Cosa rende diverso il rapporto di Amnesty?

Maureen Clare Murphy

3 febbraio 2022 – Electronic Intifada

Cosa rende diverso da quelli che l’hanno preceduto il nuovo rapporto di Amnesty International secondo cui Israele pratica il crimine di apartheid contro i palestinesi?

Sicuramente la reazione di Israele, “isterica” nelle parole di un titolo di Haaretz [giornale israeliano di centro sinistra, ndtr.], all’analisi di Amnesty è notevolmente diversa dalla sua risposta, relativamente di basso profilo, a rapporti simili recentemente resi pubblici da B’Tselem, un’associazione israeliana per i diritti umani, e da Human Rights Watch, con sede a New York.

Organizzazioni palestinesi per i diritti umani come Al-Haq e Al Mezan hanno da molto prima presentato un quadro generale di apartheid, e i rapporti delle summenzionate associazioni israeliane e internazionali prendono spunto dal loro lavoro.

Amnesty, Human Rights Watch e B’Tselem hanno esaminato il sistema di controllo di Israele che privilegia gli ebrei israeliani in tutta la Palestina storica, emargina i palestinesi e viola i loro diritti in vario modo, in larga misura a seconda di dove essi vivano.

E, a differenza delle analisi pubblicate dalle associazioni palestinesi, questi tre rapporti, accolti come rivoluzionari e innovativi, sono inadeguati nel collocare il sistema dell’apartheid di Israele nel contesto del colonialismo di insediamento. (Una ricerca delle parole chiave nel rapporto di Amnesty dà tre risultati per i termini “colonialismo” e “coloniale”, che si trovano nei titoli di lavori citati nelle note.)

Amnesty sottolinea ripetutamente “il tentativo di Israele di conservare il suo sistema di oppressione e dominazione” senza mettere esplicitamente in chiaro che l’apartheid è un mezzo il cui fine è la colonizzazione di insediamento: cacciare i palestinesi dalla terra in modo che siano sostituiti da coloni provenienti dall’estero.

L’organizzazione per i diritti afferma che “dalla sua fondazione nel 1948 Israele ha perseguito una politica esplicita di creazione e conservazione di un’egemonia demografica ebraica e massimizzazione del suo controllo sulla terra a favore degli ebrei israeliani, riducendo nel contempo al minimo il numero di palestinesi, limitandone i diritti e ostacolandone la possibilità di resistere a questa spoliazione.”

Onore al merito: Amnesty fa piazza pulita del mito fondativo di Israele, riconoscendo che è stato razzista fin dall’inizio, una presa di distanza dal tipico atteggiamento progressista secondo cui nel corso del tempo Israele in qualche momento si è allontanato dai suoi ideali.

Amnesty evidenzia persino che “molti elementi del sistema militare repressivo di Israele nei TPO [territori palestinesi occupati, ndtr.] (Cisgiordania e Gaza) hanno origine nel regime militare israeliano sui palestinesi cittadini di Israele durato 18 anni,” iniziato nel 1948, “e che la spoliazione dei palestinesi di Israele continua fino a oggi.”

Amnesty riconosce anche che “nel 1948 singoli individui e istituzioni ebraiche detenevano circa il 6,5% della Palestina mandataria, mentre i palestinesi erano in possesso del 90% della terra di proprietà privata,” in riferimento a tutta la Palestina storica prima della fondazione dello Stato di Israele. “In soli 70 anni la situazione è stata ribaltata,” aggiunge l’organizzazione.

E questo è l’obiettivo di Israele – il “sistema di oppressione e dominazione” sottolineato da Amnesty è il mezzo attraverso cui esso ha usurpato la terra palestinese a favore di coloni provenienti dall’estero.

Dopotutto i coloni sionisti non sono andati in Palestina dall’Europa con l’intenzione di dominare e opprimere i palestinesi: essi sono arrivati con l’intenzione di colonizzarne la terra.

Come afferma il Jerusalem Legal Aid and Human Rights Center [Centro Palestinese di Assistenza Legale e Diritti Umani di Gerusalemme, ndtr.], un’organizzazione palestinese, “ogni riconoscimento di Israele come Stato di apartheid dovrebbe essere collocato all’interno del contesto del suo regime di colonialismo d’insediamento.”

Amnesty evita anche di esaminare e mettere in discussione il sionismo, l’ideologia razzista dello Stato di Israele attorno alla quale si è organizzato il suo progetto di colonialismo d’insediamento.

Come ha chiesto mercoledì Adalah-NY, un’associazione di sostegno con sede negli USA: “È possibile porre fine all’apartheid senza fare altrettanto con il progetto colonialista d’insediamento sionista?”

Un lavoro preliminare per obbligare a pagare le conseguenze

Nonostante questi limiti problematici, l’analisi di Amnesty pone una solida base per considerare Israele responsabile all’interno del carente contesto delle leggi internazionali e fa energiche raccomandazioni per porvi fine.

Amnesty si unisce alle associazioni palestinesi che sollecitano la Corte Penale Internazionale a “indagare sulla messa in atto del crimine di apartheid” e la sua procura generale a “prendere in considerazione l’applicabilità del crimine contro l’umanità di apartheid all’interno della sua attuale indagine formale” in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza.

Dato che la CPI non ha giurisdizione territoriale in Israele, Amnesty chiede al Consiglio di Sicurezza dell’ONU di sottoporre “tutta la situazione alla CPI” oppure di creare “un tribunale internazionale per processare i presunti responsabili” del crimine contro l’umanità di apartheid.

Amnesty aggiunge che il Consiglio di Sicurezza “deve anche imporre sanzioni mirate, come il congelamento dei beni, contro i politici israeliani più coinvolti … e un complessivo embargo militare contro Israele.”

Ripetendo il suo “appello di lunga data” agli Stati perché sospendano ogni forma di assistenza militare e vendita di armamenti a Israele, Amnesty chiede anche alle autorità palestinesi di “garantire che ogni tipo di accordo con Israele, principalmente attraverso il coordinamento per la sicurezza, non contribuisca a mantenere il sistema di apartheid contro i palestinesi” in Cisgiordania e a Gaza.

Amnesty afferma inoltre che Israele deve riconoscere il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi e fornire alle vittime palestinesi “risarcimenti completi”, compresa la “restituzione di tutte le proprietà acquisite su base razziale.”

Queste richieste di Amnesty, che afferma di essere la principale organizzazione mondiale per i diritti umani, vanno molto oltre quelle fatte da Human Rights Watch e da B’Tselem.

Ciò spiega in certa misura perché Israele e i suoi alleati e apologeti abbiano tentato di fare pressione su Amnesty perché ritirasse il suo rapporto prima della pubblicazione e, non essendovi riusciti, ora stanno ricorrendo alle solite accuse senza fondamento di antisemitismo.

Yair Lapid, ministro degli Esteri di Israele, ha cercato di screditare il rapporto di Amnesty affermando che esso “riecheggia la propaganda” e “le stesse menzogne condivise da organizzazioni terroristiche,” in riferimento a importanti associazioni palestinesi recentemente dichiarate illegali da Israele.

Se Israele non fosse uno Stato ebraico, nessuno ad Amnesty avrebbe osato fare simili affermazioni contro di esso,” ha aggiunto Lapid.

Nel suo rapporto Amnesty osserva che “le organizzazioni palestinesi e i difensori dei diritti umani che hanno guidato la sensibilizzazione contro l’apartheid e si sono impegnati in campagne hanno subito per anni la repressione israeliana come punizione per il loro lavoro.”

Mentre definisce “organizzazioni terroristiche” le associazioni palestinesi per i diritti umani, Israele sottopone “le organizzazioni israeliane che denunciano l’apartheid a campagne di calunnie e delegittimazione,” aggiunge Amnesty.

Israele potrebbe scoprire che tali tattiche, quando utilizzate contro la principale organizzazione mondiale per i diritti umani, potrebbero non convincere nessuno al di fuori della sua cerchia.

Il suo tentativo di “anticipare la faccenda”, che sarebbe stato guidato dal primo ministro israeliano Naftali Bennett insieme a Lapid attaccando preventivamente il rapporto di Amnesty, è solo servito a rafforzare la correlazione tra Israele e l’apartheid.

Ha anche garantito che “il rapporto avesse una pubblicità molto maggiore di quella di cui avrebbe beneficiato,” come ha osservato un editorialista di Haaretz.

Rendere noto al grande pubblico il contesto di apartheid

C’è un’altra differenza fondamentale tra il rapporto di Amnesty sull’apartheid e quelli che lo hanno preceduto.

Amnesty International è un’organizzazione che fa campagne con milioni di membri e sostenitori che, afferma l’organizzazione, “rafforzano la nostra richiesta di giustizia.”

Amnesty ha accompagnato il suo rapporto con un corso in rete di 90 minuti intitolato “Decostruire l’apartheid israeliano contro i palestinesi.”

Ha anche prodotto un documentario di 15 minuti per un vasto pubblico disponibile su YouTube che analizza la domanda se Israele pratica l’apartheid.

Finora la lista di attività di Amnesty include solo il fatto di inviare una cortese lettera a Naftali Bennett, primo ministro israeliano, contro le demolizioni di case e le espulsioni, cose per niente entusiasmanti.

Invece la sezione statunitense di Amnesty ha fatto bizzarre smentite per distinguersi dal movimento per il boicottaggio, disinvestimento e le sanzioni guidato dai palestinesi ed ha persino affermato che l’organizzazione non prende posizione sull’occupazione in sé, concentrandosi invece sugli obblighi di Israele “come potenza occupante, in base alle leggi internazionali”.

Sia Amnesty International che Human Rights Watch hanno sede in Paesi imperialisti e sono state create nel contesto della guerra fredda perché si concentrassero principalmente sulla rivendicazione dei diritti di persone nei Paesi comunisti dell’Europa orientale.

Il loro quadro ristretto e l’ideologia costitutiva le hanno portate ad opporsi alle lotte di liberazione anticolonialiste e alla violenza che esse implicavano perché, come ha detto Nelson Mandela, “è l’oppressore che definisce la natura della lotta e spesso l’oppresso è lasciato senza altri mezzi se non ricorrere a metodi che rispecchiano quelli dell’oppressore.”

Queste contraddizioni fondamentali significano che le associazioni occidentali per i diritti umani prenderanno sempre posizioni di compromesso, se non dannose, contrarie alla liberazione dei palestinesi, e Human Rights Watch recentemente ha suggerito un’equivalenza etica tra la violenza utilizzata da Israele contro i palestinesi assediati a Gaza e quella della resistenza palestinese contro di esso.

Ma i materiali didattici di Amnesty, comprendenti un lungo documento con domande e risposte, contribuiranno a preparare i militanti di base per rispondere ai sostenitori di Israele che intendano sviare le critiche alle prassi dello Stato attaccando chi le divulga.

Dopotutto, come ha detto su Twitter un acuto osservatore, questa è l’unica freccia a disposizione dell’arco di quanti sono impegnati a mantenere il governo di apartheid di Israele e la situazione di impunità.

Il rapporto di Amnesty è un potente indicatore che un’analisi al di là dell’occupazione del 1967 in Cisgiordania e a Gaza sta diventando di dominio pubblico.

Nel contempo Israele e i suoi alleati e sostenitori nel Congresso USA e nel Dipartimento di Stato hanno tirato in ballo triti argomenti, ignorando nel contempo la sostanza dei risultati di Amnesty.

(Al contrario, pochi parlamentari del partito Democratico hanno pubblicamente sostenuto le conclusioni di Amnesty, e Cory Bush [afroamericana eletta nel Missouri, ndtr.] ha chiesto di porre fine al “sostegno USA, con i soldi dei contribuenti, a questa violenza”).

Ma, come politici dell’ONU e dell’UE che blaterano noiosamente all’infinito sul loro impegno per un’inesistente processo di pace verso la soluzione a due Stati, quanti ripetono a pappagallo questi argomenti della lobby israeliana così slegati dalla realtà appaiono sempre più ridicoli.

Israele teme un rapporto ONU

Mentre respingono il termine “apartheid” e attacca Amnesty, Israele e i suoi alleati e sostenitori hanno gli occhi puntati su una minaccia ancora maggiore per l’impunità di Israele.

Secondo un dispaccio del ministero degli Esteri israeliano visionato dal periodico Axios [sito statunitense di notizie, ndtr.], Israele ha pianificato una campagna che cerca di screditare una commissione d’inchiesta permanente dell’ONU sulle violazioni dei diritti dei palestinesi da parte di Israele in tutto il territorio sotto il suo controllo.

Lo scorso maggio la Commissione ONU per i Diritti Umani ha approvato di stretta misura una risoluzione che crea questa commissione d’inchiesta in seguito all’attacco israeliano di 11 giorni contro Gaza durante il quale i palestinesi si sono ribellati in tutta la loro patria.

Associazioni palestinesi hanno a lungo chiesto agli Stati di “affrontare le cause che sono alla radice del colonialismo d’insediamento e dell’apartheid imposto sul popolo palestinese nel suo complesso,” come ha affermato Al-Haq prima del voto.

La commissione d’inchiesta condotta da tre esperti di diritti umani indipendenti scelti dalla Commissione per i Diritti Umani dovrebbe presentare i suoi risultati a giugno.

La scorsa settimana Axios ha informato che i politici israeliani sono “molto preoccupati che il rapporto della commissione faccia riferimento a Israele come uno ‘Stato di apartheid’.”

La rivista aggiunge che “l’amministrazione Biden non appoggia l’inchiesta e ha giocato un ruolo centrale nel tagliarle i fondi del 25% nei negoziati sul bilancio ONU.”

Nel contempo un gruppo bi-partisan di 42 membri del Congresso ha chiesto al Segretario di Stato USA di “guidare un tentativo di porre fine alla vergognosa e ingiusta commissione permanente d’inchiesta.”

Ma evidentemente Israele teme che questo intervento non sia sufficiente.

Questa settimana Haaretz ha informato che “importanti politici israeliani” non meglio identificati sono preoccupati che l’ONU “possa presto accettare una narrazione secondo cui Israele è uno ‘Stato di apartheid’, infliggendo un duro colpo allo status di Israele a livello internazionale.”

Il consenso dell’ONU riguardo all’apartheid israeliano “potrebbe portare all’esclusione di Israele da varie manifestazioni internazionali, comprese competizioni sportive o eventi culturali,” aggiunge la rivista.

In altre parole, i politici israeliani temono che lo Stato venga trattato come un paria a livello globale nello stesso modo in cui lo fu il Sudafrica prima del crollo dell’apartheid in quel Paese.

Il comitato direttivo del movimento guidato dai palestinesi per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni, che si ispira alla campagna di boicottaggio globale che contribuì alla fine dell’apartheid in Sudafrica, sostiene che “indagini sull’apartheid israeliano da parte dell’ONU e dei suoi membri sono passi necessari per raggiungere la libertà, la giustizia e l’uguaglianza per il popolo palestinese.”

Questo comitato esorta le Nazioni che sono state colonizzate a riprendere “il ruolo di guida che hanno assunto all’ONU per l’eliminazione dell’apartheid nell’Africa meridionale.”

Human Rights Watch ha invitato a nominare un incaricato internazionale ONU per i crimini di persecuzione e apartheid.

Amnesty afferma che l’Assemblea Generale dell’ONU “dovrebbe ripristinare la Commissione Speciale contro l’Apartheid, creata in origine nel novembre 1962 per concentrarsi su ogni situazione… in cui sia stata commessa la grave violazione dei diritti umani e crimine contro l’umanità di apartheid.”

Secondo il comitato direttivo del movimento BDS queste iniziative avrebbero conseguenze al di là della causa palestinese all’interno del sistema dell’ONU, dove “le intimidazioni e la pressione politica hanno impedito l’analisi e la discussione, per non parlare delle sanzioni, sull’apartheid israeliano.”

In definitiva, la ricerca di Amnesty non sarebbe fondamentalmente diversa da quelle che l’hanno preceduta. Ma il contesto in cui compare – mentre si consolida il consenso internazionale riguardo al riconoscimento dell’apartheid israeliano, è in corso un’indagine della Corte Penale Internazionale e con le ripercussioni del programma di spionaggio israeliano – suggerisce che potrebbe essere iniziato un nuovo capitolo nella lotta globale per la libertà dei palestinesi.

Maureen Clare Murphy è caporedattrice di The Electronic Intifada.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Amnesty condanna la JCB per i macchinari usati per demolire le case dei palestinesi

Areeb Ullah

18 novembre 2021 – Middle East Eye

L’organizzazione per i diritti umani riporta che il rappresentante esclusivo della JCB in Israele ha venduto macchinari al ministero della difesa israeliano che li ha usati per demolire le case dei palestinesi e distruggere coltivazioni

Amnesty International ha accusato l’impresa edile britannica JCB di ignorare la vendita, tramite la sua unica sussidiaria in Israele, dei suoi bulldozer al governo israeliano che si dice li abbia usati per demolire le case dei palestinesi nella Cisgiordania occupata. 

In un’inchiesta divulgata giovedì, Amnesty International riporta che la JCB non ha adottato le misure necessarie per impedire alla Comasco, il suo distributore in esclusiva in Israele, di vendere ed eseguire la manutenzione di mezzi quali bulldozer e scavatrici al ministero della difesa israeliano.

L’organizzazione con sede a Londra ha detto che ci sono decine di casi specifici riguardanti macchinari della JCB usati per demolire edifici residenziali e agricoli appartenenti a palestinesi, oltre a condutture, oliveti e altre coltivazioni.

Peter Frankental, direttore del Programma affari economici di Amnesty UK (Regno Unito), ha attaccato la JCB per la sua inazione e ha detto che l’azienda aveva “i mezzi tecnologici e contrattuali per opporsi” all’uso dei suoi macchinari fatto da Israele per infrangere il diritto internazionale.   

“Nessuna azienda responsabile dovrebbe stare a guardare mentre i suoi prodotti sono usati per violare i diritti umani, specialmente quando ciò succede da oltre un decennio come la demolizione delle case dei palestinesi nei territori palestinesi occupati,” dice Frankental a Middle East Eye.   

“È assolutamente prevedibile che i macchinari che la JCB vende al suo unico distributore in Israele vengano usati per la demolizione delle case dei palestinesi e per la costruzione delle colonie illegali di Israele.

“È semplicemente imperdonabile la negligenza della JCB nel valutare l’impatto sui diritti umani dell’uso dei suoi macchinari nell’occupazione dei territori palestinesi da parte di Israele.”

L’anno scorso il governo inglese lanciò un’indagine circa le denunce secondo cui i macchinari costruiti dalla JCB sono stati usati per demolire le case dei palestinesi e la costruzione di colonie israeliane illegali nei territori palestinesi occupati. 

L’UK National Contact Point (NCP) [Punto di contatto nazionale del Regno Unito] che è finanziato dal governo britannico per indagare in modo indipendente su reclami contro le imprese multinazionali per presunte violazioni dei diritti umani e di altri obblighi, ha accolto la denuncia contro la JCB presentata dall’ente britannico e filantropico di assistenza legale Lawyers for Palestinian Human Rights (LPHR).  

La scorsa settimana il NCP ha detto che è “deplorevole” che la JCB “non abbia preso alcuna iniziativa per applicare la dovuta diligenza circa la difesa dei diritti umani di ogni tipo, sebbene consapevole dell’impatto di eventi che potrebbero essere contrari ai diritti umani”.

Un portavoce della JCB ha detto a Middle East Eye che “l’impresa non tollera alcuna forma di violazione dei diritti umani” e che “non contribuisce né è in alcun modo responsabile o collegata a violazioni dei diritti umani nei Territori palestinesi occupati, sia direttamente che indirettamente.” 

“Queste asserzioni sono state recentemente oggetto di un’indagine completa e indipendente da parte dell’UK National Contact Point per le linee guida OCSE [Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico] per le imprese multinazionali,” aggiunge il portavoce. 

“La recente conclusione del NCP-UK riconferma gli accertamenti iniziali secondo cui non ci sono state violazioni da parte della JCB. In particolare, il NCP–UK ha concluso che il presunto impatto sui diritti umani non può essere collegato alle operazioni commerciali o agli accordi contrattuali della JCB.”  

Una storia di violazioni dei diritti

Le attività della JCB in Israele sono al centro di polemiche e hanno ricevuto pesanti critiche da parte di attivisti per i diritti [umani]. 

L’azienda domina il mercato israeliano con una quota di mercato del 65% di tutte le scavatrici e con il 90% del mercato dei veicoli da carico comunemente usati nel Paese. 

All’inizio di quest’anno la JCB era su una lista pubblicata dal Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite secondo cui l’impresa edile ha dei legami con le colonie israeliane ritenute da molte organizzazioni a livello globale in violazione del diritto internazionale. 

Il consiglio ha compilato la lista e detto che le imprese elencate hanno agevolato la costruzione delle colonie, fornito loro apparecchiature di sorveglianza o servizi di sicurezza a imprese che vi lavorano.

Nel 2018 Middle East Eye rivelò che attrezzature di perforazione della JCB erano usate nei pressi di Khan al-Ahmar, un villaggio palestinese nella Cisgiordania centrale occupata e da tempo minacciato di demolizione da Israele.

Nel 1984 la JCB cominciò a produrre veicoli di tipo militare appositamente ideati per costruire edifici. Tramite la sua branca JCB Defence Products ha fornito 3.500 veicoli alle forze armate di 57 Paesi. 

“Per molti palestinesi i caratteristici bulldozer gialli e neri della JCB sono un segno nefasto dell’incombente perdita delle loro case e di altre terre sottratte ai palestinesi per far posto alle illegali colonie israeliane,” dice Sacha Deshmukh, l’AD di Amnesty UK.

“Secondo gli standard internazionali di commercio, la JCB ha la chiara responsabilità di prendere misure per assicurare che i propri prodotti non siano usati nel commettere violazioni dei diritti umani e ciò dovrebbe essere considerato parte essenziale della diligenza dovuta per garantire i diritti umani.”

MEE ha contattato la JCB per un commento ma al momento della pubblicazione di questo articolo non ha ricevuto risposta.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Le forze armate israeliane uccidono un palestinese a Gerusalemme

Maureen Clare Murphy

10 settembre 2021 The Electronic Intifada

Venerdì le forze di occupazione israeliane hanno sparato e ucciso un palestinese nella città vecchia di Gerusalemme.

La polizia israeliana ha dichiarato che l’uomo, il cinquantenne Hazem al-Joulani, stava tentando di accoltellare un poliziotto prima che gli sparassero.

Una dichiarazione rilasciata dalla polizia israeliana sembra essere un’ammissione che l’esecuzione di al-Joulani è stata la prima e unica opzione messa in atto.

La polizia sostiene che “l’assalitore … armato con un coltello” si è avvicinato a un gruppo di poliziotti di guardia al complesso della moschea di al-Aqsa “e ha tentato di ferirne qualcuno”.

La dichiarazione prosegue: “Una rapida reazione da parte dei poliziotti e delle guardie di frontiera, che hanno aperto il fuoco sull’assalitore, lo ha neutralizzato prima che potesse realizzare la sua intenzione.”

In altre parole, le forze di occupazione hanno ucciso al-Joulani piuttosto che tentare di disarmarlo e trattenerlo usando metodi non letali.

Il video

La polizia israeliana ha rilasciato uno spezzone ricavato da una telecamera di sicurezza con l’intenzione di mostrare al-Joulani mentre attacca con un coltello le forze di occupazione.

Il montaggio del video sembra mostrare al-Joulani mentre cammina in un vicolo della città vecchia portando una borsa. Lascia cadere la borsa e si mette a correre mentre si avvicina al posto di polizia.

Il video sembra poi mostrare al-Joulani che si sporge verso un poliziotto di frontiera israeliano con la mano sinistra mentre tiene il coltello nella destra. Il poliziotto arretra da al-Joulani per qualche secondo prima di sparargli e, a quel punto, al-Joulani cade al suolo.

In nessun momento il video mostra al-Joulani che si protende verso il poliziotto con la mano che tiene il coltello, che tiene dietro la schiena.

La polizia israeliana rilascia spezzoni delle riprese delle telecamere di sicurezza quando sembrano confermare le sue affermazioni. In altri casi, come l’esecuzione di Iyad Hallaq, un palestinese affetto da autismo, ha impedito la pubblicazione di tali spezzoni.

Un breve clip circolato sui social venerdì mostra il piede di un poliziotto sulla schiena di al-Joulani mentre sanguina riverso sulla strada

Secondo i media israeliani al-Joulani è stato trasportato in condizioni critiche in ospedale con una ferita da arma da fuoco nella parte superiore del corpo. In seguito è deceduto a causa delle ferite.

Un poliziotto israeliano è stato leggermente ferito a una gamba da una pallottola di rimbalzo sparata dalla polizia.

Testimoni oculari hanno detto ai media palestinesi che le forze israeliane hanno impedito agli spettatori di avvicinarsi. Non è chiaro se le forze israeliane hanno fornito i primi soccorsi ad al-Joulani immediatamente dopo il suo ferimento.

Secondo gli organi di informazione palestinesi forze israeliane hanno perquisito la casa di al-Joulani a Shuafat, un quartiere di Gerusalemme est, e hanno arrestato due dei suoi fratelli e due dei suoi figli.

I media israeliani hanno riportato che al-Joulani, direttore di una scuola di medicina alternativa, era afflitto da problemi finanziari e che recentemente aveva tentato di suicidarsi.

Khaldoun Najm, un avvocato contattato dalla famiglia di al-Joulani, afferma che la polizia avrebbe potuto sparare in aria o alle gambe, “ma hanno deciso di ucciderlo.”

L’avvocato ha aggiunto che sono in corso trattative con le autorità israeliane per la restituzione nei prossimi giorni del corpo di al-Joulani per la sepoltura.

La politica di sparare per uccidere

Le organizzazioni per i diritti umani hanno condannato da lungo tempo la politica dello sparare per uccidere messa in atto da Israele contro dozzine di palestinesi negli ultimi anni.

In molti casi le forze di occupazione non hanno fornito i primi soccorsi ai palestinesi dopo aver loro sparato e averli feriti.

Amnesty International ha affermato che l’impedire o ritardare intenzionalmente i soccorsi medici “viola la proibizione della tortura e di altre punizioni crudeli, inumane e degradanti.”

Nel frattempo Israele trattiene i corpi dei palestinesi assassinati nel corso di pretesi attacchi a soldati e civili.

La corte suprema israeliana ha approvato questa pratica di trattenere i corpi dei palestinesi assassinati in modo da poterli usare come strumento di pressione in negoziati politici.

L’uccisione con arma da fuoco di al-Joulani è avvenuta mentre Israele è in massima allerta in seguito alla fuga di sei palestinesi da una prigione di massima sicurezza in Israele.

Secondo i media israeliani due dei prigionieri fuggitivi – Mahmoud Aradeh and Yaqoub Qadri –sono stati arrestati a Nazareth venerdì.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Pegasus: la lunga storia di processi e smentite del Gruppo NSO

Frank Andrews

20 luglio 2021 – Middle east eye

L’azienda israeliana afferma di non poter essere considerata responsabile per il modo in cui gli Stati, “clienti sovrani”, utilizzano la sua tecnologia.

Il gruppo NSO non è nuovo agli scandali.

Le affermazioni fatte questa settimana secondo cui la tecnologia spyware del programma Pegasus dell’azienda israeliana è stata utilizzata per sorvegliare 50.000 telefoni – appartenenti a capi di stato, giornalisti, attivisti per i diritti umani, oppositori politici e altro – potrebbero rappresentare l’accusa più grave mossa contro l’azienda, ma non sarebbe la prima.

Pegasus, che in vari modi infetta i telefoni con spyware, ha rappresentato una manna per i regimi autoritari che usano le tecnologie per tracciare chiunque sia percepito come critico nei confronti del loro potere.

Il Gruppo è stato oggetto di numerose azioni legali e denunce.

Martedì i pubblici ministeri francesi hanno annunciato di aver aperto un’indagine con l’accusa secondo cui Pegasus è stato utilizzato dall’intelligence marocchina per spiare i giornalisti francesi, dopo che Forbidden Stories, organizzazione senza scopo di lucro [con la missione di “continuare e pubblicare il lavoro di giornalisti minacciati, incarcerati o assassinati”, ndtr.] ha condotto un’inchiesta che ha rivelato come alcuni Stati, tra cui l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti, il Bahrain e il Marocco, starebbero usando la tecnologia Pegasus per spiare cittadini e dissidenti, inclusi i collaboratori di Middle East Eye Madawi al-Rasheed e Azzam Tamimi.

I familiari, gli amici e i contatti più stretti del giornalista saudita assassinato Jamal Khashoggi erano tra le molte migliaia di persone sorvegliate.

Nel corso degli anni, NSO, fondata nel 2010, ha ripetutamente cercato di sottrarsi alle responsabilità riguardo a come gli Stati utilizzino la sua tecnologia per spiare giornalisti e difensori dei diritti umani.

NSO afferma di seguire tutte le normative israeliane che disciplinano l’esportazione dei suoi prodotti e di vendere solo agli alleati di Israele, mai ai suoi nemici. Afferma inoltre di vendere solo a governi e mai a individui o utenti non autorizzati e che Pegasus è destinato esclusivamente a combattere la criminalità e il terrorismo.

Sottolinea tuttavia che una volta venduto il prodotto, non c’è alcun controllo (o almeno così sostiene) su come venga utilizzata la tecnologia.

Middle East Eye ha indagato sulla lunga lista di accuse a cui NSO ha dovuto rispondere nel corso degli anni e su come l’azienda abbia reagito.

2016

Secondo un rapporto di Citizen Lab [laboratorio interdisciplinare dell’Università di Toronto per ricerca, sviluppo e politica strategica di alto livello, ndtr.] e Lookout Security [società californiana che produce software di sicurezza su cloud per dispositivi mobili, ndtr.], si è scoperto che nell’agosto 2016 gli Emirati Arabi Uniti stavano monitorando l’iPhone dell’attivista per i diritti umani negli Emirati Ahmed Mansoor utilizzando lo spyware Pegasus.

Mansoor ricevette un sms che gli chiedeva di aprire un link per avere informazioni sui prigionieri torturati negli Emirati Arabi Uniti.

NSO non ha confermato di aver creato lo spyware utilizzato per raggiungere Mansoor. Tuttavia ha affermato in una dichiarazione di “vendere solo ad agenzie governative autorizzate e rispettare pienamente le rigorose leggi e regolamenti sul controllo delle esportazioni. Inoltre l’azienda non gestisce nessuno dei suoi sistemi: è un’azienda esclusivamente tecnologica”.

Altri Paesi che il rapporto di Citizen Lab ha scoperto potrebbero aver utilizzato questa tecnologia includono Messico, Turchia, Israele, Thailandia, Qatar, Kenia, Uzbekistan, Mozambico, Marocco, Yemen, Ungheria, Arabia Saudita, Nigeria e Bahrein.

In un caso collegato a quello del 2016, anche le autorità degli Emirati Arabi Uniti avrebbero impiegato Pegasus in un tentativo di phishing [azione per ottenere con l’inganno dati riservati, ndtr.] contro il giornalista MEE Rori Donaghy, che parlava in modo critico degli abusi del regime autocratico del Paese.

Nel corso dell’indagine su questo attacco, Citizen Lab ha scoperto che 1.100 attivisti e giornalisti dell’Emirato erano stati presi di mira allo stesso modo e che per questi attacchi il governo aveva pagato al gruppo NSO 600.000 dollari.

2017

Nel febbraio 2017, Citizen Lab ha rivelato che Pegasus era stato utilizzato per colpire degli attivisti messicani che cercavano di contrastare l’obesità infantile. Il malware aveva accesso ai loro telefoni quando aprivano i link con testi che dicevano, ad esempio, “Mentre stai lavorando, sto fottendo la tua vecchia, ecco una foto” e “[tua figlia] ha appena avuto un grave incidente… ecco dove è ricoverata”.

Nello stesso anno, il New York Times ha riferito che i telefoni di attivisti politici messicani per i diritti umani e anticorruzione, che stavano indagando su possibili crimini commessi dal governo e dai suoi agenti, erano stati infettati da Pegasus. Il NYT ha affermato che le vittime hanno notato le intrusioni per la prima volta nell’estate del 2016.

Il governo messicano ha negato ogni responsabilità in merito allo spionaggio.

2018

Nell’agosto 2018 Amnesty International ha affermato che uno dei membri del suo personale, così come molti sauditi difensori dei diritti umani, erano stati presi di mira con il software Pegasus, utilizzando messaggi di testo con link che dicevano, ad esempio:

Puoi per favore coprire [la protesta] davanti all’ambasciata saudita a Washington per i fratelli detenuti in Arabia Saudita? Mio fratello sta facendo il Ramadan e io sono qui con una borsa di studio, quindi per favore non taggarmi”.

Quando Amnesty ha collegato lo spionaggio alla NSO, l’azienda ha risposto: “Il nostro prodotto è destinato esclusivamente alle indagini e alla prevenzione di crimini e terrorismo. Qualsiasi utilizzo della nostra tecnologia contrario a tale scopo costituisce una violazione delle nostre politiche, dei contratti legali e dei nostri valori come azienda”.

In seguito Amnesty ha affermato che alla luce dell’attacco informatico stava considerando un’azione legale per costringere il ministero della Difesa israeliano a revocare la licenza di esportazione a NSO.

Nello stesso mese di agosto, il New York Times ha riferito che NSO stava affrontando due cause legali con l’accusa di aver partecipato attivamente allo spionaggio illegale.

Il giornale affermava che le cause, intentate da un cittadino del Qatar e da giornalisti e attivisti messicani, erano state depositate in Israele e a Cipro, e che i documenti presentati a sostegno delle accuse dimostravano che gli Emirati Arabi Uniti avevano utilizzato lo spyware Pegasus per almeno un anno.

Secondo il NYT, gli Emirati avevano intercettato i telefoni dell’emiro del Qatar, di un caporedattore di un giornale con sede a Londra e di un potente principe saudita. Gli Emirati Arabi Uniti, insieme al Bahrain e all’Arabia Saudita, erano a quel tempo coinvolti in una disputa con il Qatar che portò il trio a imporre un blocco terrestre e marittimo contro il loro vicino.

Nell’ottobre 2018 Citizen Lab ha dichiarato che il software Pegasus aveva attaccato il telefono di un caro amico di Jamal Khashoggi, Omar Abdulaziz, prima dell’omicidio del dissidente e che il software aveva preso di mira difensori dei diritti umani in Bahrain, negli Emirati Arabi Uniti e altrove.

Lo stesso mese l’informatore statunitense Edward Snowden aveva affermato che Pegasus era stato utilizzato dalle autorità saudite per sorvegliare Khashoggi prima della sua morte.

“Sono il peggio del peggio”, ha detto Snowden dell’azienda. NSO nega che la sua tecnologia sia stata “in alcun modo” utilizzata per l’omicidio.

Sempre a ottobre, Citizen Lab ha affermato che i suoi stessi ricercatori erano stati presi di mira da agenti collegati alla NSO. La NSO ha negato le accuse.

A novembre Haaretz ha riferito che nell’estate del 2017 NSO aveva firmato un accordo con l’intelligence saudita.

Rispondendo ad Haaretz, NSO ha affermato che “ha operato e opera esclusivamente in conformità con le leggi sull’esportazione della difesa e secondo le linee guida e la stretta supervisione di tutti i componenti dell’establishment della Difesa [israeliana, ndtr.], comprese tutte le questioni relative alle politiche e alle licenze di esportazione. Le informazioni fornite da Haaretz sull’azienda, sui suoi prodotti e sul loro utilizzo sono errate, basate su voci e pettegolezzi di parte. Il quadro distorce la realtà”.

Poi, secondo quanto riportato dal New York Times, a dicembre Abdulaziz ha intentato una causa contro NSO, sostenendo che la società aveva aiutato i sauditi a spiare le sue comunicazioni con Khashoggi.

Il Gruppo NSO ha affermato ancora una volta che la sua tecnologia è stata “concessa su licenza al solo scopo di fornire ai governi e alle forze dell’ordine la capacità di combattere legalmente il terrorismo e la criminalità”.

I contratti per l’utilizzo del software, ha aggiunto, “vengono forniti solo dopo un completo controllo e previa autorizzazione da parte del governo israeliano”, ha affermato NSO.

Non tolleriamo un uso improprio dei nostri prodotti. Se c’è il sospetto di un uso improprio, indaghiamo e intraprendiamo le azioni necessarie, inclusa la sospensione o la risoluzione del contratto”, ha aggiunto.

L’amministratore delegato della società, Shalev Hulio ha affermato in seguito che NSO non era stata coinvolta nel “terribile omicidio”, ma non ha risposto in merito alla segnalazione secondo cui Hulio era andato personalmente a Riyadh per vendere il software Pegasus ai sauditi.

2019

Nel febbraio 2019, una società di private equity [che apporta nuovi capitali a una società come investimento finanziario, ndtr.] ha acquistato lo spyware NSO e ha dichiarato a Citizen Lab di essere “impegnata ad aiutarla a diventare più trasparente in merito alla sua attività”.

E ad aprile, secondo quanto riferito, l’azienda ha congelato dei nuovi accordi con l’Arabia Saudita.

A maggio, Amnesty ha affermato che avrebbe presentato una petizione legale al tribunale distrettuale di Tel Aviv per bloccare le licenze di esportazione di NSO, e uno scrittore satirico saudita che vive in esilio a Londra ha intentato un’azione legale contro l’Arabia Saudita, accusando il Paese di aver utilizzato lo spyware Pegasus per ottenere informazioni personali dal suo telefono.

Lo stesso mese un’indagine del Financial Times ha rivelato che dei malintenzionati stavano sfruttando la funzione di chiamata di WhatsApp telefonando alle vittime per diffondere Pegasus.

“In nessun caso NSO è stata coinvolta nell’operazione o nell’identificazione degli obiettivi della sua tecnologia, che è gestita esclusivamente da agenzie di intelligence e forze dell’ordine”, ha risposto la società al FT. “NSO non avrebbe, o non potrebbe, utilizzare il software in proprio per prendere di mira qualsiasi persona o organizzazione”.

Nell’ottobre dello stesso anno WhatsApp, di proprietà di Facebook, ha intentato una causa contro il gruppo NSO accusandolo di aver cercato illegalmente di sorvegliare giornalisti, attivisti per i diritti umani e altri in 20 Paesi tra cui Messico, Emirati Arabi Uniti e Bahrain.

L’azione legale, intentata in California presso un tribunale federale degli Stati Uniti, accusava il gruppo NSO di aver cercato di infettare circa 1.400 “dispositivi bersaglio” con spyware ostile che potrebbe essere utilizzato per rubare informazioni agli utenti di WhatsApp.

“Contestiamo recisamente le accuse odierne e le combatteremo con forza”, ha affermato il gruppo NSO in una nota.

“L’unico scopo di NSO è fornire tecnologia all’intelligence governativa autorizzata e alle forze dell’ordine per aiutarli a combattere il terrorismo e gravi forme di criminalità”.

Un mese prima, a settembre, NSO aveva messo a punto una politica dei diritti umani, affermando che avrebbe rispettato i principi guida delle Nazioni Unite.

A novembre, un gruppo di dipendenti di NSO ha intentato una causa contro Facebook, affermando che il gigante dei social media aveva bloccato ingiustamente i loro account privati quando aveva fatto causa a NSO il mese prima, accusando Facebook di “punizione collettiva”.

Il giorno prima, intervenendo a una conferenza sulla tecnologia a Tel Aviv, il presidente della NSO Shiri Dolev aveva difeso la sua azienda, affermando che le tecnologie NSO hanno reso il mondo più sicuro.

Dolev ha anche affermato di auspicare che NSO possa parlare apertamente del ruolo che svolge nell’aiutare le forze dell’ordine a catturare i terroristi.

“Terroristi e criminali usano le piattaforme e le app dei social che usiamo tutti noi ogni giorno”, ha detto.

2020

Nel gennaio 2020 un giudice israeliano ha ordinato a NSO di affrontare la denuncia di pirateria informatica intentata contro il Gruppo dall’attivista saudita Omar Abdulaziz e di pagare le sue spese legali, e un tribunale ha stabilito che la causa legale di Amnesty per impedire a NSO di esportare il suo software si sarebbe dibattuta a porte chiuse.

Lo stesso mese Reuters ha riferito che almeno dal 2017 l’FBI stava indagando su NSO riguardo al suo possibile coinvolgimento in un attacco informatico contro cittadini e società statunitensi, nonché per una sospetta raccolta di informazioni nei confronti di governi.

La società ha affermato di non essere a conoscenza di alcuna inchiesta.

Secondo The Guardian ad aprile i documenti del tribunale relativi al caso WhatsApp dimostravano come NSO avesse negato ogni responsabilità per come era stata utilizzata la sua tecnologia, affermando che WhatsApp aveva “confuso” le azioni di NSO con quelle dei suoi “clienti sovrani”.

I governi clienti agiscono prendendo tutte le decisioni su come utilizzare la tecnologia”, ha affermato la società. “Se qualcuno ha installato Pegasus su un qualche presunto ‘dispositivo bersaglio’ non sono stati gli imputati [Gruppo NSO] a farlo. Sarebbe stato un ente di un governo sovrano”.

“Il Gruppo NSO non gestisce il software Pegasus per i suoi clienti”, ha detto a The Guardian.

A giugno, un’indagine di Amnesty International ha rivelato che lo spyware della NSO era stato utilizzato contro il noto giornalista marocchino e difensore dei diritti umani Omar Radi.

Il rapporto di Amnesty afferma che l’attacco a Radi era avvenuto tre giorni dopo l’annuncio della nuova politica dei diritti umani della NSO.

In risposta, NSO ha dichiarato di essere “profondamente turbata” dalle accuse e che avrebbe immediatamente avviato un’indagine.

“Coerentemente con la propria politica dei diritti umani, il Gruppo NSO considera seriamente la responsabilità di rispettare i diritti umani ed è fortemente impegnata a evitare di causare, contribuire o essere direttamente collegata a effetti negativi sui diritti umani”, ha affermato NSO in una nota.

Comunque la società ha preso le distanze dall’accusa di avere legami con le autorità marocchine e ha affermato che, per la natura della sua attività, deve salvaguardare la riservatezza dei suoi clienti.

“Siamo obbligati a rispettare gli interessi di riservatezza degli Stati e non possiamo rivelare l’identità dei clienti”, ha affermato NSO.

Martedì Radi è stato condannato a sei anni di carcere per aggressione sessuale e spionaggio, accuse che lui nega.

Nel luglio 2020, un tribunale di Tel Aviv ha respinto la petizione di Amnesty e 30 attivisti per i diritti umani che chiedevano di revocare la licenza di esportazione al gruppo NSO, affermando che non avevano fornito prove del fatto che il software Pegasus fosse stato utilizzato per spiare gli attivisti della ONG britannica.

Le indagini di luglio e agosto hanno rivelato che il software Pegasus era stato utilizzato per spiare politici catalani in Spagna e sacerdoti in Togo.

A dicembre Citizen Lab ha riferito che dozzine di giornalisti dell’agenzia di stampa Al Jazeera, finanziata dal Qatar, sono stati presi di mira con un attacco di Pegasus tramite iMessage, attacchi probabilmente collegati ai governi dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi Uniti.

Un giornalista di Al Jazeera ha detto di aver ricevuto minacce di morte sul suo telefono: “Hanno minacciato di farmi diventare il nuovo Jamal Khashoggi”.

In una dichiarazione il gruppo NSO ha messo in dubbio le accuse di Citizen Lab, ma ha affermato di “non essere in grado di commentare un rapporto che non abbiamo ancora visto”.

L’azienda ha affermato di fornire software al solo scopo di consentire “alle forze dell’ordine governative di affrontare la criminalità organizzata e l’antiterrorismo”.

All’inizio di quel mese, una conduttrice televisiva di Al Jazeera ha intentato un’altra causa negli Stati Uniti, sostenendo che il gruppo NSO ha hackerato il suo telefono tramite WhatsApp a causa delle sue critiche al potente principe ereditario dell’Arabia Saudita Mohammed bin Salman.

A dicembre, una coalizione di associazioni per i diritti umani, tra cui il gruppo per i diritti sulla rete Access Now, Amnesty International, il Comitato per la Protezione dei Giornalisti e Reporter senza Frontiere, si è unita alla lotta legale di Facebook contro NSO, sostenendo che la società dà la priorità ai profitti rispetto ai diritti umani, facendo seguito a un’azione simile promossa da una serie di grandi aziende tecnologiche tra cui Google e Microsoft.

2021

A marzo The Guardian ha riferito che il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti ha ripreso le indagini sul gruppo NSO, dopo mesi in cui le principali società tecnologiche statunitensi andavano affermando che l’azienda israeliana è “potente e pericolosa” e non dovrebbe avere l’immunità per il suo ruolo nelle operazioni di pirateria informatica.

Il Guardian ha riferito che all’inizio del 2020 il gruppo NSO era stato oggetto di un’indagine dell’FBI, che però sembrava essersi arenata e il Dipartimento di Giustizia stava ora mostrando un nuovo interesse per il caso.

A luglio, un’indagine condotta da Forbidden Stories e Amnesty International ha rivelato che i telefoni di migliaia di giornalisti, attivisti e funzionari sono stati presi di mira o violati utilizzando Pegasus.

In risposta, NSO ha respinto le “false affermazioni”, ha definito le accuse “teorie non provate” e parte di una “narrazione oscena… strategicamente inventata da diversi gruppi di interessi specifici strettamente allineati”.

“Le tecnologie vengono utilizzate ogni giorno anche per spezzare i circuiti di pedofilia, sesso e traffico di droga, individuare i bambini scomparsi e rapiti e i sopravvissuti intrappolati sotto edifici crollati e proteggere lo spazio aereo dalla dannosa penetrazione di pericolosi droni”, ha aggiunto.

“In parole povere, NSO ha una missione salvavita e la società proseguirà imperterrita ad adempiere a questa missione, nonostante i continui tentativi di screditarla su false basi “.

“Nonostante quanto sopra”, ha aggiunto, “NSO continuerà a indagare su tutte le affermazioni credibili di un uso scorretto e a intraprendere azioni appropriate in base ai risultati di quelle indagini”.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




La polizia israeliana ha preso di mira i palestinesi con arresti discriminatori, torture e uso illegale della forza

Amnesty International

24 giugno 2021

  • Arresti a tappeto contro attivisti palestinesi

  • Uso illegale della forza contro manifestanti palestinesi

  • Tortura nei confronti di detenuti palestinesi

  • Mancata protezione dei palestinesi da attacchi pianificati da parte di gruppi di suprematisti ebrei

Amnesty International oggi ha riferito che la polizia israeliana ha commesso in Israele e nella Gerusalemme est occupata una serie di reati nei confronti dei palestinesi conducendo, durante e dopo gli scontri in Israele e Gaza, una campagna repressiva discriminatoria attraverso arresti di massa, l’uso illegale della forza contro manifestanti pacifici e la pratica di torture e altri maltrattamenti nei confronti dei detenuti.

Inoltre la polizia israeliana ha omesso di proteggere i cittadini palestinesi di Israele da attacchi premeditati da parte di gruppi di suprematisti ebrei armati, anche quando le loro intenzioni sono state rese note in anticipo e la polizia ne era o avrebbe dovuto esserne a conoscenza.

“Le prove raccolte da Amnesty International dipingono un quadro accusatorio di discriminazione e uso eccessivo e spietato della forza da parte della polizia israeliana contro i palestinesi in Israele e nella Gerusalemme est occupata”, ha affermato Saleh Higazi, vicedirettore per il Medio Oriente e il Nord Africa di Amnesty International.

La polizia ha l’obbligo di proteggere tutte le persone sotto il controllo di Israele, siano esse ebree o palestinesi. Invece, la stragrande maggioranza degli arrestati durante la repressione della polizia che ha fatto seguito allo scoppio delle violenze tra comunità è palestinese. I pochi cittadini ebrei di Israele arrestati sono stati trattati con più indulgenza. Inoltre mentre i palestinesi subiscono la repressione, i suprematisti ebrei continuano a organizzare manifestazioni”.

I ricercatori di Amnesty International hanno parlato con 11 testimoni e il suo Crisis Evidence Lab [laboratorio delle prove durante le situazioni di crisi, ndtr.] ha esaminato 45 video e altri contenuti digitali per documentare più di 20 casi di violazioni da parte della polizia israeliana tra il 9 maggio e il 12 giugno 2021. Nel corso della repressione sono stati feriti centinaia di palestinesi e un ragazzo di 17 anni è stato ucciso.

Repressione discriminatoria

Dal 10 maggio, quando le manifestazioni si sono diffuse all’interno di Israele nelle città con popolazione palestinese, sono scoppiate delle violenze tra comunità. Decine di persone sono rimaste ferite e due cittadini ebrei di Israele e un cittadino palestinese sono stati uccisi. Sinagoghe e cimiteri musulmani sono stati vandalizzati. Il 13 maggio ad Haifa 90 auto di proprietà di palestinesi sono state distrutte e sono stati lanciati sassi contro le loro case. A Gerusalemme est i coloni israeliani hanno continuato a vessare con violenza gli abitanti palestinesi.

In risposta, il 24 maggio le autorità israeliane hanno lanciato l’operazione “Legge e ordine” principalmente contro i manifestanti palestinesi. I media israeliani hanno affermato che l’operazione mirava a “regolare i conti” con coloro che avevano partecipato alle manifestazioni e a “dissuaderli” dal continuare a farlo.

Secondo Mossawa, organizzazione palestinese a sostegno dei diritti umani, sino al 10 giugno la polizia ha arrestato più di 2.150 persone, oltre il 90% delle quali cittadini palestinesi di Israele o abitanti di Gerusalemme est. L’associazione ha anche affermato che sono state presentate 184 accuse contro 285 imputati. Secondo Adalah, un’altra organizzazione per i diritti umani, il 27 maggio un rappresentante della Procura di Stato ha dichiarato che tra gli indagati figuravano solo 30 cittadini ebrei di Israele.

Secondo la commissione di controllo per i cittadini arabi di Israele la maggior parte dei palestinesi è stata arrestata per reati come “insulto o aggressione a un agente di polizia” o “partecipazione a un raduno illegale” più che per violenze contro persone o proprietà.

“Questa repressione discriminatoria è stata orchestrata come atto di ritorsione e intimidazione per reprimere le manifestazioni pro-palestinesi e mettere a tacere coloro che fanno sentire la loro voce per condannare la discriminazione istituzionalizzata da parte di Israele e l’oppressione sistemica dei palestinesi”, ha affermato Saleh Higazi.

Uso illegale della forza contro i dimostranti

Amnesty International ha documentato l’uso eccessivo e non necessario della forza da parte della polizia israeliana per disperdere le proteste palestinesi contro gli sgomberi forzati a Gerusalemme est e contro l’offensiva a Gaza. Le proteste sono state per lo più pacifiche, anche se una minoranza ha attaccato beni della polizia e lanciato pietre. Al contrario, i suprematisti ebrei continuano impunemente a organizzare manifestazioni. Il 15 giugno migliaia di coloni ebrei e suprematisti hanno marciato provocatoriamente nei quartieri palestinesi di Gerusalemme est.

Le testimonianze e i video analizzati confermano che durante una protesta del 9 maggio nella Colonia Tedesca di Haifa [quartiere storico costruito nel 1869 come insediamento di una setta protestante proveniente dalla Germania, ndtr.], nel nord di Israele, un gruppo di circa 50 manifestanti stava protestando pacificamente quando la polizia armata, senza nessuna provocazione, li ha assaliti picchiando alcuni di loro.

Il 12 maggio Muhammad Mahmoud Kiwan, un ragazzo di 17 anni, è stato colpito da uno sparo alla testa vicino a Umm el-Fahem, nel nord di Israele, ed è morto una settimana dopo. Testimoni oculari hanno detto che era seduto in un’auto nei pressi di una manifestazione quando la polizia israeliana gli ha sparato. La polizia ha contestato l’accusa e ha sostenuto di aver avviato delle indagini.

Lo stesso giorno, agenti di polizia hanno disperso con la violenza e senza preavviso una protesta pacifica di circa 40 persone nella piazza del Pozzo di Santa Maria a Nazareth, nel nord di Israele, aggredendo fisicamente i manifestanti.

La polizia israeliana dovrebbe proteggere il diritto alla libertà di riunione, non assalire manifestanti pacifici. La Commissione d’inchiesta del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, istituita nel maggio 2021, deve indagare sull’allarmante sequenza di violazioni da parte della polizia israeliana”, ha affermato Saleh Higazi.

La polizia israeliana ha fatto un uso illegale della forza anche nella Gerusalemme est occupata. Il 18 maggio ha sparato alla schiena alla quindicenne Jana Kiswani mentre stava entrando nella sua casa a Sheikh Jarrah. Poche ore prima c’era stata una protesta davanti. Suo padre, Muhammad, ha detto ad Amnesty International che le sue vertebre sono state fratturate e che i medici non sanno se riprenderà a camminare. Le riprese video verificate mostrano Jana Kiswani che cade a terra mentre viene colpita alle spalle da uno sparo. Altre immagini prese in esame mostrano un agente di polizia israeliano che spara con freddezza con un lanciagranate IWI GL 40 Stand Alone verso una persona fuori dallo schermo, e subito dopo delle urla.

Violenze, torture e altri maltrattamenti della polizia

Il 12 maggio a Giaffa, a sud di Tel Aviv, Ibrahim Souri è stato colpito al volto da uno sparo da parte di agenti di polizia israeliani mentre dal balcone della sua casa filmava con il suo telefono cellulare la polizia mentre pattugliava la strada.

In un video verificato si sente uno degli agenti di polizia dire: “Cosa ha in mano?” Ibrahim Souri grida in risposta: Sto filmando, non è permesso? Spara, è tutto registrato”. In seguito ha detto ad Amnesty International: Non immaginavo che avrebbero sparato davvero. Pensavo di avere dei diritti e di trovarmi al sicuro in un Paese democratico”. Le fotografie esaminate dal patologo forense di Amnesty International e dai referti medici indicano che molto probabilmente è stato colpito da un KIP 40 mm, con conseguente frattura delle ossa facciali.

Amnesty International ha anche documentato le torture del 12 maggio nella stazione di polizia del Russian Compound (Moskobiya) [complesso di costruzioni edificate nei primi anni del 1900 per ospitare i pellegrini russi, ndtr.] a Nazareth. Un testimone oculare ha detto di aver visto forze speciali picchiare un gruppo di almeno otto detenuti legati che erano stati arrestati durante una protesta:

Era come un brutale campo di prigionieri di guerra. Gli ufficiali colpivano i giovani con manici di scopa e li prendevano a calci con stivali con rinforzo d’acciaio. Quattro di loro hanno dovuto essere portati via in ambulanza e uno aveva un braccio rotto”, ha riferito.

L’avvocato di Ziyad Taha, un altro manifestante rinchiuso il 14 maggio nel centro di detenzione di Kishon vicino ad Haifa, ha affermato che il suo cliente è stato legato per i polsi e le caviglie a una sedia e sottoposto per nove giorni a deprivazione del sonno.

Mancata protezione dei palestinesi dagli attacchi dei suprematisti ebraici

La polizia ha anche omesso di proteggere i palestinesi dagli attacchi organizzati da gruppi di suprematisti ebrei armati, le cui intenzioni erano state spesso rese note in anticipo.

Amnesty International ha verificato 29 messaggi di testo e audio provenienti da canali aperti di Telegram e WhatsApp, rivelando come le app siano state utilizzate per reclutare uomini armati e organizzare tra il 10 e 21 maggio aggressioni contro palestinesi in città con popolazioni ebraiche e arabe, come Haifa, Acri, Nazareth e Lod.

Tra i messaggi vi erano istruzioni su dove e quando riunirsi, il tipo di armi da usare e persino gli abiti da indossare per evitare di confondere gli ebrei di origine mediorientale con gli arabi palestinesi. I membri del gruppo hanno condiviso selfie in posa con pistole e messaggi come: “Stasera non siamo ebrei, siamo nazisti”.

Il 12 maggio centinaia di suprematisti ebrei si sono riuniti sul lungomare di Bat Yam [Bat Yam è una città situata nella parte centrale della fascia costiera, ndtr], nel centro di Israele, in risposta ai messaggi ricevuti dal partito politico Jewish Power [Potere Ebraico, di estrema destra, ndtr.] e da altri gruppi. I video esaminati mostrano decine di attivisti che attaccano gli esercizi commerciali di proprietà araba e incoraggiano gli aggressori. Una delle persone picchiate, Said Musa, è stato anche investito dagli aggressori ebrei con uno scooter. Sono solo sei gli israeliani sotto processo per l’attacco.

Anche politici e funzionari governativi hanno istigato alla violenza.

L’11 maggio sono scoppiati disordini dopo che Itamar Ben-Gvir, rappresentante parlamentare del partito Jewish Power, ha chiamato a raccolta i sostenitori perché si recassero a Lod e in altre città e ha incitato a sparare contro i lanciatori di pietre.

Il giorno prima, Musa Hassuna è stato ucciso da un cittadino ebreo di Israele a Lod durante violenze tra comunità. Un video lo mostra quando è stato colpito da uno sparo mentre si trova vicino a un gruppo di palestinesi che lanciano sassi. Suo padre ha accusato il sindaco della città, Yair Revivo, di “aver chiamato gli estremisti per compiere questo crimine brutale” in riferimento a una dichiarazione in cui il sindaco ha descritto gli eventi di Lod come un pogrom contro gli ebrei. Quattro sospetti, arrestati in seguito all’omicidio, sono stati tuttavia rilasciati su cauzione tre giorni dopo. Il ministro israeliano della Pubblica Sicurezza, Amir Ohana, ha condannato apertamente gli arresti, definendoli terribili”.

A titolo di esempio della discriminazione, Kamal al-Khatib, vice segretario del Movimento islamico del nord, è stato arrestato il 14 maggio con l’accusa di incitamento alla violenza e sostegno a un’organizzazione terroristica per i commenti pubblici in cui ha manifestato orgoglio per la solidarietà con la popolazione di Gaza e Gerusalemme Est e ha affermato che i cambiamenti allo status dei luoghi santi di Gerusalemme hanno portato alla violenza tra palestinesi ed ebrei.

Le ripetute omissioni da parte della polizia israeliana di esercitare la protezione dei palestinesi dagli attacchi organizzati da gruppi di suprematisti ebrei armati e la mancata assunzione di responsabilità per tali aggressioni sono vergognose e mostrano il disprezzo delle autorità per la vita palestinese”, Molly Malekar, direttrice di Amnesty Israel.

“Il fatto che ai cittadini ebrei di Israele, comprese figure preminenti, sia stato permesso di istigare apertamente alla violenza contro i palestinesi senza doverne rispondere evidenzia l’entità della discriminazione istituzionalizzata che affligge i palestinesi e l’urgente bisogno di protezione [nei loro confronti]”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




A Silwan, Gerusalemme, i coloni israeliani conducono un’altra battaglia per appropriarsi delle case dei palestinesi

Yumma Patel

9 giugno 2021 – Mondoweiss

Per decenni il quartiere di Batn al-Hawa a Silwan è stato l’obiettivo di una campagna incessante da parte delle organizzazioni di coloni per espellere con la forza i residenti palestinesi del quartiere e sostituirli con coloni ebrei, una procedura che secondo la legge israeliana è del tutto legale.

Probabilmente avete ormai sentito parlare di Sheikh Jarrah e della lotta dei residenti palestinesi del quartiere per salvare le loro case dall’occupazione da parte dei coloni israeliani.

Nelle ultime settimane la lotta per salvare Sheikh Jarrah ha attirato l’attenzione internazionale e ha provocato proteste diffuse in tutta la Palestina e nel mondo intero. Ma a pochi chilometri di distanza un altro gruppo di famiglie palestinesi sta affrontando una battaglia quasi identica.

A cinque chilometri da Sheikh Jarrah, appena fuori dalla Città Vecchia, nella Gerusalemme Est occupata, si trova il villaggio di Silwan.

Silwan si trova nel cuore di Gerusalemme Est e ospita dai 60.000 ai 65.000 palestinesi. È anche una delle aree di Gerusalemme più pesantemente colpita dagli interventi di colonizzazione israeliana e dai tentativi da parte di Israele di ciò che le organizzazioni per i diritti umani definiscono “ebraicizzare” la città.

Appena a sud del complesso della moschea di Al-Aqsa si trova il quartiere Batn al-Hawa di Silwan. Per decenni Batn al-Hawa è stato l’obiettivo di una campagna incessante da parte delle organizzazioni di coloni per espellere con la forza gli abitanti palestinesi del quartiere e sostituirli con coloni ebrei, un processo che per le leggi israeliane è del tutto legale.

Probabilmente vi starete chiedendo come ciò sia possibile.

In breve, un’organizzazione di coloni di destra di nome Ateret Cohanim ha cercato di espellere con la forza circa 100 famiglie da Batn al-Hawa con il pretesto che in passato, più di 100 anni fa, quei terreni fossero di proprietà ebraica.

Dal 2002, attraverso una serie di marchingegni legali sanciti dai tribunali israeliani, Ateret Cohanim ha presentato degli ordini di sfratto contro le famiglie di Batn al-Hawa, con l’obiettivo di insediare al loro posto i coloni ebrei.

E mentre la legge israeliana consente il trasferimento di proprietà ad ebrei che ne rivendichino il possesso in epoca precedente alla costituzione di Israele, lo stesso diritto è negato ai palestinesi che sono stati espropriati dalle loro case durante la Nakba del 1948.

Ad oggi a Batn al-Hawa Ateret Cohanim ha già preso il controllo di sei edifici, comprendenti 27 unità abitative. Unità che un tempo appartenevano a famiglie palestinesi.

Nel solo quartiere di Batn al Hawa, Ateret Cohanim ha in corso procedimenti legali per espellere 81 famiglie palestinesi, per un totale di 436 persone. Dal 2015 14 famiglie del quartiere sono già state sgomberate con la forza.

E questo solo a Batn al-Hawa.

In molti altri quartieri di Silwan anche altre organizzazioni di coloni stanno cercando di espellere ancora più famiglie palestinesi, mentre il governo israeliano ha disposto decine di ordini di demolizione di case palestinesi per far posto a un parco turistico archeologico e una riserva naturale.

Allora, a cosa porta tutto ciò?

Ebbene, nel 2020 la magistratura di Gerusalemme ha ordinato lo sgombero a Batn al-Hawa di altre sette famiglie palestinesi. I casi di due di queste famiglie avrebbero dovuto essere esaminati in appello il 26 maggio, ma il tribunale israeliano ha rinviato la sua decisione.

Nonostante il rinvio le sette famiglie, che contano 108 persone, sono ancora sotto imminente minaccia di espulsione. E non sono le sole.

Secondo un sondaggio del 2020 dell’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari, almeno 218 famiglie palestinesi di Gerusalemme est, per un totale di 970 persone e oltre 400 bambini, sono state colpite da ingiunzioni di sgombero.

La maggior parte di questi casi sono stati avviati da organizzazioni di coloni come Ateret Cohanim.

Amnesty International e altre organizzazioni per i diritti umani hanno invitato Israele a cancellare i piani di sgombero a Silwan, affermando che tali espulsioni forzate sono violazioni flagranti del diritto umanitario internazionale che equivalgono a crimini di guerra.

Mentre la loro espulsione forzata incombe, i palestinesi di Sheikh Jarrah e Silwan chiedono al mondo di opporsi all’apartheid israeliano e invitano le persone a continuare a portare l’attenzione sul loro caso attraverso i social media usando gli hashtag #SaveSheikhJarrah e #SaveSilwan.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Quali sono i Paesi e le imprese che vendono armi a Israele?

Frank Andrews

Venerdì 21 maggio 2021 – Middle East Eye

Gli Stati Uniti, che hanno esportato armi verso Israele ogni anno dal 1961, sono in assoluto il primo fornitore di armi a Israele.

Per undici giorni, fino all’entrata in vigore di un cessate il fuoco questo venerdì mattina, Israele ha flagellato la Striscia di Gaza, affermando di prendere di mira i “terroristi” di Hamas. Però sono stati anche rasi al suolo edifici residenziali, librerie, ospedali e il principale laboratorio di analisi del COVID-19.

Secondo Amnesty International i bombardamenti israeliani sull’enclave assediata, che hanno causato almeno 243 morti, tra cui 66 bambini, 39 donne e 17 anziani, costituiscono probabilmente un crimine di guerra.

Secondo l’associazione di difesa dei diritti umani, potrebbero costituire un crimine di guerra anche le migliaia di razzi lanciati alla cieca da Hamas verso il nord oltre Gaza, che hanno causato 12 morti [israeliani, ndtr.].

Ma mentre Hamas dispone di bombe fabbricate per la maggior parte con materiale artigianale e di contrabbando, pericolose perché non guidate, Israele possiede armi di precisione all’avanguardia e la sua industria degli armamenti è in pieno sviluppo. Il Paese è l’ottavo maggior esportatore di armi del pianeta.

L’arsenale militare di Israele è anche supportato da importazioni di armi del valore di parecchi miliardi di dollari.

Ecco i Paesi e le imprese che forniscono armi ad Israele, nonostante i crimini di guerra di cui da anni è accusato.

Stati Uniti

Gli Stati Uniti sono di gran lunga il maggior esportatore di armi verso Israele. In base ai dati sui trasferimenti di armi dell’Istituto Internazionale di Ricerca sulla Pace di Stoccolma (SIPRI), che contabilizza soltanto le principali armi convenzionali, tra il 2009 e il 2020 più del 70% delle armi acquistate da Israele proveniva dagli Stati Uniti.

Secondo i dati del SIPRI, gli Stati Uniti hanno esportato armi verso Israele ogni anno a partire dal 1961.

Benché sia più difficile seguire le effettive spedizioni di armi, l’organizzazione britannica Campagna Contro il Commercio di Armi (CAAT) segnala che tra il 2013 e il 2017 gli Stati Uniti hanno spedito 4,9 miliardi di dollari di armi a Israele.

Sono state anche fotografate bombe di fabbricazione americana a Gaza in questi ultimi giorni.

Queste esportazioni sono aumentate nonostante le diverse accuse di crimini di guerra a danno dei palestinesi rivolte alle forze israeliane.

Gli Stati Uniti hanno così continuato ad esportare armi in Israele quando nel 2009 si è saputo che le forze israeliane avevano utilizzato indiscriminatamente bombe al fosforo bianco contro la popolazione palestinese, pratica definita crimine di guerra da Human Rights Watch.

Nel 2014 Amnesty International ha sollevato le stesse accuse contro Israele in seguito agli attacchi sproporzionati che hanno causato molte decine di vittime civili a Rafah, nel sud di Gaza. L’anno seguente, secondo i dati del SIPRI, il valore delle esportazioni di armi americane verso Israele è praticamente raddoppiato.

Lunedì il presidente americano Joe Biden ha “espresso il suo sostegno ad un cessate il fuoco”, in seguito alle pressioni dei democratici al senato. Tuttavia nella giornata si è ugualmente saputo, secondo il Washington Post, che la sua amministrazione aveva recentemente approvato vendite di armi ad Israele per un totale di 735 milioni di dollari. I democratici della Commissione affari esteri della Camera dei rappresentanti hanno chiesto all’amministrazione di rinviare la vendita, in attesa di un riesame.

Nel quadro di un accordo di assistenza per la sicurezza riferito al periodo 2019-2028, gli Stati Uniti hanno accettato, con riserva dell’approvazione del Congresso, di versare ad Israele 3,8 miliardi di dollari all’anno come finanziamento militare estero, di cui la maggior parte deve essere spesa in armi di fabbricazione americana.

Secondo la NBC [National Broadcasting Company, azienda radiotelevisiva statunitense, ndtr.], ciò rappresenta circa il 20% del budget israeliano destinato alla difesa e quasi i tre quinti del finanziamento militare estero degli Stati Uniti nel mondo.

Ma succede anche che gli Stati Uniti concedano dei fondi supplementari, oltre la contribuzione annuale. Cosi, dal 2011, il Paese ha versato 1,6 miliardi di dollari supplementari per il sistema antimissile israeliano Iron Dome [Cupola di Ferro], alcune parti del quale sono fabbricate negli Stati Uniti.

Israele dispone di un’industria degli armamenti molto avanzata, potenzialmente in grado di sostenere bombardamenti almeno per un breve periodo”, spiega Andrew Smith di CAAT a Middle East Eye.

Tuttavia i suoi principali aerei da combattimento provengono dagli Stati Uniti”, precisa riferendosi agli aerei da combattimento F-16 americani che continuano a colpire la Striscia di Gaza. “Anche se Israele è in grado di costruirli sul proprio territorio, sarebbe sicuramente necessario molto tempo prima di poterli assemblare.

Per quanto riguarda le munizioni, molte vengono importate, ma io penso che potrebbero essere prodotte in Israele. Evidentemente in questo ipotetico scenario la transizione verso una produzione nazionale di armi prenderebbe del tempo e costerebbe cara.

Tuttavia le vendite di armi non dovrebbero essere analizzate separatamente. Si basano su un forte sostegno politico”, aggiunge Andrew Smith. “Il sostegno degli Stati Uniti, in particolare, è prezioso per mantenere l’occupazione e legittimare campagne di bombardamento come quella a cui stiamo assistendo.”

Secondo CAAT, il lungo elenco delle imprese private americane coinvolte nelle forniture di armi a Israele comprende Lockheed Martin, Boeing, Northrop Grumman, General Dynamics, Ametek, UTC Aerospace e Raytheon.

Germania

Il secondo maggior esportatore di armi a Israele è la Germania, che rappresenta il 24% delle importazioni di armi di Israele nel periodo 2009-2020.

La Germania non fornisce dati sulle armi che spedisce, ma, secondo la CAAT, il Paese ha concesso licenze per vendite di armi a Israele valutate in 1,6 miliardi di euro tra il 2013 e il 2017.

In base ai dati del SIPRI la Germania ha venduto armi ad Israele durante tutti gli anni ’60 e ’70 del ‘900 e lo fa ogni anno dal 1994.

Secondo Haaretz, che nota che nel 1960 il Primo Ministro (israeliano) David Ben Gurion aveva incontrato a New York il Cancelliere tedesco Konrad Adenauer ed aveva sottolineato “la necessità di Israele di piccoli sottomarini e di missili anti-aereo”, i primi colloqui in materia di difesa tra i due Paesi risalgono al 1957.

Se gli Stati Uniti hanno soddisfatto parecchie necessità di Israele in materia di difesa aerea, la Germania continua a fornire sottomarini.

Secondo la CAAT il costruttore navale tedesco ThyssenKrupp Marine Systems ha costruito sei sottomarini Dolphin per conto di Israele, mentre la società Renk AG con sede in Germania contribuisce all’equipaggiamento dei carri armati Merkava israeliani.

Secondo il suo portavoce, lunedì durante una conversazione telefonica con Benjamin Netanyahu la cancelliera tedesca Angela Merkel ha espresso la sua “solidarietà” ad Israele ed ha riaffermato “il diritto (del Paese) a difendersi” contro i lanci di razzi di Hamas.

Italia

Segue poi l’Italia, che secondo SIPRI rappresenta il 5,6% delle importazioni delle principali armi convenzionali di Israele nel periodo dal 2009 al 2020.

La CAAT segnala che dal 2013 al 2017 le spedizioni di armi dall’Italia a Israele sono arrivate a 476 milioni di euro.

Secondo Defense News [sito web e giornale americano su politica e armamenti, ndtr.] negli ultimi anni i due Paesi hanno concluso accordi in base ai quali Israele ha ottenuto aerei da addestramento in cambio di missili ed altre armi.

Anche se l’Italia a inizio maggio si è unita ad altri Paesi europei nel criticare la colonizzazione israeliana a Sheikh Jarrah e altrove, il Paese continua ad esportare armi.

Venerdì scorso i portuali di Livorno hanno rifiutato di caricare una nave che trasportava armi con destinazione il porto israeliano di Ashdod, dopo essere stati informati dall’Ong italiana ‘The Weapon Watch’ del contenuto del carico.

Il porto di Livorno non sarà complice del massacro del popolo palestinese”, ha dichiarato l’Unione Sindacale di Base in un comunicato.

The Weapon Watch’ ha esortato le autorità italiane a sospendere “del tutto o in parte le esportazioni militari italiane verso le zone di conflitto israelo-palestinese”.

Secondo la CAAT l’Augusta Westland, controllata della società italiana Leonardo, fabbrica componenti per gli elicotteri d’attacco Apache utilizzati da Israele.

Regno Unito

La CAAT segnala che il Regno Unito, benché non sia presente nella banca dati del SIPRI relativamente agli ultimi anni, vende ugualmente armi a Israele e dal 2015 ha concesso licenze per la produzione di armamenti per un totale di 400 milioni di sterline.

L’Ong chiede al Regno Unito di porre fine alla vendita di armi ed al sostegno militare alle forze israeliane e di aprire un’inchiesta per stabilire se siano state usate armi britanniche per bombardare Gaza.

L’ammontare reale delle esportazioni del Regno Unito verso Israele è molto più alto delle cifre disponibili pubblicamente, a causa di un sistema opaco di vendite di armi basato su “licenze aperte”, autorizzazioni all’esportazione relativamente alle quali il valore delle armi e la loro quantità sono tenuti segreti.

Andrew Smith di CAAT spiega a MEE che dal 30 al 40% circa delle vendite di armi britanniche ad Israele è probabilmente effettuato in base a questo sistema di licenze aperte, ma che “ci è semplicemente impossibile sapere” di quali armi si tratti, né in che modo vengano utilizzate.

A meno che il governo britannico non apra una propria inchiesta, il solo modo per stabilire quali armi siano state utilizzate è affidarsi alle foto scattate in una delle peggiori zone di conflitto al mondo, mezzo che non è appropriato per chiedere conto all’industria degli armamenti”, deplora Andrew Smith.

Per scoprire queste atrocità dobbiamo contare sulle persone presenti nelle zone di guerra che scattino foto delle armi che cadono attorno a loro, o sui giornalisti”, aggiunge.

Perciò possiamo sempre supporre che enormi quantità di armi siano utilizzate in un modo che non conosceremo mai.”

La CAAT segnala che tra le imprese britanniche che contribuiscono a fornire armi o materiale militare ad Israele figurano BAE Systems, Atlas Elektronik UK, Meggit, Penny & Giles Controls, Redmayne Engineering, Senior PLC, Land Rover e G4S.

Inoltre il Regno Unito spende ogni anno parecchi milioni di sterline in sistemi di armamenti israeliani. Elbit Systems, il maggiore produttore di armi israeliano, possiede diverse società affiliate nel Regno Unito, come molti fabbricanti di armi americani.

Una delle loro fabbriche, situata a Oldham, nel nord dell’Inghilterra, è stata l’obbiettivo di manifestanti filopalestinesi durante gli ultimi mesi.

Molte armi esportate dal Regno Unito verso Israele – in particolare aerei, droni, granate, bombe, missili e munizioni – “rientrano nel tipo di armi che possono essere utilizzate in questo genere di campagna di bombardamenti”, sottolinea la CAAT in un comunicato relativo ai recenti bombardamenti.

Non sarebbe la prima volta”, precisa l’organizzazione.

Nel 2014 un’indagine del governo britannico ha rivelato la concessione di dodici licenze per armi probabilmente utilizzate nel corso del bombardamento di Gaza in quello stesso anno, mentre nel 2010 David Miliband, allora segretario agli Affari Esteri, ha dichiarato che armi fabbricate nel Regno Unito erano state” quasi certamente” utilizzate durante la campagna di bombardamenti dell’enclave condotta da Israele nel 2009.

Sappiamo che armi di fabbricazione britannica sono già state utilizzate contro i palestinesi, ma ciò non ha minimamente contribuito a fermare il flusso di armi”, afferma Andrew Smith.

Deve esserci una sospensione delle vendite di armi ed un esame completo per stabilire se siano state utilizzate armi britanniche e se siano coinvolte in eventuali crimini di guerra.”

Da molti decenni i successivi governi parlano del loro impegno per il consolidamento della pace, pur continuando ad armare e sostenere le forze israeliane”, prosegue. “Queste vendite di armi non costituiscono solo un sostegno militare, ma mandano anche un segnale chiaro di sostegno politico all’occupazione e al blocco, come anche alla violenza che ne consegue.”

Canada

Secondo i dati di SIPRI, il Canada rappresenta circa lo 0,3% delle importazioni israeliane di armi convenzionali nel periodo 2009-2021.

Alla luce dei recenti avvenimenti il politico canadese Jagmeet Singh, del Nuovo Partito democratico, ha invocato la fine delle vendite di armi da parte del suo Paese ad Israele,

Secondo Globe and Mail [quotidiano canadese in lingua inglese, ndtr.], nel 2019 il Canada ha inviato a Israele materiali e tecnologie militari per un ammontare di 13,7 milioni di dollari, cioè lo 0,4% del totale delle sue esportazioni di armi.

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)

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“Spaccata a metà”: la lunga attesa della madre di Gaza per riunirsi ai suoi figli in Cisgiordania

Maha Hussaini da Gaza

29 marzo 2021 – Middle East Eye

Le organizzazioni per i diritti affermano che la “politica di separazione” israeliana sta mantenendo separate decine di famiglie.

Niveen Gharqoud ha visto solo uno dei suoi cinque figli. È rimasta separata dagli altri da quando li ha mandati a vivere con il padre a Qalqilya, una città nella Cisgiordania occupata a circa 100 chilometri di distanza.

Gharqoud, 39 anni, che vive con i propri genitori e con il figlio più giovane nel villaggio di Juhr al-Deek, nel centro della Striscia di Gaza, ha presentato dal 2018 alle autorità israeliane cinque distinte richieste di permesso di uscita nella speranza di riunirsi a suo marito e ai figli in Cisgiordania.

Non glien’è stata concessa nessuna.

Sono passati quattro anni dall’ultima volta che ho visto i miei figli. Prima dormivo con loro in cinque su un letto, e ora non riesco a vederli se non attraverso lo schermo di un cellulare”, ha dichiarato Gharqoud a Middle East Eye.

“È doloroso accettare l’idea che i miei quattro figli si prendano cura di se stessi senza una madre, mentre il padre lavora per la maggior parte del tempo”.

Politica di separazione

Gli abitanti della Striscia di Gaza assediata hanno bisogno di permessi di uscita da parte delle autorità israeliane per entrare nella Cisgiordania occupata attraverso il confine controllato da Israele a Erez, l’unico valico per le persone che vogliono spostarsi tra Gaza e il resto dei territori palestinesi occupati.

Nel 2007, un anno dopo aver vinto le elezioni legislative, Hamas ha preso il controllo della Striscia di Gaza. Israele ha subito imposto all’enclave costiera un blocco soffocante, limitando il movimento di persone e merci dentro e fuori Gaza, in base a quella che il governo israeliano chiama “la politica di separazione”.

Secondo il governo israeliano la politica mira a limitare i viaggi tra Gaza e la Cisgiordania per evitare il passaggio di “una rete di terroristi” fuori dalla Striscia.

“Anche se il governo israeliano vuole ridurre quello che chiama il passaggio di terroristi nei territori palestinesi occupati, la sua politica di separazione imposta a oltre due milioni di palestinesi nella Striscia di Gaza è semplicemente una punizione collettiva, proibita dal diritto internazionale umanitario”, ha detto a MEE Mohammed Emad, Il direttore del dipartimento legale dell’organizzazione per la difesa [dei diritti umani] Skyline International for Human Rights, con sede a Stoccolma.

“Tali restrizioni sono imposte ai civili in modo casuale e arbitrario e portano alla separazione di dozzine di famiglie”. Famiglie come i Gharqoud.

Una famiglia divisa

Niveen ha sposato Sami Gharqoud a Gaza 18 anni fa. Nel corso del loro matrimonio lui ha svolto vari lavori di manovalanza in Israele.

“Si spostava tra Gaza e la Cisgiordania”, dice Niveen. “Lavorava lì e veniva a trovarmi ogni tanto.

Non ha assistito a nessuna delle nascite dei nostri cinque figli, e non mi ha mai visto incinta se non nelle foto e attraverso le videochiamate”, racconta Niveen a MEE.

Andavo in ospedale con mia madre, trascorrevo da sola tutto il dolore [del travaglio], partorivo e tornavo a casa. Sarebbe venuto a trovarci solo dopo il parto di ogni bambino, sarebbe rimasto un paio di settimane e poi sarebbe partito di nuovo per la Cisgiordania”.

Ma dall’inizio dell’attuale blocco, Sami ha fatto visita alla sua famiglia a Gaza solo una volta.

“Prima dell’ultima guerra a Gaza [nel 2014] sono andata a trovarlo in Cisgiordania, sono rimasta per circa sei mesi e sono rimasta incinta del mio ultimo figlio, Ameer”, dice Niveen. Questa è risultata essere l’unica volta in cui ha potuto far visita a Sami.

Poi sono dovuta tornare a Gaza, perché le [autorità israeliane] mi hanno permesso di portare con me in Cisgiordania solo due dei miei quattro figli. Non mi hanno consentito deliberatamente di portare tutti e quattro i bambini. Volevano costringermi a tornare a Gaza. Quindi sono stata obbligata a rientrare “.

Sami non ha mai incontrato il suo figlio più piccolo, Ameer, che ora ha sei anni.

Niveen ha cercato di ricongiungersi al marito dalla nascita del loro ultimo figlio, nel 2014, ma le autorità israeliane non le hanno permesso di recarsi in Cisgiordania.

Nel 2016 ha deciso di mandare i suoi figli dal padre in anticipo, dopo che i suoi parenti e amici le avevano detto che questo l’avrebbe aiutata a ottenere in seguito un permesso per riunirsi a loro.

Mio padre ha preso i miei quattro figli e ha viaggiato attraverso il confine di Rafah [con l’Egitto] fino alla Giordania. Ma li ha lasciati al ponte Allenby [che collega la Giordania alla Cisgiordania] perché non poteva attraversarlo – la sua carta d’identità dichiara che vive a Gaza, a differenza dei miei figli e del loro padre, i cui documenti indicano che vivono in Cisgiordania.

Ora non posso mandare Ameer a ricongiungersi con i suoi quattro fratelli. La mia figlia più grande, che ora ha 17 anni, si assume già la responsabilità dei suoi tre fratelli e si prende cura di loro. È ancora una bambina, ma è sommersa da tutte quelle responsabilità “.

I quattro figli di Niveen a Qalqilya vedono il padre appena una o due volte a settimana a causa del suo lavoro e trascorrono il resto della settimana da soli. Ogni volta che hanno bisogno di qualcosa, i bambini chiamano la madre a Gaza.

“Circa due anni fa mia figlia mi ha chiamato urlando”, ricorda Niveen Gharqoud. “Ha detto che dell’acqua bollente era caduta sul viso del fratello minore mentre lei stava cuocendo alcune uova per dargliele da mangiare. Non sapevo cosa fare – ho chiamato la loro vicina e l’ho pregata di andare ad aiutarli”.

“Questa non è stata l’ultima volta in cui è successa una cosa del genere”, continua Niveen. “Qualche giorno fa, Malak [la sorella maggiore] mi ha chiamato spaventata. Mi ha detto che qualcuno stava cercando di aprire la porta del loro appartamento. Non potevo fare altro che dirle di chiudere bene la porta e di accendere la televisione per fare rumore”.

“Ho i numeri dei vicini per i casi di emergenza perché qui sono impotente, mentre il padre è assente per la maggior parte del tempo”.

Gharqoud spera ancora di riuscire a raggiungere i suoi figli e il marito a Qalqilya, ma dice che le autorità israeliane “non rispondono nemmeno alle mie domande per il permesso di uscita, le lasciano in sospeso”.

Quando un permesso di uscita viene negato o resta sospeso, i palestinesi della Striscia di Gaza devono aspettare tre mesi prima di poter presentare un’altra richiesta.

Una lunga storia di separazioni

Nel luglio 2003 il parlamento israeliano ha approvato una legge che impedisce il ricongiungimento familiare dei cittadini israeliani sposati con palestinesi dei territori palestinesi occupati.

Secondo Amnesty International la legge costituisce un “ulteriore passo nella politica israeliana di lunga data volta a limitare il numero di palestinesi a cui sia consentito di vivere in Israele e a Gerusalemme est”.

Israele è stato a lungo criticato per aver separato i bambini palestinesi dalle loro famiglie, compresi quelli della Striscia di Gaza che vengono inviati per cure mediche nei territori palestinesi occupati.

I dati raccolti dalla ONG Physicians for Human Rights Israel [Medici per i diritti umani, ONG no profit che utilizza medicina e scienza per documentare e difendere contro le atrocità di massa e le gravi violazioni dei diritti umani in tutto il mondo, ndtr.] hanno rivelato che più della metà delle domande presentate nel 2018 da genitori che cercavano di accompagnare i propri figli per cure mediche nei territori palestinesi occupati sono state respinte.

Nel 2019 circa un quinto dei bambini inviati per cure mediche dalla Striscia di Gaza ha viaggiato senza i genitori.

Un rapporto pubblicato dall’organizzazione israeliana per i diritti umani Gisha nel 2020 affermava che nell’isolare la Striscia di Gaza e nell’imporre ai palestinesi restrizioni di movimento tra città e villaggi, Israele ha “perseguito una strategia del divide et impera” per ostacolare le possibilità da parte dei palestinesi di mantenere unite la vita sociale e familiare.

Le autorità israeliane al momento attuale non hanno risposto ad una richiesta di commento.

Separazione traumatica

Il figlio più giovane dei Garqouds, Ameer, ha accompagnato suo nonno e i fratelli al valico di confine di Rafah quando aveva tre anni. Una volta arrivati al confine, si è reso conto che il suo fratello più vicino d’età, Muhammed, e altri tre fratelli se ne stavano andando senza di lui. A differenza di loro, Ameer era troppo giovane per viaggiare senza un genitore.

“Quando è tornato a casa, era così scioccato che è svenuto”, ha detto Niveen. “Da allora ha tanta paura di essere lasciato solo da non recarsi neppure a scuola.

“Qualche mese fa sono andata al matrimonio di un parente. Quando sono uscita [da casa] Ameer ha iniziato a urlare ed è svenuto, pensando che tutti gli mentissero e che io fossi andata in Cisgiordania abbandonandolo”.

Per evitare di lasciarlo solo a scuola e temendo che la sua ansia possa peggiorare Gharqoud ora gli impartisce le lezioni a casa.

“Da quando ha visto i suoi fratelli andarsene, è diventato così bisognoso di attenzioni che mi segue ovunque, per assicurarsi che non lo abbandoni”.

“Manca la cucina della mamma”

“Tua sorella mi ha detto che l’altro giorno non sei andato a scuola, perché?” Niveen ha chiesto a Muhammed, il figlio di 10 anni, nel corso di una videochiamata.

“Mi sono svegliato, ho cercato i miei pantaloni e non sono riuscito a trovarli, quindi non ho potuto andare”, ha risposto.

“Se avesse una madre al suo fianco questo non sarebbe mai accaduto”, dice a MEE Niveen, seduta nel suo soggiorno.

Con Sami ancora in quarantena dopo essere risultato positivo al coronavirus, Niveen si assicura anche che i suoi figli abbiano mangiato il loro pranzo.

Di solito mangiamo panini o ordiniamo il cibo a domicilio perché non abbiamo nessuno che cucini per noi. Ma Malak a volte chiama mamma e chiede alcune ricette per sfamarci”, racconta a MEE Muhammed, 10 anni, il quarto figlio dei Gharqoud.

Niveen dice che evita di inviare foto di riunioni di famiglia ai suoi figli in modo che non si sentano abbandonati o desiderino “cibo che non possono avere”.

“Malak cucina bene”, afferma Muhammed, “ma mi mancano i piatti di mamma, che solo lei sa preparare bene”.

Malak, che ha festeggiato il suo 17° compleanno a febbraio, ha assunto il ruolo di sua madre: tenere sotto controllo gli studi dei fratelli e assisterli nelle loro necessità quotidiane.

“Qualche settimana fa, il suo vicino di casa di 23 anni ha chiesto la sua mano in matrimonio”, riferisce Niveen. “In una situazione normale, non accetterei mai l’idea di permettere a mia figlia di sposarsi a quell’età. Ma dal momento che non ha nessuno che si prenda cura di lei voglio che si senta emotivamente stabile con qualcuno su cui può fare affidamento.

“Inizialmente eravamo d’accordo sul suo fidanzamento, ma Malak si rifiuta ancora di procedere finché non potrò unirmi a loro e incontrare il [suo] ragazzo.”

Niveen dice che i suoi figli potrebbero facilmente tornare a Gaza, ma lei si rifiuta di riportarli a vivere lontano dal padre. Non è sicura, nel caso tornassero, che potrebbero ottenere un permesso per ripartire, e il viaggio attraverso la Giordania e l’Egitto è troppo costoso.

I miei figli stanno crescendo e hanno bisogno del padre nella loro vita. Sono spaccata a metà; li voglio qui con me, ma voglio anche che vivano in un ambiente sano con me e il loro padre insieme”, ha confidato a MEE.

“Cosa c’è di così difficile nel permettere a me e a mio figlio di sei anni di riunirci con la nostra famiglia?”

(traduzione dall’inglese di Aldo lotta)




Le forze israeliane colpiscono a morte un bambino palestinese durante le proteste del suo villaggio

Redazione di MEE

4 Dicembre 2020 – Middle East Eye

Ali Abu Aalya soccombe alle ferite dopo essere stato colpito al ventre dalle forze israeliane vicino a Ramallah, nella Cisgiordania occupata

Il ministero della Sanità locale ha detto che venerdì sera vicino alla città occupata di Ramallah, in Cisgiordania, forze israeliane hanno colpito a morte un minore palestinese.

Il ministero ha affermato che il ragazzino è stato identificato come Ali Abu Aalya, di età compresa tra i 13 e i 15 anni. È stato ucciso durante gli scontri scoppiati tra gli abitanti palestinesi e i soldati israeliani nel villaggio di al-Mughayir, a nord-est di Ramallah.

La Croce Rossa Palestinese [sic] ha detto al giornale israeliano Haaretz che le forze israeliane hanno sparato ad Abu Aalya al ventre. È stato poi portato di corsa in un ospedale locale, dove è decceduto a causa delle ferite.

Gli scontri sono scoppiati nel villaggio venerdì, dopo che le forze israeliane hanno risposto a una protesta degli abitanti locali contro un nuovo avamposto coloniale nella zona. Haaretz ha riferito che la manifestazione ha avuto luogo “lontano dall’avamposto”.

Venerdì l’Unicef, l’agenzia dell’Onu che si occupa del benessere dei bambini, ha denunciato l’uccisione di Abu Aalya. “L’Unicef esorta le autorità israeliane a rispettare, proteggere e garantire i diritti di tutti i minori e ad astenersi dall’usare la violenza contro i minorenni, in conformità con il diritto internazionale”, ha affermato Ted Chaiban, direttore regionale dell’agenzia per il Medio Oriente e il Nord Africa in un comunicato.

Le comunità palestinesi spesso usano il venerdì dopo le preghiere di mezzogiorno come momento per protestare, tra i vari problemi, contro le politiche israeliane di confisca delle terre, i blocchi stradali e l’espansione delle colonie.

Le associazioni per i diritti umani, tra cui Human Rights Watch e Amnesty International, hanno condannato la risposta di Israele a tali proteste, che spesso comportano la perdita di vite umane, accusando l’esercito di attuare una politica di “sparare per uccidere” che incoraggia le “esecuzioni extragiudiziali”.

A causa della pandemia da Covid-19, quest’anno le proteste sono state meno frequenti nella Cisgiordania occupata. Tuttavia secondo l’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari dall’inizio del 2020 negli scontri sono stati uccisi, per lo più da colpi d’arma da fuoco israeliani, almeno 28 palestinesi, tra cui sette minorenni.

Nel frattempo, con l’incoraggiamento dell’amministrazione del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, il governo israeliano ha intensificato l’espansione delle colonie. Benché i piani di annessione totale della Cisgiordania occupata siano stati sospesi dopo il raggiungimento degli accordi di normalizzazione con il Bahrein e gli Emirati Arabi Uniti, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha sottolineato che la sospensione è temporanea.

(traduzione dall’inglese di Carlo Tagliacozzo)




L’amministrazione statunitense uscente definisce il BDS “antisemita”

Tamara Nassar

19 novembre 2020 – ELECTRONIC INTIFADA

Giovedì il segretario di Stato Mike Pompeo ha formalmente etichettato il movimento per il boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (BDS) a favore dei diritti dei palestinesi come “antisemita” e ha promesso che l’amministrazione statunitense uscente lo combatterà.

Questa è l’ultima violazione della libertà di parola da parte del governo degli Stati Uniti nel suo tentativo di reprimere il sostegno ai diritti dei palestinesi.

“Come abbiamo chiarito, l’antisionismo è antisemitismo”, ha detto Pompeo, equiparando la critica nei confronti di Israele e della sua ideologia politica razzista al sionismo da un lato, al fanatismo contro gli ebrei dall’altro.

Gli Stati Uniti sono “impegnati a contrastare la campagna globale del BDS in quanto manifestazione di antisemitismo”, ha affermato Pompeo.

Giovedì, a Gerusalemme, in una conferenza stampa congiunta con il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, egli ha inoltre definito il BDS un “cancro”.

Pompeo ha affermato che l’inviato del Dipartimento di Stato per l’antisemitismo avrebbe “identificato le organizzazioni che si impegnano o in altro modo sostengono” il BDS per consentire al Dipartimento di Stato di interrompere qualsiasi finanziamento governativo.

Giovedì Amnesty International ha dichiarato che gli attacchi mirati di Pompeo contro i gruppi “che, in quanto antisemiti, utilizzano strumenti pacifici, come il boicottaggio, per porre fine alle violazioni dei diritti umani contro i palestinesi, violano la libertà di espressione e sono un regalo per chi cerca di mettere a tacere, perseguitare, intimidire e opprimere coloro che difendono i diritti umani in tutto il mondo”.

Le organizzazioni della società civile palestinese hanno lanciato la campagna BDS nel 2005 per fare pressione su Israele affinché rispettasse i diritti dei palestinesi e si attenesse al diritto internazionale. Si basa sul modello della campagna che ha contribuito a porre fine all’apartheid in Sud Africa.

Il movimento BDS si oppone a tutte le forme di razzismo e fanatismo, compreso l’antisemitismo, e sostiene l’uguaglianza come questione di principio.

Il Comitato nazionale palestinese per il boicottaggio, il gruppo direttivo della campagna globale del BDS, ha denunciato il verificarsi della “fanatica alleanza Trump-Netanyahu” che “continua a consentire e normalizzare la supremazia bianca e l’antisemitismo negli Stati Uniti e nel mondo, diffamando contemporaneamente il BDS.”

Omar Shakir di Human Rights Watch ha affermato che l’amministrazione Trump “sta compromettendo la lotta contro l’antisemitismo equiparando quest’ultimo alle forme di boicottaggio pacifico”.

Vendita delle merci dei coloni

Pompeo ha anche dichiarato che le merci prodotte nelle colonie insediate sulla terra palestinese occupata devono essere etichettate come “Made in Israel” – nascondendo che sono state prodotte in colonie costruite nel territorio occupato in violazione del diritto internazionale.

Ciò verrà applicato a tutti i prodotti dell’Area C – il 60% della Cisgiordania sotto il pieno controllo militare israeliano secondo gli accordi di Oslo degli anni ’90. È l’area in cui si trova la maggior parte delle colonie israeliane.

Questo avviene nel momento in cui quattro senatori repubblicani hanno scritto questa settimana una lettera al presidente Donald Trump chiedendogli di cambiare la politica doganale degli Stati Uniti per consentire alle merci prodotte nelle colonie di essere etichettate come “Made in Israel”.

Pompeo ha aggiunto che le merci prodotte nelle aree della Cisgiordania occupata nominalmente sotto il controllo dell’Autorità Palestinese saranno etichettate come prodotte in “Cisgiordania”.

Pompeo ha anche affermato che gli Stati Uniti “non accetteranno più” l’etichettatura congiunta dei prodotti della Cisgiordania occupata e di Gaza, poiché i due territori “sono separati politicamente e amministrativamente e devono essere trattati di conseguenza”.

Queste misure possono essere interpretate come un ulteriore riconoscimento da parte degli Stati Uniti dell’annessione de facto del territorio palestinese da parte di Israele, mentre negano ai palestinesi qualsiasi riconoscimento che la Cisgiordania e la Striscia di Gaza costituiscano un’unica entità politica.

Il Comitato nazionale del BDS ha definito la fusione intenzionale di antisionismo e antisemitismo da parte del Dipartimento di Stato un tentativo “revisionista e fraudolento” di mettere a tacere non solo i sostenitori del BDS, ma anche le organizzazioni per i diritti umani – come Human Rights Watch – che non sostengono il BDS ma si oppongono al commercio dei prodotti delle colonie.

Il vino delle colonie

Giovedì in un tweet Pompeo ha anche attaccato la politica della UE, scarsamente applicata, volta a richiedere che le merci delle colonie israeliane siano etichettate come tali.

A quanto pare Pompeo avrebbe poco dopo cancellato il tweet per poi ripubblicarlo senza l’immagine, originariamente inclusa, di quello che sembrava il villaggio palestinese di Mukhmas [a nord-est di Gerusalemme, nella Cisgiordania centrale, ndtr.]

Ciò è avvenuto quando Pompeo e l’ambasciatore statunitense David Friedman hanno visitato le Cantine Psagot, un’azienda coloniale che opera su terre palestinesi occupate e rubate.

“Oggi ho pranzato nella pittoresca cantina Psagot”, ha scritto Pompeo.

“Sfortunatamente, Psagot e altre aziende sono state prese di mira dalle dannose iniziative della UE riguardo l’etichettatura, le quali agevolano il boicottaggio delle aziende israeliane”.

Funzionari statunitensi avevano già visitato, nel corso dell’amministrazione Trump, i territori occupati.

La sosta di Pompeo presso le cantine Psagot era tuttavia chiaramente intesa a fornire un sostegno di alto profilo alle colonie illegali di Israele.

Il vino prodotto dalle Cantine Psagot è ottenuto da uve provenienti da diverse colonie della Cisgiordania.

Le cantine sono costruite su un terreno di proprietà dei palestinesi della vicina città di al-Bireh [adiacente a Ramallah, in Cisgiordania, ndtr.], i cui abitanti hanno protestato contro la visita di Pompeo.

Alla stregua di altri colonizzatori europei Israele ha cercato a lungo di vendere all’interno del mercato vinicolo internazionale vini prodotti su terreni palestinesi e siriani rubati, come ha scritto recentemente il professore della Columbia University Joseph Massad [docente di politica araba moderna e storia intellettuale, ndtr.].

Il vino prodotto sulle alture del Golan siriano occupate sarà presto in vendita anche negli Emirati Arabi Uniti.

Durante la sua visita Pompeo ha anche esaltato la costruzione della cosiddetta Città di David, un parco a tema costruito nel quartiere di Silwan, nella Gerusalemme est occupata, da dove Israele sta espellendo con la forza i residenti palestinesi.

Giovedì Pompeo ha inoltre visitato il sito battesimale vicino al fiume Giordano, al confine della Cisgiordania occupata con la Giordania.

Pompeo aveva anche in programma una sosta sulle alture del Golan. Trump ha riconosciuto la sovranità di Israele sull’area nel marzo 2019, in barba al diritto internazionale.

Rafforzamento dell’alleanza anti-Iran

La visita di Pompeo ha coinciso con quella del ministro degli Esteri del Bahrein Abdullatif bin Rashid Al Zayani, arrivato mercoledì a Tel Aviv per la sua prima visita ufficiale da quando, a settembre, il suo paese ha accettato di normalizzare i rapporti con Israele.

Al Zayani si è unito a Pompeo e Netanyahu a Gerusalemme per una conferenza stampa congiunta.

Al Zayani ha annunciato che Israele e Bahrein si scambieranno presto le ambasciate. Dal prossimo mese, ha aggiunto, israeliani e bahreiniti potranno ottenere visti elettronici e presto potranno viaggiare con voli regolari tra i due paesi.

Gli accordi di normalizzazione tra gli stati arabi e Israele fanno parte degli sforzi degli Stati Uniti per costruire un’alleanza anti-Iran tra Israele e gli stati del Golfo sotto la supervisione americana.

Pompeo si è vantato del fatto che i recenti accordi tra Israele e gli Stati arabi abbiano reso l’Iran “sempre più isolato”, con la sua influenza “in declino”.

Ciò avviene mentre l’amministrazione Trump intensifica le sanzioni economiche contro l’Iran nel tentativo di rendere irreversibile, dopo che Joe Biden lo avrà sostituito come presidente, il ritiro di Trump dall’accordo nucleare del 2015.

Trump, ha riferito il New York Times martedì, ha persino preso in considerazione di bombardare il principale impianto nucleare iraniano nel corso delle ultime settimane della sua presidenza.

Secondo quanto riferito, dei consiglieri, tra cui Pompeo e il vicepresidente Mike Pence, lo avrebbero dissuaso da ciò.

L’accordo del 2015 raggiunto dall’amministrazione Obama e da altri stati ha visto l’Iran limitare volontariamente il suo programma di produzione di energia nucleare in cambio della revoca delle sanzioni economiche.

Israele ha incessantemente fatto pressioni per intensificare la guerra economica contro l’Iran, che causa sofferenza ai normali cittadini iraniani e devasta l’economia del paese nel corso di una pandemia.

Mercoledì Pompeo ha strombazzato la campagna dell’amministrazione contro l’Iran “Massima pressione”.

“Oggi l’economia iraniana deve affrontare una crisi valutaria, un aumento del debito pubblico e un aumento dell’inflazione”, ha affermato Pompeo. Ha ammonito sulle “conseguenze dolorose” per gli stati e le società che sfidano le sanzioni statunitensi.

Lettera del Congresso

Prima dell’arrivo di Pompeo in Israele, il membro del Congresso Mark Pocan si è fatto promotore di una lettera con la richiesta al Segretario di Stato di condanna delle recenti demolizioni di case palestinesi da parte di Israele.

Co-firmata da altri 40 membri del Congresso, la lettera si riferisce alla demolizione, il 3 novembre, della comunità di Khirbet Humsa [villaggio nella parte settentrionale della valle del Giordano, ndtr.] nella Cisgiordania occupata.

La distruzione ha lasciato più di 70 palestinesi senza casa, inclusi 41 bambini – la più grande demolizione di questo tipo da molti anni.

Il membro del Congresso Ilhan Omar, una dei cofirmatari, ha definito la demolizione “un crimine grave” e ha affermato che gli Stati Uniti “non dovrebbero finanziare la pulizia etnica”.

La lettera chiede se siano stati utilizzati per la demolizione strumenti forniti dagli americani – il che Omar aveva precedentemente ammonito sarebbe stato illegale.

Chiede inoltre con forza che negli ultimi due mesi del mandato di Pompeo, “le violazioni dei diritti umani e le violazioni del diritto internazionale continuino ad essere respinte con la forza dal governo americano”.

È molto chiaro, tuttavia, che Pompeo è determinato a utilizzare il suo tempo restante per incoraggiare e premiare il maggior numero possibile di violazioni da parte di Israele.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)