La crociata annessionista di Israele a Gerusalemme: il ruolo di Ma’ale Adumim e del corridoio E1

Zena Agha

26 marzo 2018, Al Shabaka

Sintesi

Negli scorsi mesi Israele ha fatto una serie di continui tentativi di annettersi colonie che confinano con Gerusalemme. Il più ambizioso: la legge della “Gerusalemme più grande”, che intende annettere Ma’ale Adumim, Givat Zeev, Beitar Illit e il blocco di Etzion – una colonia inserita tra Gerusalemme ed Hebron – che era in programma per l’approvazione da parte della commissione ministeriale israeliana per le leggi alla fine dell’ottobre 20171. Il suo scopo finale era di “ebraicizzare” Gerusalemme per mezzo di una manipolazione demografica e di un’espansione territoriale [dei confini di Gerusalemme, ndt.].

Benché Netanyahu abbia rimandato a tempo indefinito la legge a causa delle pressioni degli Stati Uniti, preoccupati che ciò potesse ostacolare gli sforzi di far risuscitare i colloqui di pace, il tentativo recondito continua a vivere in altre misure. In seguito al riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele da parte del presidente USA Donald Trump nel dicembre 2017, Israele ha accentuato i tentativi per annettere la terra e cambiare l’aspetto demografico di Gerusalemme.

L’attuale governo di Benjamin Netanyahu ha sfacciatamente proposto una sfilza di altri progetti, risoluzioni e leggi che rafforzerebbero la presa di Israele su Gerusalemme. Sostenuti dal consenso di Trump, i politici, amministratori e pianificatori israeliani hanno approvato anche la costruzione di migliaia di unità abitative nelle colonie sia all’interno che attorno a Gerusalemme e nei Territori Palestinesi Occupati [TPO], nonostante il fatto che la fondazione di queste colonie nei TPO rappresenti una violazione dell’articolo 49 della Quarta Convenzione di Ginevra. Garantirsi una maggioranza demografica ed espandere le colonie fanno anche parte di un piano più complessivo di Israele per annettersi la Cisgiordania.

Questo commento politico esplora le implicazioni dell’annessione della zona di Gerusalemme, in particolare l’impatto dell’annessione della colonia urbana di Ma’ale Adumim e dell’area territoriale nota come E1, che la collega a Gerusalemme. Mostra come l’annessione di questi luoghi renderebbe impraticabile un futuro Stato palestinese, separando di fatto tra loro la parte settentrionale della Cisgiordania e quella meridionale. Tale annessione mette in luce anche i metodi di colonizzazione israeliani nei TPO: confisca delle terre, annessione strisciante, manipolazione della demografia e trasferimento della popolazione. L’articolo conclude con dei suggerimenti su quanto la comunità internazionale, l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) e gli stessi palestinesi possono fare per arginare questo esito catastrofico.

Annessione fin dai primi giorni dell’occupazione

Il 27 giugno 1967, 20 giorni dopo che l’esercito israeliano aveva occupato Gerusalemme fino alla sua parte più orientale, Israele si annesse circa 71 km2 di terre all’interno dei confini ampliati della municipalità israeliana di Gerusalemme. Ciò riunì la Città Vecchia, la parte occidentale israeliana della città, la città in precedenza amministrata dalla Giordania e 28 villaggi palestinesi (ed i loro pascoli) in un’unica area metropolitana – tutto ciò nel tentativo di creare una unificata, “eterna” capitale ebraica. L’annessione incluse circa 69.000 palestinesi che vivevano sul territorio.

Dal 1967 Israele ha limitato potere, proprietà e abitazioni dei palestinesi nella zona di Gerusalemme, incrementando al contempo la presenza ed il controllo da parte degli ebrei israeliani. Mentre Gerusalemme continua ad essere l’unico territorio palestinese ufficialmente annesso dal 1967, la destra nazionalista in Israele ha a lungo chiesto la totale annessione dei TPO.

Nel corso degli anni sono state proposte leggi simili a quella della “Gerusalemme più grande”. La legge in sé è stata una riproposizione di un progetto simile degli anni ’90, e il parlamentare della Knesset [il parlamento israeliano, ndt.] Yisrael Katz ha presentato una proposta simile nel 2007. Entrambe vennero accantonate a causa delle preoccupazioni in merito a reazioni internazionali e palestinesi.

Come i precedenti tentativi, la legge della “Gerusalemme più grande” riguardava la demografia. Stabiliva che i 150.000 coloni che vivono nelle cittadine e nei municipi in questione venissero considerati abitanti di Gerusalemme, consentendogli quindi di votare nelle elezioni comunali e di influenzare i risultati elettorali. Al contempo la Knesset ha aggiunto un emendamento alla “Legge fondamentale” del 1980, “Gerusalemme capitale di Israele”, che consente al governo di separare zone della città dalla municipalità di Gerusalemme, pur esigendo che queste nuove amministrazioni rimanessero sotto sovranità israeliana. Ciò intendeva chiaramente eliminare i 100.000 palestinesi che vivono nel quartiere di Kufr Aqab, nel campo profughi di Shuafat e ad Anata – che si trova oltre la barriera di separazione – riclassificandoli come municipi di rango inferiore e togliendoli dall’anagrafe [di Gerusalemme].

Queste misure avrebbero garantito che la popolazione palestinese – che attualmente comprende circa il 40% della popolazione di Gerusalemme –scendesse al 32%, semplicemente ridefinendo i confini della città. Il parlamentare Kish ha espresso questa visione demografica in modo piuttosto ingenuo: “Gerusalemme ingloberà una popolazione che garantirà l’equilibrio demografico.” Allo stesso modo il deputato Katz ha sottolineato che la legge avrebbe “garantito una maggioranza ebraica nella città unificata,” insediando in questo modo Gerusalemme come la capitale di Israele.

Inoltre sono già in corso preparativi per l’annessione della Cisgiordania, come dimostra la risoluzione non vincolante votata all’unanimità il 1 gennaio 2018 dal comitato centrale del Likud [principale partito della destra israeliana al governo da molti anni, ndt.]. La risoluzione chiede che Netanyahu, i dirigenti e politici del partito “applichino le leggi di Israele e la sua sovranità su tutte le zone liberate dell’insediamento ebraico in Giudea e Samaria” – il nome utilizzato dai nazional-religiosi in riferimento alla Cisgiordania. Come ha proclamato l’ex-ministro dell’Educazione e rivale di Netanyahu Gideon Sa’ar: “(L’annessione) verrà realizzata in pochi anni. Lasciateci guidare il Likud…L’obiettivo della nostra generazione è rimuovere ogni punto interrogativo che incombe sul futuro delle colonie.”

Mentre a metà febbraio Netanyahu ha scartato una legge basata su questa risoluzione in risposta alla disapprovazione USA, il suo spirito è evidente in una serie di più sottili ma ugualmente pericolose leggi presentate da parlamentari israeliani. A metà febbraio, per esempio, la Knesset ha approvato una legge che estende la giurisdizione dello Stato all’interno della Cisgiordania, mettendo college e università delle colonie sotto l’autorità della commissione israeliana per l’Educazione superiore. Benché il suo impatto diretto sia in qualche modo ridotto, i sostenitori della legge hanno creato un contesto retorico e legislativo in cui l’applicazione della legge israeliana nelle colonie non è più discutibile – un passo verso l’obiettivo finale di annettere parti della Cisgiordania.

In modo ancor più significativo, la ministra della Giustizia Ayelet Shaked (Casa Ebraica [partito di estrema destra dei coloni, ndt.]) ha proposto una legge, fatta propria dal governo all’inizio di marzo, che propone di togliere alla Corte suprema israeliana la giurisdizione sulle terre contese in Cisgiordania. Se approvata, la legge garantirebbe che il tribunale distrettuale di Gerusalemme, invece della Corte suprema, si occupi dei casi riguardanti palestinesi che intendono fare ricorso legale nei conflitti territoriali con i coloni. Questo è un passo che stabilisce un precedente che imporrebbe concretamente la legge israeliana sulla Cisgiordania occupata.

L’intento di questa legge è duplice: in primo luogo, attribuendo a un tribunale israeliano la giurisdizione sui palestinesi non cittadini che vivono al di là della Linea Verde [il confine tra Israele e Giordania prima della guerra del ’67, ndt.], Shaked intende estendere (ulteriormente) le leggi interne e il sistema giuridico di Israele in Cisgiordania. In secondo luogo, dà un ulteriore vantaggio nei tribunali ai coloni rispetto alle denunce palestinesi. Secondo un funzionario del ministero di Giustizia, Shaked vede la Corte Suprema israeliana come “eccessivamente preoccupata delle leggi internazionali e della protezione dei diritti della popolazione ‘occupata’ in Giudea e Samaria.”

Simili atteggiamenti stanno ricevendo una base d’appoggio internazionale. In una riunione durante la conferenza dell’AIPAC [American Israel Public Affairs Committee, principale gruppo di pressione filoisraeliano negli USA, ndt.] a Washington nel marzo 2018, Oded Ravivi, il capo del consiglio della colonia di Efrat, ha invitato i parlamentari statunitensi ad appoggiare l’annessione della Cisgiordania e l’incremento nella costruzione di colonie. Ha affermato: “Non è un segreto che alla Knesset ci sono stati diversi tentativi riguardo all’annessione o all’adozione delle leggi israeliane in Giudea e Samaria…Penso che sia giunto il momento di applicare le leggi israeliane in Giudea e Samaria.”

Quindi, mentre la costruzione (o espansione) di colonie illegali e i tentativi di annessione sono stati messi in pratica senza sosta dal 1967, è chiaro che la Palestina sta affrontando un momento cruciale. Se la legge della “Gerusalemme più grande”, ed ogni modifica di essa, dovessero essere messe in atto, ci sarebbero due conseguenze epocali: taglierebbe fuori i palestinesi dalla loro capitale, Gerusalemme, ebraicizzando la città dal punto di vista demografico e spaziale, e colonizzerebbe il punto più stretto della Cisgiordania, rendendo impossibile uno Stato palestinese con continuità territoriale.

Per entrambi questi risultati è fondamentale la proposta di annessione della colonia urbana di Ma’ale Adumim e della striscia di terra che la unisce a Gerusalemme, nota come corridoio E1. Dal punto di vista demografico l’inclusione di Ma’ale Adumim nel Comune di Gerusalemme farebbe aumentare drasticamente il numero di abitanti ebrei israeliani nella città, e, dal punto di vista spaziale, l’annessione del corridoio E1 sarebbe il colpo di grazia per la soluzione dei due Stati.

Ma’ale Adumim: il gioiello nella corona della colonizzazione

Ma’ale Adumim si trova nei pressi di Gerico, nei TPO, e funge da sobborgo ebraico di Gerusalemme, contando 40.000 abitanti. L’esatta “fondazione” di Ma’ale Adumim è incerta. È nata come avamposto di 15 coloni estremisti nel 1975 ed ha ottenuto lo status di cittadina nel 1991 – la prima ad ottenerlo in Cisgiordania.

Il primo governo di Menachem Begin (1977-81) la pianificò e la costruì. I confini, definiti nel 1979, coprivano circa 3.500 ettari con 2.600 unità abitative. Contrariamente alla voce corrente secondo cui le terre tra Gerico e Gerusalemme vennero “ereditate” dai giordani e quindi erano “terre dello Stato”, Ma’ale Adumim venne costruita su terreni di proprietà di abitanti dei villaggi palestinesi di Abu Dis, Anata, Azariya, At-Tur e Isawiya. Inoltre i Jahalin, la tribù beduina che in precedenza abitava sulle colline di Ma’ale Adumim, vennero deportati a forza in una vicina discarica dopo la demolizione dei loro accampamenti di tende. La colonia venne estesa ad altri 1.300 ettari che Israele dichiarò “terre dello Stato” durante gli anni ’80 e ’90. Ciò determinò un’ulteriore espulsione forzata dei Jahalin nel 1997 e 1998, con la deportazione di 100 famiglie.

Ma’ale Adumim mirava a raggiungere due obiettivi generali: penetrare strategicamente all’interno dei TPO e consolidare il controllo di Israele su Gerusalemme. Nel primo caso, la posizione di Ma’ale Adumim venne scelta espressamente: il principale architetto e urbanista della colonia, Thomas Leitersdorf, disse che il suo posizionamento nella parte centrale della Cisgiordania era “senza dubbio, politico …(e) accuratamente prefissato – il luogo più distante da Israele che fosse plausibilmente possibile.”

Nel tentativo di creare concreti “fatti sul terreno”, a Ma’ale Adumim vennero fornite tutte le risorse necessarie e si sviluppò alla velocità della luce. In un periodo di tre anni gli urbanisti israeliani costruirono una cittadina composta da migliaia di appartamenti identici. Una pianificazione così rigida, in cui ogni casa è una copia esatta della successiva, è, nelle parole di Dana Erekat [architetta ed urbanista palestinese, ndt.] “la quintessenza del colonialismo di popolamento. È egemonia colonialista” – in contrasto con lo sviluppo organico del paesaggio palestinese circostante.

Il governo israeliano intendeva aumentare il numero di ebrei israeliani all’interno ed attorno alla città, anche finanziando la colonia e incentivando i propri cittadini a sistemarvisi. Il principale obiettivo era appoggiare la migrazione di coppie giovani di classe media, offrendo loro migliori condizioni abitative vicino a Gerusalemme ad un costo significativamente inferiore. Questi coloni non ideologizzati erano spinti dal desiderio di una migliore qualità di vita. Oggi la ripartizione demografica è circa di [abitanti] per il 75% laici e per il 25% religiosi2.

Dal 1975 Ma’ale Adumim è diventata una vera e propria città, con una biblioteca, un teatro, un’area industriale, centri commerciali, 15 scuole e 78 asili. Circa il 70% degli abitanti si reca a Gerusalemme per lavoro, senza quasi neanche accorgendosi di attraversare un territorio occupato.

Ma’ale Adumim, insieme a colonie vicine che sono spuntate tutto intorno, forma una zona edificata impattante che si frappone al paesaggio palestinese e isola i palestinesi dalla loro capitale e tra loro. È il gioiello nella corona del progetto di colonizzazione israeliana.

Gli effetti devastanti dell’annessione della E1.

Qualunque annessione di Ma’ale Adumim e di altre parti della Cisgiordania dipenderebbe dall’acquisizione di una parte strategicamente significativa della terra nota come E1. Il corridoio E1misura approssimativamente 12 km2 e si trova all’interno dell’Area C controllata da Israele, tra Gerusalemme e Ma’ale Adumim. Il principale obiettivo di Israele nell’acquisizione dell’E1 è garantire la continuità territoriale tra Ma’ale Adumim ed Israele, creando un blocco urbano ebraico tra Ma’ale Adumim e Gerusalemme. Ciò rafforzerebbe il controllo di Israele su Gerusalemme est, schiacciando i suoi distretti palestinesi tra quartieri ebraici e rendendo lo schema dei due Stati ancor meno possibile.

Il membro della Knesset [il parlamento israeliano, ndt.] Naftali Bennett (Casa Ebraica [partito di estrema destra dei coloni, ndt.]), ministro dell’Educazione di destra, ha parlato di annettere Ma’ale Adumim e l’E1. In preparazione della presentazione di una legge per l’annessione, nel 2017 ha dichiarato che “evidentemente è tempo di un cambiamento quantistico… L’approccio incrementale non ha funzionato. Dobbiamo comprendere che è una nuova situazione. Dobbiamo fare le cose in grande, con coraggio e in fretta.” Questa “nuova situazione” è un primo passo verso la totale annessione della Cisgiordania.

L’E1 non è semplicemente una fascia di terra, ma è anche destinata alla colonizzazione. Il primo ministro Yitzhak Rabin (1992-95) estese il confine di Ma’ale Adumim per mettere l’E1 sotto il suo controllo – coprendo circa 4.800 ettari – ed ogni primo ministro israeliano dopo Rabin ha tentato di costruire blocchi di edifici nella zona. Il piano generale dell’E1 (piano n° 420/4) ha ricevuto l’approvazione nel 1999 ed è diviso in piani dettagliati separati, che coprono circa 1.200 ettari di terreno, la maggior parte dei quali sono stati dichiarati da Israele “terra dello Stato”. Attualmente una riserva d’acqua, una zona industriale e una stazione di polizia sono state sottoposte a controllo pubblico e costruite. Inoltre la maggior parte delle infrastrutture per i servizi è già stata realizzata, comprese strade asfaltate, muri di sostegno, rotonde e illuminazione delle strade, per oltre 5.5 milioni di dollari.

Tali infrastrutture sono in previsione di una nuova colonia israeliana chiamata “Mevaseret Adumim”, che includerebbe 3.500 unità abitative nella sua zona residenziale. Apparentemente intesa per alleviare la carenza di abitazioni a Ma’ale Adumim e offrire servizi regionali e strutture commerciali e turistiche, in sostanza incrementerebbe la popolazione ebraica nella zona di Gerusalemme. “Mevaseret Adumim” è diventata un grido di battaglia della destra israeliana in Israele. Netanyahu ha ripetutamente promesso di costruirla – sotto la pressione sia dei gruppi di destra che dell’astuto sindaco di Ma’ale Adumim, Benny Kasriel.

L’effetto dell’annessione e/o colonizzazione nel corridoio E1 sarebbe devastante. In primo luogo creerebbe una “punta sporgente” a metà strada attraverso il punto più stretto della Cisgiordania (28 km tra est e ovest). Ciò taglierebbe la strada tra Ramallah e Betlemme, interromperebbe la contiguità territoriale tra la Cisgiordania settentrionale e quella meridionale e in ultima analisi porrebbe fine alle speranze di uno schema a due Stati.

In secondo luogo isolerebbe ulteriormente i palestinesi di Gerusalemme e separerebbe i palestinesi della Cisgiordania da Gerusalemme. Per molti palestinesi dei TPO Gerusalemme è il centro economico e culturale. La costruzione del “Muro di Separazione” attraverso parti della Cisgiordania e attorno all’anello delle colonie attualmente esistenti ha già negato ai palestinesi l’accesso a Gerusalemme. I palestinesi con la carta d’identità della Cisgiordania non possono più commerciare, studiare, ricevere cure mediche o visitare amici e familiari senza un permesso dell’apparato di sicurezza israeliano.

Oltretutto non dovrebbe essere trascurato il significato religioso di tale annessione. Gerusalemme è la sede di molti dei luoghi religiosi più sacri per i palestinesi musulmani e cristiani, compresa la “Spianata delle Moschee” (dove si trova la moschea di Al-Aqsa) e la chiesa del Sacro Sepolcro. L’annessione non farebbe che esasperare le restrizioni religiose imposte sui palestinesi, a cui viene negato il diritto di pregare liberamente nei luoghi santi.

Inoltre l’E1 è disseminata di enclave di circa 77.5 ettari di terra palestinese di proprietà privata. Dato che Israele non è stato in grado di dichiararle “terra dello Stato”, non sono ufficialmente incluse nell’annessione o nei piani di colonizzazione. Qualunque costruzione di insediamenti nell’E1 le circonderebbe inevitabilmente con zone ebraiche israeliane edificate, limitando la possibilità dei proprietari palestinesi di accedervi e coltivare i loro campi.

Ciò inciderebbe sulle infrastrutture locali. Per esempio, le strade attualmente utilizzate dai palestinesi diventerebbero, come nel caso di altre colonie, strade locali per l’uso dei coloni e verrebbe negato l’accesso ai palestinesi. Un rapporto dell’Ong israeliana B’Tselem afferma che, se non venissero costruite strade alternative, il divieto di accesso ridurrebbe notevolmente la libertà di movimento dei palestinesi nella già ridotta area.

Riconoscendo le conseguenze spaziali, politiche e diplomatiche del fatto di tagliare a metà la Cisgiordania, Israele sta costruendo la “Circonvallazione orientale” nei pressi di Gerusalemme. Soprannominata la “strada dell’apartheid” a causa del muro che corre a metà separando automobilisti israeliani e palestinesi, intende agevolare gli spostamenti dei palestinesi tra il nord e il sud della Cisgiordania per garantire la “contiguità dei trasporti”. Ma è anche intesa a collegare meglio le colonie israeliane a Gerusalemme, impedendo agli automobilisti palestinesi di accedere a Gerusalemme. Le implicazioni della strada sono devastanti per la libertà di movimento dei palestinesi e per il loro eventuale futuro “Stato”.

Insomma, la contestata annessione del corridoio E1 intende inserire formalmente Ma’ale Adumim nell’enclave di Gerusalemme, dividendo diagonalmente il territorio e tagliando anche fuori i palestinesi da Gerusalemme – quella che dovrebbe essere la loro capitale. Espellerebbe anche comunità palestinesi che hanno vissuto lì da generazioni.

Trasferimento di popolazione

La messa in pratica delle intenzioni di annessione/colonizzazione dell’E1 richiederebbe l’immediata espulsione dei beduini che vivono sulla terra, una violazione delle leggi internazionali. Attualmente ci sono circa 2.700 beduini, la metà dei quali sono bambini, nei pressi di Ma’ale Adumim. La maggioranza di queste comunità fa parte della tribù Jahalin.

Benché i beduini abbiano vissuto dagli anni ’50 su quella terra – che Israele ha destinato loro dopo averli espulsi dalla zona di Tel Arad, nel Negev – l’amministrazione civile [in realtà il governo militare israeliano, ndt.] (che gestisce le attività nei TPO) ha stabilito che essi non possano fare costruzioni considerate “legali” da Israele. Le autorità israeliane hanno anche privato deliberatamente i Jahalin dell’accesso a servizi fondamentali, come acqua ed elettricità, per rendere insopportabile la loro vita sul territorio. Non gli viene consentito di lavorare o di costruire sulla terra. Oltretutto l’esercito israeliano limita la loro possibilità di accedere alle loro terre per pascolare le greggi, obbligandoli a dipendere dall’acquisto di costoso foraggio per le pecore. Alcuni pastori sono stati obbligati a vendere le proprie greggi, con il risultato che solo il 30% dei residenti continua a guadagnarsi da vivere con l’allevamento. Gli altri lavorano come braccianti, anche nelle colonie vicine.

Tentativi da parte di stranieri di migliorare la situazione dei beduini sono stati ostacolati. Nel marzo 2017 Israele ha emanato 42 ordini di demolizione contro il misero villaggio di Khan al-Ahmar nell’E1, facendo arrabbiare l’Unione Europea, che aveva finanziato molti degli edifici del villaggio, compresa una scuola che ospitava più di 150 bambini dai sei a quindici anni – alcuni di comunità vicine3. Nel settembre 2017 a Khan al-Ahmar vivono 21 famiglie che rappresentano 146 persone, compresi 85 minori.

In base agli attuali progetti dell’E1, i Jahalin devono essere espulsi e ricollocati in tre baraccopoli. Ciò costringe i beduini a uno stile di vita che è in totale contrasto con il loro nomadismo. Nel contesto dell’occupazione militare ogni trasferimento di “persone protette” – come queste comunità – compresa la confisca e la distruzione di proprietà da parte del potere occupante, rappresenta una grave violazione delle leggi internazionali4. Per estensione, ogni progetto militare inteso a deportare permanentemente persone sotto occupazione è un crimine di guerra5. Eppure, nonostante il chiaro contesto giuridico internazionale che condanna queste pratiche, i tentativi israeliani di spostare i beduini continuano – utilizzando leggi interne come mezzo per occultare le rivendicazioni di beduini e palestinesi sulla terra6.

Suggerimenti

L’annessione dell’E1 e di Ma’ale Adumim altererebbe in modo drammatico la situazione geopolitica in Palestina-Israele. Non solo sancirebbe l’”ebraicizzazione” di Gerusalemme da parte di Israele, ma metterebbe a repentaglio il futuro Stato palestinese definito dagli accordi di Oslo. Queste tensioni si manifestano continuamente nella Knesset, nel congresso USA, alle Nazioni Unite, all’Unione Europea, sui media e più generalmente nel campo umanitario. Le molte parti coinvolte nel progetto di annessione di Ma’ale Adumim la rendono una perenne fonte di discussioni, contrasti e resistenza.

La comunità internazionale, l’ANP e la società civile palestinese possono prendere iniziative per bloccare questa flagrante violazione delle leggi internazionali:

  • Dato che è evidente che l’amministrazione Trump non sarà la forza di contenzione della coalizione di destra alla Knesset, Nazioni diverse dagli USA così come istituzioni internazionali devono esercitare pressioni sul governo israeliano per fare in modo che ogni legge di annessione risulti onerosa. La società civile palestinese e il movimento di solidarietà con la Palestina nelle loro attuali e future campagne con i parlamentari devono approfondire la sensibilizzazione su quanto il progetto di colonizzazione israeliano sia vicino al punto di non ritorno.

  • L’UE dovrebbe andare oltre le frasi fatte di condanna quando la sua assistenza umanitaria a comunità vulnerabili è confiscata o distrutta. Dovrebbe rendere responsabile attivamente Israele con pressioni diplomatiche, come il riconoscimento dello Stato palestinese. Allo stesso tempo il movimento di solidarietà con la Palestina dovrebbe identificare modi per fare pressione sull’UE spingendola ad attenersi alle sue stesse regole e ai suoi obblighi in base alle leggi internazionali.

  • L’ANP dovrebbe chiarire che la messa in atto di qualunque legge per l’annessione rappresenterebbe la linea rossa che, se superata, metterebbe fine a qualunque cooperazione tra l’ANP ed Israele. Un movimento di base organizzato dovrebbe sia far pressione sull’ANP che rafforzare la propria azione.

  • L’ANP dovrebbe creare un proprio progetto territoriale della zona tra Gerusalemme e Ma’ale Adumim, appoggiata da fatti che sottolineino l’importanza dell’area per l’esistenza di un futuro Stato palestinese. Questa visione alternativa dovrebbe essere creata da geografi, urbanisti e gruppi di ricercatori palestinesi.

La valanga di recenti leggi è semplicemente l’ultimo esempio del furto di terra palestinese da parte di Israele e del processo di colonizzazione sionista che ha avuto inizio da prima della fondazione dello Stato di Israele. Benché sia improbabile che la realizzazione di questi suggerimenti bloccherebbe Israele nella sua missione ideologica di “ebraicizzare” tutta la Palestina-Israele, tali iniziative potrebbero sfruttare il sentimento filo-palestinese raccogliendo impulso in Occidente e richiamare all’ordine Israele per la sua occupazione consolidata e per le pratiche di colonizzazione.

Note

  1. La legge è stata proposta dai membri della Knesset Yoav Kish (Likud) e Bezalel Smotrich (Jewish Home) ed appoggiata dal ministro dei Trasporti Yisrael Katz (Likud) e dal primo ministro Benjamin Netanyahu (Likud).

  2. Sebbene in Cisgiordania le colonie rurali superino quelle urbane di 94 a 50, il numero di coloni israeliani che vivono in insediamenti urbani è di circa 477.000, più di otto volte quello dei coloni israeliani in colonie rurali, che è di circa 60.000.

  3. L’UE ha invitato Israele ad “accelerare l’approvazione di piani regolatori palestinesi, interrompere la deportazione forzata di popolazione e le demolizioni di case ed infrastrutture palestinesi, semplificare le procedure amministrative per ottenere concessioni edilizie, garantire l’accesso all’acqua e a soddisfare le necessità umanitarie.”

  4. Le leggi umanitarie internazionali proibiscono il trasferimento forzato se non per la sicurezza degli abitanti o per urgenti necessità militari.

  5. Lo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale stabilisce che il trasferimento forzato di popolazione include “minaccia dell’uso della forza o coercizione, come quella provocata dalla paura di essere vittima di violenze, di costrizione, di detenzione, di oppressione psicologica o di abuso di potere contro una o più persone o altre persone, o approfittando di un contesto di coercizione.”

  6. Questa prassi di trasferimento di popolazione trova riscontro all’interno della Linea Verde. I beduini che vivono nei cosiddetti “villaggi non riconosciuti” nel deserto del Naqab/Negev sono perennemente a rischio di “ricollocazione”. Più di recente le autorità israeliane hanno annunciato l’espulsione degli abitanti della cittadina beduina di Umm Al-Hiran per fare spazio alla cittadina ebraica chiamata Hiran.

Zena Agha è la collaboratrice politica per gli USA di Al-Shabaka, la rete politica palestinese. L’esperienza di Zena si concentra sulla politica, la diplomazia e il giornalismo. In precedenza ha lavorato all’ambasciata irachena di Parigi, alla delegazione palestinese all’UNESCO e a “The Economist”. Oltre a editoriali su “The Independent”, le esperienze mediatiche di Zena includono El Pais, PRI’s the World, il BBC World Service e BBC Arabic. Zena è stata premiata con una borsa di studio Kennedy per frequentare l’università di Harvard, dove ha completato un master in studi sul Medio Oriente. I suoi principali interessi di ricerca includono la storia moderna del Medio Oriente, la memoria e la produzione narrativa, le pratiche territoriali.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Per ottenere uno Stato, i palestinesi devono lavorare anche per i due Stati.

Nadia Hijab 

7 febbraio 2018, Al Shabaka

In seguito al riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele da parte del presidente USA Donald Trump, e rafforzato dalla promessa del vice presidente Mike Pence di spostarvi l’ambasciata USA prima della fine del 2019, c’è stata una raffica di articoli che hanno sostenuto l’imminente spostamento della strategia palestinese verso la soluzione dello Stato unico con pari diritti. Sia i negoziatori palestinesi direttamente coinvolti nel moribondo processo di pace di Oslo che palestinesi che fin da allora hanno avuto poche speranze in Oslo hanno dichiarato che è tempo di modificare la lotta. Nel contempo Israele ha continuato ad espandere le colonie, reprimere le proteste e pianificare l’annessione di parte o di tutta la Cisgiordania.

La soluzione dei due Stati è davvero destinata al fallimento ed è tempo di passare ad una lotta per uno Stato unico? Questo commento sostiene che entrambi gli esiti statali possono essere messi in atto per ottenere le aspirazioni ed i diritti dei palestinesi, e che, oltretutto, soddisfare i diritti dei palestinesi richiede alcune delle risorse di potere associate ad un sistema statale. Invita inoltre a dedicare tempo ed energie per chiarire gli obiettivi palestinesi e per comprendere perché non sono ancora stati raggiunti, e in seguito concentrarsi sugli elementi di forza necessari per raggiungerli. L’ultima parte discute nel dettaglio uno di questi elementi di forza, quello della narrazione palestinese, e chiede una ridefinizione di questa narrazione, compresa quella relativa al BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni). 1

Obiettivi palestinesi negli esiti di uno Stato unico e dei due Stati

L’obiettivo della lotta palestinese continua ad essere espresso in termini di strutture statuali. Anche nei termini del raggiungimento dei diritti palestinesi, cosa otterrebbe un esito politico dello Stato unico che non otterrebbero i due Stati? È il caso di esaminare brevemente entrambi i risultati. La prospettiva di una soluzione dello Stato unico, come quella stabilita dall’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) nel 1968 è sempre stata più convincente per i palestinesi di quella dei due Stati. Uno Stato unico è strettamente legato al diritto al ritorno dei rifugiati alle proprie case e terre.

Con uno Stato unico i palestinesi avrebbero esercitato il proprio diritto all’autodeterminazione ritornando e vivendo su tutta la terra che era stata Palestina, accanto agli ebrei che vi vivono, con gli stessi diritti per tutti. Mentre la carta dell’OLP del 1968 parlava degli ebrei che abitavano in Palestina prima della conquista sionista che ha determinato la creazione di Israele, gli attuali sostenitori palestinesi della soluzione di uno Stato unico riconoscono che debba comprendere tutti i suoi abitanti.

Riguardo alla soluzione dei due Stati, è importante distinguere tra la visione espressa nel 1988, quando il Consiglio Nazionale Palestinese (CNP) la adottò, e la parodia di giustizia monca, economicamente e politicamente bloccata istituita dagli accordi di Oslo che iniziarono ad essere firmati nel 1993. Quando venne adottata nel 1988, la soluzione dei due Stati era vista come un riconoscimento pragmatico, realizzabile della realtà. I palestinesi avrebbero esercitato il diritto all’autodeterminazione attraverso uno Stato sovrano che avrebbe garantito i diritti dei suoi cittadini. Un simile Stato avrebbe consentito alla Palestina di unirsi alla comunità delle Nazioni. Inoltre la risoluzione del CNP sosteneva le risoluzioni ONU relative ai diritti dei rifugiati palestinesi. E la lotta per i due Stati non significa abbandonare la lotta vitale per l’uguaglianza dei cittadini palestinesi di Israele.

Fin dall’inizio Oslo ha destinato alla rovina un progetto di Stato basato sui diritti. Da parte palestinese l’accettazione degli accordi incluse un implicito riconoscimento che i diritti dei rifugiati palestinesi sarebbero stati gravemente limitati, sacrificando quindi un diritto fondamentale dei palestinesi. Da parte israeliana non c’è mai stata nessuna intenzione di consentire la costituzione di uno Stato palestinese sovrano accanto ad Israele. Yitzhak Rabin, sbandierato come un grande pacificatore, mise in chiaro poco dopo il primo accordo di Oslo che egli intendeva garantire che i palestinesi non avrebbero avuto nient’altro che un’entità che fosse “meno di uno Stato”, con i confini di sicurezza di Israele nella valle del Giordano. Queste posizioni vennero mantenute nel corso degli anni di negoziati. Le posizioni israeliane si sono notevolmente indurite da allora: più di recente il comitato centrale del Likud ha votato all’unanimità per chiedere ai dirigenti del partito di annettere la Cisgiordania.

Se la soluzione dei due Stati fosse rimasta all’interno del quadro originario, avrebbe potuto soddisfare i diritti dei palestinesi all’autodeterminazione ed al ritorno, come lo avrebbe fatto la soluzione dello Stato unico, se i palestinesi fossero stati in grado di costruirsi un potere sufficiente a garantire che Israele avrebbe rispettato il diritto al ritorno ed uguali diritti in uno Stato unico, il diritto al ritorno e la sovranità in due Stati.

Oggi la realtà è che il popolo palestinese non ha il potere di ottenere nessuno dei due risultati nel futuro prevedibile e di imporre ad Israele o alla comunità internazionale il riconoscimento e la messa in pratica dei suoi diritti. Infatti la dirigenza palestinese, convinta che Oslo stesse portando a uno Stato palestinese, lasciò disperdersi i punti di forza che aveva accumulato negli anni ’70 e ’80, compresi un vivace movimento di solidarietà e forti legami con i Paesi del Sud, l’Unione Sovietica e la Cina.

Il presidente dell’OLP Mahmoud Abbas non ha dichiarato la fine della soluzione dei due Stati e chiaramente spera che gli europei interverranno ora che egli si è, forse temporaneamente, allontanato dagli USA. Tuttavia chiedere agli Stati europei di fungere da mediatori non farà progredire la causa palestinese. Non c’è niente da mediare: gli israeliani hanno messo in chiaro i loro obiettivi: il meglio che i palestinesi possono sperare sono bantustan [entità pseudo-statali istituite nel Sudafrica dell’apartheid per la popolazione nera, ndt.] divisi tra loro. Uno scenario peggiore sarebbe un “accordo” che apparirebbe come la realizzazione di alcuni diritti dei palestinesi, dopo il quale il mondo se ne tirerebbe fuori, lasciando i palestinesi alla mercé di Israele. Nessuno farà niente per il popolo palestinese – non gli europei, né gli USA, né Israele – finché non sarà obbligato a farlo.

In breve, i palestinesi dovranno costruirsi un potere consistente per esercitare le pressioni necessarie a raggiungere una soluzione che garantisca i loro diritti. E per fare ciò avranno bisogno di alcune delle risorse di potere che hanno acquisito attraverso la partecipazione al sistema statale, sia legale, diplomatico o attraverso la partecipazione ad organizzazioni internazionali. Tuttavia queste risorse di potere devono essere utilizzate in modo molto più efficace e strategico di quello superficiale con cui le ha utilizzate l’OLP. Persino la combattuta adesione all’UNESCO, che è costata parecchio all’organizzazione, avrebbe potuto essere utilizzata per stabilire la sovranità palestinese su terra e mare.

Inoltre immaginate la diversa situazione oggi se l’OLP avesse “attivato” la sentenza della Corte Internazionale di Giustizia del 2004 sul muro illegale di Israele che serpeggia nei TPO [Territori Palestinesi Occupati, ndt.]. Benché fosse un’opinione consultiva, il suo chiaro richiamo a ogni Stato a “non riconoscere la situazione illegale determinata dalla costruzione del muro” e, cosa ancora più importante, a non fornire alcun aiuto o assistenza che potesse mantenere la situazione, avrebbe potuto essere utilizzato per spingere i Paesi europei consapevoli delle regole a garantire in modo molto più decisivo che le loro relazioni con Israele non appoggiassero le illegali colonie israeliane.

È stato a causa del fatto che l’OLP non ha capitalizzato quello che all’epoca un membro della delegazione palestinese descrisse in privato come questa “grande vittoria” che la società civile palestinese, esattamente un anno dopo, ha lanciato il movimento BDS, con il chiaro intento di difendere le leggi internazionali e investire un’importante fonte di potere in esse.

La strada che abbiamo davanti è lunga. Nessuno si affretta ad aiutare i palestinesi a ottenere i loro diritti. Perciò non c’è fretta per decidere sul definitivo risultato politico: entrambe [le soluzioni] possono servire pur di raggiungere i diritti dei palestinesi. Questo è stato l’intelligente approccio strategico dei fondatori del movimento BDS. Data la confusione del movimento nazionale e la mancanza di consenso riguardo agli obiettivi politici, i fondatori si sono piuttosto concentrati sui diritti come obiettivi, chiedendo la realizzazione dell’autodeterminazione attraverso la liberazione dall’occupazione, l’uguaglianza per i palestinesi cittadini di Israele e la giustizia per i rifugiati palestinesi nel rispetto del loro diritto al ritorno. Ciò ha permesso al movimento di raggiungere il più ampio spettro della società palestinese così come degli attivisti della solidarietà internazionale – e di costruire una considerevole posizione di forza.

Ogni elemento di forza a disposizione dovrebbe essere analizzato e compreso per quello che può offrire, per le sue positività e i suoi tranelli, e la società civile palestinese dovrebbe allearsi con l’OLP (o ciò che ne rimane) per quanto possibile per portare avanti gli interessi nazionali palestinesi e per opporsi ai rappresentanti politici palestinesi quando mettono a rischio questi interessi. 2 Nella discussione che segue mi concentrerò su uno dei principali punti di forza, la narrazione palestinese, e sui modi in cui possa essere più efficacemente utilizzata per portare avanti i diritti dei palestinesi.

Ridefinire la narrazione sulla Palestina (e sul BDS)

Parte della narrazione palestinese ha a che fare con il passato, e parte con gli obiettivi della lotta palestinese e guarda più verso il futuro. La parte rivolta al futuro rimane in silenzio e poco efficace, mentre quella sul passato è molto più dettagliata.

La narrazione del passato è, per i palestinesi, una questione esistenziale: esigono che la realtà di quanto successo alla Palestina e ai palestinesi sia vista come l’ingiustizia che è stata. È per questo che lo scorso anno durante il centesimo anniversario della dichiarazione Balfour [con cui l’impero inglese si impegnò a favorire la formazione di un “focolare ebraico” in Palestina, ndt.] così tanto tempo è stato dedicato a chiedere le scuse da parte della Gran Bretagna, i cui obiettivi coloniali consentirono la perdita della Palestina e la creazione di Israele. E questa è la ragione per cui così tanto tempo verrà dedicato quest’anno, il settantesimo anniversario della Nakba (catastrofe), a quella narrazione della perdita.

Le scuse da parte della Gran Bretagna sarebbero bastate ma non sono mai state in discussione: gli ex-poteri coloniali non vogliono offuscare le loro stesse narrazioni, per quanto orribili possano essere, o aprire loro stessi la strada a richieste di riparazione. Ma la situazione è diversa nel caso di Israele. Se ci deve essere un diverso, miglior futuro tra Israele e il popolo della Palestina storica ci dev’essere non solo il riconoscimento dell’ingiustizia che il progetto sionista ha perpetrato sui palestinesi, ma anche una manifestazione di pentimento, e un risarcimento. È necessario per sanare la ferita nazionale del popolo e di ogni singolo palestinese.

Può sembrare donchisciottesco parlare di questa richiesta in un momento in cui Israele appare così potente e i palestinesi così oppressi e senza aiuti. Eppure il riconoscimento, le scuse e le riparazioni sono anche necessarie per esorcizzare il fantasma che perseguita gli israeliani. C’è un timore profondamente radicato che la narrazione che sostiene la creazione dello Stato di Israele – quella di coraggiosi pionieri che fanno miracoli in un deserto ostile e disabitato – sia messa in evidenza per la vergogna che è stata, come lo sarebbe tutta la crudeltà deliberata che l’accompagnò e ancora l’accompagna. Ciò danneggerebbe il progetto sionista alla radice.

Di fatto andare oltre questa narrazione non è affatto impossibile: ciò è stato ottenuto dai molti ebrei che si stanno allontanando o si sono allontanati dall’ideologia del sionismo per difendere diritti umani universali. Ed è la base di un futuro alternativo in cui palestinesi ed ebrei vivano insieme come uguali. Questo futuro è già presente in alcune organizzazioni degli Stati Uniti, tali come “Jewish Voice for Peace” [“Voci ebraiche per la Pace, ndt.], in rapida crescita, che comprende parecchi palestinesi tra i suoi membri, così come gruppi di “Studenti per la Giustizia in Palestina” nei campus negli USA, che comprendono palestinesi, ebrei e un insieme di altre etnie e religioni.

Ma i palestinesi hanno urgentemente bisogno di una narrazione che guardi oltre, che li unifichi e che comunichi la forza della loro visione. Israele continua a dominare la narrazione in Occidente, dove ha la maggior parte della sua base di potere, nonostante gli attacchi realizzati da scrittori ed analisti palestinesi e da numerose organizzazioni ed individui del movimento di solidarietà con i palestinesi. È in parte la mancanza di una visione unitaria che guardi avanti e sia positiva da parte dei palestinesi che consente ad Israele di farlo.

Inoltre una narrazione rivolta al futuro può fornire una visione ed una direzione al movimento palestinese finché non verrà il tempo in cui si prenda una decisione se l’esito politico finale possa essere uno o due Stati. Una narrazione unificata è anche importante perché è improbabile che l’unità politica dei palestinesi sia raggiunta nel prossimo futuro. Fatah e Hamas sono troppo divisi, e la frammentazione fisica del popolo palestinese ad opera di Israele ha creato con successo barriere tra loro. Una narrazione unitaria consentirebbe ad ogni parte del popolo palestinese di lavorare verso gli stessi obiettivi – e di continuare la lotta fino a che siano raggiunti questi obiettivi, piuttosto che fermarsi a metà strada del percorso, come è successo con Oslo.

Questa narrazione unitaria palestinese esiste già: libertà, giustizia, uguaglianza. Questi sono gli obiettivi identificati dal movimento BDS. Questi sono anche gli obiettivi a cui tutti i palestinesi possono aspirare e che possono appoggiare, e parlano alla situazione di ogni segmento del popolo palestinese, di quelli che vivono sotto occupazione, dei palestinesi cittadini di Israele o dei rifugiati ed esiliati. Deve essere evitata una trappola: chiedendo l’uguaglianza, bisogna adottare ogni cautela per specificare che questo riguarda i palestinesi cittadini di Israele e non l’uguaglianza tra i palestinesi che vivono sotto occupazione e i coloni che vivono nelle illegali colonie israeliane.

Comunque perché questi obiettivi prendano con successo il proprio posto in prima linea nel movimento nazionale palestinese, il discorso riguardo al BDS deve essere ridefinito. Di solito l’attenzione è concentrata sulla strategia del BDS e non sugli obiettivi identificati dall’appello per il BDS, benché siano ospitati in primo piano del suo sito web. Da sola, la strategia del BDS non può ottenere libertà, giustizia ed uguaglianza, come ben sanno i suoi fondatori. Proprio perché nessun’ altra strategia è così efficacemente utilizzata e proposta quanto quella del BDS, esso domina la scena. Bisogna porre attenzione a presentare il BDS come una delle molte strategie che i palestinesi devono utilizzare, comprese quelle legali e diplomatiche. Anche cultura ed arte giocano un ruolo fondamentale nella richiesta dei diritti palestinesi, e stanno prosperando.

E’ urgente che gli obiettivi siano messi in prima linea: sono un’esaltante e positiva visione che può rapidamente occupare il primo piano. Politici palestinesi, società civile e movimento di solidarietà dovrebbero unificarsi attorno ad essa e chiedere libertà, giustizia ed uguaglianza. E libertà, giustizia ed uguaglianza possono essere ottenute con uno Stato unico o con due Stati.

Note:

  1. Parte del materiale di questo articolo è stato presentato in un discorso all’assemblea annuale della Campagna di Solidarietà con la Palestina il 27 gennaio 2018. Il discorso è stato pubblicato da Mondoweiss il 31 gennaio 2018.

  2. Le fonti di potere e le opzioni palestinesi sono l’argomento di un altro articolo con suggerimenti di numerosi analisti.

Nadia Hijab

Nadia Hijab è co-fondatrice e direttrice esecutiva di Al-Shabaka, la rete politica palestinese, e scrittrice, conduttrice e commentatrice nei media. Il suo primo libro, “Womanpower: The Arab debate on women at work” [Potere delle donne: il dibattito arabo sulle donne al lavoro], è stato pubblicato dalla Cambridge University Press ed è co-autrice di “Citizens Apart: A Portrait of Palestinians in Israel” [Cittadini in disparte: un ritratto dei palestinesi in Israele] (I. B. Tauris). È stata capo redazione della rivista londinese “Medio Oriente” prima di essere assunta alle Nazioni Unite a New York. È co-fondatrice ed ex-co-direttrice della campagna USA per i diritti dei palestinesi ed ora fa parte del suo consiglio di amministrazione.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Apartheid dall’interno? I palestinesi cittadini di Israele

Yara Hawari

23 novembre 2017,Al-Shabaka

Sintesi

Importanti personalità del panorama internazionale hanno descritto la situazione in Cisgiordania come apartheid, citando caratteristiche proprie della segregazione, quali strade per soli coloni, insediamenti fortificati e il muro di separazione. Nel suo libro del 2006 “Peace not apartheid” [“Pace non Apartheid] , l’ex presidente USA Jimmy Carter ha adottato questo termine proprio a proposito dei Territori Palestinesi Occupati (TPO), mentre John Kerry nel 2014 ha avvertito che Israele “potrebbe” diventare uno Stato di apartheid se non si verificasse la soluzione dei due Stati.

Tuttavia, più recentemente, eminenti voci hanno applicato il termine alla situazione dei palestinesi cittadini di Israele. Jodi Rudoren, ex capo dell’ufficio di Gerusalemme del New York Times, ha detto: “…Penso che la questione dell’apartheid sia più attinente a come gli arabi israeliani (i palestinesi cittadini di Israele) vengono trattati nel contesto di Israele.” La Commissione Socio-Economica per l’Asia Occidentale delle Nazioni Unite (ESCWA) all’inizio di quest’anno ha pubblicato un rapporto in cui si afferma che Israele, fin dall’inizio, “ha imposto un regime di apartheid che domina il popolo palestinese nel suo complesso” – intendendo i palestinesi non solo dei TPO, ma anche quelli in esilio e quelli all’interno di Israele stesso. (1)

Questo documento politico prende in esame l’analisi dell’apartheid relativamente ai palestinesi cittadini di Israele, con particolare attenzione alla cittadinanza, alla terra, all’educazione e alle politiche. Si conclude con le strategie su come tale analisi possa essere utilizzata per sostenere i diritti dei cittadini palestinesi [di Israele] e contribuire a contrastare la frammentazione all’interno del popolo palestinese nel suo complesso.

L’apartheid e i suoi inizi

Il diritto internazionale consuetudinario e lo Statuto di Roma del Tribunale Penale Internazionale definiscono l’apartheid come “atti inumani….compiuti nel contesto di un regime istituzionalizzato di oppressione e dominazione sistematica di un gruppo razziale su qualunque altro gruppo o gruppi razziali e commessi con l’intenzione di mantenere tale regime.”

Benché molti associno l’apartheid al Sudafrica, la definizione è applicabile universalmente e perciò confuta l’errato concetto che l’apartheid sia stato un caso eccezionale che da allora non si è più verificato. La definizione inoltre consente una comprensione dell’apartheid come un sistema che può assumere diverse caratteristiche e manifestarsi in vari modi, compreso quello economico (vedere l’articolo Rethinking our definition of apartheid [Ripensare alla nostra definizione di apartheid], che sostiene che l’apartheid non è ancora stato superato in Sudafrica).

Mentre 750.000 palestinesi furono espulsi dai confini del nuovo Stato ebraico nel 1948, 150.000 Palestinesi rimasero e vennero sottoposti alla legge marziale per quasi 20 anni. Quel periodo, noto come regime militare, si basava sulle Norme di Emergenza del 1945 introdotte dalle autorità del Mandato britannico, che le utilizzava per controllare gli arabi di Palestina. I meccanismi limitavano ogni aspetto della vita dei palestinesi all’interno del nuovo Stato, compresa la libertà di movimento e di espressione politica.

Questo periodo vide una massiccia appropriazione di terre, compiuta attraverso la Legge sulla Proprietà degli Assenti, varata dalla Knesset  nel 1950. La legge continua ad essere il principale strumento con cui Israele confisca i terreni, anche a Gerusalemme est. (2) Essa ha consentito allo Stato di appropriarsi della proprietà di chiunque abbia lasciato il proprio luogo di residenza tra il 29 novembre 1947 e il 19 maggio 1948. Questa legge ed altre, comprese quelle che costituiscono la Legge Fondamentale – che tuttora funge da Costituzione di Israele – hanno codificato l’apartheid nel sistema giuridico. Queste leggi hanno anche stabilito la dottrina fondamentale di Israele del predominio ebraico in uno Stato ebraico, con disuguaglianza per tutti gli altri.

Benché il regime militare sia stato abolito nel 1966, la comunità palestinese è rimasta una minaccia demografica e potenzialmente politica alla natura dello Stato. Perciò Israele ha mantenuto sia la segregazione che l’emarginazione dei palestinesi. Oggi i palestinesi di Israele sono 1,5 milioni, un quinto della popolazione totale. Non ci sono stati tentativi di assimilarli nella struttura coloniale, come in altri casi di regimi di colonizzazione di insediamento. La preoccupazione che Israele avesse un carattere esclusivamente ebraico ha lasciato i suoi cittadini palestinesi ai margini, eppure loro continuano a sopravvivere.

La cittadinanza come meccanismo di apartheid

Si dice spesso che i palestinesi in Israele sono cittadini “di seconda classe”, eppure questa frase non rispecchia la realtà. Anche se ai palestinesi rimasti all’interno dei confini del nuovo Stato è stata concessa la cittadinanza israeliana, fin dall’inizio non è stata usata come meccanismo di inclusione. Questo perché in Israele, a differenza della maggior parte dei Paesi, cittadinanza e nazionalità sono termini e categorie distinte. Mentre esiste la cittadinanza israeliana, non esiste la nazionalità israeliana; piuttosto, la nazionalità viene definita in base a criteri etnico-religiosi. Israele conta 137 possibili nazionalità, compresi ebrei, arabi e drusi, che sono registrate sulle carte di identità e nelle banche dati dell’anagrafe. Ma poiché lo Stato si definisce costituzionalmente come ebraico, coloro che hanno nazionalità ebraica contano di più della popolazione non ebrea (in maggioranza palestinese).

Dato che la nazione ebraica e lo Stato di Israele sono considerati una sola cosa, la conseguenza è l’esclusione dei cittadini non ebrei. Il rapporto ESCWA spiega che la distinzione tra cittadinanza e nazionalità consente un sistema razzista sofisticato e occulto, non necessariamente rilevabile dall’osservatore non esperto. Il sistema divide la popolazione in due categorie (ebrei e non ebrei), incarnando proprio la definizione di apartheid. I cittadini palestinesi sono quindi definiti “arabi israeliani”, termine diventato usuale nei principali media. Oltre a far parte del meccanismo binario di esclusione, questo termine tenta di negare l’identità palestinese di questi cittadini, mentre consente ad Israele di presentarsi come uno Stato eterogeneo e multiculturale. Questo incide sull’accesso alla terra, all’abitazione e all’educazione, come si esporrà più avanti.

Sia i cittadini palestinesi che gli ebrei israeliani hanno più volte sollevato la questione della cittadinanza e della nazionalità nei tribunali israeliani. Mentre i palestinesi lo hanno fatto nel tentativo di ottenere pieni diritti all’interno dello Stato, gli ebrei israeliani hanno in genere richiesto di abbandonare l’identità etnica e religiosa. Finora la Corte Suprema ha respinto tutte le petizioni per cambiare la legge, sulla base del fatto che la nazionalità israeliana potrebbe tecnicamente aprire all’inclusione di cittadini non ebrei e minacciare il dogma sionista di Israele come Stato della nazione ebraica.

Segregazione e esproprio della terra

Anche l’organizzazione dello spazio all’interno di Israele configura l’apartheid. La maggior parte dei palestinesi cittadini di Israele vive in villaggi e città di soli arabi, soltanto alcuni vivono in “città miste”. Questa segregazione non è casuale, né un “naturale” modello residenziale. Un esame sommario rivela l’obiettivo israeliano di comprimere il maggior numero di arabi palestinesi nella più piccola porzione possibile di terra. I villaggi sopravvissuti alla pulizia etnica del 1948 hanno visto espropriata molta della loro terra e da allora non è stata permessa alcuna espansione. Il risultato è che questi villaggi e cittadine arabi soffrono di un grave sovraffollamento e non hanno opportunità di riscatto attraverso sviluppo o crescita. Inoltre, dal 1948 non è stato costruito un solo nuovo villaggio o città arabi.

Se i palestinesi lasciano le loro città e villaggi di origine, non hanno la possibilità di comprare o affittare terra grazie a due principali meccanismi: i comitati di ammissione e le politiche discriminatorie del Fondo Nazionale Ebraico (JNF) e delle autorità statali. Le comunità rurali possono istituire comitati di ammissione che controllano l’“idoneità sociale” dei potenziali residenti, consentendo il fatto che i palestinesi che fanno richiesta vengano “legalmente” non accettati in quanto non sono ebrei. L’Alta Corte ha avallato questa prassi nonostante le contestazioni contro di essa.

L’Autorità Israeliana per la Terra (nota come Israeli Land Administration [Amministrazione Israeliana della Terra] fino al 2009) è stata incaricata fin dall’inizio di mantenere il mandato del Fondo Nazionale Ebraico per agire come affidatario della terra di Palestina per il popolo ebraico ed operare in base alla Legge del 1952 sullo status dell’Organizzazione Mondiale Sionista-Agenzia Ebraica, la cui funzione principale consiste nel radunare e insediare gli ebrei di tutto il mondo in Israele.

Quindi la pianificazione urbana e rurale e l’organizzazione dello spazio mantengono la preminenza del carattere ebraico dello Stato e corroborano la narrazione sionista. L’obiettivo del Piano Generale di Israele, formulato in base alla Legge del 1965 sulla pianificazione e l’edilizia, ribadisce questa politica: “Sviluppare aree in Israele in modo da permettere la realizzazione degli obbiettivi della società israeliana e delle sue diverse componenti, la realizzazione del suo carattere ebraico, l’inserimento di immigrati ebrei ed il mantenimento del suo carattere democratico.”

Questa ideologia e le politiche che la supportano hanno avuto conseguenze devastanti per le zone palestinesi lungo i confini del 1948. In Galilea, dove i palestinesi sono la maggioranza, il governo israeliano ha condotto decisi tentativi di “giudaizzare” la regione. Questo comprende l’accerchiamento dei villaggi palestinesi con insediamenti ebrei per impedire la contiguità geografica, – rivelando le preoccupazioni demografiche dello Stato, soprattutto il suo timore per la crescita della popolazione palestinese. Questa preoccupazione israeliana si è espressa anche attraverso continue espulsioni e trasferimenti di decine di migliaia di beduini palestinesi nel Naqab (Negev).

Ben 90.000 beduini vivono in “villaggi non riconosciuti”, il che significa che Israele considera questi villaggi illegali ed i loro abitanti “intrusi” nella terra dello Stato. La definizione di “illegali” deriva anzitutto dal fatto che molti dei villaggi sono precedenti alla nascita di Israele e la tradizione beduina determinava la proprietà della terra. Riguardo agli altri villaggi, i beduini li hanno creati dopo essere stati espulsi dalle loro terre ancestrali nel 1948 e non sono “autorizzati” dallo Stato. In questo modo, Israele rivendica la legittimità di privare molti beduini del Naqab dei servizi essenziali come l’acqua e l’elettricità e in molti casi distrugge i villaggi.

Il fatto che palestinesi ed ebrei vivano in aree segregate rende più facile per Israele privare dei servizi i palestinesi in altre zone all’interno dei confini del 1948. Le organizzazioni para-governative che si occupano di allocazione delle risorse favoriscono tale deprivazione. Queste organizzazioni sono enti ebraici o sionisti, comprese l’Agenzia Ebraica e l’Organizzazione Sionista Mondiale, ed il loro compito è essere al servizio del popolo ebraico e mantenere il carattere sionista dello Stato. Di conseguenza, negano risorse ai palestinesi allo stesso modo in cui viene loro negato lo spazio, sulla base del fatto che non sono ebrei. Pur se in molti Paesi esiste una distribuzione iniqua ed ingiusta delle risorse e della terra, raramente tali politiche sono inserite in modo così esplicito nella legge come in Israele.

Conservare il regime

Israele mantiene questo regime di apartheid tramite vari metodi di controllo esterno ed interno. All’interno dei confini del 1948 lo Stato cerca di sottomettere i palestinesi fin dall’inizio della loro esistenza attraverso il sistema educativo. Stabilito durante il regime militare, il sistema scolastico statale ha posto i bambini palestinesi e quelli ebrei israeliani in scuole separate. Il docente di Educazione dell’università Ben Gurion del Negev, Ismael Abu-Saad, ha affermato che, mentre le strutture formali del regime militare sono cambiate da allora, la strategia di usare “l’educazione come strumento a fini politici è perdurata e continua ancora oggi a determinare l’esperienza educativa degli studenti arabi palestinesi autoctoni in Israele.”

Questa strategia politica include il controllo del curriculum per eliminare l’identità palestinese ed impedire la mobilitazione contro lo Stato. Inoltre le scuole palestinesi hanno grande carenza di risorse: meno di un terzo di quanto viene speso per gli scolari ebrei israeliani è speso per quelli palestinesi. Questa mancanza di risorse non solo dimostra le palesi ineguaglianze tra le due categorie di cittadini, ma è anche un ostacolo per le opportunità dei ragazzi palestinesi nella loro vita futura.

Le scuole ebree israeliane godono di ampia autonomia relativamente al loro curriculum, mentre il ministero dell’Educazione stabilisce il curriculum delle scuole palestinesi. Non sorprende quindi che il curriculum delle scuole palestinesi sia quasi del tutto incentrato sulla storia, sui “valori” e sulla cultura ebraica, senza riferimenti alla storia palestinese e araba. La narrazione della Nakba, come i palestinesi chiamano la catastrofe della loro espulsione nel 1948, non esiste – e di fatto è messa al bando. La “Legge sul Finanziamento delle Fondazioni “di Israele, comunemente nota come “Legge della Nakba”, autorizza il ministro delle Finanze a ridurre o eliminare i finanziamenti statali a qualunque istituzione che commemori la Nakba o definisca il giorno dell’indipendenza israeliana un giorno di lutto.

Ciò riguarda scuole, Ong e amministrazioni comunali. La negazione di questo aspetto fondamentale della storia palestinese mira a recidere l’identità collettiva dei palestinesi, in cui la Nakba riveste un ruolo essenziale.

Se i palestinesi possono ottenere qualche successo nell’ambito del sistema giuridico israeliano attraverso azioni legali o ricorsi, non sono in grado di minacciare seriamente il regime razziale. E benché la partecipazione politica palestinese alla Knesset (parlamento israeliano) sia spesso citata come esempio della pluralità e della democrazia dello Stato, dal 1948 nessun partito arabo è stato incluso in una coalizione di governo e solo alcuni cittadini palestinesi sono stati designati in posizioni ministeriali.

I candidati alla Knesset possono essere esclusi se negano l’esistenza di Israele come Stato ebraico e democratico, il che rende la partecipazione politica in Israele basata sulla premessa di accettare che lo Stato è per il popolo ebraico e che l’esistenza dei palestinesi nello Stato non sarà mai uguale a quella delle loro controparti ebree.

La mobilitazione politica contro il regime è stata perciò condotta al di fuori della politica istituzionale, sia nella società civile che negli ambienti militanti, entrambi i quali sono sotto costante controllo e intimidazione. “Adalah”, il Centro Legale per i Diritti della minoranza araba in Israele, ha documentato la sistematica attività dello Stato di arresti e persecuzioni di soggetti rilevanti della società civile e di militanti politici. Analogamente, spesso lo Stato reprime con violenza le manifestazioni, in particolare nell’ottobre 2000, quando 13 cittadini palestinesi disarmati furono uccisi con armi da fuoco per aver protestato in solidarietà con i palestinesi in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza.

Nonostante queste crudeli e violente prassi, Israele conserva un’immagine di democrazia liberale e multiculturale – un alleato dell’Occidente in una regione altrimenti ostile. Dipinge il sionismo come un’ideologia di liberazione nazionale ebraica, invece che come base di un regime coloniale di insediamento che mantiene un sistema di apartheid. Israele è anche riuscito a orientare la discussione su che cosa sia la Palestina e chi sia un palestinese.

Sicuramente la Nakba ha diviso il popolo palestinese in tre parti: i palestinesi cittadini di Israele, i palestinesi in Cisgiordania e Gaza e i palestinesi in esilio (i rifugiati). Israele ed i vari processi di pace, compresi gli accordi di Oslo, hanno continuato a consolidare questa frammentazione attraverso la volutamente limitata interpretazione della Palestina come i “Territori Palestinesi Occupati” – e del popolo palestinese come persone all’interno di quei territori. Questo omette di riconoscere la Nakba come parte della storia palestinese e quindi esclude sia i palestinesi cittadini di Israele che i rifugiati in esilio dalla lotta di liberazione palestinese. Il rapporto ESCWA sottolinea che questa frammentazione è il principale strumento con cui Israele impone l’apartheid al popolo palestinese. È perciò importante elaborare strategie per usare l’analisi dell’apartheid e sfidare quella frammentazione.

L’analisi dell’apartheid come strategia per garantire diritti a tutti i palestinesi

Il termine “apartheid”, senza dubbio a causa delle sue gravi implicazioni politiche e giuridiche, non è ancora entrato nella sfera dei principali ambiti mediatici e politici in relazione ad Israele e Palestina. È stato solo occasionalmente applicato alla situazione della Cisgiordania. Anzi, il rapporto ESCWA, con la sua conclusione che Israele pratica l’apartheid su tutta la popolazione palestinese, è stato ritirato poco dopo la pubblicazione, in seguito all’enorme pressione da parte di USA ed Israele.

Ciononostante, l’analisi dell’apartheid può essere utilizzata strategicamente per contrastare la frammentazione del popolo palestinese e promuovere i suoi diritti, compresi quelli dei palestinesi cittadini di Israele. Ci sono molte ragioni per cui ’analisi dell’apartheid è particolarmente utile al riguardo.

Anzitutto, il diritto internazionale fornisce un modello e una definizione universali del termine, che riconosce che l’apartheid può assumere diverse forme. La comprensione dell’apartheid non si limita quindi a quello del regime sudafricano. Apartheid è anche un meccanismo inserito nel sistema giuridico, praticato e mantenuto dallo Stato. In quanto tale, il problema non riguarda i partiti politici o i politici al governo, ma piuttosto il fondamento costituzionale dello Stato stesso. Infine, l’analisi dell’apartheid riconosce che il regime israeliano di oppressione e discriminazione non solo colpisce tutte le componenti della società palestinese, ma di fatto dipende da tale frammentazione. Perciò le soluzioni a lungo termine alla violazione dei diritti dei palestinesi devono prendere in considerazione tutte le componenti del popolo palestinese, non solo i palestinesi della Cisgiordania e della Striscia di Gaza. Il problema dell’apartheid riguarda il fondamento costituzionale dello Stato.

Creare questi punti di forza consente alcune possibili strategie. Chi si occupa di diritto internazionale e di analisi politica non deve rinunciare a perseguire i diritti dei palestinesi nel quadro dell’occupazione militare, in particolare del riconoscimento della Linea Verde [il confine tra Giordania ed Israele prima della guerra del ’67, ndt.]. Tuttavia i politici ed i soggetti della società civile devono anche evidenziare che i palestinesi cittadini di Israele ed i palestinesi rifugiati non sono separati dalla complessiva lotta palestinese. Tenere insieme questi elementi può aiutare a sfidare i limiti del discorso internazionale che detta i criteri su chi sia un palestinese.

Per i palestinesi, soprattutto per la leadership politica e della società civile, uno dei compiti più importanti dovrebbe essere contrastare la frammentazione imposta dal regime israeliano. I dirigenti devono prendere in considerazione l’epoca antecedente a Oslo, un periodo di maggior cooperazione attraverso la Linea Verde, e portare avanti il lavoro già in atto, benché su piccola scala, da parte di diverse Ong che si occupano soprattutto di raggruppare insieme i giovani palestinesi, come Baladna (Associazione per la gioventù araba con sede ad Haifa). Ciò che è necessario è uno sforzo collettivo sviluppato dai palestinesi di entrambi i lati della Linea Verde e in esilio, che spinga per una visione politica ed un futuro sostenibile.

Vi è un precedente di una tale visione tra i palestinesi cittadini di Israele. I ‘Documenti per una visione del futuro’, pubblicati nel 2006-2007, sono scaturiti dal lavoro collettivo di politici, intellettuali e leaders della società civile palestinesi. I documenti non solo enunciavano le richieste sociali e politiche della comunità palestinese in Israele, ma proponevano anche una sintetica narrazione palestinese. Ne è risultato un quadro teoretico e strutturato per i diritti dei palestinesi entro lo Stato di Israele. Il quadro disegnava il futuro a prescindere dalle limitazioni dall’alto al basso e avanzava proposte politiche concrete.

Però l’accento posto dai documenti su Israele mette in luce I loro limiti, soprattutto relativamente alla frammentazione. Ampliare questa visione attraverso ed oltre la Linea Verde e trasformarla in una richiesta di fine dell’apartheid e della frammentazione imposta, deve assumere un ruolo centrale nella lotta di liberazione palestinese. Solo attraverso un simile sviluppo tutti gli aspetti del regime israeliano di apartheid possono essere messi in discussione.

Note:

  1. Il rapporto ESCWA afferma: “Israele ha instaurato un regime di apartheid che domina i palestinesi nel loro complesso….Israele è colpevole di politiche e prassi che configurano il crimine di apartheid come giuridicamente definito nei dispositivi del diritto internazionale.”

  1. Un caso recente è stato il tentativo di sfratto nel 2014 della famiglia Ghaith-Sub Laban, che aveva vissuto nella sua casa nella città vecchia di Gerusalemme per 60 anni.

Yara Hawari

Yara Hawari è l’esperta di politica palestinese di Al-Shabaka: rete di politica palestinese.

E’ una studiosa-attivista anglo-palestinese, i cui lavori sono sempre improntati al suo impegno per la decolonizzazione. Originaria della Galilea, Yara ha passato la sua vita tra la Palestina e il Regno Unito. Attualmente è dottoranda all’ultimo anno presso il Centro Europeo per gli Studi Palestinesi all’università di Exeter. La sua tesi si incentra su progetti ed iniziative di storia orale in Galilea, e più ampiamente sulla storia orale come forma autoctona di produzione di conoscenza. Yara è anche assistente all’insegnamento post-laurea e lavora come giornalista freelance pubblicando per diversi organi di informazione, compresi Electronic Intifada e The Independent.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




Imporre la pace: Trump e i palestinesi

Osamah Khalil

18 dicembre 2017, Al Shabaka

L’annuncio del presidente Donald Trump secondo cui riconosce Gerusalemme come la capitale di Israele rappresenta il culmine della politica estera USA durante settant’anni in cui l’obiettivo del processo di pace è stato imporre una soluzione ai palestinesi.

Eppure per circa trent’anni la strategia della dirigenza palestinese è stata l’esaltazione della prevalenza dei negoziati e di politiche guidate dall’élite. Si è concentrata sul garantire la lealtà dei palestinesi al suo programma politico attraverso il clientelismo e la repressione. La dirigenza ha messo da parte, se non danneggiato attivamente, l’organizzazione di base ed ha consumato le istituzioni nella vana e sempre più disperata speranza che i suoi sforzi sarebbero stati premiati dagli Stati Uniti e da Israele. Al contempo la sua politica ha garantito che la ristretta cerchia che beneficia del processo di pace e dell’occupazione israeliana resistesse. I risultati di questa strategia sbagliata sono apparsi evidenti con l’annuncio di Trump, ma sono stati evidenti anche da parecchio tempo.

L’Autorità Nazionale Palestinese dipende dall’appoggio finanziario, soprattutto degli Stati Uniti. Pertanto è improbabile che faccia ricorso nel breve termine a qualcosa di più che iniziative retoriche e simboliche e vuote minacce. Continuerà a concentrarsi sulle élite internazionali e potrebbe tentare di trovare un nuovo mediatore per i negoziati con Israele. Tuttavia non ci sono ragioni per cui Israele riprenda i negoziati in questo momento e consenta che emerga un nuovo mediatore. Se la dirigenza palestinese è seria in merito a un cambiamento rispetto alla soluzione dei due Stati, come ha sostenuto recentemente uno dei suoi rappresentanti, allora l’unica iniziativa significativa che potrebbe prendere è lo scioglimento dell’Autorità Nazionale Palestinese. Benché un’azione così drammatica obbligherebbe Israele, gli Stati Uniti, i Paesi arabi e la comunità internazionale nel suo complesso ad una risposta, ciò implicherebbe che la dirigenza abbandonasse la propria posizione ed i propri privilegi. Ciò è ancora più improbabile che l’apparizione di un nuovo mediatore per i negoziati di pace che sfidi gli Stati Uniti.

La dichiarazione di Trump: settant’anni di preparazione

Il processo di pace può essere di fatto diviso in due periodi. Nel primo, dalla fine della guerra palestinese del 1948 e della Nakba [la “catastrofe”, cioè la pulizia etnica a danno dei palestinesi ad opera delle milizie sioniste, ndt.] fino a metà degli anni ’70, gli Stati Uniti hanno cercato di ignorare la questione palestinese concentrandosi sugli Stati arabi. I palestinesi vennero trattati come un problema umanitario che doveva essere risolto senza il loro intervento piuttosto che una questione politica che li includesse come parte dei negoziati.

Mentre gli Stati arabi erano generalmente disponibili a un accordo di pace con Israele a patto che il problema dei rifugiati palestinesi venisse risolto, Israele rimase il principale impedimento. L’intransigenza israeliana non fece che aumentare dopo la guerra del giugno 1967 e l’occupazione della Cisgiordania, di Gerusalemme est, della Striscia di Gaza, del Sinai e delle Alture del Golan. Subito dopo la guerra del giugno 1967 gli Stati Uniti misero in rilievo negoziati “terra in cambio di pace”, soprattutto con l’Egitto e con la Giordania. Continuarono ad ignorare l’emergere di organizzazioni politiche palestinesi, compresa Fatah, che col tempo avrebbe dominato l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP).

In seguito alla guerra arabo-israeliana dell’ottobre 1973, Washington sembrò più interessata ad affrontare le rivendicazioni palestinesi. Eppure nel secondo periodo del processo di pace Washington cercò di limitare o sabotare la partecipazione dei palestinesi alle trattative. Pubblicamente ciò venne ottenuto imponendo all’OLP richieste perché dimostrasse la sua adeguatezza come partner nei negoziati. Washington insistette che l’organizzazione accettasse le risoluzioni 242 e 338 del consiglio di sicurezza dell’ONU e riconoscesse Israele.

In privato gli Stati Uniti ed Israele si coordinarono nei negoziati e Washington accettò di appoggiare, se non assecondare, la posizione israeliana sulle questioni chiave. Quindi Washington chiese all’OLP di fare importanti concessioni solo per partecipare ai negoziati, senza alcuna garanzia che avrebbero avuto successo. Gli accordi segreti e il coordinamento tra gli Stati Uniti ed Israele servirono a garantire che qualunque accordo sarebbe stato a scapito dei palestinesi.

Il mito del mediatore imparziale

Il concetto secondo cui gli Stati Uniti sono un “mediatore imparziale” è stato perpetuato da diplomatici americani egocentrici, da politici e dalla stampa. Non ha nessuna base nella realtà storica del conflitto arabo-israeliano e del processo di pace. L’eccessivo ruolo di Washington è in parte un riflesso del suo status come unica superpotenza che ha forgiato l’ordine internazionale e le istituzioni dopo la Seconda Guerra Mondiale. C’è spesso un malinteso fondamentale sulla Guerra Fredda e sull’influenza degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica sulla scena mondiale. Benché fossero in competizione, Washington era e rimase molto più potente e influente di Mosca sul piano politico, economico e militare.

Benché la posizione internazionale dell’America nei primi anni ’70 fosse ridotta a causa della guerra del Vietnam, la guerra arabo-israeliana del 1973 fornì a Washington un’opportunità per ribadire la propria influenza in Medio Oriente attraverso il processo di pace. Gli Stati arabi e i palestinesi non videro gli Stati Uniti come un mediatore imparziale. Semmai vennero visti come l’unico potere che sembrava in grado di imporre concessioni da parte di Israele. La nozione secondo cui gli USA potessero aiutare ad ottenere la pace con Israele era promossa dal presidente Richard Nixon e dal segretario di Stato e consigliere per la Sicurezza Nazionale Henry Kissinger, in quanto essi intendevano contenere l’influenza dell’Unione Sovietica nella regione ed a livello internazionale. Ciò è stato dimostrato dalla deliberata politica di Kissinger nei confronti del processo di pace, che intendeva escludere Mosca dai negoziati e rompere la posizione negoziale araba unitaria.

Gli accordi di Camp David del 1978 ed il trattato di pace finale tra Egitto ed Israele confermarono la strategia di Kissinger, che venne adottata dalle successive amministrazioni americane e le influenzò. Anche se Washington riuscì a contribuire a raggiungere la pace tra Egitto ed Israele, quello che è spesso trascurato è che le concessioni di Israele vennero fatte a spese dei palestinesi che vivevano sotto occupazione. Né gli accordi di Camp David comportarono successivi accordi di pace, come sperava il presidente Jimmy Carter, o ulteriori concessioni territoriali da parte di Israele.

Gli accordi di Oslo rafforzarono ulteriormente queste politiche. Washington non venne coinvolta nei negoziati originari né nella dichiarazione di principi del 1993. In effetti, una volta che il processo venne monopolizzato dal presidente Bill Clinton, i negoziati sullo status finale vennero rimandati e alla fine fallirono. Come le precedenti amministrazioni americane, Clinton si mise d’accordo in pubblico ed in privato con Israele. L’amministrazione Clinton si accordò segretamente con l’allora ed attuale primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, per discutere ogni proposta americana con Israele prima di presentarla al gruppo di negoziatori palestinesi.

Benché finalmente i palestinesi avessero un posto al tavolo dei negoziati quasi alla pari con gli israeliani, ed al presidente dell’OLP Yasser Arafat venisse consentito di recarsi varie volte alla Casa Bianca di Clinton, il ruolo di Washington era ancora quello di imporre un accordo di pace. Da Arafat e dalla neonata Autorità Nazionale Palestinese ci si aspettava che applicassero una pace inaccettabile e un’occupazione continua in cambio di una parvenza di statualità, ma senza una vera sovranità. A dispetto di tutte le iperboli sulla “generosa offerta” a Camp David nel 2000, Israele e l’allora primo ministro Ehud Barak non avevano intenzione di accettare neppure l’apparenza di uno Stato palestinese e di una Gerusalemme divisa. Guarda caso il fallimento dei negoziati per lo status finale venne attribuito ai palestinesi e ad Arafat, ma le sue radici risalgono al costante approccio al processo di pace fin dal suo inizio.

Il ruolo della politica USA

Benché gli Stati Uniti conservino la posizione dominante sulla scena mondiale, la loro politica interna è provinciale e guidata dai cicli elettorali di due e quattro anni. La necessità di ottenere fondi per le campagne delle elezioni politiche per il Congresso e per la presidenza si traduce nell’eccessiva influenza di importanti donatori su questioni di politica, compresi i rapporti internazionali. Ciò è risultato evidente nella volontà dei candidati presidenziali, compreso Barak Obama nel 2008, di dichiarare pubblicamente che Gerusalemme “dovrebbe rimanere la capitale di Israele e dovrebbe restare indivisa” durante le elezioni, ma di rimandare questa iniziativa fino al raggiungimento di un accordo finale.

Gli sconfortanti livelli di gradimento e gli scarsi risultati di Trump dopo circa un anno in carica hanno contribuito alla decisione su Gerusalemme. In particolare ciò potrebbe aiutare le possibilità del partito Repubblicano di conservare la sua maggioranza nelle elezioni di metà mandato del 2018 e le speranze di rielezione di Trump nel 2020. È probabile che l’annuncio rafforzi la posizione di Trump tra la base cristiana evangelica del partito Repubblicano ed alcuni importanti esponenti si sono affrettati ad acclamare l’annuncio. Questo soddisferà anche i principali donatori di fondi come Sheldon Adelson, un sostenitore di spicco delle colonie israeliane. Poiché la decisione ha un sostegno trasversale, compresi importanti dirigenti democratici, ciò potrebbe anche rendere Trump e il partito Repubblicano più graditi per i votanti filo-israeliani in Stati chiave in cui le elezioni sono sempre più combattute a causa di mutamenti demografici.

Manovre regionali

In quanto debole attore senza uno Stato, i palestinesi sono stati soggetti alle dinamiche regionali e alle politiche della grande potenza. Ciò include regimi che sono stati ostili al nazionalismo palestinese, come la Giordania, o quelli che intendono strumentalizzare i partiti politici palestinesi in competizione tra loro per i propri scopi e progetti regionali, come l’Egitto, la Siria e l’Iraq. Washington ha spesso cercato di fare pressione sui dirigenti palestinesi attraverso gli Stati arabi con risultati alterni.

Nel loro tentativo di stringere un’alleanza contro l’Iran che includa Israele, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti potrebbero tentare di obbligare Mahmoud Abbas e la dirigenza palestinese ad accettare un accordo di pace. Tuttavia si renderanno conto che l’ostacolo non è rappresentato da Ramallah. Piuttosto, come altri leader arabi hanno imparato in ritardo, Israele incasserà ogni concessione facendo al contempo altre richieste e saboterà negoziati che possano dare come risultato uno Stato palestinese. L’annuncio di Trump su Gerusalemme, presumibilmente con il tacito accordo di Riyadh e di altre capitali arabe, ricompensa esclusivamente l’intransigenza di Israele a spese dei palestinesi che vivono sotto occupazione e nella diaspora.

Osamah Khalil

Consigliere politico di Al-Shabaka, Osamah Khalil è co-fondatore ed ex co-direttore di Al-Shabaka. È professore associato di storia presso la Maxwell School of Citizenship and Public Affairs dell’università di Syracuse. Khalil è autore di “America’s Dream Palace: Middle East Expertise and the Rise of the National Security State” [Il posto dei sogni dell’America: la conoscenza del Medio Oriente e la nascita dello Stato della Sicurezza Nazionale] (Harvard University Press, 2016).

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Dopo la bomba atomica di Trump su Gerusalemme: valutazioni sulle opzioni per i palestinesi

Nadia Hijab,

8 dicembre 2017, Al-Shabaka

In tutto il mondo vengono organizzate proteste contro la decisione del presidente USA Donald Trump di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele.

Facendo questo, Trump ha ignorato dettagli quali confini e frontiere – insieme allo stesso diritto internazionale – ed ha ribadito l’impegno USA, da sempre vuoto di significato, di favorire “un duraturo accordo di pace”.

Date le politiche assolutamente scandalose di Trump riguardo a Gerusalemme e ai diritti dei palestinesi in generale, come anche la velocità con cui la sua amministrazione agisce per fare a pezzi i diritti umani ed ambientali negli Stati Uniti e nel mondo intero, è facile cadere nella disperazione. Eppure in un momento simile è importante ricordare le tendenze di più lungo termine che lavorano a favore dei palestinesi e per porre il movimento nazionale palestinese – sia a livello politico che della società civile – nella migliore posizione.

Il lungo percorso di Israele verso lo smascheramento

Molti degli orientamenti a favore dei palestinesi sono dovuti al fatto che Israele sta superando i limiti. Ha vinto molte battaglie, ma non può vincere la guerra. Può sembrare illusorio, data la grande forza militare, politica ed economica che fa di Israele una superpotenza regionale. Ma consideriamo il percorso del Paese. La vittoria del 1967 avrebbe dovuto metterlo in grado di avere la pace con gli arabi nei termini da lui stabiliti del 78% della Palestina che aveva colonizzato nel 1948, e seppellire così la causa palestinese per sempre.

Invece ha proseguito sulla strada tracciata dagli estremisti sionisti del XX secolo, che erano decisi a colonizzare ed espropriare, per garantire il minimo numero di autoctoni palestinesi ed il massimo numero di ebrei. Come disse Moshe Dayan nel 1950 riguardo ai 170.000 palestinesi riusciti a rimanere in ciò che divenne Israele nel 1948, dopo che 750.000 di loro furono costretti a diventare rifugiati: “Spero che nei prossimi anni possa verificarsi un’altra possibilità di attuare il trasferimento di quegli arabi fuori dalla Terra di Israele.” Dayan divenne poi un eroe di guerra israeliano nel 1967, quando altri circa 450.000 palestinesi furono costretti a diventare rifugiati.

Iniziata lentamente nel 1967, ma con una drastica accelerazione dopo gli accordi di Oslo apparentemente finalizzati, al momento della loro firma nel 1993, a portare la pace, la corsa inarrestabile di Israele alla colonizzazione dei territori appena acquisiti ha prodotto circa 600.000 coloni in 200 insediamenti, che frammentano la Cisgiordania e dividono tra loro i palestinesi. Il piano israeliano per Gerusalemme è apertamente improntato ad un rapporto di 70% a 30% tra ebrei israeliani ed arabi palestinesi, previsto come risultato del diradamento degli abitanti di Gerusalemme est.

Sulla base del “successo” di questi sforzi, i leader israeliani ora pensano che non sia necessario occultare le loro ambizioni e proclamano esplicitamente i loro obiettivi, compresi i piani di ulteriori espulsioni di palestinesi e di discriminazione verso quelli che rimangono. Il numero di leggi discriminatorie nei confronti dei palestinesi cittadini di Israele è balzato da circa 50 a quasi 70 negli ultimi anni.

Sia le istituzioni ufficiali che le organizzazioni di destra stanno sempre più infliggendo simili trattamenti agli ebrei israeliani che cercano di difendere i diritti di tutti gli esseri umani, a prescindere dalla religione o dall’etnia. Gli attacchi contro “Breaking the Silence” (Rompere il Silenzio), una Ong che promuove il fatto che i soldati israeliani denuncino ciò che sono costretti a fare ai palestinesi durante il loro servizio militare, ne sono solo un esempio. La repressione del ministro dell’Educazione Naftali Bennett nei confronti di ACRI (l’Associazione per le Libertà Civili in Israele) è un altro. “Goliath: life and loathing in greater Israel” (Golia: vita e odio nel grande Israele) di Max Blumenthal registra il percorso israeliano sempre più draconiano attraverso il XX secolo fino ad oggi ed è una lettura imprescindibile per chi si occupa di questa questione.

Lo status di “luce per le nazioni” di cui Israele ha goduto in quanto “unica democrazia” nel Medio Oriente è svanito da tempo. Oggi il progetto di insediamento, con la sua flagrante violazione dei diritti dei palestinesi, ha messo a repentaglio la fondamentale pretesa israeliana di uno Stato ebraico. Molti hanno usato il termine apartheid per descrivere quanto sta accadendo ai palestinesi nei territori occupati (OPT), comprese strade separate, differenti sistemi giudiziari e gravi restrizioni all’accesso all’acqua, alla terra ed anche allo spettro elettromagnetico.

Sempre di più, la situazione nei territori occupati ha spinto gli Stati e i difensori della società civile a tenere conto di quanto accade – e di quanto è accaduto – ai cittadini palestinesi di Israele. Quando niente meno che l’ex direttrice dell’ufficio di Gerusalemme del New York Times Jodi Rudoren, che aveva mostrato prudenza nei suoi reportage durante il suo mandato, afferma che il termine apartheid ben si addice al trattamento dei cittadini palestinesi di Israele, allora è chiaro che la vera natura dell’impresa è venuta in superficie. La prova è evidente: non è possibile avere uno Stato che privilegia gli ebrei senza discriminare i “non ebrei”. Chi può ora sostenere seriamente che Israele è uno Stato democratico?

Questa situazione ha condotto a quella che forse è la più importante tendenza a lungo termine in questo conflitto: il cambiamento del punto di vista degli ebrei americani. Esiste oggi una piccola percentuale, ma in rapida crescita, di ebrei americani che si mobilitano per i diritti umani nel movimento di solidarietà con la Palestina. A capo di questo cambiamento c’è “Jewish Voice for Peace (JVP)” (Voce ebrea per la pace), che sostiene i diritti dei palestinesi secondo la definizione data dai palestinesi stessi nell’appello del 2005 per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni (BDS) contro Israele, fino a quando non rispetterà il diritto internazionale, e che ricopre un ruolo strategico fondamentale nel movimento USA per i diritti. (1)

Il secondo grande, e più recente, cambiamento nella comunità ebraica degli Stati Uniti è dovuto all’emergere di latenti tensioni tra Israele e gli ebrei riformati e conservatori [i primi sostengono un rapporto individuale e liberale con la fede, i secondi contestano la secolarizzazione della religione portata dalla società moderna e dall’illuminismo, ndt.], che rappresentano i due terzi degli ebrei americani. Vi è stata una quantità di articoli ed analisi sulla questione, che indicano che il primo ministro Benjamin Netanyahu ed i suoi alleati puntano sugli ebrei ortodossi americani e trascurano gli altri – trattandoli addirittura come ebrei di seconda classe. Questo è un grave errore strategico da parte di Israele: gli ebrei americani contribuiscono generosamente alle cause filantropiche, come anche alle politiche e alle posizioni ufficiali. Alienandosi questo importante bacino elettorale – anche se spende milioni per controllare il dibattito e confondere le critiche ad Israele e al progetto politico sionista con l’antisemitismo – Israele sta accelerando dei cambiamenti negli Stati Uniti che eroderanno l’automatico sostegno politico ed il massiccio aiuto militare che riceve, e favoriranno l’appoggio generale ai diritti dei palestinesi ed il riconoscimento della storia della Palestina.

La lotta rivitalizzata della Palestina

La lotta palestinese si è sviluppata ed evoluta parallelamente al percorso di Israele. Trent’anni dopo che il governo coloniale britannico sconfisse la rivolta per i diritti e la libertà del 1936-39, e vent’anni dopo la catastrofica perdita di quattro quinti della Palestina nel 1948 e la diaspora dei quattro quinti del suo popolo, entrò in scena l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) e divenne in breve tempo una forza con cui fare i conti. Tuttavia i reiterati attacchi all’OLP da parte israeliana – ed araba – unitamente ai gravissimi errori della sua leadership, condussero ad colpo quasi mortale con l’invasione israeliana del Libano nel 1982 e l’esilio dell’OLP da Beirut, la sua ultima roccaforte ai confini di Israele.

Eppure dopo solo cinque anni la lotta palestinese assunse una nuova forma con la Prima Intifada, la rivolta nonviolenta guidata dai leader locali dei territori occupati. L’intifada portò i palestinesi sulla ribalta mondiale e vicino al raggiungimento dei loro obiettivi, dato l’impegno dell’amministrazione di George W. Bush a garantire un buon accordo in seguito alla prima guerra del Golfo nel 1990. Tragicamente, i negoziati segreti dell’OLP con Israele, che portarono agli accordi di Oslo, sperperarono le fonti di energia palestinese così attentamente costruite, che includevano un movimento globale di solidarietà ed il sostegno del Terzo Mondo.

Nonostante tali battute d’arresto, i palestinesi non stanno scomparendo. Dal 1948 la lotta nazionale è stata accompagnata da un fiorire di letteratura, arte, film e cultura che ha rafforzato e cementato l’identità palestinese. Come ha detto Steven Salaita [studioso e scrittore americano di origine araba, ndtr.] in un recente saggio, “Niente fa più paura ad Israele della sopravvivenza dell’identità palestinese attraverso successive generazioni.” Ed anche se la leadership nazionale palestinese è in confusione, per usare un eufemismo, la causa palestinese è spalleggiata da un movimento di solidarietà internazionale che include, e ne è rafforzato, il movimento BDS a guida palestinese. Negli ultimi cinque anni Israele ed i suoi alleati hanno gettato tutto il loro peso contro questo movimento nello sforzo di recuperare terreno e controllare il dibattito, ma esso è vivo e vegeto.

Quanto sarebbe stato più facile per Israele fare un accordo con Giordania, Egitto e Siria nel 1967, invece di azzardare per ottenere tutto e di doversela vedere con il movimento per i diritti dei palestinesi che continuamente si evolve e si rinnova!

Le opzioni palestinesi nella lotta per i diritti

Con queste premesse, quali opzioni hanno i palestinesi? È indubbio che il periodo attuale presenta gravi rischi per loro. Il movimento dei coloni ha avuto il semaforo verde per andare avanti da parte di Trump, che non si è nemmeno degnato di pronunciare “Stato palestinese” nel suo intervento su Gerusalemme, limitandosi a parlare di pace come “inclusiva di …una soluzione a due Stati” e condizionando anche questo all’approvazione di Israele, con l’aggiunta “se concordato dalle due parti.”

Il timore più grande è per la stessa Gerusalemme – sia per i suoi abitanti che per il complesso di Al Aqsa. Vi sono gravi preoccupazioni che Israele possa accelerare l’espropriazione e l’espulsione dei palestinesi, usando le varie tecniche burocratiche perfezionate nel corso degli anni, ed anche i bulldozer e le demolizioni. E, benché Trump abbia detto di continuare a “sostenere lo status quo” nei luoghi santi di Gerusalemme, questo è ampiamente ignorato dal movimento del Monte del Tempio, che intende edificare un terzo tempio ebraico al posto del complesso della moschea di Al Aqsa.

C’è molto da temere anche dal “Quartetto arabo” – Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Bahrain ed Egitto – e dal suo capofila, il principe ereditario Mohammad Bin Salman, che sostiene il piano di annessione USA-Israele e che ha ripetutamente offerto ai palestinesi come capitale Abu Dis, un sobborgo di Gerusalemme separato dalla città dal muro illegale che Israele ha costruito ampiamente all’interno dei territori occupati e che separa i palestinesi tra di loro e dalle principali colonie. D’altro lato, è in dubbio fino a che punto il Quartetto arabo possa conseguire i risultati desiderati. Lo stesso Bin Salman si è spinto troppo oltre con la sua guerra allo Yemen, con la repressione nei confronti dei suoi principi ed infine con il fallito tentativo di costringere il primo ministro libanese Saad Hariri a dimettersi, nel tentativo di indebolire Hezbollah, partito e forza militare libanese alleato di Iran e Siria.

Anche il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) Mahmoud Abbas non potrebbe essere in una posizione meno invidiabile. Se respinge la pressione delle forze schierate contro di lui, perderà l’aiuto degli Stati Uniti e di molti Paesi arabi, senza il quale i dipendenti pubblici [dell’ANP] non potranno essere pagati, il che colpirà circa un milione e mezzo di persone. Se china il capo, sarà costretto a rinunciare ai diritti dei palestinesi. In tutti i casi, il suo arcinemico ed ex capo della sicurezza palestinese Mohammed Dahlan, il protetto degli emirati, è in attesa dietro le quinte ed assai verosimilmente è disposto a firmare.

Il pesante prezzo di sfidare la comunità internazionale è chiaro nella Striscia di Gaza, dove Hamas ha rifiutato di ammettere la sconfitta o deporre le armi. Il costo che i palestinesi di Gaza hanno sostenuto nell’ultimo decennio, e continuano a sostenere, è davvero alto. E tra le varie voci che si susseguono sul piano finale di colonizzazione che Israele e USA intendono imporre ai palestinesi vi è la deportazione dei palestinesi di Gaza nel deserto egiziano del Sinai, molto lontano dai confini della loro patria originaria (circa il 70% dei 1.900.000 palestinesi di Gaza sono rifugiati).

D’altra parte, l’OLP/ANP e la società civile palestinese, sostenuti dal movimento globale di solidarietà, non sono privi di opzioni, se c’è la volontà di unire le risorse ed usare tutte le strade disponibili, come occorre fare per contrastare questa grave minaccia alla richiesta di diritti per i palestinesi. A livello interno, la riconciliazione fra palestinesi di Fatah e Hamas deve essere attuata, non solo come di per sé positivo. È anche essenziale mettere in grado il sistema politico palestinese di attrarre il sostegno di diversi Stati arabi ed asiatici, alcuni dei quali sono più vicini ad un partito che all’altro. Ogni possibile relazione che Fatah e Hamas riescano ad ottenere, ciascuno per conto proprio o insieme, per rafforzare la posizione palestinese deve essere sfruttata. È un segnale positivo che Abbas intenda convocare il Consiglio Centrale dell’OLP ad una sessione straordinaria a cui saranno invitate “tutte le fazioni”.

Occorre anche trovare il modo di ridurre ed eliminare gradualmente il coordinamento per la sicurezza tra l’ANP e Israele. Sarà molto difficile, considerate le misure che Israele può intraprendere contro i palestinesi, la loro leadership e Abbas in persona. Come minimo, verrebbe limitata la sua possibilità di muoversi oltre i confini della Cisgiordania e di viaggiare. Eppure le conoscenze sul settore della sicurezza esistono e c’è molta letteratura in proposito, comprese serie analisi politiche della rete di Al-Shabaka. Queste competenze sarebbero immediatamente disponibili per l’ANP se decidesse di ridimensionare il coordinamento (con Israele). È anche decisamente tempo di andare oltre gli appelli per la protezione internazionale dei palestinesi e sviluppare una coerente strategia per garantirsi tale protezione.

L’OLP/ANP deve essere il più possibile attiva sulla scena europea. Finora quei Paesi europei che sostengono il diritto internazionale hanno consentito un facile cammino ad Israele. L’Unione Europea nel 2016 ha ribadito la sua posizione per cui i prodotti delle colonie che entrano nella UE devono essere etichettati per permettere ai consumatori una scelta informata – una misura timida e alla fine inefficace. Gli avvertimenti che 18 Stati dell’UE hanno emesso per mettere in guardia le imprese sui rischi (sul piano legale, di immagine e finanziario) di mettersi in affari con amministrazioni delle colonie hanno un maggiore impatto, ma non sono stati recepiti nella legislazione e nella normativa interna.

Nonostante questo atteggiamento pusillanime, l’UE e la maggioranza dei suoi membri non potranno mai approvare l’occupazione israeliana. Per gli europei il sistema di diritto internazionale stabilito dopo la seconda guerra mondiale è la loro garanzia contro altre guerre devastanti. Per riuscire nel suo tentativo di legalizzare l’occupazione, Israele dovrebbe scalzare – e ha cercato di farlo – tutto quel sistema legale. Finora gli europei hanno potuto chiudere un occhio e fare il minimo possibile sul fronte israelo-palestinese, felici di lasciare agli USA il ruolo del cosiddetto mediatore imparziale.

La dichiarazione di Trump di riconoscimento di Gerusalemme [come capitale di Israele], con il suo implicito attacco al diritto internazionale, costringerà gli europei a sedersi al posto di guida, a meno che intendano assistere al crollo della delicata struttura che hanno messo in piedi. Per di più, la questione dei territori occupati e dell’annessione riguarda direttamente gli europei dal momento dell’occupazione ed annessione russa della Crimea nel 2014. Avendo imposto sanzioni alla Russia, gli europei sono in difficoltà a continuare a trattare Israele con i guanti mentre cerca di legalizzare la sua illegale impresa di colonizzazione.

L’OLP in particolare dovrebbe trarre vantaggio dal rifiuto europeo del riconoscimento di Trump ed impegnarsi in una vasta campagna di pubbliche relazioni e sensibilizzazione nei confronti dei governi e dei diplomatici europei. Dovrebbe mostrare risolutezza e determinazione e promuovere la responsabilità dei Paesi europei nel difendere il diritto internazionale, nonché continuare a sostenere fattivamente la loro posizione e i loro passi contro le depredazioni israeliane. L’OLP dispone di alcuni diplomatici molto esperti che può mettere in campo per questo compito – dopotutto, alcuni di loro hanno condotto e vinto la causa contro il muro di Israele presso la Corte Internazionale di Giustizia nel 2004.

In altre regioni del pianeta Israele ha lavorato per rovesciare le partnership e le alleanze con la Palestina nel Terzo Mondo, che sono state importanti fonti di sostegno negli anni ’70 e ’80. Lo ha fatto con successo in Asia, specialmente in India, in Africa e in America Latina. Ma non è troppo tardi per i palestinesi per riconquistare terreno e stringere questi legami, offrendo servizi e collegamenti dove possono. Cosa della massima importanza, l’OLP/ANP deve lavorare sodo per impedire che altri Paesi seguano le orme di Trump verso il riconoscimento o, peggio, l’effettivo trasferimento delle loro ambasciate a Gerusalemme.

In questo impegno, soprattutto negli USA, in Europa e sempre più in America Latina, l’OLP sarebbe appoggiata dalla società civile palestinese e dal movimento mondiale di solidarietà, che può mobilitare decine di migliaia di attivisti per fare pressione sui propri rappresentanti politici. Soprattutto negli Stati Uniti, il movimento di solidarietà con la Palestina ha creato diverse forti istituzioni che portano avanti le voci palestinesi e in favore dei palestinesi nei media, forniscono supporto legale agli studenti ed insegnanti che vengono attaccati per i loro discorsi, difendono i diritti dei palestinesi con i rappresentanti al Congresso e coinvolgono un crescente numero di ebrei nella lotta per uguali diritti per tutti.

Il ruolo della società civile palestinese e mondiale, oltre a mantenere la pressione su Israele ed a respingere i suoi tentativi di controllare la narrazione, è di mantenere l’OLP sulla retta via. Ciò che Trump ha fatto potrebbe infliggere un colpo mortale alla causa palestinese se i palestinesi ed i loro alleati non danno una risposta coerente e coordinata. Riflettendo su queste ed altre questioni e sviluppando delle strategie, i palestinesi ed i loro alleati possono trasformare questa tragedia in un’opportunità.

Note:

  1. È importante sottolineare la seconda parte di questo documento, dati i fraintendimenti circa il BDS. Il linguaggio dell’appello del BDS chiarisce che il movimento è contro le politiche di Israele, non contro la sua esistenza e che una volta che gli obbiettivi del movimento – autodeterminazione, libertà dall’occupazione, giustizia per i rifugiati ed uguaglianza per i palestinesi cittadini di Israele – fossero raggiunti, il BDS terminerà.

Nadia Hijab

Nadia Hijab è cofondatrice e direttrice esecutiva di Al-Shabaka, la rete di politica palestinese, e scrittrice, conduttrice e commentatrice sui media. Il suo primo libro, “Woman power: the arab debate on women at work “(Potere delle donne: il dibattito arabo sulle donne lavoratrici) è stato pubblicato dalla Cambridge University Press, ed è coautrice di “Citizens apart: a portrait of palestinians in Israel” (Cittadini a parte: un ritratto dei palestinesi in Israele) (I.B. Tauris). È stata capo redattrice della rivista sul Medio Oriente con sede a Londra, prima di lavorare per le Nazioni Unite a New York. È cofondatrice ed ex copresidentessa della Campagna USA per i Diritti dei Palestinesi ed ora lavora nel suo comitato consultivo.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Dopo Balfour: cento anni di storia e le strade non intraprese

Zena Agha, Jamil Hilal, Rashid Khalidi, Najwa al-Qattan, Mouin Rabbani, Jaber Suleiman, Nadia Hijab 

31 ottobre 2017, Al-Shabaka

Sintesi

Un’ondata internazionale di analisi e di attivismo sta segnando il centesimo anniversario della dichiarazione Balfour, il 2 novembre 2017.

La dichiarazione fornì un imprimatur imperiale alla risoluzione del movimento sionista nella sua prima conferenza a Basilea del 1897 per “fondare una patria per il popolo ebraico in Palestina garantita dal diritto pubblico” e diede inizio ad una guerra e una violenza infinite e alla spoliazione, dispersione e occupazione del popolo palestinese.1

La storia avrebbe potuto prendere un’altra direzione? Durante il secolo scorso ci furono momenti in cui i palestinesi avrebbero potuto influenzare il corso degli eventi in una diversa direzione? Ci siamo rivolti agli storici ed analisti della rete politica Al-Shabaka e abbiamo chiesto loro di identificare e riflettere su un momento in cui le cose avrebbero potuto andare diversamente se il popolo palestinese avesse deciso un’altra linea d’azione e di trarne lezioni che possano essere messe in pratica in questa ricerca di autodeterminazione, libertà, giustizia ed uguaglianza.

La tavola rotonda inizia con Rashid Khalidi e con la sua incisiva riflessione sulla costante mancanza di comprensione da parte della dirigenza palestinese delle dinamiche del potere globale, utilizzando il “Libro Bianco” del 1939 [documento britannico in cui si prospettava un ribaltamento della posizione filosionista del potere coloniale inglese e la costituzione di uno Stato arabo in Palestina, ndt.] per illustrare questa debolezza fatale. Zena Agha prende le mosse dalla commissione Peel del 1936 – la prima volta in cui venne menzionata la spartizione [della Palestina in due Stati, uno ebraico e l’altro arabo, ndt.] come soluzione – e mette in discussione che essa sia effettivamente inevitabile, anche oggi, come la commissione asseriva.

Jamil Hilal affronta lo stesso Piano di Spartizione – la risoluzione ONU 181 del 1947 [da cui è nato lo Stato di Israele, ndt.] – notando le ragioni della minoranza dei palestinesi che sostenevano di accettarla per guadagnare tempo al fine di recuperare la forza del movimento nazionale dopo che era stato represso dagli inglesi e dai sionisti. Traendo insegnamento da Balfour, dal piano di spartizione e da Oslo, Hilal chiede: “Quando chiediamo quali lezioni noi, in quanto palestinesi, possiamo trarre dalla storia, la domanda è sempre: chi trarrà le lezioni e come si può fare in modo che si intervenga su di esse?”

Quanto è stata importante la grande catastrofe dell’Olocausto nel portare alla creazione di Israele? Najwa al-Qattan afferma che, benché ci sia sicuramente una relazione storica, non c’è un rapporto di causa – effetto, e quindi auspica una lettura critica della storia per tracciare il futuro. Mouin Rabbani contesta la valutazione secondo cui la visita di Anwar Sadat a Gerusalemme del 1977 sia stata un’iniziativa promettente fallita, sottolineando che quando il leader egiziano escluse dalla discussione l’opzione militare araba contro Israele privò l’OLP [Organizzazione per la Liberazione della Palestina, principale organizzazione politico militare palestinese, ndt.] e gli Stati arabi di un’opzione diplomatica credibile.

Jaber Suleiman fa un confronto tra il destino dell’Intifada contro l’occupazione israeliana del 1987 e quello della rivolta palestinese del 1936 contro l’occupazione britannica e ne trae una serie di lezioni, in particolare sull’importanza di legare la tattica a una chiara visione strategica nazionale che guidi la lotta palestinese in ogni suo stadio. La tavola rotonda è stata moderata da Nadia Hijab.

Rashid Khalidi: il “Libro Bianco” e una sistematica incomprensione del potere

Il “Libro Bianco” del 1939 avrebbe potuto essere un punto di svolta nella storia palestinese? 2 Al massimo sarebbe stato un punto di svolta secondario. Se la dirigenza palestinese avesse accettato il “Libro Bianco”, si sarebbe riposizionata rispetto al potere coloniale. Ciò avrebbe potuto giovare alla sua posizione alla fine della rivolta del 1936-39 e l’avrebbe schierata dalla parte degli inglesi quando i sionisti si ribellarono ad essi.

Tuttavia la Gran Bretagna era un potere in declino. Gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica stavano dietro le quinte e fecero irruzione sulla scena poco dopo. Nel 1941 i nazisti attaccarono l’URSS e il Giappone attaccò Pearl Harbor ed il mondo cambiò, per cui, qualunque cosa i palestinesi avessero potuto fare con la Gran Bretagna, probabilmente avrebbe avuto effetti limitati. In un certo senso la grande rivolta palestinese arrivò troppo tardi. Gli egiziani si ribellarono nel 1919, gli iracheni nel 1920 e i siriani nel 1925. Negli anni ’30, soprattutto una volta che i nazisti arrivarono al potere, il progetto sionista era pienamente radicato in Palestina.

Tuttavia ciò che quel periodo pose in chiara evidenza fu il problema cronico della dirigenza palestinese, che era, senza eccezioni, poco aiutata da una minima comprensione del rapporto di forze a livello mondiale. I palestinesi erano in competizione con un movimento colonialista che era sorto in Europa e negli USA ed era costituito da europei le cui lingue madri erano europee e che erano in rapporto con personaggi influenti sia in Europa che negli USA.

Per competere con un movimento come quello, i dirigenti palestinesi avrebbero dovuto avere persone con rapporti nel sistema che fossero capaci di parlare le lingue e comprendessero sia la politica locale che quella internazionale. I palestinesi durante il Mandato britannico non le ebbero – basta leggere le loro memorie. Alcuni avevano delle intuizioni, ma erano inadatti a competere prima e dopo la dichiarazione Balfour e prima e dopo il “Libro Bianco”. E non è cambiato molto negli ultimi 100 anni, soprattutto riguardo agli USA. L’OLP aveva una buona comprensione del Terzo Mondo e di come funziona, una buona comprensione dell’Unione Sovietica e una certa competenza riguardo all’Europa occidentale, che è la ragione per cui ottenne vittorie diplomatiche negli anni ’70. Ma non aveva la minima idea della politica USA, e non ce l’ha tuttora.

La generazione palestinese più giovane che è cresciuta negli USA e in Europa si trova in una posizione molto migliore. Ha i rapporti e comprende come funzionano queste società, a differenza dei dirigenti palestinesi, o di certo della generazione dei loro genitori. Quando questa generazione diventerà più ricca e influente in qualità di avvocati, dottori, professionisti dell’informazione e dirigenti finanziari, non avrà inibizioni nell’utilizzare il proprio potere e la propria influenza per promuovere la giustizia per i palestinesi.

Se questo breve dibattito permette di trarre una lezione dalla storia, questa è che non si è riusciti ad arrivare al vertice. Non si è parlato a lord Balfour o non si parla al segretario [di Stato americano] Tillerson. E’ la struttura del potere che devi comprendere – Balfour era parte del governo, di un partito politico, di una classe, di un sistema, e lo stesso vale per Tillerson. Devi capire quelle strutture, così come i mezzi di comunicazione, e avere una strategia per trattare con loro. L’idea che puoi arrivare al vertice è un’illusione che i palestinesi e gli arabi hanno avuto in genere a causa del modo in cui funzionano i sistemi governati da re e dittatori arabi. La dirigenza nazionale è ben lontana dall’avere una strategia per trattare con gli USA, è penoso. Al contrario, la società civile palestinese sta facendo un lavoro fantastico, sia quella della diaspora che in Palestina: sono gli unici che capiscono come va il mondo.

Zena Agha: la spartizione non era un pilastro della politica

La lunga e funesta storia della conquista coloniale della Palestina presenta molti errori e molte opportunità mancate. Nel contesto del centenario della dichiarazione Balfour, la commissione Peel – un rapporto prodotto dallo stesso potere coloniale della dichiarazione del 1917 – è un momento centrale, anche se trascurato, nella storia della ricerca palestinese dell’autodeterminazione.

Condotta sotto la direzione di lord Peel, la commissione era il risultato della missione britannica in Palestina nel 1936. Il suo intento dichiarato era di “accertare le cause alla base degli scontri” in Palestina in seguito allo sciopero generale arabo di sei mesi e per “indagare sul modo in cui il Mandato in Palestina è stato messo in pratica per quanto riguarda gli obblighi mandatari rispettivamente verso gli arabi e gli ebrei.”

In base al rapporto stilato nel giugno 1937, il conflitto tra arabi ed ebrei era irriconciliabile e, di conseguenza, la commissione raccomandava la fine del Mandato Britannico e la spartizione della Palestina in due Stati: uno arabo, l’altro ebraico. Si supponeva che la spartizione fosse l’unico modo per “risolvere” le legittime e antitetiche ambizioni nazionali delle due parti e per liberare la Gran Bretagna dalla sua difficile situazione.

Nonostante gli impegni indicati nella dichiarazione Balfour, nell’accordo Sykes-Picot [tra Gran Bretagna e Francia per la spartizione del Medio oriente, ndt.] e nella corrispondenza tra McMahon e Hussein [tra l’alto commissario britannico al Cairo e il principe hashemita per definire lo status politico dei territori arabi liberati dal dominio turco, ndt.], la raccomandazione della spartizione riconobbe ufficialmente l’incompatibilità degli obblighi britannici verso le due comunità. La commissione Peel rappresentò la prima ammissione, quasi 20 anni dopo la sua istituzione, che la premessa del mandato britannico era insostenibile. Fu anche la prima volta che la spartizione venne menzionata come una “soluzione” del conflitto che i britannici avevano creato.

Entrambe le parti rifiutarono le raccomandazioni della commissione. I dirigenti sionisti erano insoddisfatti delle dimensioni del territorio a loro destinato, nonostante appoggiassero la spartizione come soluzione. Dal punto di vista palestinese, la spartizione era una violazione dei diritti degli abitanti arabi della Palestina. Il rapporto della commissione scatenò la rivolta araba spontanea dal 1936 fino alla sua violenta repressione da parte dei britannici nel 1939.

È difficile dire quale forma avrebbe potuto prendere un corso degli avvenimenti alternativo. Dopotutto la rivolta araba (ed il fallimento della conferenza anglo-arabo-ebraica a Londra nel febbraio 1939) portò alla pubblicazione del “Libro Bianco” del 1939, che affermava: “Il governo di Sua Maestà quindi ora dichiara inequivocabilmente che non è parte della sua politica che la Palestina debba diventare uno Stato ebraico.” Sotto ogni aspetto questa fu una vittoria per la comunità palestinese. È stato quello che è venuto dopo, cioè la Seconda Guerra Mondiale e gli orrori dell’Olocausto, che ha drasticamente sovvertito questo equilibrio in favore di uno Stato ebraico in Palestina.

La commissione Peel e le sue conseguenze offrono un opportuno promemoria che la spartizione della Palestina non è mai stato un pilastro del Mandato Britannico. Piuttosto, la spartizione venne suggerita come una misura disperata per liberare la Gran Bretagna, come potere coloniale, dal pantano palestinese. Quella spartizione allora diventò l’ortodossia stabilita per le recentemente create Nazioni Unite, e da allora praticamente ogni negoziato fu assolutamente inevitabile nonché ragionevole. Se cerchiamo di trarre lezioni per il futuro, è forse il caso di rimuovere il finora ben consolidato mito che la spartizione della Palestina storica sia l’unico modo per garantire la pace, qualunque forma essa possa prendere.

Jamil Hilal: Il Piano di Spartizione e il bivio

Per comprendere le strade non percorse quando la risoluzione ONU 181 (nota anche come il Piano di Spartizione) è stata approvata nel 1947, si deve riprendere in considerzione la dichiarazione Balfour del 1917 e i suoi risultati. La dichiarazione rifletteva gli interessi britannici nella regione, cioè l’uso della Palestina come garanzia del controllo [britannico] sul canale di Suez e come zona cuscinetto contro le ambizioni francesi sul sud della Siria. Le preoccupazioni britanniche erano quindi sia economiche (l’accesso al canale e l’accesso e il controllo di petrolio e gas) sia politiche (il controllo sulla Palestina che era stato ottenuto dalla Società delle Nazioni). Questo controllo è la ragione per cui la Gran Bretagna si impegnò a creare un “focolare ebraico” in Palestina, piuttosto che uno Stato ebraico.

Il colonialismo di insediamento da parte degli ebrei europei contro i desideri degli arabi palestinesi nativi mise in pratica la dichiarazione. Questa colonizzazione europea della Palestina, istigata dalla Gran Bretagna, iniziò molto prima delle terribili atrocità commesse dal regime nazista nella Germania di Hitler. Contro questa doppia colonizzazione della Palestina ci fu molta resistenza palestinese, la più nota delle quali fu la grande rivolta del 1936-39. La dirigenza del movimento nazionalista palestinese, che lottò contro la colonizzazione sionista, era divisa sul giudizio in merito al dominio britannico sulla Palestina. Alcuni dirigenti pensavano che la Gran Bretagna avrebbe potuto essere convinta, mentre altri la consideravano il loro maggiore nemico. Questa divisione sul ruolo del potere imperiale contro il nemico diretto è evidente ancora oggi.

Le misure che le forze britanniche e sioniste presero per schiacciare la ribellione del 1936-39 lasciarono esausto il movimento nazionalista, la dirigenza dispersa e l’economia palestinese in rovina. In seguito non ci fu una chiara strategia, salvo la richiesta di indipendenza, anche questa una situazione che ha delle somiglianze con l’attualità.

La risposta palestinese al piano di spartizione delle Nazioni Unite rispecchiò la stanchezza del movimento nazionale. Non c’era una strategia unitaria e nessuna discussione per chiedere l’opinione del popolo sulla cosa migliore da fare, sia dal punto di vista tattico che strategico. Solo una piccola parte del movimento nazionalista era pronta ad accettare il piano. La maggioranza lo rifiutò, ma non propose una chiara alternativa. La minoranza che sosteneva l’accettazione da parte dei palestinesi credeva che avrebbe potuto sventare il progetto sionista di occupare quanta più terra possibile con il minimo di popolazione nativa. Questo gruppo credeva che l’accettazione avrebbe dato ai palestinesi tempo e spazio per ricostituire la propria forza e le proprie possibilità, costruire uno Stato e sviluppare relazioni con la regione e con il mondo. Altri affermavano che una simile mossa non avrebbe ostacolato il progetto sionista.

Il rifiuto del piano di spartizione era ovviamente comprensibile. Per i palestinesi questo significava consegnare più di metà della loro patria a un movimento colonialista di insediamento europeo che invadeva e colonizzava il loro Paese con la forza e con la protezione dell’impero britannico. Violava il loro diritto all’autodeterminazione e all’indipendenza e la loro richiesta di uno Stato democratico che avrebbe garantito i diritti di tutti i cittadini indipendentemente dalla religione, dall’etnia e dalla razza. Inoltre il progetto britannico-sionista non era solo contro i palestinesi: tutta la regione araba era coinvolta.

Il movimento sionista colse il rifiuto del piano come il rifiuto di un accordo pacifico e una giustificazione per scatenare una guerra contro i palestinesi quando questi erano impreparati, disorganizzati e senza dirigenti.

Quindi non furono pienamente sviluppate e discusse alternative al piano di spartizione. Gli argomenti proposti da quelli che erano favorevoli ad accettare il piano non vennero sufficientemente discussi e non vennero fatti tentativi di articolare una nuova strategia di opposizione al movimento sionista. Un simile percorso avrebbe potuto avere un impatto su Israele e portare in seguito alla riunificazione della Palestina su basi democratiche. Queste idee erano almeno da discutere.

Ironicamente, alcuni degli argomenti di quel periodo vennero ripresi nel 1974 quando venne sostenuto il programma di transizione, noto anche come il programma di 10 punti, che intendeva fondare uno Stato su ogni parte della Palestina che fosse stata liberata. Il programma, che venne approvato dal Consiglio Nazionale Palestinese (CNP), favorì l’ingresso dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite come membro senza diritto di voto.

Nel 1988 il CNP approvò la soluzione dei due Stati in un momento in cui la prima Intifada aveva mobilitato un grande appoggio globale alla causa palestinese. Tuttavia gli accordi di Oslo del 1993 e ciò che ne seguì rappresentarono una spartizione della Palestina ancora più dannosa persino del piano di spartizione originale e sono culminati nell’attuale situazione, in cui l’equilibrio di forze tra Israele e i palestinesi a livello locale, regionale e internazionale è pesantemente a favore di Israele.

Partendo dal fatto che gli accordi di Oslo non hanno dato vita a uno Stato palestinese indipendente, ci dobbiamo chiedere: i palestinesi devono insistere con il progetto dei due Stati, in attesa di un cambiamento nel rapporto di potere, o dovrebbero adottare una nuova strategia che chieda la costruzione di uno Stato unico democratico nella Palestina storica – lo slogan che elementi illuminati del movimento nazionalista palestinese proposero prima della Nakba e di nuovo all fine degli anni ’60? Questa volta, tuttavia, la domanda deve essere affrontata con una chiara visione e strategia e attraverso una decisione delle comunità palestinesi nella Palestina storica e nella diaspora.

Tuttavia non è sufficiente discutere. Quando chiediamo quali lezioni noi, come palestinesi, possiamo trarre dalla storia, la mia domanda è sempre: chi farà tesoro di queste lezioni? E quelli che hanno il potere sono disposti ad agire tenendo conto di queste lezioni? Spesso gli intellettuali pensano che le loro analisi raggiungeranno in qualche modo la classe politica che è nelle condizioni di prendere l’iniziativa. Ma senza l’azione di gruppi di pressione, movimenti sociali, partiti politici, sindacati e altre forme di potere, si potrà ottenere poco.

Najwa al-Qattan: leggere la storia attraverso le lenti della realtà

La nascita dello Stato di Israele nel 1948 fu la conseguenza di una serie di sviluppi storici iniziati nel XIX° secolo. Benché l’Olocausto abbia giocato un ruolo nella nascita di Israele, esso fu più simile a un’ostetrica che a un genitore. Ciononostante c’è la percezione, sia nell’Occidente che tra i palestinesi, che i due avvenimenti siano legati da un rapporto causale. Questa percezione non è semplicemente dovuta a un errore logico secondo cui post hoc ergo proctor hoc, ovvero B ha seguito A, quindi A ha causato B. In realtà sono proprio i sei corti anni che separano i due eventi che dovrebbero farci riflettere. Qui io contesto una relazione causale diretta tra i due avvenimenti, pur suggerendo anche le ragioni per cui nell’immaginazione popolare sono associati. Concludo con le lezioni che possono essere tratte da una storia più critica.

Quando David Ben Gurion annunciò la nascita di Israele nel maggio 1948, stava a malapena evocando uno Stato puramente immaginario. Semmai stava fissando l’obiettivo di 50 anni di tentativi sionisti. Israele era la conseguenza di sviluppi storici sia a lungo che a breve termine: l’antisemitismo razziale o moderno in Europa nel XIX° secolo; l’emergere del movimento sionista sia come una risposta all’antisemitismo moderno che ai movimenti nazionalisti in Russia e in Europa occidentale; il successo del primo sionismo nel tenere insieme il socialismo con il nazionalismo per colonizzare “una terra senza popolo” con “un popolo senza terra”; il Mandato britannico per la Palestina sotto il cui contesto protettivo – come sancito nella dichiarazione Balfour – ondate successive di immigrati ebrei europei costruirono istituzioni sociali, economiche, politiche e militari pre-statali.

Tra i circa 600.000 ebrei europei che erano immigrati in Palestina fino al 1948, i sopravvissuti [all’Olocausto] erano 120.000. La popolazione di Israele crebbe rapidamente nei primissimi anni della sua vita in quanto arrivarono nuovi immigrati. Nuove ondate di sopravvissuti all’Olocausto ammontarono a 300.000, ma c’erano anche oltre 475.000 ebrei del Medio Oriente e di altre provenienze. Considerando l’idea sionista che lo Stato ebraico dovesse offrire un rifugio dall’antisemitismo europeo e una patria per il popolo ebraico, questo era un colpo morale e politico per il sionismo. L’idea era che se l’avessero costruita, sarebbero arrivati, ma milioni [di ebrei] non lo fecero, anche dopo la catastrofe provocata dall’uomo dell’Olocausto, che sterminò sei milioni di ebrei.

Non si tratta di negare un rapporto storico tra i due fatti. Il primo collegamento tra l’Olocausto e la creazione dello Stato di Israele riguarda i tempi. Benché i fondatori dello Stato sionista dai primi decenni del XX° secolo fossero concordi riguardo all’obiettivo finale di costituire uno Stato ebraico in Palestina, dissentivano sul momento ideale (così come sull’estensione del suo territorio). In questo senso l’Olocausto sicuramente portò i dirigenti sionisti a sottolineare l’urgenza dello Stato, come durante il programma Biltmore [dichiarazione da parte di Ben Gurion durante la conferenza all’hotel Biltmore di New York sulla necessità di costituire lo Stato ebraico, ndt.] nel 1942, così come fece l’annuncio britannico dei piani di disimpegno dalla Palestina nel 1947. Tuttavia ciò non significa che uno fosse la causa dell’altro; i progetti e le attività relativi alla costituzione dello Stato all’epoca erano in fase avanzata.

Il secondo collegamento è una questione di propaganda politica: il legame tra l’Olocausto ed Israele è stato spesso utilizzato per denunciare le critiche di Israele come antisemitismo e per eliminare dalla narrazione la mancanza di uno Stato e la diaspora del popolo palestinese. Due anni fa il primo ministro Benjamin Netanyahu è arrivato a fare la falsa affermazione che furono i palestinesi che suggerirono l’idea della soluzione finale a Hitler.

Sotto occupazione o sparsi nella diaspora provocata da Israele, a volte i palestinesi immaginano che se l’Olocausto non fosse mai avvenuto non ci sarebbe neanche stato Israele. Piuttosto che reimmaginarci il passato, faremmo meglio a imparare da esso in modo da costruire un futuro pacifico e umano. In primo luogo, il segreto per costruire uno Stato palestinese (indipendentemente dalla sua forma) sono la densità e il benessere del suo popolo, delle sue istituzioni e della sua società civile, così come la determinazione della sua dirigenza politica e della società civile a sfidare l’occupazione e la negazione dei diritti palestinesi da parte di Israele. In secondo luogo, benché l’Olocausto non abbia provocato direttamente la nascita dello Stato di Israele, dovremmo desiderare che non ci fosse mai stato per l’unica ragione che conta: quella morale.

Mouin Rabbani: le ripercussioni della pace separata di Sadat

Sembra che il popolo palestinese abbia un rapporto difficile con gli anni che finiscono con il numero sette. Il primo congresso sionista si tenne nella città svizzera di Basilea nel 1897; il 1917 vide Arthut Balfour emanare la vergognosa dichiarazione che impegnava la Gran Bretagna a trasformare la Palestina in un focolare nazionale ebraico; la commissione Peel, che raccomandava che Londra adottasse la spartizione come politica ufficiale, pubblicò il suo rapporto nel 1937; la risoluzione 181 dell’assemblea generale dell’ONU che raccomandava la spartizione della Palestina venne adottata il 29 novembre 1947; il risultante staterello di Israele occupò ciò che restava della Palestina ed altri territori arabi nel 1967. Mezzo secolo dopo, nel 2017, sembra che vi si sia installato in modo più o meno permantente. L’importante eccezione a questa costante di sconfitte e tragedie è il 1987, l’anno in cui l’Intifada, la rivolta popolare nei Territori Palestinesi Occupati, scoppiò per dare ancora una volta ai palestinesi di ogni luogo la speranza di una liberazione nazionale.

Il 1977, l’anno in cui il leader egiziano Anwar Sadat lanciò la sua iniziativa per fare una pace separata con Israele, è spesso assente da questo elenco. L’auto-proclamato “pellegrinaggio” di Sadat verso l’abbraccio di Menachem Begin è normalmente presentato come l’inizio benaugurante di un processo di pace arabo-israeliano che in seguito è fallito. Non c’è bisogno del senno di poi per capire che non era, e non avrebbe mai potuto essere, niente del genere.

Sadat dedicò molti degli anni ’70, e in particolare quelli successivi alla guerra dell’ottobre 1973 [la guerra dello Yom Kippur, ndt.], a riconfigurare l’Egitto. Precedentemente centro di gravità del mondo arabo, che cercò e ottenne un’importanza globale, fu sotto la dirigenza di Sadat che l’Egitto venne gradualmente ridotto a Stato “cliente” di USA e Arabia Saudita. Le riforme socioeconomiche che ne derivarono – la politica dell’infitah [apertura neoliberista, ndt.] – per pagare il prezzo di ammissione aprirono le porte dell’Egitto ad ogni capitalista corrotto e ad ogni disponibilità clientelare. All’inizio del 1977 tali cambiamenti produssero anche un’esplosione di rivolta popolare, senza precedenti dal colpo di Stato del 1952, che per poco non portò alla fine del potere di Sadat. Il suo volo a Tel Aviv alla fine di quell’anno era un risultato diretto di quegli sviluppi. Eppure l’aria di inevitabilità di cui la sua iniziativa venne da allora rivestita – presentata come una conseguenza logica e necessaria del disimpegno [israeliano] dal Sinai nel 1974-75 in seguito alla guerra arabo-israeliana dell’ottobre 1973 – equivale a leggere la storia a posteriori. Per una buona ragione prese assolutamente di sorpresa allo stesso modo amici e nemici.

In un sol colpo lo stravagante e sempre più imprevedibile leader egiziano eliminò dalle possibilità l’opzione militare araba contro Israele. Così facendo privò anche l’OLP e gli Stati arabi di una credibile opzione diplomatica.

Le immediate conseguenze furono la devastante invasione del Libano nel 1982 e l’espulsione del movimento nazionale palestinese dal Libano. Un decennio dopo, gli accordi di Oslo del 1993 non furono altro che un’elaborazione del piano di autonomia inserito nel trattato di pace tra israeliani ed egiziani del 1979. Che Israele non abbia ancora dato il nome di Anwar Sadat a una sua colonia è uno dei grandi misteri della regione.

Se alla fine degli anni ’70 l’Egitto – come quasi fece – avesse resistito alla tentazione di una pace separata con Israele, il Medio Oriente oggi sarebbe un posto molto diverso e quasi sicuramente molto migliore. I palestinesi e gli Stati arabi avrebbero conservato un’opzione diplomatica credibile e sarebbero stati nelle condizioni di esercitare significative pressioni militari se Israele avesse rifiutato di fare altrettanto.

Jaber Suleiman: reimparare la lezione della prima Intifada

La prima Intifada del 1987 fu un brillante modello di lotta palestinese contro l’occupazione israeliana. Impegnò tutti gli strati della popolazione palestinese e fu caratterizzata da unità, organizzazione e creatività. Rivitalizzò con successo anche la causa palestinese a livello internazionale dopo che l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) venne espulsa da Beirut nel 1982, perdendo la propria base.

Da allora ogni volta che i palestinesi si ribellano contro l’occupazione israeliana ci chiediamo: ci sarà una nuova Intifada – una terza Intifada, dato che l’Intifada degli anni 2000 fu la seconda? Qualche analista usa sbrigativamente il termine “intifada” per riferirsi a qualunque promettente azione popolare, come il movimento dei giovani nel 2015 e, più recentemente, l’”ondata di rabbia” di Gerusalemme, che continua in modo intermittente nel 2017. Ciò sottolinea la posizione centrale della prima Intifada, che durò tre anni. Infatti è comparabile solo con la grande rivolta palestinese del 1936-39. Sia l’Intifada che la rivolta andarono incontro allo stesso tragico destino, benché nel contesto di circostanze storiche diverse.

La dirigenza palestinese degli anni ’30 rispose all’appello dei leader arabi di fermare la rivolta per “dare ascolto alle buone intenzioni del nostro alleato britannico”, che si era impegnato a rispettare le richieste arabe. Nel 1988, durante la 19° sessione del Consiglio Nazionale, l’OLP decise di capitalizzare politicamente la prima Intifada per ottenere libertà e indipendenza. Credeva di appropriarsi della lotta e che l’Intifada avesse fornito la spinta necessaria per mettere in atto il programma politico provvisorio che aveva adottato nel 1974, che comprendeva la formazione di un’entità palestinese su ogni parte della Palestina che fosse stata liberata. Il risultato fu uno Stato abortito come conseguenza degli accordi di Oslo.

Dato che le circostanze della rivolta del 1936 non portarono alla realizzazione del diritto palestinese all’auto-determinazione, perché la prima Intifada non fu in grado di avvalersi di questa ricca esperienza per evitare il suo tragico destino? Anzi, la prima Intifada soffrì lo stesso destino perché fu coinvolta troppo frettolosamente negli accordi di Oslo, e il popolo palestinese continua a raccoglierne le amare conseguenze. Ciò include la divisione, la frammentazione e la debolezza del suo movimento nazionale dopo che negli anni ’70 aveva guadagnato un posto di rilievo tra i movimenti di liberazione nazionale mondiali.

Questa domanda è diventata ancora più pressante nel centenario della dichiarazione Balfour, in quanto lo sventurato processo di pace di Oslo è arrivato alla fine dopo più di due decenni di futili negoziati. I fatti sul terreno determinati dalle colonie israeliane – e il rifiuto israeliano di ritirarsi dalla terra occupata nel 1967 – hanno reso impossibile la soluzione dei due Stati. Oggi è urgente chiedersi come le lezioni della prima Intifada ed i suoi risultati possano essere messi in pratica per una giusta soluzione del conflitto arabo-israeliano.

  • La storia svela l’importanza per la lotta nazionale palestinese di avere una chiara visione strategica e di essere sicuri che le mosse tattiche si inseriscano in quelle strategiche, e viceversa, durante tutte le fasi della lotta e alla luce dei cambiamenti sul terreno e delle alleanze globali. Ciò garantisce che, qualunque sia la fase della lotta, l’opportunismo politico non abbia la priorità sugli obiettivi finali.

  • È fondamentale sostenere le basi giuridiche del conflitto, fondate sui principi di giustizia contenuti nella Carta delle Nazioni Unite, che sostituisce le leggi internazionali in base all’articolo 1 della Carta. Ciò garantisce che le basi legali dei diritti dei palestinesi non vengano manipolate e che quei diritti rimangano il punto di riferimento per ogni negoziato. Non è stato così nel caso di Oslo.

  • La dirigenza palestinese – attuale o futura – dovrebbe ispirarsi allo spirito combattivo che il popolo ha dimostrato durante un secolo di resistenza al progetto sionista. La resistenza dovrebbe imparare da queste esperienze storiche per rafforzare la propria fiducia nel potenziale rivoluzionario del popolo palestinese, ed evitare il meschino e miope sfruttamento politico di consistenti risultati nella lotta che leda i diritti nazionali dei palestinesi.

Notes:

  1. Al-Shabaka ringrazia gli sforzi dei sostenitori dei diritti umani di tradurre i suoi articoli, ma non è responsabile di eventuali cambiamenti del significato.

  2. Il governo britannico adottò il Libro Bianco nel 1939, e lo applicò fino alla fine del suo mandato nel 1948. Il “Libro Bianco” escluse la spartizione e affermò che il focolare nazionale ebraico avrebbe dovuto essere all’interno di una Palestina indipendente con limiti all’immigrazione [degli ebrei, ndt.].

Zena Agha è l’esperta di politica USA per Al-Shabaka. L’esperienza di Zena si concentra sulla politica, sulla diplomazia e sul giornalismo. In precedenza ha lavorato all’ambasciata irachena a Parigi, alla delegazione palestinese all’UNESCO e all’ “Economist”. Oltre ad editoriali su “The Indipendent”, le collaborazioni di Zena includono El País, i servizi internazionali di PRI [Public Radio International, rete radiofonica indipendente con sede negli USA, ndt.], i servizi esteri della BBC e la BCC in arabo. A Zena è stata assegnata una borsa di studio Kennedy per studiare all’università di Harvard, completando il suo master in studi sul Medio oriente. I suoi principali interessi di ricerca comprendono la storia moderna, memorie e produzioni narrative, prassi territoriali in Medio oriente.

Il commentatore politico di Al-Shabaka Jamil Hilal è sociologo e scrittore indipendente palestinese e ha pubblicato vari libri e numerosi articoli sulla società palestinese, sul conflitto arabo-israeliano e sui problemi del Medio Oriente. Hilal ha ottenuto, e tuttora ricopre, il ruolo di ricercatore esperto in una serie di istituti di ricerca palestinesi. Le sue recenti pubblicazioni includono lavori sulla povertà, sui partiti politici palestinesi e sul sistema politico dopo Oslo. Ha pubblicato Where Now for Palestine: The Demise of the Two-State Solution [Dove va ora la Palestina: il fallimento della soluzione dei due Stati] (Z Books, 2007), e con Ilan Pappe ha pubblicato Across the Wall [“Attraverso il muro”] (I.B. Tauris, 2010).

Il commentatore politico di Al-Shabaka Rashid Khalidi è titolare della cattedra Edward Said di Studi Arabi al dipartimento di storia della Columbia University. È stato presidente dell’Associazione degli Studi sul Medio Oriente, consulente della delegazione palestinese per i negoziati di pace arabo-israeliani del 1991-93 ed è direttore del Journal of Palestine Studies. Khalidi è autore di Brokers of Deceit: How the U.S. has Undermined Peace in the Middle East (2013); Sowing Crisis: American Dominance and the Cold War in the Middle East (2009); The Iron Cage: The Story of the Palestinian Struggle for Statehood (2006); Resurrecting Empire: Western Footprints and America’s Perilous Path in the Middle East (2004); Palestinian Identity: The Construction of Modern National Consciousness (1997); Under Siege: PLO Decision-making during the 1982 War (1986); e British Policy towards Syria and Palestine, 1906-1914 (1980). Ha scritto oltre novanta articoli su aspetti della storia del Medio Oriente.

La commentatrice politica di Al-Shabaka Najwa al-Qattan è professoressa associata di storia alla Loyola Marymount University di Los Angeles. Si è laureata all’American University di Beirut, alla Georgetown e ad Harvard. Ha scritto sulla corte ottomana musulmana, su ebrei e cristiani nell’impero ottomano e sulla Grande Guerra.

Il commentatore politico di Al-Shabaka Mouni Rabbani è uno scrittore ed analista indipendente specializzato in questioni palestinesi e nel conflitto arabo-israeliano. È ricercatore all’Istituto di Studi Palestinesi ed è un redattore di Middle East Report [rivista indipendente sul Medio Oriente, ndt.]. I suoi articoli sono apparsi anche su “The National [rivista in inglese degli Emirati Arabi Uniti, ndt.] ed è commentatore del The New York Times.

Il commentatore politico di Al-Shabaka Jaber Suleiman è un ricercatore e consulente indipendente in studi sui rifugiati. Dal 2011 ha lavorato come consulente e coordinatore per il Forum di Dialogo libanese-palestinese presso l’Iniziativa per uno Spazio Comune, il progetto di supporto dell’UNDP [il Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo, ndt.]

sulla Costruzione di Consenso e Pace Civile in Libano. Tra il 2007 ed il 2010 ha lavorato come consulente per il programma palestinese dell’UNICEF nei campi di rifugiati palestinesi in Libano. È stato ricercatore ospite del programma di studi sui rifugiati dell’università di Oxford. È anche co-fondatore del gruppo e centro per i diritti dei rifugiati Aidoun e ha scritto numerosi studi riguardanti i profughi palestinesi e il diritto al ritorno.

Nadia Hijab è co-fondatrice e direttrice esecutiva di Al-Shabaka, scrittrice e commentatrice nei media. Il suo primo libro, Womanpower: The Arab debate on women at work [“Potere delle donne: il dibattito arabo sulle donne al lavoro”] è stato pubblicato dalla Cambridge University Press ed è coautrice di Citizens Apart: A Portrait of Palestinians in Israel [“Cittadini ai margini: un ritratto dei palestinesi in Israele”] (I. B. Tauris). E’ stata capo redattrice del giornale con sede a Londra “Middle East magazine”, prima di aver ricoperto un incarico alle Nazioni Unite a New York. È co-fondatrice ed ex-condirettrice della campagna USA per i diritti dei palestinesi, ed ora lavora nel suo comitato consultivo.

(traduzione di Amedeo Rossi)




La sorveglianza sui palestinesi e la lotta per i diritti digitali

Nadim Nashif

23 ottobre 2017, Al-Shabaka

Sintesi

La sorveglianza sui palestinesi è sempre stata parte integrante del progetto coloniale israeliano. Prima della creazione dello Stato di Israele, squadre del gruppo paramilitare sionista Haganah percorrevano i villaggi e le città palestinesi, raccogliendo informazioni sui residenti. Questo controllo sulle vite dei palestinesi è continuato dopo l’occupazione israeliana delle Alture del Golan, della Striscia di Gaza e della Cisgiordania, inclusa Gerusalemme est, nel 1967. Gli strumenti utilizzati comprendevano registri della popolazione, carte di identificazione, rilevamenti catastali, torri di controllo, incarcerazione e tortura.

Benché queste tecniche di controllo poco sofisticate siano ancora oggi in uso, una vasta gamma di nuove tecnologie, come il monitoraggio e l’intercettazione per telefono e via internet, la CCTV [televisione a circuito chiuso, ndt.] e la banca dati biometrici, ha messo in grado Israele di sorvegliare la popolazione sotto occupazione su scala massiccia e pervasiva. Israele utilizza in particolare i social media per monitorare ciò che i singoli palestinesi dicono e fanno e per raccogliere ed analizzare informazioni sui comportamenti della popolazione palestinese in generale.

In questo documento Nadim Nashif discute l’uso da parte di Israele dei social media come strumento di controllo dei palestinesi. (1) Prende in esame le tattiche israeliane e gli altri ostacoli digitali ai diritti dei palestinesi, inclusa la parzialità di Facebook a favore di Israele attraverso la censura e la mancanza di trasparenza, nonché la nuova legge sui crimini informatici dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP). Nashif conclude fornendo suggerimenti su come i palestinesi possono contrapporsi all’uso dei social media per la sorveglianza e proteggere i propri diritti informatici.

I social media come ambito di sorveglianza

L’esplosione di rabbia palestinese iniziata nell’ ottobre 2015 in risposta alle incursioni israeliane alla Moschea di Al-Aqsa ha rappresentato una nuova sfida per l’apparato di sicurezza israeliano. Storicamente, gli individui affiliati ai bracci militari delle fazioni palestinesi, come Fatah, Hamas e il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, hanno condotto attacchi ai quali Israele ha risposto con la violenza, la distruzione e le punizioni collettive. Per esempio, Israele ha scatenato le sue ultime tre guerre nella Striscia di Gaza, nel 2009, 2012 e 2014, con il pretesto di fermare i lanci di razzi da parte di Hamas.

Questa volta, tuttavia, sono stati adolescenti palestinesi, molti dei quali non appartengono ad alcuna fazione politica o ala militare palestinese, a sferrare gli attacchi. Il governo israeliano ha accusato i social media per questa nuova tendenza e l’intelligence militare israeliana ha rafforzato il monitoraggio degli account dei social media palestinesi. In seguito a ciò, Israele ha arrestato 800 palestinesi a causa dei loro post sui social media, soprattutto su Facebook, la piattaforma più seguita dai palestinesi.

All’inizio di quest’anno Haaretz ha rivelato che questi arresti sono il risultato di un metodo poliziesco basato su algoritmi che creano profili di quelli che Israele vede come probabili attentatori palestinesi. Il programma monitora decine di migliaia di account Facebook di giovani palestinesi, cercando termini come shaheed (martire), Stato sionista, Al Quds (Gerusalemme) o Al Aqsa. Ricerca anche account che postano foto di palestinesi recentemente uccisi o imprigionati da Israele. Il sistema identifica quindi i “sospetti” basandosi su un possibile atto di violenza, piuttosto che su un attacco reale – o almeno su un piano per realizzare un attacco.[vedi zeitun.info]

Ogni profilo Facebook segnalato come sospetto dal sistema è un potenziale bersaglio di un arresto e la principale accusa di Israele alle persone arrestate è “incitamento alla violenza”. Poiché l’incitamento è definito in modo vago, il termine include tutte le forme di resistenza alle politiche ed alle pratiche israeliane. La “popolarità”, o il livello di influenza che una persona esercita sui social media, è un fattore che conta nella decisione di Israele di sporgere denuncia contro i palestinesi accusati di incitamento. Per esempio, più alto è il numero di ‘like’, di commenti e di condivisioni che ha un’utenza, maggiore è la possibilità che le persone vengano denunciate – e più lunga e pesante sarà la condanna.

L’intelligence israeliana inoltre crea falsi account Facebook per tracciare e ottenere accesso a profili Facebook per poter comunicare con palestinesi e ricavare informazioni private che altrimenti essi non condividerebbero. Nell’ottobre 2015, per esempio, parecchi attivisti palestinesi hanno riferito di aver ricevuto messaggi da account Facebook con nomi arabi e fotografie di bandiere palestinesi, che chiedevano i nomi dei palestinesi che partecipano alle proteste.

Inoltre Israele si introduce negli account Facebook per accedere ad informazioni private, come l’orientamento sessuale, le condizioni di salute e mentali e lo status coniugale e finanziario. Un veterano dell’Unità 8200, un corpo d’elite dell’intelligence dell’esercito israeliano, spesso paragonato all’Agenzia per la Sicurezza Nazionale USA, ha testimoniato che questo materiale viene raccolto come mezzo di pressione. “Ogni informazione che possa consentire di ricattare una persona è considerata un’informazione rilevante”, ha detto. “ Sia che tale individuo abbia un certo orientamento sessuale, tradisca sua moglie o necessiti di cure in Israele o in Cisgiordania – è un bersaglio per essere ricattato.” L’intelligence israeliana ha preso di mira soprattutto palestinesi omosessuali, minacciando di pubblicare le loro foto intime per costringerli a collaborare con Israele.

Una simile intrusione nella vita privata dei palestinesi è resa possibile dal fatto che Israele occupa e controlla l’intera infrastruttura delle telecomunicazioni usata dalle compagnie e dai gestori del servizio di internet palestinesi. La mancanza di qualunque limitazione legale o etica sul punto fino al quale Israele può spingersi nella sorveglianza sui palestinesi nel 2014 ha addirittura portato 43 veterani dell’Unità 8200 ad inviare una lettera al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu per contestare “il continuo controllo di milioni di persone ed un’intrusione profondamente invasiva in quasi tutti gli ambiti della vita.”

Il complesso militare industriale del Paese è uno strumento ancor più pervasivo per il controllo digitale sui palestinesi. Israele produce ed esporta un’enorme quantità di tecnologie di sicurezza militare e cibernetica. Secondo un rapporto del 2016 di ‘Privacy International’, una Ong che indaga sui controlli da parte del governo e sulle imprese che lo consentono, Israele è la sede di 27 imprese di sorveglianza – il più alto numero pro capite di tutti i Paesi del mondo. Nel 2014 le esportazioni israeliane di tecnologie di sicurezza informatica e di sorveglianza all’estero, come il monitoraggio di telefoni e internet, hanno superato le esportazioni di armamenti. Queste tecnologie sono state vendute a regimi autoritari e repressivi in Colombia, Kazakhstan, Messico, Sud Sudan, Emirati Arabi Uniti e Uzbekistan, tra gli altri.             

Ambigui legami tra l’esercito israeliano ed il settore tecnologico rafforzano l’importanza del Paese nell’industria della sorveglianza. I veterani dell’Unità 8200 hanno fondato alcune delle principali compagnie israeliane di sicurezza informatica, come le imprese Mer e NSO. I veterani trasferiscono le loro competenze militari e di intelligence sviluppate nell’unità di elite al settore privato, dove non ci sono ostacoli legali relativamente alla sovrapposizione tra industria militare e di sorveglianza.

Facebook: neutrale o di parte?

Facebook si pubblicizza come una piattaforma aperta, al servizio di tutti. Il fondatore e amministratore delegato di Facebook, Mark Zuckerberg, ha detto recentemente: “Lavoro ogni giorno per unire le persone e creare una comunità per tutti. Speriamo di dare voce a tutto il popolo e di creare una piattaforma per tutte le idee.”

Gli affari del gigante dei social media con Israele mettono in discussione tale affermazione. Mentre Facebook ha dei chiari protocolli e meccanismi per le richieste da parte di governi di rimuovere contenuti, e addirittura pubblica un rapporto biennale delle richieste dei governi, l’azienda viene spesso criticata per la sua mancanza di trasparenza e le sue decisioni arbitrarie. Un’inchiesta del Guardian ha rivelato le norme riservate di Facebook per limitare argomenti relativi a violenze, discorsi di odio, terrorismo e razzismo – norme che dimostrano la sua parzialità a favore di Israele.

Per esempio, Facebook segnala i sionisti come “gruppo globalmente protetto”, il che significa che i contenuti che li attaccano devono essere rimossi. Un’altra regola spiega che “le persone non devono elogiare, sostenere o raffigurare un membro…di un’organizzazione terrorista, o di qualunque organizzazione che abbia lo scopo principale di intimidire una popolazione, un governo, o di usare violenza per resistere all’occupazione di uno Stato riconosciuto a livello internazionale.” Di conseguenza, Facebook ha censurato attivisti e giornalisti in territori oggetto di disputa, come Palestina, Kashmir, Crimea e Sahara occidentale. Secondo rapporti dei media, Facebook ha rivisto la definizione di terrorismo per includervi l’uso di violenza premeditata da parte di organizzazioni non governative “allo scopo di raggiungere un obiettivo politico, religioso o ideologico.” In ogni caso, la definizione permette di punire coloro che resistono all’occupazione e all’oppressione, mentre non include il terrorismo di Stato e la violenza inflitti ai palestinesi da parte di Israele.

Inoltre nel 2016 la ministra della Giustizia Ayelet Shaked ed il ministro della Pubblica Sicurezza Gilad Erdan hanno annunciato un accordo tra Israele e Facebook per creare delle squadre di monitoraggio e rimozione dei contenuti “che favoriscono l’incitamento [alla violenza]”.

Il direttore politico di Facebook, Simon Milner, nega l’esistenza di qualunque accordo speciale tra il suo datore di lavoro e Israele. Ha anche ribadito che tutti gli utenti di Facebook sono soggetti alle stesse politiche per la comunità di utilizzatori. Tuttavia un recente rapporto di Adalah [organizzazione per i diritti umani e centro legale per i diritti degli arabi in Israele, ndtr.] rivela che fin dalla seconda metà del 2015 l’ufficio del procuratore generale di Israele ha gestito un’unità informatica in collaborazione con Facebook e Twitter, per rimuovere contenuti online. Il resoconto finale annuale del 2016 dell’unità si fa vanto di aver trattato 2.241 casi e rimosso il contenuto in 1.554 di essi.

La collaborazione tra Israele e Facebook è dovuta probabilmente a molteplici ragioni. Anzitutto Israele ha una fiorente industria di alta tecnologia e rappresenta un lucroso mercato per Facebook. In secondo luogo, l’ufficio di Facebook a Tel Aviv rende la compagnia più soggetta all’influenza dei decisori israeliani. La nomina di Jordana Cutler, da lungo tempo principale consigliera di Netanyahu, a capo della politica e comunicazione di Facebook nell’ufficio israeliano è un caso emblematico.

Terzo, forse Facebook teme azioni legali. Nel 2015 un’organizzazione filoisraeliana, ‘Shurat HaDin-Israel Law Center’, ha intentato una causa contro Facebook negli Stati Uniti a nome di 20.000 querelanti israeliani, che accusavano la compagnia di “incitamento ed incoraggiamento alla violenza contro gli israeliani.” Il timore di Facebook di un’azione legale è espresso in un documento interno, che è trapelato, relativo ad un contenuto negazionista dell’Olocausto. Il documento spiega che Facebook semplicemente nasconderà o rimuoverà tale contenuto in quattro Paesi – Austria, Francia, Germania e Israele – per evitare cause legali.

Infine, benché Facebook neghi ogni discriminazione tra palestinesi ed israeliani, gli utenti palestinesi raccontano una storia diversa. Per esempio, poco dopo che una delegazione di Facebook aveva incontrato rappresentanti del governo israeliano nel settembre 2016, gli attivisti palestinesi hanno documentato interruzioni degli account personali su Facebook di giornalisti e di organizzazioni di informazione. Gli account di quattro giornalisti dell’agenzia di notizie palestinese Shehab e di tre giornalisti della rete Al Quds News sono stati chiusi. In seguito a proteste online e campagne con gli hashtag #FBCensorsPalestine e #FacebookCensorsPalestine, Facebook si è scusata per l’interruzione, spiegando che si era trattato di un errore.

La nuova legge sui crimini informatici dell’Autorità Nazionale Palestinese

Non è soltanto Israele a reprimere gli utenti palestinesi dei social media: lo fa anche l’ANP, per cassare opinioni politiche sfavorevoli o critiche verso la leadership palestinese. Tuttavia c’è una differenza fondamentale tra la portata del controllo digitale israeliano e le violazioni della libertà di espressione online da parte dell’ANP. Mentre il controllo digitale globale di Israele fa di ogni palestinese un sospetto ed un bersaglio, l’ANP utilizza le informazioni condivise pubblicamente per prendere di mira il dissenso politico.

L’ANP ha recentemente approvato una legge che limita ancor di più la libertà dei palestinesi di esprimersi online. La controversa legge sui crimini informatici è stata firmata dal Presidente palestinese Mahmoud Abbas il 24 giugno 2017, senza alcuna consultazione pubblica con le organizzazioni della società civile palestinese o con i gestori dei servizi internet. E’ stata pubblicata con decreto presidenziale due settimane dopo la firma ed è entrata immediatamente in vigore.

Il pretesto della nuova legge è quello di combattere i reati informatici come l’estorsione per motivi sessuali, la frode fiscale e il furto di identità. Però l’utilizzo di termini vaghi come “armonia sociale”, “modalità pubbliche”, “sicurezza dello Stato” e “ordine pubblico” indica che la legge ha scopi differenti, in particolare eliminare la libertà di espressione online e reprimere ogni critica politica. Essa rende gli utenti palestinesi di internet, specialmente gli attivisti e i giornalisti, passibili di incriminazione da parte dell’ANP, che può interpretare le disposizioni della legge come vuole.

I primi due casi intentati in base alla legge rivelano il suo scopo. In entrambi è stato utilizzato l’art. 20, che stabilisce che ogni utente di internet che possiede o gestisce un sito web che pubblica “notizie che mettono a rischio la sicurezza dello Stato, il suo ordine pubblico, o la sicurezza interna o esterna” può essere arrestato per un anno o multato fino a circa 1.400 dollari. Nel primo caso sono stati arrestati sei giornalisti palestinesi che lavorano per organi di stampa legati ad Hamas in Cisgiordania. Nel secondo caso, i servizi di sicurezza preventiva dell’ANP hanno arrestato Issa Amro, importante difensore dei diritti umani ed attivista politico nonviolento palestinese di Hebron, che aveva protestato con un post su Facebook per l’arresto da parte dell’ANP di un giornalista.

La legge è in netto contrasto con la legge fondamentale di tutela della privacy e della libertà di espressione. Conferisce alle istituzioni dello Stato un ampio potere di monitoraggio, raccolta e conservazione di dati relativi alle attività online di palestinesi nei Territori Palestinesi Occupati (TPO), e di fornire, su loro richiesta, tali informazioni alle autorità preposte all’applicazione della legge. Anche i gestori privati del servizio internet sono obbligati a cooperare con le agenzie di sicurezza raccogliendo, conservando e condividendo i dati informativi sugli utenti per almeno 3 anni, oltre che bloccando qualunque sito web su ordine della magistratura.

L’applicabilità della legge si estende oltre i confini legali dei territori controllati dall’ANP e consente di perseguire palestinesi che vivono all’estero. Ciò costituisce una reale minaccia per gli attivisti politici palestinesi che vivono all’estero, ma che hanno una notevole influenza sui social media in patria. Comunque la legge non specifica se le autorità possano tentare di ottenere l’estradizione di palestinesi che risiedono all’estero per aver commesso un crimine informatico.

Contrastare il controllo digitale

Mentre la violazione dei diritti digitali dei palestinesi è un caso unico, data l’occupazione militare israeliana, la lotta per questi diritti è globale. I governi, le organizzazioni della società civile, le agenzie di social media e gli utenti di internet hanno tutti un ruolo importante nella protezione della libertà di espressione online e della privacy dal controllo e dalla censura dello Stato.

In Palestina l’ANP deve revocare immediatamente la legge sui crimini informatici. Per adempiere meglio allo scopo che esplicitamente si propone – combattere il crimine informatico – l’ANP dovrebbe consultare le organizzazioni della società civile ed altri importanti attori coinvolti per assicurarsi che ogni legge collegata all’informatica riduca effettivamente i crimini informatici senza violare i diritti politici dei palestinesi e le libertà pubbliche. Invece di reprimere i palestinesi per aver espresso le proprie opinioni politiche, l’ANP dovrebbe cercare di proteggere il suo popolo dagli arresti e dalle incriminazioni da parte di Israele con accuse senza fondamento di incitamento e terrorismo.

I diritti digitali, che sono parte del complesso dei diritti umani, sono un concetto relativamente nuovo nei Territori Palestinesi Occupati. Le organizzazioni palestinesi della società civile hanno la responsabilità di creare consapevolezza circa questi diritti, soprattutto riguardo alla sicurezza digitale. Proteggere gli account di un individuo e mantenere tali le informazioni private dovrebbe essere una priorità, soprattutto per giornalisti ed attivisti. Questo è particolarmente vero nel contesto di un’occupazione in cui l’occupante dispone di potenti capacità di controllo e controlla tutta l’infrastruttura delle telecomunicazioni.

La società civile palestinese ed i media devono anche smascherare e mobilitarsi contro le immorali pratiche di sorveglianza israeliane, la censura e la repressione della libertà di espressione dei palestinesi. Campagne online cresciute dal basso, come #FBCensorsPalestine e #FacebookCensorsPalestine, si sono dimostrate efficaci nell’attaccare le violazioni dei diritti digitali delle aziende di social media, dovute a prese di posizione faziose, nonostante le dichiarazioni di neutralità. I palestinesi hanno anche bisogno di coalizzarsi con organizzazioni internazionali per i diritti digitali, che possono aiutare a fare pressione sulle aziende di social media e sul governo israeliano perché interrompano le violazioni.

Note:

  1. Questo scritto si basa su una tavola rotonda organizzata nel maggio 2017 da Al-Shabaka e dalla Fondazione Heinrich Boell a Ramallah, in collaborazione con “7amleh: Centro arabo per lo sviluppo dei social media”. Le opinioni espresse in questo scritto sono dell’autore e non riflettono necessariamente l’opinione della Fondazione Heinrich Boell

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




Marginalizzare economicamente le donne palestinesi in Israele

Suheir Abu Oksa Daoud –

28 Settembre 2017,Al-Shabaka

Sintesi

Le donne palestinesi cittadine di Israele hanno una delle percentuali più basse di partecipazione al mercato del lavoro, mentre le loro omologhe ebree hanno una delle più alte. Benché i dirigenti del governo israeliano abbiano pubblicamente affermato che il Paese deve incentivare l’economia dei palestinesi di Israele, promuovendo soprattutto il lavoro delle donne palestinesi, le loro affermazioni non sono state seguite da fatti concreti. 1 2

Non sorprende che lo sviluppo palestinese non sia una priorità nell’elaborazione delle politiche israeliane. La minoranza, che costituisce circa il 21% della popolazione totale israeliana di 8,7 milioni, ha sofferto povertà, emarginazione e discriminazione da parte del governo israeliano fin dalla Nakba [l’espulsione di centinaia di migliaia di palestinesi nel ’47-’48 che ha permesso la nascita dello Stato di Israele, ndt.]. Inoltre durante lo scorso decennio le azioni israeliane hanno portato ad un più profondo peggioramento dei rapporti tra i palestinesi e le istituzioni statali e la comunità ebraica. La guerra contro il Libano del 2006 e gli attacchi contro Gaza del 2008 e del 2014, per esempio, hanno ulteriormente allontanato i palestinesi cittadini di Israele.

La lotta delle donne palestinesi per un lavoro in Israele è emblematica dell’oppressione sistematica di questa minoranza da parte di Israele. La bassa percentuale di donne nel mercato del lavoro non è, come in genere si pensa, semplicemente dovuta alla cultura “tradizionale” palestinese o musulmana. Mentre nel passato ostacoli sociali bloccavano il lavoro fuori casa delle donne palestinesi, profondi cambiamenti politici ed economici nella società palestinese hanno contribuito ad una maggiore accettazione e promozione di questo lavoro. Invece le politiche statali israeliane nei confronti delle lavoratrici palestinesi sono state centrali nella loro emarginazione dalla produzione e dal lavoro.

In questo articolo Suheir Daoud tratta dell’emarginazione delle donne palestinesi nel mercato del lavoro israeliano. Esamina il mancato appoggio di Israele alle donne palestinesi che lavorano nell’impiego pubblico come parte di una politica sia storica che attuale che intende isolare e controllare il potenziale della minoranza palestinese al servizio degli interessi della maggioranza ebraica. Conclude con raccomandazioni su quello che i palestinesi possono fare per favorire il lavoro delle donne palestinesi in Israele.

Emarginazione economica fin dalla Nakba

L’emarginazione delle donne palestinesi nel mercato del lavoro israeliano e più in generale l’ostruzionismo allo sviluppo economico dei palestinesi in Israele sono stati obiettivi fondamentali di Israele fin dalla Nakba.

Dopo il 1948 [anno della fondazione dello Stato di Israele, ndt.] Israele ha adottato una politica economica capitalistica intesa ad integrarsi nell’economia mondiale. Uno dei principali obiettivi era di assorbire e fornire un impiego agli immigrati ebrei, e questo scopo venne realizzato attraverso l’espropriazione dei palestinesi. In migliaia persero la propria terra e la propria casa.

In conseguenza di ciò, nei due decenni di legge marziale [in vigore nelle zone palestinesi in Israele dal 1948 al 1966, ndt.] che seguirono la fondazione di Israele, le donne palestinesi lavorarono principalmente in attività come addette alle pulizie e sarte nei villaggi arabi, soprattutto nel Nord [di Israele]. Altri fattori che contribuirono alla loro emarginazione professionale furono una mancanza di opportunità di lavoro nei villaggi e nelle città arabi e il ridotto tasso di alfabetizzazione.

La guerra del 1967 provocò cambiamenti fondamentali nell’economia israeliana, con un afflusso di capitali, di investimenti e di aiuti che creò molto lavoro. Ciò contribuì a un miglioramento delle condizioni di vita e spinse le donne palestinesi in Israele ad entrare nel mercato del lavoro retribuito per garantire risorse supplementari per aiutare le proprie famiglie e cercare di usufruire del miglioramento delle condizioni.

Eppure durante gli anni continuò ad essere difficile per le donne palestinesi garantirsi un lavoro. Negli anni ’90, dopo la caduta dell’Unione Sovietica, circa un milione di ebrei russi immigrarono in Israele. La maggioranza di questi immigrati era in possesso di titoli di studio superiori ed ottenne lavori come medico e infermiere. Arabi istruiti con professionalità simili vennero sostituiti. Nel contempo russi non qualificati, soprattutto donne, vennero impiegati nelle pulizie, negli alberghi e come operai, portando a licenziamenti generalizzati delle donne palestinesi che avevano occupato quei posti per decenni.

Anche il trattato di pace tra Israele e la Giordania del 1994 contribuì all’emarginazione economica delle donne palestinesi. L’accordo aprì le porte agli investimenti israeliani in Giordania, spingendo Israele ad aprire molte fabbriche là, così come in Egitto. Molte donne palestinesi persero il loro lavoro in fabbrica in Israele, soprattutto nel ramo tessile e dell’abbigliamento, e le possibilità di lavoro in questo settore diminuirono. Alla metà degli anni ’90 il numero di donne palestinesi che lavoravano nelle fabbriche tessili israeliane scese da 10.700 a 1.700. Inoltre Israele accolse migliaia di lavoratori stranieri a lavorare nei settori agricoli e delle costruzioni, portando a una riduzione nella percentuale di lavoratori palestinesi in questi settori, soprattutto donne che svolgevano lavori agricoli stagionali.

Più istruite, ma ancora disoccupate

Dopo la guerra del 1967 l’immigrazione di migliaia di contadini palestinesi nelle città israeliane per lavorare ebbe un significativo impatto sulla struttura dei villaggi e delle famiglie arabi. L’esproprio delle terre da parte di Israele e la trasformazione dei palestinesi in forza lavoro a buon mercato fece sì che le famiglie estese perdessero il proprio sostentamento nell’agricoltura. Le grandi famiglie palestinesi si urbanizzarono e si frammentarono, e le famiglie nucleari divennero più frequenti.

Questi cambiamenti influirono sui rapporti economici e sociali dei palestinesi, compresi i loro atteggiamenti nei confronti dell’educazione delle donne. L’educazione delle ragazze e delle donne diventò più frequente in quanto la nuova generazione divenne più aperta ai concetti di libertà, uguaglianza sociale e ai diritti delle donne3 . E poiché i palestinesi di Israele compresero che l’istruzione era la strategia più importante per avere successo nella società, dopo la fine della legge marziale l’iscrizione di giovani arabi, comprese le donne, nelle università israeliane aumentò.

Allora donne palestinesi istruite fecero carriera, soprattutto nei campi dell’educazione e infermieristico, e contribuirono a fonti aggiuntive, e spesso primarie, di reddito per le loro famiglie. Di frequente lavoravano in scuole arabe come insegnanti, e col tempo dominarono la professione. E nel corso degli ultimi due decenni, le donne palestinesi in Israele si sono impiegate in molti ambiti lavorativi non tradizionali, tra cui il settore legale e giuridico, quello medico, le arti, la produzione cinematografica e l’ingegneria. L’indipendenza economica delle donne lavoratrici ha incentivato la consapevolezza da parte di altre di maggiori opportunità.

Tuttavia le lavoratrici palestinesi sono state l’eccezione piuttosto che la regola. Benché il tasso di impiego sia aumentato per le donne istruite, la partecipazione femminile palestinese nel mercato del lavoro israeliano non è stata commisurata al loro livello di istruzione. La loro percentuale di partecipazione è una delle più basse al mondo, di circa il 21%. Questo dato è rimasto pressoché costante per più di 20 anni, mentre nello stesso periodo quello delle donne ebree è aumentato – dal 47% nel 1990 al 59% nel 2016. L’attuale tasso per le donne ebree è uno dei più alti al mondo, superiore persino a quello degli Stati uniti, al 56%. Mentre i dati dell’ONU mostrano negli ultimi decenni un costante aumento della partecipazione femminile al lavoro salariato a livello globale, il modesto tasso di lavoro per le donne palestinesi in Israele racconta anche una storia diversa.

Ostacoli al lavoro delle donne palestinesi da parte dello Stato

L’incremento nelle assunzioni in ogni ordine di scuola tra le donne palestinesi in Israele dimostra che non sono solo la “cultura palestinese” o “l’Islam” che impediscono alle donne di ottenere un impiego, ma lo Stato israeliano.

Israele sottopone la propria minoranza palestinese a politiche discriminatorie che le negano, benché [si tratti di] cittadini israeliani, molte posizioni di alto livello, in molti casi per ragioni di “sicurezza”. Per esempio, istituzioni governative come la Banca Centrale di Israele, aeroporti e mezzi di comunicazione statali raramente assumono palestinesi. Inoltre, benché la legge israeliana per le pari opportunità vieti ai datori di lavoro discriminazioni sulla base del sesso, della razza o della religione contro chi si offre per un lavoro, le donne palestinesi che fanno domanda [di lavoro] si trovano di fronte a pregiudizi. Un velo da donna o un ebraico con un accento [arabo] sono spesso invocati come giustificazione per negare loro l’assunzione.

Israele continua anche a privare i palestinesi del loro ruolo nell’agricoltura, espropriando la loro terra e negando i sussidi governativi per i coltivatori. E i successivi governi israeliani hanno rifiutato lo sviluppo di città e villaggi arabi e continuano a perseguire politiche discriminatorie in termini di finanziamenti, pianificazione urbana, progetti di edilizia, trasporti pubblici e zone industriali che potrebbero fornire opportunità di lavoro.

Di conseguenza piccole città e villaggi arabi, i cui dirigenti sono anche noti per il malgoverno e la corruzione, soffrono a causa dello scarso sviluppo e pianificazione e per una limitata rete di trasporti, soprattutto nei nuovi quartieri, che spesso mancano di strade asfaltate e di servizi. Questa mancanza di mezzi di trasporto impedisce alle donne palestinesi di garantirsi un lavoro. Uno studio dell’organizzazione femminista “Kayan” ha mostrato che, mentre il numero di donne palestinesi in Israele che ottengono la patente di guida è in aumento, il 37% di chi ha risposto ha affermato di non poter comprare un’automobile per la mancanza di mezzi finanziari, e il 23% ha detto di non possedere una macchina a causa delle tradizioni e delle barriere sociali. Per esempio, le donne druse hanno il divieto di guidare per ragioni religiose, benché alcune di loro abbiano sfidato questo divieto e guidino automobili.

Anche la grave carenza di asili-nido nelle zone palestinesi impedisce alle donne di entrare nel mercato del lavoro. In effetti solo 25 asili finanziati dal governo operano nelle zone arabe di Israele, mentre in quelle ebraiche ce ne sono 16.000.

Persino quando lavorano, le donne palestinesi patiscono di una differenza di stipendio e di una doppia discriminazione, in quanto vivono in una società maschilista che inoltre discrimina gli arabi a favore degli ebrei. Benché la legge israeliana preveda salari uguali sul lavoro, tutte le donne in Israele guadagnano il 15% in meno rispetto agli uomini, e i cittadini palestinesi maschi di Israele guadagnano stipendi dimezzati rispetto ai loro colleghi ebrei per lo stesso lavoro.

Queste varie difficoltà obbligano molte donne palestinesi a rimanere a casa e ad occuparsi dei loro figli piuttosto che cercare un lavoro nella sfera pubblica.

Il ruolo del patriarcato

Come altre società industrializzate, Israele è patriarcale, basato sull’idea della superiorità maschile. Questo si può vedere nella separazione tra il privato ed il pubblico e nella differenza di stipendio tra uomini e donne.

Sia nella società ebraica che in quella palestinese atteggiamenti patriarcali riguardo al ruolo della donna e al lavoro fuori casa stanno cambiando. Tuttavia un cambiamento formale è stato evidente solo tra le donne ebree israeliane. Il patriarcato israeliano non ha impedito alle donne ebree di raggiungere uno dei più alti indici del mondo nella partecipazione al lavoro, mentre quella delle donne palestinesi rimane bassa.

La grande maggioranza della società araba appoggia una maggiore istruzione e il diritto al lavoro delle donne, benché questo appoggio si riduca in qualche misura tra quelle che si identificano con la religione, indipendentemente da quale essa sia. Eppure persino il “Movimento Islamico” in Israele, tradizionalmente accusato di conservatorismo riguardo alle donne, ha sottolineato l’importanza dell’educazione femminile. La sezione settentrionale del movimento, messa fuori legge da Israele, appoggia l’educazione delle donne anche se continua a isolare ragazzi e ragazze e a costruire scuole separate per le ragazze.

Cambiamenti nella cultura patriarcale palestinese sono stati più rapidi e più complessivi tra la gente della Galilea [nel nord di Israele, ndt.], tra i cristiani e tra le donne che si definiscono laiche. Le donne cristiane partecipano al mercato del lavoro con una percentuale del 45%, contro il 23,9% delle donne musulmane. Questa differenza può essere attribuita al fatto che la maggioranza delle donne cristiane vive nelle città, dove le donne trovano maggiori opportunità di lavoro rispetto a quelle che vivono in periferia o nei villaggi. I membri della comunità cristiana iscrivono inoltre i propri figli nei corsi scolastici superiori più dei loro omologhi musulmani ed ebrei, tendono a sposarsi più tardi e hanno il più basso livello di natalità dello Stato4 . Questi fattori, così come il fatto che le donne cristiane non sono sottoposte alle stesse restrizioni di quelle di altre religioni o che vivono in certe zone, come nel Naqab [Negev in arabo, ndt.], hanno contribuito a incrementare la loro partecipazione al mondo del lavoro.

Le donne beduine del sud del Naqab hanno il livello più basso di partecipazione tra le donne palestinesi, con solo il 6% della forza lavoro. La repressione israeliana dei beduini del Naqab, che sono circa 130.000, ossia l’11% della popolazione palestinese all’interno dello Stato, contribuisce a questa bassa percentuale.

La comunità beduina deve far fronte alla costante minaccia di deportazione e demolizione delle proprie case. Numerose leggi che potrebbero migliorare la condizione delle donne beduine, come il codice penale del 1977 che stabilisce una condanna a cinque anni per poligamia, non vengono applicate, e la poligamia tra gli uomini beduini è salita al 20-30%. Tuttavia l’istruzione delle donne sta aumentando nel Naqab, ed un crescente numero di donne beduine studentesse universitarie ed attiviste sta lavorando per aiutare le donne dal punto di vista sociale e a sfidare le politiche razziste dello Stato.

Sfide palestinesi al sistema israeliano

La società civile palestinese in Israele gioca un importante ruolo nell’appoggiare l’autonomia delle donne, anche organizzando campagne di sensibilizzazione, seminari e corsi di formazione per promuovere l’emancipazione femminile, così come pubblicando rapporti e ricerche sulle donne. Molte organizzazioni locali femminili, compresa l’organizzazione femminista “Kayan” di Haifa e “Donne contro la violenza” di Nazareth, si concentrano soprattutto sulla violenza contro le donne. Alcune organizzazioni israeliane operano all’interno della comunità palestinese sotto amministrazione palestinese, come “Shatil”, che appoggia le organizzazioni palestinesi che si concentrano sull’emancipazione delle donne, e organizzazioni dei diritti umani come il “Centro Mossawa” e “Adalah”.

Eppure i politici e le organizzazioni palestinesi in Israele concentrano le proprie azioni soprattutto su seminari, incontri e dichiarazioni. Raramente vengono proposti una politica pragmatica, un piano di azione specifico o un quadro inclusivo per coordinarsi tra i partiti. Ed anche quando è proposta una politica, tali iniziative in genere mancano di verifica. Questo è stato il caso della “Prospettiva futura degli arabo-palestinesi in Israele”, che è stata progettata da Ong e docenti universitari palestinesi in Israele. Il documento intende confermare i diritti storici della minoranza palestinese e chiede uno Stato inclusivo invece di uno “Stato democratico ebraico”.

Tuttavia alcuni parlamentari palestinesi alla Knesset [il parlamento israeliano, ndt.] stanno lavorando per migliorare la condizione delle donne palestinesi nel mercato del lavoro e per garantire loro l’applicazione delle leggi sul lavoro. Tra questi c’è la deputata Aida Toma-Suleiman [deputata palestinese cristiana eletta nella “Lista unitaria”, ndt.], del “Fronte Democratico per la Pace e l’Uguaglianza” [coalizione di sinistra marxista, ndt.], che spinge per l’applicazione delle leggi che garantiscono l’inclusione delle donne. Anche la “Lobby delle Donne in Israele” sta lavorando con un numero verde per ricevere lamentele di donne sottoposte a pratiche di lavoro illegale e per assisterle nei processi.

Alcuni deputati palestinesi maschi, compreso Massoud Ghanayem, della sezione meridionale del “Movimento Islamico”, condannano fermamente lo sfruttamento delle donne sul posto di lavoro. Chiedono protezione ed appoggio per le lavoratrici e un controllo più rigido sul lavoro. Sostengono anche diritti come lo stipendio minimo. L’ex-deputato Issam Makhoul [del “Fronte Democratico”, ndt.] ha affermato che il fatto che Toma-Suleiman sia a capo della commissione delle donne alla Knesset è un indicatore positivo ed importante dell’appoggio ai diritti delle donne palestinesi.

Gli ostacoli che si trovano di fronte le donne palestinesi in Israele necessitano di azione, soprattutto da parte di intellettuali, partiti e leader religiosi palestinesi per cambiare i preconcetti ed ampliare il ruolo e la partecipazione delle donne. Mentre si devono concentrare sull’appoggio all’emancipazione delle donne dalle strutture patriarcali che determinano il loro ruolo all’interno della famiglia, devono soprattutto lottare contro le politiche repressive e discriminatorie di Israele.

Cosa possono fare i palestinesi

Poiché l’ideologia e la prassi israeliane sono volte principalmente all’esclusione dei palestinesi, soprattutto delle donne, dal lavoro e dallo sviluppo in Israele, i palestinesi in Israele devono assumere un ruolo guida nella progettazione e messa in opera di strategie per migliorare la partecipazione delle donne nella sfera pubblica. Qui di seguito vengono fatte alcune raccomandazioni per l’azione.

  • I cittadini palestinesi devono organizzare campagne internazionali di pressione per spingere il governo israeliano a ottemperare ai suoi obblighi verso l’OECD [Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, organismo intergovernativo composto da 35 Paesi membri, ndt.] ed altre organizzazioni internazionali che prescrivono l’uguaglianza riguardo al sesso, alla razza o ad altri fattori.

  • L’”Alto Comitato di Controllo per i Cittadini Arabi di Israele” deve assumere un ruolo centrale come ente politico nazionale che rappresenta tutti i palestinesi in Israele e sviluppare meccanismi chiari ed integrati per affrontare l’emarginazione delle donne palestinesi nel mercato del lavoro. Deve anche condurre uno studio annuale dell’iniziativa “Prospettiva futura degli arabo-palestinesi di Israele” del 2006 per analizzare le dimensioni di questa messa in pratica e, se necessario, avanzare proposte ulteriori o alternative.

  • Le autorità locali palestinesi devono coordinarsi e collaborare per costruire reti di trasporti alternative ed aprire asili-nido nei villaggi e nelle città palestinesi.

  • La società civile e le organizzazioni dei diritti umani devono educare le donne sui loro diritti e su come affrontare le difficoltà e lo sfruttamento sul lavoro. Queste organizzazioni dovrebbero fornire aiuto legale alle donne presentando reclami e azioni legali nei casi di discriminazione e sfruttamento.

Altri passi possono essere intrapresi dai mezzi di comunicazione, da comunità e dai dirigenti palestinesi. Solo con simili azioni coordinate e integrate le donne palestinesi di Israele inizieranno a mettere in pratica il proprio potenziale e ad esercitare i propri diritti.

Notes:

  1. Al-Shabaka è grato per lo sforzo dei sostenitori dei diritti umani per la traduzione di questi testi, ma non è responsabile per eventuali modifiche del significato.

  2. Questo articolo è ricavato dalla tesi magistrale dell’autrice “Donne lavoratrici palestinesi in Israele,” Clark University, 2003, e da “Donne lavoratrici palestinesi in Israele: oppressione nazionale e restrizioni sociali”, Journal of Middle East Women’s Studies 8, 2 (Spring 2012): 78- 101.

  3. Anche la “Legge per l’obbligo scolastico di Israele” del 1949, che rende obbligatoria l’educazione per i bambini dai 5 ai 13 anni, ha aiutato a stimolare questo cambiamento.

  4. Le donne cristiane in Israele hanno una natalità di 2,2 rispetto al 3,5 delle musulmane e al 3 delle ebree.

Suheir Abu Oksa Daoud

Suheir Abu Oksa Daoud, membro di Al-Shabaka, ha un dottorato in scienze politiche dell’Università Ebraica di Gerusalemme ed è professore associato nel dipartimento di politiche alla “Coastal Carolina University”, Conway, South Carolina. E’ stata assistente ospite all’ “Harvey Mudd College”, borsista post dottorato al “Pomona College” e ricercatore in visita al “Center for Contemporary Arab Studies” alla “Georgetown University”. In precedenza ha lavorato come consulente di un parlamentare della Knesset. Daoud ha pubblicato quattro volumi di poesie e di letteratura arabe e il suo libro universitario “Palestinian Women and Politics in Israel” [Donne palestinesi e politica in Israele] è stato pubblicato nel 2009 dalla University of Florida Press. 

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Ripensare la nostra definizione di apartheid: non solo un regime politico

27 agosto 2017, Al-Shabaka

Haidar Eid, Andy Clarno

Sintesi

Poiché Israele intensifica il suo progetto di insediamenti coloniali, l’apartheid è diventato un quadro di riferimento sempre più importante per comprendere e contrastare il ruolo di Israele nella Palestina storica. Sicuramente, Nadia Hijab e Ingrid Jaradat Gassner sono convincenti nella loro affermazione che l’apartheid è la cornice analitica più strategica. Nel marzo 2017 la Commissione Economica e Sociale per l’Asia occidentale dell’ONU (ESCWA) ha pubblicato un possente rapporto che documenta le violazioni israeliane del diritto internazionale e conclude che Israele ha instaurato un “regime di apartheid” che opprime e domina l’intero popolo palestinese.

In base al diritto internazionale, l’apartheid è un crimine contro l’umanità e gli Stati possono essere resi responsabili delle proprie azioni. Tuttavia il diritto internazionale ha i suoi limiti. Un problema specifico riguarda ciò che manca nella definizione giuridica internazionale di apartheid. Poiché la definizione si incentra solamente sul regime politico, non fornisce una solida base per criticare gli aspetti economici dell’apartheid. Per affrontare questo problema, proponiamo una definizione alternativa di apartheid, che si è affermata durante la lotta in Sudafrica negli anni ’80 ed ha ottenuto consenso tra i militanti, a causa dei limiti della decolonizzazione in Sudafrica dopo il 1994 – una definizione che riconosce l’apartheid come strettamente connesso al capitalismo.

Questo documento politico esplicita in dettaglio ciò che il movimento di liberazione della Palestina può apprendere dalla situazione del Sudafrica, riconoscendo in particolare l’apartheid sia come sistema di discriminazione razziale legalizzata che come sistema di capitalismo basato sulla razza. Esso si conclude con dei suggerimenti su come i palestinesi possono contrastare questo doppio sistema per ottenere una pace giusta e duratura fondata sull’uguaglianza sociale ed economica.

La forza ed i limiti del diritto internazionale

La Convenzione Internazionale dell’ONU sull’eliminazione e la punizione del crimine di apartheid definisce l’apartheid come un crimine che implica “atti inumani compiuti al fine di stabilire e mantenere il dominio di un gruppo razziale di persone su ogni altro gruppo razziale di persone ed opprimerle sistematicamente.” Lo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale definisce l’apartheid come un crimine che implica “un regime istituzionalizzato di oppressione e dominazione sistematica da parte di un gruppo razziale su un altro o altri gruppi razziali.”

Sulla base di un’accurata lettura di questi statuti, il rapporto ESCWA analizza la politica israeliana in quattro ambiti. Documenta la discriminazione legale formale contro i palestinesi cittadini di Israele; il doppio sistema giuridico nei Territori Palestinesi Occupati (TPO); i fragili diritti di residenza dei palestinesi di Gerusalemme; il rifiuto israeliano di permettere ai rifugiati palestinesi di esercitare il diritto al ritorno. Il rapporto conclude che il regime di apartheid israeliano agisce attuando una frammentazione del popolo palestinese e il suo assoggettamento a differenti forme di dominio razziale.

La forza dell’analisi dell’apartheid è risultata evidente dal modo in cui gli USA ed Israele hanno reagito al rapporto. L’ambasciatore degli Stati Uniti all’ONU ha denunciato il rapporto e ha sollecitato il Segretario Generale ONU a respingerlo. Il Segretario generale ha fatto pressione su Rima Khalaf, capo dell’ESCWA, perché cancellasse il rapporto. Rifiutando di farlo, lei si è dimessa dal suo incarico.

L’importanza del rapporto ESCWA non può essere sopravvalutata. Per la prima volta un organismo dell’ONU ha affrontato formalmente la questione dell’apartheid in Palestina/Israele. Ed il rapporto ha preso in considerazione le politiche israeliane verso i palestinesi nel loro insieme, anziché incentrarsi su una parte della popolazione. Sollecitando gli Stati membri e le organizzazioni della società civile a far pressione su Israele, il rapporto ONU dimostra anche l’utilità del diritto internazionale come strumento per rendere responsabili regimi come Israele.

Tuttavia, pur riconoscendo l’importanza del diritto internazionale, formula delle critiche evidenziando i suoi limiti. Anzitutto, le leggi internazionali sono valide solo quando recepite ed applicate dagli Stati e la struttura gerarchica del sistema prevede un gruppo di Stati con potere di veto. La rapida cancellazione del rapporto ESCWA ha reso evidenti questi limiti. Inoltre c’è un problema più specifico relativamente alla definizione internazionale dell’apartheid come sopra riportata. Incentrandosi soltanto sul regime politico, la definizione giuridica non fornisce una solida base di critica agli aspetti economici dell’apartheid e sicuramente spiana la strada ad un futuro post-apartheid in cui prevale la discriminazione economica.

Il capitalismo su base razziale e i limiti della liberazione del Sudafrica

Negli anni ’70 e ’80 i neri sudafricani si impegnarono in vivaci dibattiti sul come interpretare il sistema di apartheid contro cui combattevano. Il gruppo più potente all’interno del movimento di liberazione – l’African National Congress (ANC) ed i suoi alleati – sosteneva che l’apartheid fosse un sistema di dominazione razziale e che la lotta dovesse concentrarsi sull’eliminazione delle politiche razziali e sulla richiesta di uguaglianza in base alla legge. I neri radicali rifiutavano questa analisi. Il dialogo tra il Movimento della Coscienza Nera ed i marxisti indipendenti portò ad una definizione alternativa di apartheid come sistema di “capitalismo sulla base della razza”. I neri radicali insistevano che la lotta dovesse affrontare contemporaneamente lo Stato ed il sistema capitalistico su base razziale. Prevedevano che, se non fossero stati combattuti sia il razzismo che il capitalismo, il Sudafrica del dopo apartheid sarebbe rimasto diviso e iniquo.

La transizione degli ultimi 20 anni ha dato ragione a questa tesi. Nel 1994 l’apartheid legale fu abolito e i neri sudafricani hanno conquistato l’uguaglianza per legge – compreso il diritto al voto, a vivere in qualunque luogo ed a spostarsi senza permessi. La democratizzazione dello Stato è stata una notevole conquista. Certo, la transizione sudafricana dimostra la possibilità di coesistenza pacifica sulla base dell’uguaglianza giuridica e del reciproco riconoscimento. Questo è ciò che rende il Sudafrica così convincente per molti palestinesi e alcuni israeliani che cercano un’alternativa alla frammentazione ed al fallimento di Oslo.

Nonostante la democratizzazione dello Stato, la transizione sudafricana non ha preso in considerazione le strutture del capitalismo sulla base della razza. Nel corso dei negoziati, l’ANC fece importanti concessioni per ottenere l’appoggio dei bianchi sudafricani e dell’elite capitalista. Soprattutto, l’ANC accettò di non nazionalizzare la terra, le banche e le miniere ed invece accettò garanzie costituzionali per la distribuzione della proprietà privata vigente – nonostante la storia di spoliazione coloniale. Inoltre il governo dell’ANC adottò una strategia economica neoliberista, promuovendo il libero commercio, l’industria per l’esportazione e la privatizzazione delle imprese statali e dei servizi municipali. Il risultato è che il Sudafrica post-apartheid è uno dei Paesi più ineguali al mondo.

La ristrutturazione neoliberista ha fatto emergere una piccola élite nera ed una crescente classe media nera in alcune parti del Paese. Ma la vecchia élite bianca controlla ancora la gran maggioranza della terra e della ricchezza in Sudafrica. La deindustrializzazione e la quota crescente di popolazione costretta a contare su lavori precari ha indebolito il movimento dei lavoratori, intensificato lo sfruttamento della classe lavoratrice nera e prodotto una crescente sovrappopolazione su base razziale che soffre di una permanente disoccupazione strutturale. Il tasso di disoccupazione raggiunge il 35%, se si includono coloro che hanno rinunciato a cercare lavoro. In certe zone il tasso di disoccupazione supera il 60% ed i lavori disponibili sono precari, a breve termine e a bassi salari. (1)

I neri poveri si confrontano anche con una grave carenza di terre e di abitazioni. Invece di ridistribuire le terre, il governo dell’ANC ha adottato un programma basato sul mercato attraverso cui lo Stato aiuta i clienti neri ad acquistare terre di proprietà di bianchi. Questo ha dato avvio al sorgere di una piccola classe di ricchi proprietari terrieri neri, ma solo il 7,5% della terra sudafricana è stata ridistribuita. Di conseguenza, la maggior parte dei neri sudafricani resta senza terra e le élite bianche continuano ad avere la proprietà della maggior parte della terra. Analogamente, il crescente costo delle case ha moltiplicato il numero di persone che vivono in baracche, edifici occupati e sistemazioni informali, nonostante i sussidi statali e le garanzie costituzionali riguardo al diritto ad una casa decente.

Nel Sudafrica del post-apartheid la razza continua a determinare un accesso ineguale alla casa, all’educazione e al posto di lavoro. Modella anche la rapida crescita della sicurezza privata. Approfittando dei timori razziali riguardo alla criminalità, la sicurezza privata ha costituito l’industria cresciuta più rapidamente in Sudafrica dagli anni ’90. Le compagnie di sicurezza private e le associazioni di abitanti facoltosi hanno trasformato le periferie storicamente bianche in comunità fortificate, caratterizzate da muri intorno alle proprietà private, cancellate che circondano i quartieri, sistemi d’allarme, pulsanti antipanico, servizi di sorveglianza, pattuglie di quartiere, video sorveglianza e squadre armate di intervento rapido. Questi sistemi privatizzati di sicurezza residenziale si basano sulla violenza e sulla categorizzazione su base razziale che prende di mira i neri e i poveri.

Secondo il diritto internazionale, l’apartheid si estingue con la trasformazione dello Stato razzista e l’eliminazione della discriminazione razziale legalizzata. Eppure anche un esame superficiale del Sudafrica dopo il 1994 rivela i tranelli di tale approccio e segnala l’importanza di ripensare le nostre definizioni di apartheid. L’uguaglianza giuridica formale non ha prodotto una reale trasformazione sociale ed economica. Al contrario, il neoliberismo del capitalismo su base razziale ha consolidato l’ineguaglianza creata da secoli di colonizzazione e apartheid. La razza resta una forza motrice dello sfruttamento e dell’abbandono, nonostante la vernice liberale dell’uguaglianza giuridica. Le lodi del governo guidato dall’ANC cercano di nascondere l’impatto del capitalismo neoliberista su base razziale nel Sudafrica dopo il 1994.

Le critiche all’apartheid israeliana hanno ampiamente ignorato i limiti della trasformazione in Sudafrica. Invece di considerare l’apartheid un sistema di capitalismo basato sulla razza, la maggior parte delle critiche all’apartheid israeliano si basa sulla definizione giuridica internazionale di apartheid come sistema di dominazione razziale. Certamente queste critiche sono state molto produttive. Hanno affinato l’analisi del governo israeliano, contribuito allo sviluppo delle campagne di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (BDS) e fornito una base giuridica agli sforzi per rendere Israele responsabile [delle sue azioni]. L’importanza del diritto internazionale in quanto risorsa per le comunità in lotta non deve essere sminuita.

Ma l’analisi e l’organizzazione possono andare anche oltre, considerando l’apartheid un sistema di capitalismo sulla base della razza, piuttosto che basandosi così rigidamente sulle definizioni giuridiche internazionali. Attribuendo un valore differente alle vite ed al lavoro delle persone, i regimi di capitalismo su base razziale intensificano lo sfruttamento, esponendo i gruppi marginalizzati alla morte precoce, all’abbandono o all’eliminazione. Quindi il concetto di capitalismo su base razziale evidenzia la contemporanea costituzione dell’accumulazione di capitale e della cultura razziale e afferma che non è possibile eliminare sia la dominazione razziale che la disuguaglianza di classe senza combattere il sistema nel suo complesso.

Considerare l’apartheid come un sistema di capitalismo sulla base della razza ci permette di prendere seriamente in considerazione i limiti della liberazione in Sudafrica. Lo studio del successo della lotta sudafricana è stato molto produttivo per il movimento di liberazione palestinese; anche comprendere i suoi limiti può rivelarsi produttivo. Anche se i neri sudafricani hanno conquistato l’uguaglianza giuridica formale, la mancata attenzione agli aspetti economici dell’apartheid ha posto seri limiti alla decolonizzazione. In una parola, l’apartheid non è finito – è stato ristrutturato. Basarsi troppo strettamente sulla definizione giuridica internazionale di apartheid potrebbe condurre a problemi simili nel percorso in Palestina. Solleviamo questa questione come monito preventivo, nella speranza che possa contribuire allo sviluppo di strategie per contrastare contemporaneamente il razzismo ed il capitalismo neoliberista di Israele.

Il capitalismo sulla base della razza in Palestina/Israele

Vedere l’apartheid da questo punto di vista ci permette anche di comprendere che il colonialismo da insediamento israeliano ora agisce attraverso il capitalismo neoliberista su base razziale. Negli ultimi 25 anni Israele ha intensificato il suo progetto coloniale sotto l’apparenza della pace. Tutta la Palestina storica continua ad essere soggetta alla dominazione israeliana, che lavora ad una frammentazione della popolazione palestinese. (Gli accordi di) Oslo hanno messo Israele in grado di frammentare ulteriormente i Territori Palestinesi Occupati e di integrare il dominio militare diretto con elementi di dominazione indiretta. La Striscia di Gaza è stata trasformata in un “campo di concentramento” e in una specie di “riserva indiana” attraverso un assedio mortale e medievale, descritto da Richard Falk come una “preludio al genocidio” e da Ilan Pappe come un “ genocidio progressivo”. In Cisgiordania la nuova strategia coloniale israeliana consiste nel concentrare la popolazione palestinese nelle aree A e B e colonizzare l’area C. Invece di garantire ai palestinesi libertà ed uguaglianza, Oslo ha ristrutturato i rapporti di dominio. In breve, Oslo ha intensificato, invece di invertirlo, il progetto coloniale israeliano.

La riorganizzazione della dominazione israeliana è proceduta di pari passo alla ristrutturazione neoliberista dell’economia. A partire dagli anni ’80 Israele ha messo in atto una profonda trasformazione da un’economia statale incentrata sul consumo interno ad un’economia imprenditoriale integrata nei circuiti del capitale globale. La ristrutturazione neoliberista ha prodotto grandi profitti d’impresa smantellando al contempo il welfare, indebolendo il movimento dei lavoratori ed aumentando le disuguaglianze. I negoziati di Oslo sono stati un perno di questo progetto. Shimon Peres e l’élite imprenditoriale israeliana hanno sostenuto che il “processo di pace” avrebbe aperto i mercati del mondo arabo al capitale statunitense ed israeliano e favorito l’integrazione di Israele nell’economia globale. (2) Dopo Oslo, Israele ha subito sottoscritto accordi di libero commercio con Egitto e Giordania.

La ristrutturazione neoliberista ha permesso ad Israele di condurre la sua nuova strategia coloniale riducendo in modo significativo la sua dipendenza dalla forza lavoro palestinese. La transizione israeliana verso un’economia ad alta tecnologia ha ridotto la domanda di lavoratori industriali ed agricoli. Gli accordi di libero scambio hanno permesso alle aziende israeliane di trasferire la produzione dai terzisti palestinesi alle aree di produzione per l’esportazione nei Paesi vicini. Il crollo dell’Unione Sovietica seguito dalla “dottrina shock” neoliberista ha spinto oltre un milione di ebrei russi a cercare nuove opportunità in Israele. E la ristrutturazione neoliberista su scala globale ha portato all’immigrazione di 300.000 lavoratori dall’Asia e dall’Europa dell’est. Questi gruppi ora si contendono con i palestinesi i posti di lavoro con bassi salari che sono rimasti. Quindi lo Stato colonialista ha usato la ristrutturazione neoliberista per programmare la flessibilità [come manodopera] della popolazione palestinese.

La vita per i palestinesi della classe lavoratrice è diventata sempre più precaria. Con l’accesso limitato al lavoro in Israele, la povertà e la disoccupazione sono aumentate vertiginosamente nelle enclave palestinesi. Benché l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) abbia sempre appoggiato l’impostazione neoliberista di un’economia a conduzione privata, orientata all’esportazione e al libero mercato, inizialmente ha reagito alla crisi occupazionale creando migliaia di posti di lavoro nel settore pubblico.

Tuttavia a partire dal 2007 l’ANP ha seguito un programma economico rigidamente neoliberista che implica tagli al pubblico impiego ed un’espansione degli investimenti del settore privato. A dispetto di questi piani, il settore privato rimane debole e frammentato. I progetti di aree industriali lungo il muro illegale di Israele, che si snoda attraverso i Territori Palestinesi Occupati, sono ampiamente falliti a causa delle restrizioni israeliane all’importazione e all’esportazione e del costo relativamente alto della forza lavoro palestinese in confronto a quella di Egitto e Giordania.

Benché le politiche neoliberiste abbiano reso la vita sempre più difficile per la classe lavoratrice palestinese, hanno però contribuito allo sviluppo di una piccola élite palestinese nei TPO, composta da dirigenti dell’ANP, capitalisti palestinesi e funzionari di ONG. Chi visita Ramallah è spesso sorpreso di vedere palazzi sontuosi, ristoranti di lusso, alberghi a cinque stelle e automobili di lusso. Non sono indicatori di un’economia prospera, ma piuttosto di una crescente divisione di classe. Analogamente è emersa a Gaza dal 2006 una nuova borghesia legata ad Hamas. La sua ricchezza deriva dalla declinante “industria dei tunnel”, un monopolio sui materiali edili contrabbandati dall’Egitto e sui limitati prodotti importati da Israele. Le élite sia di Fatah che di Hamas accumulano le proprie ricchezze da attività non produttive e sono caratterizzate dalla totale assenza di strategia politica . Haidar Eid definisce tutto questo ‘Oslizzazione’ in Cisgiordania e ‘Islamizzazione’ nella Striscia di Gaza.

Inoltre, arruolarsi delle forze di repressione è diventata una delle rare opportunità di lavoro disponibili per la maggioranza dei palestinesi, soprattutto dei giovani. Anche se alcuni degli impieghi presso l’ANP sono nel campo dell’educazione e della sanità, la maggior parte sono nelle forze di sicurezza. Come ha dimostrato Alaa Tartir (direttore del programma di Al-Shabaka, ndtr.), queste forze hanno il compito di proteggere la sicurezza di Israele. Dal 2007 sono state riorganizzate sotto la supervisione degli Stati Uniti. Con oltre 80.000 effettivi, le nuove forze di sicurezza dell’ANP sono addestrate dagli USA in Giordania e dispiegate in tutte le enclave della Cisgiordania in stretto coordinamento con le forze militari israeliane. Israele e l’ANP condividono i servizi di intelligence, coordinano gli arresti e collaborano nel sequestro di armi. Prendono di mira congiuntamente non solo islamisti e militanti di sinistra, ma tutti i palestinesi che criticano Oslo. Ultimamente, il coordinamento per la sicurezza tra Israele e l’ANP ha preceduto l’assassinio dell’attivista Basil Al-Araj [militante, scrittore e farmacista ucciso dalle forze israeliane nel marzo 2017, ndt].

L’unico settore dell’economia israeliana dove si è mantenuta una domanda relativamente stabile di lavoratori palestinesi è quello dell’edilizia, soprattutto in seguito all’espansione delle colonie israeliane ed alla costruzione del muro in Cisgiordania. Secondo una ricerca del 2011 di “Democracy and Workers’Rights” [organizzazione non governativa indipendente palestinese, ndtr.], l’82% dei palestinesi impiegati nelle colonie lascerebbero il loro lavoro se trovassero un’ alternativa conveniente.

Ciò significa che due degli unici lavori disponibili per i palestinesi della Cisgiordania oggi sono costruire insediamenti sulle terre palestinesi confiscate o lavorare nelle forze di sicurezza dell’ANP per aiutare Israele a sopprimere la resistenza palestinese all’apartheid.

I palestinesi della Striscia di Gaza non hanno nemmeno queste “opportunità”. Infatti Gaza è una delle forme più estreme di disponibilità pianificata. L’espulsione colonialista ha trasformato Gaza in un campo profughi nel 1948, quando le milizie sioniste e poi l’esercito israeliano espulsero oltre 750.000 palestinesi dalle loro città e villaggi. Il 70% dei due milioni di residenti di Gaza sono rifugiati, un ricordo vivente della Nakba ed incarnazione vivente del diritto al ritorno. La ristrutturazione politica ed economica attraverso Oslo ha permesso ad Israele di trasformare Gaza in una prigione costruita per concentrare e contenere questo indesiderato surplus di popolazione. E l’assedio sempre più stretto dimostra la completa disumanizzazione di Gaza. Per il progetto coloniale neoliberista di Israele le vite dei palestinesi non valgono niente e le loro morti non hanno importanza.

Nel complesso quindi, il neoliberismo abbinato al progetto coloniale israeliano ha trasformato i palestinesi in una popolazione da eliminare. Ciò ha consentito ad Israele di attuare il suo progetto di concentrazione e colonizzazione. Comprendere le dinamiche neoliberiste del regime coloniale israeliano può contribuire allo sviluppo di strategie per combattere l’apartheid israeliano non solo come sistema di dominazione razzista, ma come regime di capitalismo basato sulla razza.

Affrontare la natura economica dell’apartheid israeliano.

Una questione importante per il movimento di liberazione palestinese è come evitare le trappole del post apartheid sudafricano, sviluppando una strategia per il post apartheid palestinese-israeliano. Come avevano predetto i neri radicali, un’attenzione esclusiva verso lo Stato razzista ha condotto a gravi problemi socioeconomici in Sudafrica a partire dal 1994. La liberazione palestinese non deve cadere nella stessa “soluzione” offerta dall’ANC. Ciò richiederà di porre attenzione non solo ai diritti politici, ma anche alle spinose questioni relative alla ridistribuzione delle terre ed alla struttura economica, per garantire un risultato più equo. Un cruciale punto di partenza è continuare le discussioni sulle dinamiche concrete del ritorno dei palestinesi.

E’ importante anche riconoscere che la situazione attuale in Palestina è strettamente legata ai processi che stanno rimodellando i rapporti sociali a livello mondiale. Il Sudafrica e la Palestina, per esempio, stanno affrontando cambiamenti sociali ed economici simili, a prescindere dai loro percorsi politici radicalmente differenti. In entrambi i contesti il capitalismo neoliberista su base razziale ha prodotto disuguaglianze estreme, emarginazione razziale e strategie all’avanguardia per proteggere i potenti e sorvegliare i poveri in base alla razza. Andy Clarno definisce questa combinazione ‘apartheid neoliberista’.

In tutto il mondo, la ricchezza ed il reddito sono sempre più sotto il controllo di un pugno di capitalisti miliardari. Mentre cede il terreno sotto i piedi della classe media, la forbice tra ricchi e poveri si allarga sempre più e le vite dei più poveri diventano sempre più precarie. La ristrutturazione neoliberista ha permesso ad alcuni strati della popolazione storicamente oppressa di entrare nei ranghi delle élite. Questo spiega l’emergere della nuova élite palestinese nei Territori Occupati e della nuova élite nera in Sudafrica.

Al tempo stesso, la ristrutturazione neoliberista ha approfondito l’emarginazione dei poveri su base razziale, intensificando sia lo sfruttamento che l’abbandono. I lavori sono diventati sempre più precari ed intere regioni hanno visto una caduta della domanda di forza lavoro. Mentre alcune popolazioni connotate dalla razza sono afflitte da un supersfruttamento nelle fabbriche e nel settore dei servizi, altre – come i palestinesi – sono destinate ad una vita di disoccupazione e di precarietà.

I regimi di apartheid neoliberista come Israele dipendono da avanzate strategie sicuritarie per mantenere il potere. Israele esercita la sovranità sui TPO mediante operazioni militari, sorveglianza elettronica, incarcerazioni, interrogatori e tortura. Lo Stato ha anche creato una geografia frammentata di zone palestinesi isolate, circondate da muri e checkpoints e gestite con chiusure e permessi. E le imprese israeliane sono all’avanguardia nel mercato globale degli impianti avanzati di sicurezza, sviluppando e testando nei TPO i dispositivi di alta tecnologia. Tuttavia il maggior apporto al regime sicuritario israeliano è una rete di forze di sicurezza agevolata da USA e UE, sostenuta da Giordania ed Egitto e messa in atto da operazioni coordinate di forze militari israeliane e della sicurezza dell’ANP.

Al pari di Israele, altri regimi di apartheid neoliberista si basano su muri di recinzione, forze di sicurezza private e statali e strategie di controllo basate su criteri razziali. In Sudafrica il sistema della sicurezza ha implicato la costruzione di mura attorno ai quartieri abbienti, la rapida espansione dell’industria della sicurezza e la dura repressione statale di sindacati indipendenti e movimenti sociali. Negli Stati Uniti gli sforzi per garantire sicurezza ai potenti includono comunità blindate, muri di confine, incarcerazioni e deportazioni di massa, sorveglianza elettronica, guerre con i droni e il rapido incremento di polizia, carceri, pattuglie di confine, forze militari e di intelligence.

A differenza del Sudafrica, Israele continua ad essere un aggressivo Stato coloniale. In tale contesto, il neoliberismo è parte della strategia coloniale israeliana per eliminare la popolazione palestinese. Ma la combinazione di dominazione razziale e capitalismo neoliberista ha prodotto crescente disuguaglianza, emarginazione razziale e sistemi avanzati di sicurezza in molte parti del mondo. Poiché i movimenti e i militanti creano connessioni tra le lotte contro la povertà e la militarizzazione in Palestina, Sudafrica, USA ed altrove, la considerazione dell’apartheid israeliano come una forma di capitalismo su base razziale potrebbe contribuire all’espansione dei movimenti contro l’apartheid neoliberista globale. Potrebbe anche favorire lo spostamento del discorso politico in Palestina dall’indipendenza alla decolonizzazione. Nella sua fondamentale opera ‘The wretched of the earth’ [ed. italiana: “I dannati della terra”, Einaudi, ndtr.], Frantz Fanon sostiene che una delle trappole della coscienza nazionale è un movimento di liberazione che porti ad uno Stato indipendente governato da un’élite nazionalista che riproduca il potere coloniale. Per evitare che ciò accada, Fanon auspica un passaggio dalla coscienza nazionale alla coscienza politica e sociale. Passare dall’indipendenza politica alla trasformazione sociale e alla decolonizzazione è la sfida che sta di fronte al Sudafrica post apartheid. Evitare questa trappola è una sfida che oggi devono affrontare le forze politiche palestinesi nella lotta per la liberazione.

Note:

1. Intervista al direttore dell’ Alexandra Renewal Project, Johannesburg, Sudafrica, agosto 2012.

  1. Shimon Peres, The new Middle East [Il nuovo Medio Oriente, ndt.] (New York: Henry Holt, 1993)

Haidar Eid

Il consulente politico di Al-Shabaka Haidar Eid è professore associato di Letteratura postcoloniale e postmoderna all’università al-Aqsa di Gaza. Ha scritto molto sul conflitto arabo-israeliano, compresi articoli pubblicati su Znet, Electronic Intifada, Palestine Chronicle e Open Democracy. Ha pubblicato scritti sugli studi culturali e la letteratura in parecchie riviste, comprese Nebula, Journal of American Studies in Turkey, Cultural Logic e Journal of Comparative Literature. E’ autore di “Worlding Postmodernism: Interpretive Possibilities of critical theory” [Postomodernismo mondiale: possibilità interpretative di una teoria critica, ndt.] e di “Countering the palestinian Nakba: one state for all” [Contrastare la Nakba palestinese: uno Stato per tutti, ndt.] .

Andy Clarno

Andy Clarno è professore assistente di Sociologia e Studi afroamericani e direttore ad interim dell’Istituto di giustizia sociale all’università dell’Illinois di Chicago. Il suo ambito di ricerca riguarda il razzismo, il capitalismo, il colonialismo e l’imperialismo agli inizi del XXI secolo. Il suo nuovo libro, “Neoliberal Apartheid” [Apartheid neoliberista, ndt.] (University of Chicago Press, 2017), analizza i cambiamenti politici, economici e sociali in Sudafrica e Palestina/Israele dal 1994. Si occupa dei limiti della liberazione in Sudafrica, evidenzia l’impatto della ristrutturazione neoliberista in Palestina/Israele e sostiene che in entrambe le regioni è emersa una nuova forma di apartheid neoliberista.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




La politica miope di Abbas a Gaza

Tareq Baconi – 6 luglio 2017,Al-Shabaka

I tentativi del leader dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) Mahmoud Abbas di accentuare l’isolamento di Hamas – tagliando i salari e poi l’energia elettrica alla Striscia di Gaza – rispecchiano le dinamiche regionali nell’era Trump. L’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti, il Bahrain e l’Egitto si sono tutti mobilitati per isolare il Qatar, un importante investitore nella Striscia di Gaza e un sostenitore della Fratellanza Musulmana in Egitto e di Hamas a Gaza.

La crisi elettrica a Gaza è stata scongiurata, con un voltafaccia ironico, dalla volontà del presidente egiziano Abdel Fattah el-Sisi di fornire carburante alla centrale elettrica di Gaza come misura temporanea nonostante le proteste di Abbas. La decisione è stata mediata da Mohammed Dahlan, storicamente nemico di Hamas, non da ultimo per il suo tentativo di togliere dal potere Hamas in seguito alla sua [di Hamas] vittoria nelle elezioni democratiche.

La maldestra strategia di Abbas

Abbas rimane legato al presupposto del blocco di Gaza, in atto dal 2007: questo crescente isolamento di Hamas e le sofferenze dei palestinesi di Gaza destabilizzeranno il governo di Hamas e provocheranno la ribellione dei palestinesi contro il movimento – anche se ciò dovesse portare a un “collasso totale”, come le organizzazioni per i diritti umani hanno definito la riduzione di elettricità.

Questa logica suppone che l’ANP sarebbe in grado di assumere l’amministrazione della Striscia di Gaza una volta che il potere di Hamas venisse indebolito. Ciò è improbabile per due ragioni:

  • Israele trae vantaggio dalla divisione geografica e politica nei territori palestinesi ed ha minato precedenti tentativi di unità, anche con un intervento militare. L’accordo di Shati [campo profughi nella Striscia di Gaza, ndt.] del 2014 tra Hamas e Fatah è stato una delle ragioni dell’attacco militare israeliano contro la Striscia di Gaza di quell’anno.

  • Il ritorno dell’ANP a Gaza implicherebbe una ripresa del coordinamento per la sicurezza con Israele. Perché ciò avvenga, Hamas dovrebbe disarmare. Ciò è improbabile persino con un ulteriore isolamento , in quanto ciò provocherebbe uno scontro esistenziale per Hamas, che potrebbe preparare la strada a un altro episodio di guerra civile armata.

Implicazioni delle ultime iniziative di Abbas

  • Esse dimostrano la volontà di Abbas di adottare la logica della punizione collettiva su cui poggia il blocco e di perpetuare le sofferenze di due milioni di palestinesi per interessi di fazione. Ciò è moralmente condannabile per un presunto leader della lotta dei palestinesi.

  • Istituzionalizzano le divisioni tra Gaza e la Cisgiordania, e portano Gaza ad avvicinarsi all’Egitto, aiutando a realizzare la politica israeliana di divide et impera nei territori palestinesi.

  • Creano una possibilità di alleanza tra Dahlan [ex-dirigente di Fatah a Gaza, espulso prima dalla Striscia insieme ai militanti del movimento e poi da Fatah ed attualmente in esilio, ndt.] e Hamas e un’opportunità per Dahlan di rientrare nel contesto politico palestinese, portando con sé la sua volontà di vedere la lotta palestinese attraverso le lenti della sicurezza imposte dagli USA e da Israele.

Cosa possono fare i palestinesi

  • Chiedere conto alla dirigenza della Cisgiordania del fatto che utilizzi i palestinesi di Gaza come pedine del gioco politico, mettendo in luce l’illegalità del blocco come una continuazione dell’occupazione e una forma di punizione collettiva. In particolare i palestinesi dovrebbero chiedere, e ricordare, alla leadership in Cisgiordania che sono responsabili di tutti i palestinesi, compresi quelli di Gaza.

  • Spingere per misure economiche che riducano la crisi umanitaria a Gaza chiedendo al contempo una soluzione politica del conflitto in termini complessivi.

  • Garantire che ogni misura riavviata per affrontare l’impasse tra palestinesi ed israeliani non lasci ai margini la Striscia di Gaza o la presenti come un semplice problema umanitario che può essere gestito dall’Egitto o da un’autorità di autogoverno locale.

TareqBaconi

Tareq G. Baconi è un collaboratore politico di Al-Shabaka che risiede negli USA. Il suo libro in uscita, “Hamas: le politiche di resistenza, consolidamento a Gaza” sta per essere pubblicato dalla Stanford University Press. Tareq ha conseguito un dottorato in relazioni internazionali al Kings College di Londra, che ha completato insieme a un’attività di consulente energetico. Ha anche ottenuto titoli all’università di Cambridge (Relazioni internazionali) e all’Imperial College di Londra (Ingegneria chimica). Tareq è ricercatore associato presso “US Middle East Project [Progetto USA per il Medio Oriente, un istituto di analisi politica indipendente sul Medio oriente con sedi a New York e a Londra, ndt.]. I suoi scritti sono apparsi su Foreign Affairs, Sada: Carnegie Endowment for International Peace, The Guardian, The Huffington Post, The Daily Star, Al Ghad e Open Democracy.

(traduzione di Amedeo Rossi)