Sempre più sionisti stanno infine ammettendo l’apartheid israeliano, ma poi cosa succede?

Jonathan Ofir

14 agosto 2023 – Mondoweiss

Il generale israeliano in pensione Amiram Levin e il giornalista sudafricano Benjamin Pogrund sono gli ultimi a intervenire sull’apartheid israeliano. Adesso sorge la domanda: che cosa intendono fare in proposito?

Ora che vi è consenso all’interno della comunità dei diritti umani sul fatto che Israele sia uno Stato di apartheid, molti incominciano ad ammetterlo, persino alcuni insigni israeliani e apologeti di Israele. Ma anche se affermano ciò che è evidente, cercano comunque di limitare il danno e al tempo stesso di celare la propria personale responsabilità e provare a circoscrivere i possibili rimedi.

E’ cominciato forse all’inizio di quest’anno, quando lo storico giornalista israeliano di centro Ron Ben Yishai ha messo in guardia dall’incombente apartheid come il principale obbiettivo delle riforme giudiziarie dell’attuale governo. Ora il generale israeliano in pensione Amiram Levin ha rilasciato un’intervista alla radio Kan in Israele in cui ha fatto riferimento al “totale apartheid” nella Cisgiordania occupata:

Da 56 anni non vi è democrazia. Vige un totale apartheid. L’IDF (esercito israeliano), che è costretto a gestire il potere in quei luoghi, è in disfacimento dall’interno. Osserva dal di fuori, sta a guardare i coloni teppisti e sta iniziando a diventare complice dei crimini di guerra.”

In Israele Levin è considerato un liberale ed ha un passato scandalosamente razzista. In passato ha minacciato di “fare a pezzi i palestinesi” e “cacciarli in Giordania”, ha detto che “i palestinesi hanno meritato l’occupazione” e che nella maggioranza i palestinesi sono “nati per morire comunque, noi semplicemente li aiutiamo a farlo”. Eppure sì, egli vede un “totale apartheid”.

L’intervista viene sulla scia di una recente lettera agli ebrei americani che li rimprovera di ignorare l’apartheid, l’“elefante nella stanza”. Molti accademici e personaggi pubblici israeliani hanno firmato questa lettera che al momento ha ottenuto più di 1500 firme. Tra i firmatari vi sono anche convinti sionisti come Benny Morris. La lettera contiene suggerimenti di azione, compresa una richiesta al governo USA di sanzionare Israele:

Si chiede che i leader eletti negli Stati Uniti agevolino la fine dell’occupazione, impediscano che gli aiuti militari americani vengano usati nei Territori Palestinesi Occupati e mettano fine all’impunità israeliana alle Nazioni Unite e in altre organizzazioni internazionali.”

Un chiaro appello all’azione che, volutamente o no, riecheggia gli appelli che gli attivisti del BDS (Boicottaggio, Disinvestimento, Sanzioni) lanciano da quasi 20 anni. Ma non tutti approvano che il BDS si rafforzi come naturale risposta a questo apartheid.

La settimana scorsa Benjamin Pogrund, che è stato giornalista nel Sudafrica dell’apartheid, ha scritto un articolo su Haaretz intitolato “Per decenni ho difeso Israele dalle accuse di apartheid. Non posso più farlo.” Pogrund spiega di essere stato interpellato nel 2001 dall’allora Primo Ministro israeliano Ariel Sharon per far parte della delegazione governativa di Israele alla Conferenza Mondiale Contro il Razzismo a Durban: “Il governo Sharon mi invitò a causa della mia esperienza di un quarto di secolo come giornalista in Sudafrica; la mia specializzazione era riferire in dettaglio sull’apartheid.” Ma dice di non poterlo più difendere. Cita la legge razzista dello ‘Stato-Nazione’ del 2018, che codifica i diritti esclusivi per chi ha nazionalità ebrea. Poi c’è l’occupazione:

Israele non può più addurre la sicurezza come motivo del nostro comportamento in Cisgiordania e dell’assedio di Gaza. Dopo 56 anni la nostra occupazione non può più essere definita temporanea in attesa di una soluzione del conflitto con i palestinesi. Stiamo andando verso l’annessione, con la richiesta di raddoppiare i 500.000 coloni israeliani già presenti in Cisgiordania.”

Purtroppo Pogrund ha già “annesso” Gerusalemme est, che fa parte della Cisgiordania, che aggiungerebbe circa 250.000 persone al numero di coloni citati. Ma la sua osservazione sulla temporaneità è valida – è una parte importante del perché non può essere definita occupazione, che si presume essere temporanea. E poi, sorprendentemente, si scaglia contro il movimento per il Boicottaggio, Disinvestimento, Sanzioni per quello che definisce “ignoranza e/o malevolenza”:

In Israele sono ora testimone dell’apartheid in cui sono cresciuto. Israele sta facendo un regalo ai suoi nemici del movimento Boicottaggio, Disinvestimento, Sanzioni e ai loro alleati, soprattutto in Sudafrica, dove la negazione dell’esistenza di Israele è forte tra molti neri, nei sindacati e negli ambienti comunisti e musulmani. Gli attivisti del BDS continueranno a lanciare le loro accuse, frutto di ignoranza e/o malevolenza, diffondendo menzogne su Israele. Hanno trasformato ciò che è già negativo in grottesco, ma ora lo rivendicano. Israele gli sta dando ragione.”

Pogrund è stizzito. Questi attivisti BDS sono arrivati prima di lui nel chiedere di redarguire Israele, ma vuole avere il controllo su quando definire qualcosa apartheid e quando no, quando difenderlo e quando no. Gli attivisti BDS utilizzano una strategia consolidata per isolare lo Stato dell’apartheid. Pogrund non vuole che ciò accada, ma sa che è destinato ad accadere, perché Israele alla fine li legittimerà.

Che prospettiva confusa.

Sia Pogrund che Levin sono arrabbiati, ma è chiaro che la loro rabbia non è dovuta al crimine contro l’umanità che si compie contro i palestinesi, ma a ciò che accade a loro. Levin, un veterano dell’apparato di sicurezza di Israele e responsabile proprio del sistema che ora critica, si scaglia contro l’attuale governo. Non addita le proprie responsabilità e fa di tutto per dire che non sta esprimendo preoccupazione per i palestinesi.

Non sto dicendo questo perché mi importa dei palestinesi. Mi importa di noi. Ci stiamo uccidendo dall’interno. Stiamo disfacendo l’esercito, stiamo disfacendo la società israeliana”, dice. Ed è tutta colpa di “Bibi” (il soprannome di Netanyahu). “Bibi ha fallito”.

Ciò è estenuante: il tipico narcisismo israeliano. Non ci importa dei palestinesi. Guardate che cosa provoca a noi questa occupazione. 

E’ interessante come si stia diffondendo il riconoscimento dell’apartheid, ma dobbiamo stare attenti ai sionisti che cercano di prendere il controllo della narrazione e limitare il dibattito. L’apartheid israeliano non è qualcosa che accade “da qualche parte”. E’ l’apartheid dal fiume (Giordano) al mare (Mediterraneo); è dovunque. E queste risposte sono anche un buon promemoria del perché la supremazia ebraica non porrà fine a sé stessa dall’interno, l’unica risposta è dall’esterno.

Jonathan Ofir

Musicista israeliano, conduttore e blogger che vive in Danimarca.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Quando il sionismo si spacca: Israele e il monito della storia coloniale

David Heartst

26 gennaio 2023 – Middle East Eye

La divergenza tra il progetto delle truppe d’assalto sioniste per la creazione di uno Stato ebraico e la tradizione sionista è stata tantissime volte nascosta sotto il tappeto. Oggi sta venendo prepotentemente allo scoperto.

La classe politica israeliana non ha saputo dare nessuna risposta [alla domanda]: “Chi è al comando?”

[Tale domanda] costituiva una provocazione suscitata dalla acuta sensazione che gli ebrei avessero perso il controllo sui palestinesi che vivevano nel loro Stato. Ma a poche settimane dall’ultima reincarnazione di Benjamin Netanyahu a capo del governo più estremista nella storia di Israele milioni di israeliani si stanno ponendo una domanda simile: chi abbiamo al comando?

Un ministro della giustizia che intende neutralizzare l’autorità e l’indipendenza giudiziaria? Un ministro delle finanze che mette in dubbio il diritto degli immigrati russi a essere considerati ebrei? Un ministro della sicurezza nazionale il cui primo atto è stato l’assalto alla moschea di Al-Aqsa? 

In verità, le manifestazioni di massa riguardano solo la prima delle tre questioni, anche se la questione dell’identità russa è abbastanza esplosiva – Bezalel Smotrich l’ha definita una bomba a orologeria ebraica.

I palestinesi sono stati ancora una volta esclusi dalla rivolta sionista liberale. Dopo che alcune bandiere palestinesi sono apparse nel mare di quelle bianche e blu durante le prime proteste di massa gli organizzatori si sono affrettati a rinunciare a una presenza palestinese. Ciò nonostante, i sionisti liberali hanno avuto un assaggio di cosa significhi essere palestinesi nelle mani della nuova élite – il movimento nazionalista religioso dei coloni.

È vero, la battaglia si inquadra come una lotta contro i fascisti a favore della democrazia. Non si trasforma, almeno per ora, in un dibattito sulla crudeltà quotidiana e sul costo umano del sostegno allo progetto sionista in sé. Ma quelle domande cominciano ad emergere.

Leggete questo commento pubblicato da Yedioth Ahranoth, un giornale di centro fedele alla linea ufficiale israeliana sull’occupazione: “La verità scomoda è che non può esserci democrazia insieme a un’occupazione, non può esserci democrazia in un Paese la cui politica economica consente ai forti di fare un balzo in avanti mentre i deboli restano indietro e non può esserci democrazia in un luogo dove gli arabi sono tenuti fuori dalla scena”.

Chi non riesce ad affrontare questi problemi in modo chiaro e coerente fallirà anche nel suo sforzo assolutamente giustificato di fermare una parte del processo. La scomoda verità è che chiunque voglia portare un milione di persone nelle strade per scuotere il paese in risposta al piano di Levin non può balbettare luoghi comuni sul “restringimento del conflitto” e sull’essere “né di destra né di sinistra”.

Un rapporto complesso

Il rapporto del sionismo tradizionale con il movimento dei coloni è sempre stato più complesso e ricco di sfumature rispetto alla sua consueta rappresentazione come divisione tra centro ed estrema destra. E quando il centro è al comando fa molto peggio che voltarsi dall’altra parte. Molto peggio.

Gli insediamenti si sono moltiplicati sotto i governi laburisti. Esprimere orrore per personaggi come Ben Gvir incaricati di governare la Cisgiordania occupata significa ignorare il sangue palestinese che gronda dalle mani dell’ex primo ministro Yair Lapid.

L’anno scorso è stato il più sanguinoso dalla Seconda Intifada con 220 morti tra cui 48 minori.

Denunciare gli attacchi ai giudici israeliani “di sinistra” significa dimenticare che gli attacchi dei coloni sono rimasti impuniti – e anche nel raro caso di una condanna continuano a rimanere nella stragrande maggioranza impuniti. Fino ad ora, il rapporto tra il sionismo liberale e il terrorismo ebraico è stato simbiotico sia prima che dopo l’assassinio di Yitzhak Rabin nel 1995 [allepoca Rabin era primo ministro e fu assassinato da un estremista israeliano, ndt.].

Questo è molto chiaro nelle testimonianze dei successivi capi dello Shin Bet. Quando il servizio di sicurezza interna ha catturato dei terroristi nell’atto di piazzare negli autobus palestinesi bombe al semtex [esplosivo al plastico, ndt.] che avrebbero provocato un eccidio di massa, si è imbattuto anche nei piani per far saltare in aria la moschea di Al-Aqsa.

Carmi Gillon, a capo dello Shin Bet dal 1994 al 1996, intervistato nel documentario The Gatekeepers [I guardiani, ndt.], ha dichiarato: “Dopo che smascherammo la Jewish Underground [o makhteret, organizzazione terrorista di destra ebraica, ndt.] il primo ministro Shamir definì la mia unità il diamante della corona. Abbiamo ricevuto complimenti e sostegno da tutte le parti. Iniziarono le pressioni a loro favore. Furono processati. Tre di loro ebbero l’ergastolo, altri condanne diverse. Tutti uscirono di prigione molto velocemente. Tornarono a casa come se niente fosse. Tornarono ai loro precedenti incarichi, alcuni ad incarichi anche più elevati. La Knesset [parlamento israeliano, ndt.] rilasciò l’intera Jewish Underground. La legge di clemenza verso la Jewish Underground fu firmata da Yitzhak Shamir come primo ministro di Israele. Non si trattò solo di pochi membri dell’opposizione”.

Per lo Shin Bet l’assassinio di Rabin fu un incidente automobilistico al rallentatore. In quella circostanza emerse per la prima volta Ben Gvir. Apparve in televisione brandendo lo stemma del cofano della Cadillac che era stato rubato dall’auto di Rabin: “Siamo arrivati alla sua macchina e arriveremo anche a lui”.

Yaakov Peri, capo dello Shin Bet dal 1988 al 1994, ha detto che per lui l’assassinio di Rabin ha cambiato il mondo intero: “Improvvisamente ho visto un Israele diverso. Non ero consapevole dell’intensità degli abissi, dell’odio e delle fratture tra di noi. Come percepiamo il nostro futuro? Cosa abbiamo in comune? Perché siamo venuti qui? Cosa vogliamo diventare? Tutto ciò era evidente e tutto è andato in pezzi.”

C’è un senso di amarezza in tutte e sei le interviste con i capi dello Shin Bet. Non si sentono solo delusi dai governi successivi. Si sentono traditi e lo dicono apertamente. Nel 1996, quando l’assassino di Rabin, Yigal Amir, fu condannato, il 10% degli israeliani disse che avrebbe dovuto essere rilasciato; nel 2006, tale sostegno era aumentato al 30%.

Ma il rapporto non è più simbiotico. L’ascesa al potere di Ben Gvir e Smotrich non è uno scherzo della natura, un incidente della politica. Non è Trump. Né è un’insurrezione del 6 gennaio.

Il conflitto tra il progetto delle truppe d’assalto sioniste per la creazione di uno Stato ebraico dal fiume [il Giordano, ndt.] al mare [Mediterraneo, ndt.] e la visione tradizionale sionista, sia in Israele che all’estero, è stato intrinsecamente latente sullo sfondo fin dalla creazione dello Stato di Israele stesso.

È presente da quando Rabin, in qualità di comandante del neonato esercito israeliano, ordinò alle sue truppe di aprire il fuoco su una nave mercantile che stava scaricando armi per l’Irgun [gruppo paramilitare sionista ndt.], uccidendo 16 combattenti. Un futuro primo ministro, Menachem Begin, fu portato a terra ferito.

Questa spaccatura è stata nascosta tante volte sotto il tappeto. Oggi sta venendo prepotentemente allo scoperto.

Il modello algerino

Se esiste un parallelo storico con la scissione che sta spaccando il sionismo, non è con il Sud Africa ma con l’Algeria.

I coloni francesi, conosciuti come i pied-noirs, si trovavano in Algeria dal XIX secolo. Il Paese veniva trattato come un’estensione del Paese continentale piuttosto che una colonia in Africa. “Algeri fa parte della Francia tanto quanto la Provenza”, dicevano tra loro.

Fin dall’inizio, i “colons” furono parte integrante del progetto coloniale francese. Il maresciallo Thomas-Robert Bugeaud, governatore generale dell’Algeria, proclamò all’Assemblea nazionale francese nel 1840: “Ovunque (in Algeria) ci sia acqua dolce e terra fertile, là bisogna collocare dei coloni, senza preoccuparsi a chi appartengono queste terre.“

I primi fermenti del dopoguerra concernenti richieste algerine per una parità di cittadinanza furono affrontati con dei tentativi di riforma. Parigi concesse la cittadinanza a 60.000 persone in base a ciò che venne definito un criterio “di merito”, e nel 1947 un parlamento con una camera per i pied-noirs e un’altra per gli algerini. Tuttavia, il voto del pied-noir era considerato valere sette volte il voto di un algerino.

Impegnati per quattro anni in una brutale guerra d’indipendenza il cui bilancio di vittime la Francia – fino ad oggi – continua a sottostimare (l’Algeria parla di 1,5 milioni di morti, mentre la Francia dice che furono uccisi da entrambe le parti 400.000 persone), i pied-noirs ebbero la simpatia e il supporto dell’esercito e degli apparati di sicurezza francesi.

E’ istruttivo su quest’epoca il capitolo di Henry Kissinger, nel suo libro Leadership sul generale Charles De Gaulle, che definisce uno dei sei grandi leader con cui ha interagito durante la sua carriera di diplomatico.

Il rapporto di De Gaulle con i coloni si evince da un discorso in cui diceva loro “vi capisco” per il fatto di essere presi di mira nella stessa Francia per la loro campagna terroristica. In quel momento l’umore pubblico in Francia era cambiato e la Francia si rivoltava contro i coloni. Il punto di svolta fu la mutilazione di una bambina di quattro anni nell’esplosione di una bomba a Parigi nel 1962.

Prima di allora, l’Organizzazione Armee Secrete (OAS) [organizzazione paramilitare clandestina francese il cui slogan era “l’Algérie française”, ndt.] godeva del sostegno di 80 deputati all’Assemblea nazionale.

Ciò provocò una manifestazione contro l’OAS, che la polizia represse uccidendo otto persone. Ai loro funerali parteciparono centinaia di migliaia di persone e un cessate il fuoco tra la Francia e il Fronte di liberazione nazionale (FLN) [movimento rivoluzionario algerino che diresse la guerra d’indipendenza, ndt.] trasformò una lotta a tre in un conflitto a due che l’OAS era destinata a perdere.

Naturalmente ci sono tante differenze tra i pied-noirs e i coloni ebrei così come sono molte le somiglianze. La religione non svolse un ruolo determinante nel progetto francese. Non c’era stato in Europa alcun eccidio su larga scala dei francesi che giustificasse la creazione di quella colonia.

Tuttavia, l’elemento essenziale del confronto rimane valido. Quando l’OAS si mise in proprio l’intero progetto fu destinato a perdere. Un altro punto vitale per i palestinesi, né la resistenza algerina né la resistenza sudafricana hanno vinto militarmente. Erano entrambe completamente prive di armi. In entrambi i casi a vincere la battaglia è stata la perseveranza, il rifiuto di arrendersi.

Nessuno sta dicendo, tanto meno io, che Israele stia per crollare come fece il dominio francese in Algeria. Ma stanno comparendo le prime grandi crepe nel progetto sionista.

Le prime crepe

Ben Gvir ha fatto di più per delegittimare Israele da quando è salito al potere poche settimane fa che anni di campagna del movimento BDS. Gli ex capisaldi del sostegno ebraico di New York a Israele stanno rilasciando dichiarazioni che implorano Netanyahu di cambiare rotta.

Eric Goldstein, il capo della più grande federazione ebraica del Nord America, ha “rispettosamente implorato” Netanyahu di mantenere le precedenti promesse di bloccare le leggi che minacciano l’indipendenza del sistema giudiziario israeliano.

Le federazioni ebraiche non rilasciano quasi mai tali dichiarazioni pubblicamente per il semplice motivo che il settore dei servizi sociali israeliani è uno dei loro maggiori beneficiari.

Ovviamente Netanyahu farà tutto ciò che è in suo potere per giocare la carta internazionale. Lo ha fatto in Giordania, dichiarando senza fondamento che lo status quo ad Al-Aqsa non cambierà. Lo aveva già fatto, come sa benissimo il Waqf, custode dei luoghi santi di Gerusalemme, la cui gestione è affidata alla Giordania.

Ma in Ben Gvir e Smotrich Netanyahu ritrova una forma diversa di partner di coalizione. Questi rottweiler della destra religiosa nazionale non sono solo una parte dell’attuale, traballante soluzione politica di un politico, Netanyahu, che ha superato da tempo la data di scadenza. Sono la forma della futura leadership di Israele.

Questo dovrebbe costituire un segnale di allarme per ogni ebreo israeliano che non ha un passaporto europeo e non gradisce la prospettiva di una guerra a tutto campo con 1,6 miliardi di musulmani in tutto il mondo, che il movimento religioso nazionale sembra essere determinato a scatenare.

Dovrebbero pensare ad affrontare il futuro con i palestinesi alla pari, visto che il conflitto è ancora riferito alla terra e alla nazionalità, non alla religione. C’è solo un breve periodo di tempo per farlo.

Gillon afferma in The Gatekeepers: “Il piano era di far saltare in aria la Cupola della Roccia e l’esito avrebbe portato – come anche oggi – alla guerra totale da parte di tutti gli stati islamici, non solo l’Iran, ma anche l’Indonesia”.

Se aveva ragione 11 anni fa quando questa intervista è stata registrata, ha ancora più ragione oggi. Con il movimento religioso nazionale al comando, la previsione di Ami Ayalon è preveggente: “Vinceremo ogni battaglia ma perderemo la guerra”.

E’ capitato in Algeria. E’ capitato in Sud Africa. Capiterà anche in Israele.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

David Hearst è co-fondatore e redattore capo di Middle East Eye. È commentatore e relatore sulla regione e analista sull’Arabia Saudita. E’ stato capo redattore per la politica estera del Guardian e corrispondente in Russia, Europa e Belfast. È entrato a far parte del Guardian da The Scotsman, dove era corrispondente per l’istruzione.

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Netanyahu incita alla violenza definendo i manifestanti un chiaro e tangibile pericolo

Lily Galili da Tel Aviv, Israel

30 luglio 2020 – Middle East Eye

Nel 1995 il primo ministro provocò l’odio che portò all’assassinio di Rabin, Questa volta sta facendo in modo che gli eventi producano direttamente l’odio contro i manifestanti

Nell’aria c’è violenza, un senso di pericolo. Di fatto c’è violenza anche sul campo. Settimana dopo settimana, in manifestazioni eccezionalmente persistenti e burrascose, c’è una costante violenza. Si teme un altro tipo di violenza, che uccide non solo la democrazia, ma può davvero uccidere anche le persone.

Lo stesso primo ministro di Israele Benjamin Netanyahu pone le basi per questo tipo di violenza.

Giorno dopo giorno, provoca i manifestanti e li offende. Essi sono “anarchici”, tramano un “golpe” contro di lui e contro il governo di destra. Non si fa neppure scrupoli riguardo all’argomento antisemita degli “ebrei che diffondono malattie”.

Nella versione dello Stato ebraico di Netanayhu, i dimostranti pisciano nei cortili e quindi diffondono malattie infettive. Ciò è quanto ha detto riguardo alle proteste di massa davanti alla sua residenza a Gerusalemme.

In precedenza il suo figlio alter ego, Yair, ha twittato la foto di un manifestante che urinava davanti alla residenza del primo ministro. L’unico problema è che la fotografia era stata scattata negli Stati Uniti, un esempio di una lunga lista di notizie false intenzionalmente diffuse per gettare benzina sul fuoco.

Giorno dopo giorno Netanyahu solleva la questione di un pericolo chiaro e tangibile per lui e per la sua famiglia. Egli ne scrive continuamente nei suoi molto attivi interventi sulle reti sociali e agisce su questo mobilitando misure di protezione senza precedenti fornitigli dai servizi di sicurezza israeliani.

La sua residenza ufficiale a Gerusalemme e la villa privata della sua famiglia a Cesarea, entrambi luoghi in cui si svolgono manifestazioni di massa, sembrano più che altro fortezze.

Questa è in effetti una reazione molto inusuale per gli standard israeliani. In precedenza molti ex-primi ministri e importanti politici sono stati vittime di incitamenti all’aggressione e di esplicite minacce: per citarne solo qualcuno, i primi ministri Ariel Sharon, Menachem Begin e Yitzhak Rabin, che venne effettivamente ucciso da un giovane ebreo di estrema destra.

Tutti minimizzarono le minacce, forse per orgoglio e machismo fuori luogo.

Netanayhu, tuttavia, ingigantisce ed esagera a dismisura il “pericolo incombente”. Politici del Likud sono impegnati a sollevare in ogni occasione l’argomento del “pericolo per la vita del primo ministro”.

Non siamo spaventati dalle critiche, ma piuttosto della violenza contro il primo ministro e la sua famiglia,” ha detto durante un’intervista radiofonica Amir Ohana, ministro della Sicurezza Pubblica.

Ma quando gli è stato chiesto se la vita di Netanyahu sia realmente in pericolo, il generale di divisione in congedo Amiram Levin, ex-comandante in capo di un’unità militare d’élite ed ex- vice capo del Mossad, ha subito ribattuto: “Assolutamente no!”

È tutta una sua invenzione per delegittimare la protesta contro di lui,” ha detto a Middle East Eye. Però Levin ha dato brutte notizie: “Nelle prossime settimane uno o due manifestanti contro Netanyahu verranno uccisi da un proiettile, una granata o una qualunque altra arma. È solo una questione di tempo, un tempo piuttosto breve.”

L’avvertimento di Levin è arrivato quando un piccolo numero di dimostranti ha subito accoltellamenti, lanci di pietre e percosse da un gruppo violento di sostenitori di destra di Netanyahu, decisi a proteggere il loro uomo.

La sua fosca previsione è profondamente radicata nella storia delle proteste in Israele: la pallottola, o la granata, è sempre lanciata dalla destra contro la sinistra. Non ci sono precedenti di un proiettile sparato in direzione contraria.

È ancora più temibile ora, quando un super propagatore di incitamenti all’odio come Netanayhu sta giocando un ruolo da protagonista in questo pericoloso processo. È quello che fece 25 anni fa, partecipando attivamente all’istigazione che terminò con l’assassinio di Rabin.

Fortunatamente per lui, non c’è un Netanayhu che inciti contro Bibi [diminutivo dello stesso Netanayhu, ndtr.].

Un’atmosfera analoga

Amiram Goldblum, da moltissimi anni attivista per la pace ed ex-capo del movimento Peace Now [Pace Subito, movimento israeliano per la fine dell’occupazione e la pace con i palestinesi, ndtr.], ha ricordato che in precedenza importanti dirigenti e primi ministri hanno chiaramente evitato questo comportamento.

Al contrario di oggi, ai tempi della nostra protesta dell’‘83, l’incitamento venne dalla base del Likud, mai dallo stesso Begin,” dice, in riferimento ad una serie di manifestazioni di massa contro la prima guerra del Libano.

In modo più specifico, si riferisce alla manifestazione del 10 febbraio 1983 a Gerusalemme, dove uno dei dimostranti, Emil Grunzweig, venne ucciso da una granata lanciata contro il raduno per la pace da Yonah Avrushmi. L’assassino era l’esatto prototipo degli autoproclamati mercenari di destra, imbevuti di odio, che agiscono oggi contro le proteste.

Goldblum stava marciando accanto a Grunzweig quando esplose la granata. “L’atmosfera è molto simile a quella di decenni fa,” dice Goldblum a MEE.

Di fatto si tratta di un’altra fase della guerra civile iniziata con l’assassinio di Rabin e ora l’odio è molto più tangibile. Non ho paura, ma sicuramente quando partecipo alle manifestazioni cerco di fare attenzione. Li posso riconoscere da lontano e alcuni di loro mi possono riconoscere.”

Il parallelo finisce qui. Le proteste del 1983 erano concentrate su un problema: la guerra in Libano. Il corteo del 1995 era in appoggio alla democrazia e agli accordi di Oslo. Le dimostrazioni del 2020 sono invece uno scoppio di rabbia, frustrazione e sconforto avvertiti da almeno tre generazioni, che sono disperate per quello che è diventato il loro Paese e per quello che il loro Paese ha fatto a loro.

Proprio come un terremoto mette in luce tutto quello che è nascosto sotto le rovine, la pandemia da coronavirus ha scoperto tutta la decadenza sottostante. Un primo ministro imputato per corruzione c’era già, come l’erosione sistematica della democrazia.

Entrambi avevano già spinto gli israeliani in piazza con rabbia, ma solo in pochi.

C’è voluto un terribile virus perché molti israeliani si rendessero conto che il sistema non era solo corrotto, ma anche totalmente inefficiente, cinico e slegato dalla vita quotidiana dei cittadini di cui dovrebbe essere al servizio.

Di fatto questa è una delle pochissime occasioni in cui lo scoppio della rabbia che ha occupato le strade praticamente ogni giorno può essere fatto risalire a una serie di avvenimenti.

In primo luogo ci sono state le foto di Netanyahu che festeggiava la tradizionale cena del Seder della Pasqua ebraica con il suo figlio adulto, mentre a milioni di israeliani sottoposti al blocco totale veniva ordinato di passare in totale solitudine la serata [da passare] in famiglia. Soli, tristi e senza lavoro.

Poi c’è stata la riunione della commissione finanze del parlamento per discutere (ed approvare) la richiesta del primo ministro di retrodatare i rimborsi fiscali sulle spese nella sua villa privata a Cesarea. Durante la discussione il parlamentare del Likud [il partito di Netanyahu, ndtr.] Miki Zohar ha sostenuto che le tasse avrebbero lasciato Netanyahu “finanziariamente in ginocchio”. Netanyahu è multimilionario.

Questo dibattito tragicomico ha avuto luogo alla fine di giugno, all’inizio della seconda ondata della pandemia da coronavirus, con un milione di israeliani disoccupati e ormai migliaia alla fame. Ciò ha fatto colpo sugli israeliani perplessi, persino ardenti sostenitori di Netanyahu.

Poi c’è stata la farsa dei “finestrini aperti”. Il governo che doveva occuparsi del contagio ha elaborato una soluzione per il trasporto pubblico ed ha escogitato una soluzione veramente sensata: alla maggior parte delle linee degli autobus sarebbe stato consentito di riprendere a circolare con i finestrini aperti, per evitare la diffusione del virus.

Ha senso? Per niente. Da circa un decennio gli autobus in Israele non hanno finestrini che si aprono. Ma i parlamentari da oltre dieci anni non sono saliti su un autobus, quindi, come potevano saperlo?

Cos’altro non sanno della vita delle persone di cui si devono occupare? Di fatto, molto di più. Pochi giorni dopo il governo ha deciso di chiudere tutti i ristoranti a cui avevano consentito di riaprire solo qualche giorno prima. Ristoratori obbedienti e sul lastrico hanno buttato via tutti i prodotti che avevano comprato e annullato tutte le prenotazioni, solo per venire a sapere poche ore dopo che di fatto i ristoranti potevano rimanere aperti. Da allora la maggior parte di loro non ha più seguito le decisioni del parlamento.

Nel pieno della seconda ondata e dell’inizio delle dimostrazioni di massa, Netanyahu ha convocato un’altra conferenza stampa e ha orgogliosamente promesso un corona bonus universale per ogni cittadino, che secondo lui sarebbe arrivato sui conti bancari in pochi giorni. Ciò il 15 luglio. Non ci sono ancora soldi in banca.

Offesi, disillusi, arrabbiati

Potrebbe sembrare una volgare litania di piccoli problemi nel bel mezzo di una pandemia mondiale. Non lo è. È il vero scontro tra gli israeliani, i loro dirigenti e il regime. Hanno imparato che il sistema sanitario non funziona: c’è una carenza di letti e di personale sanitario negli ospedali.

Hanno appreso che il sistema di welfare non funziona: nel bel mezzo della crisi sanitaria ed economica, quando i più deboli avevano bisogno di aiuto e di sostegno, gli operatori sociali sottopagati hanno fatto un lungo sciopero. Ci sono volute settimane prima che il governo prestasse attenzione e raggiungesse un accordo con loro.

Soprattutto, gli israeliani vedono i loro politici autoreferenziali, slegati dalla vita quotidiana dei loro elettori, come se vivessero su un altro pianeta.

È stato allora che sono scesi in piazza. Grandi folle con un’energia e una resilienza senza precedenti. Offesi, disillusi e arrabbiati, profondamente preoccupati per il loro futuro.

La forza e la debolezza di questa protesta è nella sua diversità. Alcuni protestano contro la corruzione di Netanyahu e vogliono che se ne vada. Dato che egli si è vantato di tutto quello che ha funzionato nei primi mesi della pandemia, è a lui che va data la colpa quando le cose vanno male. Altri sono scesi in piazza per salvare la democrazia israeliana; altri ancora sono terrorizzati per il loro futuro economico. Tutte queste persone hanno perso fiducia nella classe politica del Paese.

Molti non sono neppure sicuri che gli ultimi “incidenti per la sicurezza con Hezbollah” sul confine settentrionale non siano altro che un evento mediatico per distrarre l’attenzione. Ogni tanto compare tra la folla persino un manifestante contro l’annessione.

La buona notizia è la riapparizione della giovane generazione nelle manifestazioni di massa. Per anni israeliani di mezz’età o anche anziani si sono costantemente guardati intorno alla ricerca della giovane generazione che guidasse la protesta. Oggi le organizzazioni studentesche hanno annunciato che si uniranno alle manifestazioni.

Si sentono abbandonati. Finalmente sono lì, gli unici che possano determinare il cambiamento indispensabile.

Nel frattempo la minaccia di una quarta tornata elettorale minaccia gli israeliani. Netanyahu non sta governando il Paese. Nelle ultime settimane sta facendo una campagna elettorale.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)