiamata così dal secondo califfo islamico, Omar bin Khattab, fu costruita nel VII secolo sopra le rovine di una chiesa antica costruita nel 406, essa stessa sorta sulle fondamenta di un tempio pagano del dio cananaico della fertilità, Dagon.

Come molti siti storici che sopravvivono ai popoli che li costruirono, nasconde storie diverse. Secondo una versione Sansone, un guerriero israelita citato nell’Antico Testamento, noto perché la sua forza risiedeva nei capelli, finì sepolto fra le rovine della struttura che cadde su di lui dopo che aveva abbattuto i muri del tempio pagano. Altri dicono che il tempio cadde dopo che i Bizantini diedero alle fiamme tutti i siti pagani quando presero il potere a Gaza dal 390.

Il conquistatore ayyubita Salah al-Din riportò l’edificio al ruolo di moschea dopo che i Crociati l’avevano convertito nella cattedrale di San Giovanni Battista.

La moschea è stata usata come luogo di preghiera dalla comunità musulmana locale fin dal 1291 ed è stata il punto focale di riunioni e attività culturali.

L’anno scorso, in collaborazione con il programma per gli archivi a rischio della British Library Endangered Archives, HMML ha digitalizzato una selezione di copie uniche antiche della biblioteca della moschea che non sono disponibili “in nessun altro posto al mondo”, come ha detto ad Al Jazeera un consulente di HMML. Le opere includono un libro di poesia sufi del XIV secolo di Ibn-Zokaa e tomi di famosi giuristi gazawi, come Sheikh Skaike.

L’attacco di dicembre non è stato il primo subito dalla moschea, che era stata colpita anche il 19 ottobre e danneggiata durante la Prima Guerra Mondiale e di nuovo nell’attacco israeliano contro Gaza nel 2014.

Chiese

Il pavimento della chiesa bizantina di Jabalia, costruita nel 444, era un tempo decorato con mosaici colorati rappresentanti animali, scene di caccia e palme. I suoi muri erano adornati da 16 testi religiosi scritti in greco antico datati all’era dell’imperatore Teodosio II, che governò Bisanzio dal 408 al 450.

Il ministero per il Turismo e le Antichità palestinesi riaprì la chiesa agli inizi del 2022 dopo un restauro durato tre anni in collaborazione con l’ente francese Premiere Urgence Internationale e il British Council.

All’epoca il ministro Nariman Khella disse: “La chiesa fu scoperta nel pavimentare Salah al-Din Street e la prima cosa rinvenuta furono due tombe, una di una persona anziana e l’altra di un bambino piccolo.” Quello stesso anno un contadino scoprì nelle vicinanze una serie di mosaici con motivi intricati. Le condizioni delle tombe e dei mosaici restano incerte.

Per quanto riguarda l’antica chiesa stessa, è stata distrutta in un attacco aereo israeliano in ottobre.

Il monastero di Sant’Ilarione a Tell Umm Amer nel villaggio di Nuseirat, sulla costa, data circa al 340, durante il dominio romano della regione. Un “tell” è una collinetta dalla sommità piatta che spesso segna la posizione di una città antica.

Per ritirarsi dalla vita mondana e immergersi nella ricerca spirituale Sant’Ilarione, un cristiano che si dice sia stato il fondatore del monachesimo, costruì per sé una stanza piccola e semplice in quello che pensava fosse un angolo remoto dell’odierna città di Deir el-Balah, nella zona centrale della Striscia di Gaza. Nonostante il suo desiderio di solitudine, i pellegrini lo cercavano per la cura di malattie e come guida spirituale. Nel corso degli anni gli edifici intorno alla sua semplice stanza si espansero per poi diventare il più grande monastero del Medio Oriente.

Sui 10 ettari del santuario sorsero cinque chiese, un cimitero, una fonte battesimale e terme antiche. Mosaici e lastre in calcare decoravano i pavimenti e i muri ad accogliere i pellegrini che viaggiavano lungo la Via Maris dall’Egitto a Damasco.

Danneggiato dal terremoto del 614, il sito rimase abbandonato fino a che gli archeologi palestinesi iniziarono gli scavi alla fine degli anni ‘90. Il sito, che nel 2012 l’UNESCO ha aggiunto alla sua lista propositiva dei candidati al Patrimonio Mondiale, è stato danneggiato dai bombardamenti israeliani.

La chiesa greco-ortodossa di San Porfirio, rimasta in piedi a Zeitoun per 16 secoli, è stata colpita e danneggiata il 19 ottobre.

Considerata la terza chiesa più antica al mondo, San Porfirio fu costruita nel 425 sulle fondamenta di un antico sito pagano e chiamata con il nome del santo bizantino, che rese sua la missione di chiudere i templi pagani. Si pensa che egli sia stato seppellito all’interno della chiesa.

Come altri siti significativi, questa chiesa fu trasformata in moschea nel Settimo secolo, per poi tornare ad essere chiesa negli anni ’50 del XII con i crociati. Restaurata nel 1856, è rimasta un luogo di preghiera per la comunità cristiana di Gaza e per cercare riparo in tempo di guerra.

Nei bombardamenti israeliani del 19 ottobre 17 persone sono rimaste uccise nel crollo del tetto della chiesa. Il Patriarca greco-ortodosso di Gerusalemme ha detto che prendere di mira la chiesa “costituisce un crimine di guerra”. La vicina moschea in stile ottomano di Katib al-Wilaya, costruita nel XV secolo, è stata danneggiata nello stesso attacco.

La chiesa della Sacra Famiglla, costruita nel 1974, è l’unica chiesa cattolica romana a Gaza e un rifugio per la comunità locale. È stata colpita in un raid aereo il 4 novembre. Una scuola all’interno del complesso ecclesiale è stata parzialmente distrutta.

Il Patriarca Latino di Gerusalemme conferma che schegge di proiettili degli attacchi dell’esercito israeliano contro gli edifici accanto alla chiesa della Sacra Famiglia hanno distrutto cisterne dell’acqua e pannelli solari sul suo tetto.

Altri siti antichi

Ard-al-Moharbeen, la necropoli romana, è stata riportata alla luce l’anno scorso da archeologi palestinesi e francesi dopo il ritrovamento di tombe nel corso della costruzione di nuove case.

Almeno 134 tombe romane datate tra il 200 a.C. e il 200 d.C. con scheletri ancora intatti sono state trovate in quella che si pensa sia una necropoli romana.

Sono stati scoperti due sarcofagi di piombo con decorazioni intricate, uno con motivi di vendemmia e l’altro con delfini.

Fadel Alatel, un archeologo di Gaza e parte della rete Heritage for Peace, ha lavorato in questo scavo prima del 7 ottobre. Ha detto ad Al Jazeera di aver paura di quello che potrebbe essere successo a queste rare tombe.

Sono in un’area in cui sono state lanciate bombe al fosforo bianco. I danni al sito non sono noti,” dice. “Inoltre a causa dei rigori dell’inverno e delle intense piogge questi rari ritrovamenti potrebbero andare distrutti.”

Alatel ha lavorato per conservare il patrimonio e l’archeologia di Gaza durante innumerevoli raid aerei israeliani, ma ha detto che questa volta la situazione è molto peggiore e non ha potuto ritornare al sito per prendere visione dell’entità del danno.

Forensic Architecture (FA), un’agenzia di giornalismo investigativo con sede presso la Goldsmiths University di Londra, ha documentato la distruzione al patrimonio culturale di Gaza nella sua indagine “Living Archaeology”. L’otto ottobre, il giorno dopo l’attacco di Hamas contro Israele che ha dato inizio alla guerra, i ricercatori dell’agenzia, usando tecnologia satellitare, hanno trovato la prova di 3 ampi crateri nel sito archeologico provocati dai missili israeliani.

In una relazione FA dichiara: “Questo disprezzo per il patrimonio culturale palestinese e la sua distruzione sminuiscono le rivendicazioni palestinesi a uno Stato e negano ai palestinesi il diritto fondamentale all’accesso e alla conservazione del proprio retaggio.”

Il destino di un altro sito antico, un porto, è noto. È stato distrutto.

Situato nella zona nord occidentale di Gaza, il primo porto marittimo conosciuto dell’enclave, Anthedon, noto anche come Balakhiyah o Tida, fu abitato dall’800 a.C. al 1100 d.C. o dall’era micenea agli inizi dell’epoca bizantina. Diventò una città indipendente durante il periodo ellenistico.

Dopo la scoperta delle rovine di un tempio romano e mosaici pavimentali sui 2 ettari del sito archeologico, nel 2012 fu posto dall’UNESCO nella lista propositiva dei candidati al Patrimonio Mondiale.

Altri resti datano alla fine dell’età del Ferro e ai periodi persiano, ellenistico, romano e bizantino.

L’hammam al-Sammara, o bagno turco dei samaritani, è stato distrutto l’8 dicembre. Precedente all’Islam, venne probabilmente costruito dai samaritani, una setta religiosa di etnia ebraica che visse nella zona di Zeitoun, anche noto come il quartiere ebraico. L’area aveva una fiorente comunità ebraica fino al dominio crociato nel XII secolo. L’ultima famiglia ebrea palestinese visse nel quartiere fino agli anni ‘60.

L’unica altra reliquia della storia ebraica a Gaza era il mosaico del re Davide che data al 508. Fu scoperto presso i resti di una sinagoga del VI e rappresenta il re Davide che suona un’arpa. Fu trasferito all’Israel Museum a Gerusalemme dopo la conquista israeliana di Gaza durante la guerra dei Sei Giorni nel 1967.

C’è stato un periodo in cui a Gaza City c’erano 38 bagni turchi. Molti andarono perduti durante guerre e occupazioni perché non c’erano le risorse per conservarli.

L’Hammam al-Sammara .Foto: Ahmed Jadallah/Reuters

L’hammam al-Sammara era l’ultimo rimasto. Una volta un cartello all’ingresso diceva che era stato restaurato nel 1320 dal governatore mamelucco Sangar ibn Abdullah.

Era un luogo d’incontro popolare dei gazawi per socializzare e curarsi sotto gli storici soffitti a volta. Dai pavimenti in lastre di marmo con intarsi intricati l’hammam era ancora riscaldato con le tradizionali stufe a legna e condutture.

Situata a nord est di Nuseirat, la città fortifcata di Tell el-Ajjul, o Collina dei vitelli, si trova tra il mar Mediterraneo e Wadi Gaza. Fondata tra il 2000 e il 1800 a.C., è stata danneggiata dai bombardamenti israeliani.

L’egittologo inglese William Matthew Flinders Petrie scoprì il sito negli anni ’30 dopo essersi trasferito ad oriente in Palestina dopo gli scavi della grande piramide di Giza. Qui scoprì gioielli in oro e antiche monete usate da hyksos, romani e bizantini.

Molte delle sue scoperte fatte tra il 1930 e il 1934, quando Gaza era sotto il Mandato britannico, ora si trovano a Londra nell’Istituto di Archeologia del British Museum. Altri ritrovamenti includono ceramiche importate da Cipro, bottiglie e scarabei, con molti pezzi risalenti all’età del Bronzo, circa 3.600 anni fa. i manufatti suggeriscono anche che Tell el-Ajjul fosse un tempo un polo commerciale.

Condizioni sconosciute

Le condizioni di molti altri siti storici di Gaza restano sconosciute. Secondo Alatel è difficile restare aggiornati sulla situazione sul terreno perché essa “cambia ogni cinque minuti”. A causa della pericolosità della situazione i fotografi locali non sono riusciti a ritornare in molti siti per valutare i danni.

Ecco alcuni dei siti di cui non si conoscono ancora le condizioni

Risalente al XIV secolo, il caravanserraglio Khan Younis fu costruito per soddisfare le necessità dei viaggiatori lungo la Via Maris.

Prendendo il suo nome dal suo fondatore mamelucco, Younis al-Nuruzi, il khanato, o khan, era un tipo di albergo popolare nella regione circa dal X secolo, dove i viaggiatori potevano riposare e fare una pausa durante i viaggi. Questo, costruito nel 1387, ha una moschea, un ufficio postale e magazzini.

Durante gli scavi archeologici dal 1972 al 1982 presso il cimitero di Deir el-Balah fu scoperta una collezione di bare di argilla antropomorfe uniche, datate alla tarda età del Bronzo (1550-1200 a.C.).

Situata nel quartiere Daraj, la moschea sufi di Ahmadiyyah Zawiya fu fondata nel 1336 dai seguaci dello sceicco Ahmad al-Badawi, un famoso studioso sufi del XII secolo che viveva a Gaza.

Fedeli sufi si riunivano qui per la preghiera comune i lunedì e giovedì. Ci sono state sparatorie nell’area, dice Alatel, ma non si sa ancora cosa sia successo al luogo sacro.

Tutti i nostri siti storici sono contrassegnati chiaramente, eppure gli attacchi dell’esercito israeliano con carri armati e bulldozer continuano,” dice l’archeologo. “Ma ho fiducia che tutto questo finirà. Anche se cercano di distruggere il nostro passato noi ricostruiremo il futuro di Gaza.”

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




‘Foto della vittoria’: l’uccisione a Beirut aiuterà politicamente il contestatissimo Netanyahu?

Nils Adler

7 gennaio 2024 – Al Jazeera

La popolarità di Netanyahu non è mai stata così bassa. Secondo alcuni analisti gli omicidi di Beirut non cambieranno in modo sostanziale la situazione.

È stato un inizio di 2024 difficile per il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu.

Lunedì primo gennaio la Corte Suprema di Israele ha bocciato una controversa legge presentata dal governo Netanyahu nel 2023 per limitare alcuni poteri dell’Alta Corte che ha scatenato diffuse proteste in tutto il Paese.

Poi, il giorno dopo, l’attacco contro un appartamento di Beirut ha ucciso importanti membri di Hamas. Anche se Israele non ha rivendicato l’azione, alcuni analisti affermano che ha avuto in tutto e per tutto le caratteristiche di un attacco mirato israeliano. Ciò contribuirà a fermare la perdita di popolarità del primo ministro israeliano più a lungo in carica?

La decisione della Corte Suprema è una “importante battuta d’arresto”

La bocciatura del progetto di riforma giudiziaria è un’“importante battuta d’arresto” per Netanyahu e l’estrema destra israeliana che avevano investito “un significativo impegno politico sulla questione”, dice ad Al Jazeera Nader Hashemi, professore associato di Medio Oriente e Politica Islamica alla Georgetown University [prestigiosa università statunitense, ndt.] .

Per alcuni israeliani, afferma Hashemi, l’insistenza di lunga data di Netanyahu sulle modifiche del sistema giudiziario ha “diviso la società israeliana e l’ha resa più debole, consentendo ciò che è avvenuto il 7 ottobre.

Recenti sondaggi di opinione mostrano che la stragrande maggioranza degli israeliani pensa che Netanyahu dovrebbe ammettere pubblicamente le sue responsabilità per gli errori che hanno portato all’attacco di Hamas il 7 ottobre nel sud di Israele, in cui circa 1.200 persone sono state uccise e più di 200 sono state prese in ostaggio. Da allora a Gaza le bombe e il fuoco di artiglieria israeliani hanno ucciso più di 22.000 palestinesi.

Nimrod Goren, ricercatore esperto delle questioni israeliane presso il Middle East Institute [centro studi statunitense fondato nel 1946, ndt.], dice ad Al Jazeera che la sentenza della Corte Suprema è stata vista come una “grande vittoria per la democrazia israeliana”.

Dopo questa decisione il ministro della Giustizia Yariv Levin ha attaccato la Corte, affermando che il momento scelto per il suo verdetto è stato “l’opposto dell’unità necessaria per il successo dei nostri combattenti al fronte.”

Tuttavia il leader dell’opposizione Yair Lapid ha messo in guardia il governo Netanyahu dall’ignorare la sentenza, affermando che se lo facesse ciò “dimostrerebbe che non ha imparato niente dal 7 ottobre”. Anche l’ex ministro della Difesa Benny Gantz, che fa parte del gabinetto di guerra di Netanyahu, ha chiesto che la decisione venga rispettata.

Secondo Goren i battibecchi politici seguiti alla sentenza, dopo mesi di relativa unità dopo il 7 ottobre, sono serviti da “promemoria di quello che ci attende (come israeliani) quando la guerra sarà finita.”

Egli afferma che concentrarsi sulle riforme proposte, una questione divisiva prima della guerra, “invece di fare i conti con gli importanti problemi che dobbiamo affrontare (ora)” non fa che aggiungersi alle critiche della società israeliana a Netanyahu.

Le uccisioni di Beirut sono una “fotografia della vittoria” per il gabinetto di guerra

Eppure, se la sentenza della Corte Suprema è stata un colpo per Netanyahu, l’assassinio di importanti dirigenti di Hamas a Beirut ha rappresentato un momento trionfale per lui e il suo gabinetto di guerra, che include il ministro della Difesa Yoav Gallant e Gantz, ora membro dell’opposizione.

“Penso che le clamorose uccisioni di questo tipo contro nemici giurati di Israele aiutino politicamente Netanyahu,” dice Hashem.

Un articolo pubblicato dal giornale israeliano di sinistra Haaretz ha affermato che le notizie da Beirut sono state viste “positivamente” dalla società israeliana e hanno fornito ai dirigenti del Paese una “fotografia della vittoria” indispensabile mentre la guerra si sta avvicinando al terzo mese.

Ma, secondo l’articolo, per le famiglie degli oltre cento ostaggi ancora trattenuti a Gaza la notizia è giunta come “una pugnalata al cuore”.

Martedì Netanyahu ha incontrato le famiglie e le ha informate che si stava per concretizzare un possibile accordo con Hamas che avrebbe potuto portare alla liberazione degli ostaggi.

Subito dopo è filtrata l’informazione dell’uccisione di importanti dirigenti di Hamas a Beirut, seguita da notizie secondo cui i passi avanti del possibile accordo per il rilascio degli ostaggi erano in fase di stallo.

Haaretz, citando Eli Shtivi, padre del ventottenne Idan Shtivi, rapito durante il festival musicale Supernova, ha affermato che le notizie hanno spento il crescente ottimismo tra i familiari riguardo alle prospettive di un accordo. Shtivi ha detto alla televisione israeliana che le uccisioni “sono avvenute in un momento in cui pensavamo che avremmo visto la reale possibilità che altri ostaggi tornassero a casa.”

È una sensazione che Gil Dickmann, la cui cugina Carmel Gat è stata rapita da Hamas, non condivide.

Egli sostiene che la politica dovrebbe aspettare e che la priorità assoluta delle famiglie degli ostaggi è appoggiare qualunque cosa il governo stia facendo per riportarli a casa.

“Quando tutto sarà finito avremo il tempo sufficiente per parlare di politica, ma voglio che mia cugina Carmel sia qui quando lo faremo,” dice ad Al Jazeera.

Fino ad allora, afferma, “appoggeremo qualunque tentativo” per il rilascio degli ostaggi. “Penso che la cosa più importante sia che il governo sappia di avere l’appoggio della stragrande maggioranza degli israeliani.”

Le uccisioni di Beirut dimostrano che non c’è nessuna volontà di arrivare a un cessate il fuoco

Comunque gli omicidi hanno irritato molti israeliani che chiedono ad alta voce una soluzione pacifica della guerra.

Nelle scorse settimane Standing Together [Stare uniti], un movimento ebreo-arabo per la pace, ha portato migliaia di persone in piazza per chiedere un cessate il fuoco bilaterale e la fine dell’attuale campagna militare a Gaza.

Alon-Lee Green, il suo co-direttore, dice ad Al Jazeera che gli omicidi sono stati un messaggio di Netanyahu e del suo gabinetto di guerra che “non siamo disposti a negoziare”.

Una vittoria militare, non politica

Secondo alcuni analisti quanto successo a Beirut potrebbe essere visto da molti israeliani come un successo militare, ma non si traduce necessariamente in una vittoria politica di Netanyahu.

Piuttosto, secondo Goren, ciò allarga il divario tra la “mancanza di fiducia nell’attuale dirigenza del governo e il costante alto livello di fiducia nei confronti degli ambienti dell’apparato della sicurezza, nonostante tutto quello che è successo il 7 ottobre.”

Secondo lui il fatto che anche Gantz, un oppositore politico, faccia parte del gabinetto di guerra dimostra che l’obiettivo di dare la caccia ad Hamas è condiviso dalla maggioranza dei dirigenti politici, e di conseguenza i successi militari non sono attribuibili solo a Netanyahu.

Yossi Mekelberg, professore associato del programma MENA [Medio Oriente e Nord Africa] presso la Chatham House [prestigioso centro studi britannico, ndt.], afferma che, anche se avvenimenti come le uccisioni di Beirut possono offrire una breve tregua alla criticatissima dirigenza israeliana, non cambieranno la precaria situazione politica di Netanyahu.

Il primo ministro è generalmente considerato responsabile di quanto avvenuto il 7 ottobre, quindi secondo Mekelberg anche se ci fosse un cessate il fuoco l’opposizione probabilmente contesterebbe la sua posizione e chiederebbe nuove elezioni.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Chi era Saleh al-Arouri, il dirigente di Hamas ucciso a Beirut?

Redazione di Al Jazeera

3 gennaio 2024 – Al Jazeera

L’uccisione del vice-capo dell’ufficio politico di Hamas potrebbe scatenare una rappresaglia da parte di Hamas ed Hezbollah.

Martedì un attacco con un drone nel quartiere periferico di Dahiyeh, roccaforte di Hezbollah a Beirut sud, ha ucciso l’importante politico di Hamas Saleh al-Arouri.

L’agenzia statale di notizie libanese ha informato che il drone ha colpito un ufficio di Hamas uccidendo sei persone.

Hamas ha confermato la morte di Al-Arouri e l’ha definita un “vigliacco assassinio” da parte di Israele, aggiungendo che gli attacchi contro i palestinesi “dentro e fuori dalla Palestina non riusciranno a spezzare la volontà e la tenacia del nostro popolo o a impedire la continuazione della nostra coraggiosa resistenza.”

“Ciò dimostra ancora una volta il totale fallimento del nostro nemico nel raggiungere i suoi scopi aggressivi nella Striscia di Gaza,” ha affermato l’organizzazione.

In seguito alla notizia della morte di al-Arouri le moschee di Arura, la città a nord di Ramallah nella Cisgiordania occupata, hanno pianto la sua morte ed è stato dichiarato uno sciopero generale per mercoledì.

Ecco quello che c’è da sapere del dirigente di Hamas morto in Libano.

Chi era Saleh al-Arouri?

Al-Arouri, 57 anni, era il vice-capo dell’ufficio politico di Hamas e uno dei fondatori dell’ala militare del gruppo, le brigate Qassam.

Dopo aver passato 15 anni in una prigione israeliana viveva in esilio in Libano. Prima che il 7 ottobre iniziasse la guerra, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu l’aveva minacciato di morte.

Nelle ultime settimane al-Arouri aveva assunto il ruolo di portavoce dell’organizzazione e lo scorso mese aveva detto ad Al Jazeera che Hamas non avrebbe discusso un accordo per lo scambio degli ostaggi detenuti dal gruppo prima della fine della guerra a Gaza.

Nel 2015 gli Stati Uniti avevano etichettato al-Arouri un “terrorista globale” e promesso una taglia di 5 milioni di dollari per ogni informazione su di lui.

Cosa ha detto Israele della morte di al-Arouri?

Mentre non ci sono state reazioni ufficiali di Israele sulla morte del politico di Hamas, Mark Regev, consigliere di Netanyahu, ha detto al sito di notizie statunitense MSNBC che Israele non si assume la responsabilità dell’attacco. Ma, ha aggiunto, “chiunque lo abbia fatto, deve essere chiaro che non si è trattato di un attacco contro lo Stato libanese.”

“Chiunque lo abbia fatto ha compiuto un attacco chirurgico contro la dirigenza di Hamas,” ha affermato.

Tuttavia Danny Danon, ex- ambasciatore israeliano alle Nazioni Unite, ha esaltato l’attacco e si è congratulato con l’esercito israeliano, lo Shin Bet, il servizio di sicurezza, e il Mossad, il servizio di intelligence, per l’uccisione di al-Arouri.

“Chiunque sia convolto nel massacro del 7 ottobre dovrebbe sapere che lo troveremo e faremo i conti con lui,” ha scritto su X in ebraico, in riferimento all’attacco del 7 ottobre di Hamas nel sud di Israele che ha ucciso circa 1.200 persone.

I continui bombardamenti e colpi di artiglieria israeliani contro Gaza hanno ucciso da allora più di 22.000 palestinesi, tra cui più di 8.000 minori.

Secondo i media israeliani, dopo il tweet di Danon il governo ha ordinato ai ministri di non rilasciare interviste riguardo alla morte di al-Arouri.

Quale è stata la risposta dal Libano?

Il primo ministro libanese ad interim Najib Mikati ha condannato l’attacco contro il quartiere di Beirut ed ha affermato che si è trattato di un “nuovo crimine israeliano” e di un tentativo di spingere il Libano in guerra.

Mikati ha anche messo in guardia verso “gli alti dirigenti politici israeliani che ricorrono all’esportazione del fallimento a Gaza sul confine meridionale [del Libano] per imporre nuovi fatti sul terreno e cambiare le regole d’ingaggio.”

Hezbollah ha affermato che l’attacco contro la capitale del Libano “non passerà impunito.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)