Israele sta falsificando la storia palestinese e rubando la sua eredità

Nabil Al Sahli

6 novembre 2019 Middle East Monitor

La Palestina è uno dei paesi più ricchi del mondo in termini di antichità, in competizione con l’Egitto nel mondo arabo. Almeno 22 civiltà hanno lasciato il segno in Palestina, la prima delle quali fu quella dei Cananei; presenza che è ancora visibile fino a oggi.

Dal 1948, i governi israeliani che si sono succeduti hanno prestato una particolare attenzione alle antichità che hanno una spiccata identità araba e palestinese. Hanno formato comitati di archeologi israeliani per indagare in ogni parte della Palestina su cui è stato fondato Israele.

L’obiettivo è ancora quello di creare una falsa narrativa storica giudaizzando le antichità palestinesi.

Monumenti storici nelle principali città palestinesi, come Acri, Giaffa, Gerusalemme e Tiberiade, non sono stati risparmiati da questo processo.

Inoltre, Israele ha usato varie istituzioni per giudaizzare la moda palestinese attraverso il furto culturale e la falsificazione del suo patrimonio.

Nemmeno le ricette locali si salvano. Israele ha partecipato a mostre internazionali per mostrare moda e cucina palestinesi etichettate come “israeliane”. È così che l’occupazione israeliana e le “mafie” che vendono oggetti d’antiquariato di valore inestimabili stanno rubando l’eredità e la storia della Palestina risalenti a migliaia di anni fa.

Questo accade in un momento in cui i partiti palestinesi stanno prendendo provvedimenti e chiedono la protezione del loro retaggio, della loro storia e della loro civiltà.

In questo contesto, studi hanno indicato che ci sono più di 3.300 siti archeologici nella sola Cisgiordania occupata. Diversi ricercatori confermano che, in media in Palestina, ogni mezzo chilometro esiste un sito archeologico che indica la vera identità e la storia della terra.

Qui è importante menzionare gli effetti devastanti del muro di separazione israeliano nel futuro delle antichità e dei monumenti palestinesi.

La costruzione in corso del muro sulle terre palestinesi in Cisgiordania porterà infine all’annessione di oltre il 50% del territorio occupato. Comprenderà inoltre oltre 270 importanti siti archeologici, oltre a 2.000 postazioni archeologiche e storiche. Decine di siti e monumenti storicamente importanti sono stati distrutti durante la costruzione del muro.

Studi specializzati sulle antichità palestinesi indicano che, da quando ha occupato la Cisgiordania e la Striscia di Gaza nel giugno 1967, Israele ha potuto rubare e vendere ancora più manufatti palestinesi dalla Cisgiordania. Questo fenomeno è stato esacerbato dallo scoppio dell’Intifada di Al Aqsa alla fine di settembre 2000.

Studi palestinesi indicano che la ragione di questa Nakba (catastrofe) in corso è il crollo di qualsiasi sistema per proteggere le aree palestinesi a causa del controllo israeliano. Tale protezione rientra nella gestione diretta dell’occupazione, il che significa sostanzialmente che l’esercito israeliano è libero di distruggere il patrimonio culturale, come è accaduto a Gerusalemme, Nablus, Hebron, Betlemme e altre città e villaggi palestinesi.

Il furto archeologico e la violazione dei siti del patrimonio palestinese sono una delle maggiori sfide che i palestinesi devono affrontare mentre cercano di preservare la loro cultura e presenza fisica nella loro patria, minacciati dalla giudeizzazione e guidati dalle sistematiche politiche israeliane. Dobbiamo sensibilizzare la società palestinese perché affronti questa nuova e vecchia sfida imposta da Israele.

Dobbiamo anche aumentare la nostra capacità di combattere il furto della nostra storia da parte di Israele a livello locale, regionale e internazionale. Ciò può essere rafforzato dalla piena adesione della Palestina alle pertinenti organizzazioni internazionali, compreso l’UNESCO.

La diversità culturale in Palestina risale a migliaia di anni fa. È vergognoso che permettiamo che questo venga cancellato dalla storia, perché Israele cerca “prove” per la sua falsa narrazione dello “stato ebraico”, escludendo le popolazioni indigene.

(Traduzione dallo spagnolo di Carmela Ieroianni – Invictapalestina.org)




Il leader dei coloni in Cisgiordania da poco nominato promette di ottenere l’annessione

5 novembre 2019 – Middle East Monitor

Il Jerusalem Post [quotidiano israeliano di destra in lingua inglese, ndtr.] ha informato che il nuovo leader dalla popolazione di coloni israeliani nella Cisgiordania occupata ha promesso di lavorare per garantirsi l’annessione della maggior parte del territorio.

David ElHayani è stato eletto per guidare il consiglio di Yesha, dopo essere stato negli ultimi 11 anni a capo del consiglio regionale delle colonie, con sede nella Valle del Giordano.

Gli abitanti della Giudea e della Samaria (Cisgiordania) e della Valle del Giordano sono cittadini (israeliani) da tutti i punti di vista. Lavoriamo insieme, noi tutti, per mettere in pratica la sovranità su tutta l’Area C e nella Valle del Giordano [sotto totale ma temporaneo controllo di Israele in base agli accordi di Oslo, ndtr.] in Giudea e Samaria,” ha detto ElHayani dopo essere stato eletto.

Secondo l’articolo, “ElHayani ha anche approfittato dell’opportunità per invitare il primo ministro Benjamin Netanyahu e il capo del partito “Blu e Bianco” Benny Gantz [di centro destra e principale avversario di Netanyahu, ndtr.] a formare un governo di coalizione.

Da parte sua Netanyahu “ha telefonato a ElHayani per complimentarsi” ed ha promesso di lavorare insieme per promuovere la colonizzazione nella Cisgiordania occupata.

Tutte le colonie nella Cisgiordania occupata e a Gerusalemme est sono illegali in base al diritto internazionale.

Il precedente capo del consiglio di Yesha, Hananel Durani, ha detto di “essere sicuro che ElHayani riuscirà ad ottenere la sovranità (annessione) e a raddoppiare il numero di coloni ebrei in Giudea e Samaria in modo da arrivare a 1.000.000 di ebrei.”

Nel contempo Sharren Haskel, deputata israeliana della Knesset [il parlamento israeliano, ndtr.] per il Likud [partito di destra attualmente al potere, ndtr.], ha presentato un progetto di legge per chiedere che il versante est della regione della Valle del Giordano, nella Cisgiordania occupata, venga formalmente annesso.

Secondo le informazioni, la proposta “permetterebbe agli abitanti palestinesi nel territorio di chiedere la cittadinanza israeliana entro dieci anni dalla sua messa in pratica, sempre che non siano stati accusati in passato di alcun delitto contro la sicurezza [di Israele] e non abbiano chiesto pubblicamente il boicottaggio contro Israele.”

Oggi esiste un ampio consenso riguardo a questa regione, in seguito al tanto sperato riconoscimento da parte del presidente statunitense della sovranità israeliana sulle Alture del Golan. È ora di fare altrettanto con la Valle del Giordano,” ha detto Haskel.

Domenica Ayelet Shaked, deputata della Knesset per il partito “Nuova Destra”, ha proposto un progetto di legge simile, focalizzato su una serie di importanti colonie in Cisgiordania.

(traduzione dallo spagnolo di Amedeo Rossi)




Annessione della valle del Giordano

I palestinesi della valle del Giordano: “Le nostre terre sono già state annesse”

La promessa di Netanyahu di formalizzare il controllo di fatto di Israele sulla valle del Giordano provoca inquietudine tra gli abitanti palestinesi

di Arwa Ibrahim

12 settembre 2019 – Al Jazeera

 

Ras Ain al-Auja, valle del Giordano – Tra le vaste terre aride della valle del Giordano, che si estendono a nord del Mar morto e a ovest dei confini della Cisgiordania con la Giordania, sorge il piccolo villaggio palestinese di Ras Ain al-Auja.

Se il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu porterà a compimento il suo piano, annunciato martedì, di annettere la valle del Giordano e le zone a nord del Mar morto, il villaggio di circa 350 residenti e i suoi fertili terreni agricoli diventeranno parte di Israele.

Alcuni osservatori hanno liquidato il piano di Netanyahu come una bravata da campagna elettorale prima delle elezioni generali della prossima settimana. Ma gli abitanti di Ras Ain al-Auja dicono che le parole di Netanyahu sono minacciose in quanto il suo piano potrebbe formalizzare il controllo israeliano sulla zona.

“Non è una novità. Le nostre terre sono già state annesse e stiamo vivendo sotto l’occupazione israeliana,” afferma ad Al Jazeera il quarantottenne Ahmed Atiyat, un contadino di Ras Ain al-Auja.

“Tutte queste terre e le palme sono degli israeliani,” dice indicando distese di terre coltivate punteggiate di cespugli verdi e palme da dattero che si estendono verso il Mar Morto.

Il progetto di Netanyahu intende annettere il villaggio e altre parti della valle del Giordano, tuttavia non includerebbe Gerico, la città palestinese più vicina a  Ras Ain al-Auja.

L’annessione di Gerico lo obbligherebbe ad occuparsi là della condizione di migliaia di cittadini palestinesi. L’attuale piano tendenzialmente taglierebbe fuori Gerico da altre città palestinesi nella Cisgiordania occupata.

 

Occupazione di fatto

La popolazione di Ras Ain al-Auja comprende soprattutto contadini che hanno lavorato su quella terra da generazioni. Dicono che risorse idriche in esaurimento e restrizioni alla costruzione e ai collegamenti da parte dell’esercito israeliano hanno reso difficili le condizioni di vita.

“Tutte le nostre sorgenti d’acqua sono sotto controllo israeliano. Abbiamo pochissima acqua potabile, per non parlare dell’acqua per i nostri orti,” afferma Atiyat, che racconta che la sua famiglia si è spostata nella zona dopo essere stata espulsa dall’esercito israeliano dalle sponde del fiume Giordano nel 1967.

Hussein Saida, un altro contadino e membro del locale Comune, è d’accordo.

“Dobbiamo affrontare continue difficoltà, soprattutto quando si tratta di aver accesso e di fare la manutenzione ai nostri pozzi per innaffiare in nostri orti. Essi sono di fatto sotto il controllo israeliano,” dice Saida. Secondo molte Ong palestinesi e israeliane, Israele nega accesso alla terra, all’acqua e all’elettricità ai palestinesi che vivono nella valle del Giordano, così come in altre aree nella Cisgiordania occupata, rendendo le condizioni di vita difficili.

“Israele ha annesso di fatto la zona della valle del Giordano. Gran parte di essa è destinata ad uso militare, per cui i palestinesi non possono viverci. Se lo fanno, vengono espulsi” dice Roi Yellim, direttore della diffusione al pubblico di B’Tselem, una Ong [israeliana, ndtr.] per i diritti umani.

“C’è anche un continuo tentativo da parte di Israele di rendere difficili le condizioni di vita dei palestinesi nella valle del Giordano, in modo che la maggior parte di loro lasci le proprie terre,” aggiunge, sottolineando che tali condizioni vengono applicate in tutta la Zona C, che costituisce il 60% della Cisgiordania occupata.

L’area che Netanyahu progetta di annettere costituisce circa il 30% della Cisgiordania occupata. Più di 65.000 palestinesi e circa 11.000 coloni israeliani illegali vivono nella zona.

Maha Abdullah, una ricercatrice giuridica e avvocatessa di Al-Haq, un’Ong palestinese, dice che queste condizioni potranno solo peggiorare se l’area viene annessa, portando i palestinesi a pensare di lasciare le proprie case. “Queste zone rendono molto all’economia israeliana e quindi conviene sfruttarne le risorse e le terre,” afferma Abdullah. “Al contempo, creare un contesto costrittivo per i palestinesi che vi vivono attraverso la demolizione di case e la fornitura ridotta di acqua e di elettricità spingerà i palestinesi ad andarsene,” dice, facendo un confronto con l’annessione di Gerusalemme est nel 1967.

Ai palestinesi della Gerusalemme est occupata non è stata concessa la cittadinanza israeliana, dato che le annessioni e il loro status rimangono controversi e irrisolti.

Futuro Stato palestinese

Il piano minaccia anche la formazione di un futuro Stato palestinese, in quanto i palestinesi rivendicano i 2.400 km2 della valle del Giordano come confine orientale di un futuro Stato palestinese nella Cisgiordania occupata e nella Striscia di Gaza.

Saeb Erekat, segretario generale dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, denuncia il progetto di annessione, dicendo ad Al Jazeera che “seppellirebbe ogni restante prospettiva di una pace e di uno Stato palestinese fattibile e indipendente.”

La minaccia per il futuro della Palestina è avvertita anche ad un livello più locale.

 

“Anche se si trattasse solo di parole, per il momento, il progetto di Netanyahu di annettere le terre più fertili della Palestina e parti di un futuro Stato palestinese è molto pericoloso,” dice ad Al Jazeera Salah Frijat, capo dell’autorità locale di Auja, che è il Comune più esteso da cui dipende

Ras Ain al-Auja. “Ci sono continue violazioni delle nostre terre e delle nostre risorse idriche. Vogliono vederci andar via in quanto la vita diventa più dura e le colonie intorno a noi aumentano,” aggiunge.

Israele ha ripetuto le sue intenzioni di mantenere il controllo militare sulla zona, che ha conquistato nella guerra del 1967, anche se venisse raggiunto un accordo di pace con i palestinesi.

Lo scorso anno il presidente USA Donald Trump ha riconosciuto Gerusalemme come capitale di Israele. Oltre a ciò la sovranità di Israele sulle Alture del Golan occupate, che le sue forze hanno conquistato dalla Siria nel 1967, ha fatto temere a molti osservatori che prima o poi questo piano possa effettivamente essere messo in atto.

“Anche se quello che Netanyahu ha detto fosse davvero una bravata elettorale, probabilmente procederà a una sorta di annessione perché ha l’appoggio dell’amministrazione di Trump,” sostiene Yellim.

Nonostante queste difficili condizioni e minacce, Atiyat dice che non lascerà mai la sua terra.

“Anche se la vita continua ad essere sempre più dura, moriremo qui piuttosto che andarcene o essere di nuovo cacciati dalle nostre terre,” dice ad Al Jazeera.

 

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)

 

 




Visita di Netanyahu a Hebron

La visita senza precedenti di Netanyahu a Hebron scatena la rabbia tra i palestinesi e richieste di annessione da parte di ministri israeliani

 

Yumna Patel

4 settembre 2019 – Mondoweiss

 

Mercoledì il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha fatto una visita senza precedenti alla città di Hebron nella Cisgiordania occupata, provocando irate reazioni da parte di dirigenti e cittadini palestinesi, che l’hanno definita una “pericolosa escalation”.

Per la prima volta un primo ministro israeliano ha pronunciato un discorso nella turbolenta città: Netanyahu ha partecipato a una cerimonia di commemorazione dei disordini del 1929 che provocarono la morte di 67 ebrei.

Durante il suo discorso il primo ministro ha definito i palestinesi “terroristi assetati di sangue” che “perpetrarono questo orribile massacro 90 anni fa,” ribadendo la narrazione israeliana secondo cui i disordini che provocarono morti furono motivati dall’odio palestinese per gli ebrei.

“Erano sicuri che con ciò ci avrebbero sradicati da questo luogo per sempre. Si sbagliavano,” ha detto Netanyahu, aggiungendo: “Siamo tornati a Hebron”, lodando l’espansione delle colonie nella città, in particolare la notoriamente violenta colonia di Kiryat Arba.

La cerimonia si è svolta nella piazza antistante la moschea di Ibrahim, o tomba dei Patriarchi, un sito santo sia per musulmani che per ebrei, e luogo in cui nel 1994si svolse il massacro di 29 fedeli palestinesi da parte di un colono americano israeliano.

“Nel novantesimo anniversario dei disordini dico: non siamo stranieri a Hebron, vi rimarremo per sempre,” ha detto il primo ministro, aggiungendo che “il popolo di Israele è profondamente radicato a Hebron. Fin dalle nostre origini il nostro posto è qui.”

Ricordate dai palestinesi come la “rivolta di Buraq” del 1929, in tutta la Palestina storica scoppiarono massicce proteste dopo che un gruppo di immigrati ebrei andò ad “al-Buraq”, noto come il “Muro del Pianto”, portando bandiere e gridando slogan sionisti.

I palestinesi videro l’iniziativa, in coincidenza con l’anniversario della nascita del profeta Maometto, come la manifestazione di una crescente presenza sionista in Palestina che minacciava di impossessarsi della loro terra e dei luoghi santi.

A Gerusalemme l’avvenimento portò in città a violenti scontri tra palestinesi ed ebrei, che poi si diffusero in diverse città in tutta la Palestina, compresa Hebron, iniziando la rivolta di “al Buraq”.

Si ritiene che 133 ebrei e 116 palestinesi vennero uccisi durante la rivolta, per lo più per mano delle forze coloniali britanniche, mentre altri furono uccisi durante attacchi di ebrei contro comunità arabe.

La commissione Shaw, un’indagine britannica sulla rivolta, stabilì che “non c’erano dubbi” che la ragione fondamentale della ribellione fosse la sensazione di ostilità tra i palestinesi “in conseguenza della delusione delle loro aspirazioni politiche e nazionali e del timore per il loro futuro economico.”

Sfatando il mito secondo cui i palestinesi avrebbero ucciso gli ebrei semplicemente per la loro religione, la commissione mise in evidenza il fatto che nei 10 anni precedenti la rivolta di “al Buraq” c’erano stati solo tre incidenti rilevati di attacchi arabi contro ebrei, e negli 80 anni precedenti ad essa “non c’erano stati casi registrati di alcun incidente simile.”

Nonostante le testimonianze storiche, il presidente israeliano Reuven Rivlin si è unito a Netanyahu nel ribadire la convinzione che, come ha affermato, “i disordini del 1929 furono diretti contro ogni ebreo di qualunque etnia e opinione, semplicemente in quanto ebrei.”

Rivlin ha persino trattato di affermazioni da parte di storici, secondo cui i moti erano diretti contro il sionismo, affermando che “esse sono totalmente infondate.”

Durante la cerimonia, che è stata vista innanzitutto come un tentativo di Netanyahu di ingraziarsi la base di destra in vista delle elezioni di questo mese, alcuni ministri del partito Likud di Netanyahu hanno invitato il premier ad estendere la sovranità israeliana a tutta Hebron.

Secondo il “Times of Israel” [giornale israeliano indipendente in inglese, ndtr.] il presidente della Knesset [parlamento israeliano, ndtr.] Yuli Edelstein ha chiesto che Hebron diventi “una città israeliana a pieno titolo,” affermando che “è venuto il tempo che la colonia ebraica di Hebron cresca di migliaia di abitanti.”

Durante il suo discorso nel corso della cerimonia la ministra della cultura Miri Regev ha chiesto direttamente al primo ministro di adempiere alla sua promessa di estendere la sovranità israeliana a tutta la Cisgiordania, affermando che “non c’è posto migliore di Hebron per iniziare a portare a compimento l’impegno.”

“Se non c’è Hebron non c’è Tel Aviv,” ha detto Regev.

Yishai Fleisher, portavoce della comunità dei coloni di Hebron, ha condiviso su Twitter la maggior parte degli eventi del giorno, elogiando Regev e Netanyahu per le loro affermazioni e congratulandosi per gli avvenimenti del giorno.

I dirigenti palestinesi hanno condannato la cerimonia di mercoledì, che ha coinciso con un crescente dispiegamento di truppe israeliane nella zona e forti limitazioni agli spostamenti dei palestinesi in città.

Secondo l’agenzia palestinese di notizie WAFA le forze israeliane “hanno imposto il coprifuoco sui quartieri palestinesi”, mentre negozi e scuole palestinesi sono stati obbligati a chiudere in anticipo.

Hanan Ashrawi [nota dirigente palestinese, ndtr.] ha definito la visita di Netanyahu e Rivlin “un tentativo irresponsabile e offensivo di compiacere gli elementi più estremisti e razzisti del movimento dei coloni.”

“L’intollerabile situazione di segregazione, discriminazione razziale, vessazioni quotidiane e oppressione imposte sulla popolazione palestinese ad Hebron è guidata dalle politiche razziste e illegali che il signor Netanyahu vuole perpetuare e promuovere contro il popolo palestinese nei territori palestinesi occupati, compresa Gerusalemme,” ha detto Ashrawi.

Il portavoce del presidente palestinese Mahmoud Abbas Nabil Abu Rudeineh ha condannato la visita come tentativo di provocare i musulmani della regione, affermando che “lanciamo un monito contro le pericolose ripercussioni dell’iniziativa di Netanyahu, che viene messa in atto per conquistare i voti dell’estrema destra (israeliana).”

Sia Ashrawi che Abu Rudeineh hanno sottolineato lo status di patrimonio dell’umanità dell’UNESCO del centro storico di Hebron e della moschea di Ibrahim ed hanno chiesto alla comunità internazionale di impedire ulteriori “aggressioni” contro i luoghi.

“La comunità internazionale ha l’ulteriore responsabilità di proteggere questa città da nuove spoliazioni e devastazioni, di obbligare Israele a porre fine alle sue misure draconiane contro la popolazione palestinese di Hebron e a ripristinare vita e libertà nei quartieri assediati, che sono stati svuotati a forza di vita e speranza dall’occupazione israeliana,” ha detto Ashrawi.

Nel centro storico di Hebron circa 800 coloni estremisti israeliani vivono sotto la protezione di migliaia di soldati israeliani, che garantiscono l’accesso dei coloni alla maggior parte della zona.

Nel contempo più di 30.000 palestinesi originari della città sono sottoposti al sistema israeliano di permessi e devono affrontare quotidianamente la violenza dei coloni e i più di venti posti di controllo militari che limitano ogni loro movimento.

 

 

Yumna Patel

Yumna Patel è l’inviata di Mondoweiss in Palestina.

 

 

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)

 




Permessi di costruzione per palestinesi

I nuovi permessi di costruzione per i palestinesi aprono la strada all’annessione?

A fine luglio la decisione israeliana di approvare 715 alloggi in città palestinesi potrebbe essere un gesto simbolico o la premessa di una maggiore presa di controllo sulle terre della Cisgiordania occupata

Ben White

23 agosto 2019 – Middle East Eye

La decisione del gabinetto di sicurezza israeliano, annunciata a fine luglio, di approvare i permessi di costruzione per abitazioni palestinesi in zona C [sotto totale controllo israeliano, ndtr.] della Cisgiordania occupata costituisce un’eccezione perché si tratta della “prima decisione di questo tipo dal 2016”.

Benché il numero comunicato di 715 alloggi nelle città palestinesi sembri positivo, finora non è stata diffusa alcun’altra informazione, per esempio se i progetti riguardino nuove costruzioni o la regolarizzazione retroattiva  di abitazioni costruite senza i permessi rilasciati da Israele.

Al di là della mancanza di chiarezza, queste abitazioni sono una goccia nell’oceano: secondo Peace Now, «si stima che ogni anno nella zona C vi sia almeno un migliaio di giovani coppie palestinesi che hanno bisogno di un alloggio.»

Dal 2009 al 2016 le autorità d’occupazione israeliane hanno approvato solo 66 permessi di costruzione per palestinesi nella zona C, cioè appena il 2% del totale delle domande. Nello stesso periodo è iniziata la costruzione di 12.763 alloggi nelle colonie israeliane della zona C.

Ciononostante, benché questi nuovi permessi di costruzione si avvicinino appena alle necessità derivanti da un sistema intenzionalmente discriminatorio, questa resta una decisione inusuale. Perché un governo di estrema destra –alla vigilia delle elezioni – dovrebbe prendere una simile misura?

Una iniziativa dovuta «alla pressione americana » ?

Il «piano di pace» della Casa Bianca costituisce un elemento essenziale del contesto : Haaretz [quotidiano israeliano di centro sinistra, ndtr.] cita «fonti politiche» anonime che ritengono che questa iniziativa «potrebbe essere dovuta a pressioni americane.»

Queste autorizzazioni sono avvenute proprio prima della visita di una delegazione americana guidata dal consigliere della Casa Bianca Jared Kushner, nel quadro di un tour regionale per promuovere il piano.

Questa possibilità ha destato preoccupazione in alcuni membri del movimento dei coloni: due importanti responsabili hanno definito i permessi di costruzione per i palestinesi «particolarmente inquietanti”, tenuto conto di ciò che descrivono come «il chiaro obbiettivo dell’Autorità Nazionale Palestinese di stabilire uno Stato terrorista nel cuore del Paese.»

Non devono preoccuparsi. Secondo Haaretz, che cita «fonti informate sui dettagli», alcune informazioni hanno rapidamente rivelato che la decisione del governo israeliano è dipesa in realtà da un «cambio di politica destinato ad estromettere l’Autorità Nazionale Palestinese dalla pianificazione territoriale e dalla costruzione nei territori (occupati) ».

Prevenire uno Stato palestinese

Inoltre il Ministro dei Trasporti e deputato dell’Unione dei partiti di destra, Bezalel Smotrich, ha pubblicato su Facebook una spiegazione dettagliata  per giustificare questi permessi.

Affermando che uno dei principali obbiettivi della sua carriera politica è «impedire l’instaurazione di uno Stato terrorista arabo nel cuore di Israele » (con riferimento alla Cisgiordania), Smotrich scrive : «Oggi, finalmente…Israele predispone un piano strategico per fermare la creazione di uno Stato palestinese.”

Secondo Smotrich la decisione del gabinetto segna «la prima volta » che Israele « controlla che nella zona C vi siano costruzioni solo per gli arabi che siano residenti originari della regione dal 1994 e non per gli arabi arrivati in seguito dalle zone A [sotto controllo palestinese, ndtr.] e B [sotto controllo amministrativo palestinese e militare israeliano, ndtr]. »

La costruzione per i palestinesi sarà quindi autorizzata solo «in luoghi che non nuocciano alla colonizzazione e alla sicurezza delle colonie e non creino una contiguità territoriale né uno Stato palestinese di fatto. »

E non è tutto. «Per la prima volta nella sua storia », prosegue il Ministro, « lo Stato di Israele applicherà la propria sovranità sull’insieme del territorio ed assumerà la responsabilità di ciò che accade al suo interno. »

Ecco, sta scritto nero su bianco. I permessi concessi ai palestinesi nella zona C sono una dimostrazione della «sovranità » israeliana – un’altra premessa all’annessione formale.

In quest’ottica il legame tra i permessi di costruzione ed il piano dell’amministrazione Trump assume una dimensione più preoccupante – anche se poco sorprendente -, che non suggerisce una «concessione» per facilitare i negoziati, ma un coordinamento tra Israele e gli Stati Uniti riguardo all’annessione della zona C.

Dare priorità alle comunità ebree

Fatto rivelatore, parallelamente alla concessione di permessi ai palestinesi, il governo israeliano ha approvato circa 6000 alloggi nelle colonie israeliane. Il giorno dopo, il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu, in occasione di una visita nella colonia di Efrat, dichiarava: «Nessuna colonia e nessun colono saranno sradicati…Ciò che fate qui è definitivo.»

Tuttavia, che i permessi di costruzione per i palestinesi – se mai si concretizzeranno – siano solo un gesto simbolico oppure una premessa all’annessione, questi sviluppi mettono in evidenza i limiti di una critica meramente umanitaria alla politica israeliana di demolizione e di espulsione.

Negli ultimi anni il brutale approccio «discriminatorio ed iniquo» di Israele riguardo alle comunità e alle abitazioni nella zona C della Cisgiordania ha suscitato giustamente critiche internazionali sempre più numerose, e Amnesty International ha condannato il regime di pianificazione discriminatorio di Israele come “unico al mondo.”

Nonostante questo, man mano che Israele si avvicina all’ufficializzazione dell’annessione della zona C, alcuni diranno che tale sviluppo è vantaggioso per gli abitanti palestinesi perché concederà loro la cittadinanza, legalizzerà le loro comunità, rilascerà dei permessi, eccetera.

Beninteso, un simile argomento può essere contestato in base ai suoi stessi termini, anche citando gli argomenti chiaramente avanzati dai sostenitori di Smotrich, secondo i quali la politica di pianificazione continuerà a dare priorità alle comunità ebree (come è sempre stato entro i confini del 1967).

Progetto colonizzatore

Tuttavia, una posizione molto più forte consiste nel considerare le demolizioni e le espulsioni di Israele nella zona C, compresi i permessi che rilascia, nel contesto di un regime di apartheid molto più vasto, nel quale i palestinesi vengono espulsi, frammentati e discriminati per perseguire l’obbiettivo principale di mantenere lo Stato ebraico – ed il controllo della terra e della demografia necessario a tale obbiettivo.

Il regime di pianificazione territoriale discriminatorio di Israele costituisce una crisi umanitaria e dei diritti umani, ma non si tratta solo di questo – e se l’opposizione alle demolizioni si esprime in questi termini, le critiche diventano vulnerabili alle iniziative israeliane quale un aumento simbolico dei permessi, cioè l’annessione.

In fin dei conti, come altrove in Palestina, è più facile comprendere e attaccare le politiche israeliane collocandole nel quadro di un progetto di colonizzazione di molti decenni – un quadro che mantiene tutta la sua rilevanza, piuttosto che assistere tra breve ad un’annessione ufficiale della zona C o alla perpetuazione dello statu quo.

Le opinioni espresse in questo articolo impegnano solo l’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Ben White è autore di “Israeli Apartheid: A Beginner’s Guide” [Apartheid israeliano: una guida per principianti] e di “Palestinians in Israel: Segregation, Discrimination and Democracy” [Palestinesi in Israele: segregazione, discriminazione e democrazia]. Suoi articoli sono stati pubblicati su diversi media, tra cui Middle East Monitor, Al Jazeera, al-Araby, Huffington Post, The Electronic Intifada, The Guardian ed altri ancora.

 

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




Come i cristiani evangelici rischiano di incendiare il Medio Oriente

Jonathan Cook

8 luglio 2019 – Middle East Eye

TB Joshua è l’ultimo di una serie di predicatori filo-sionisti che si interessano a Israele – e i palestinesi ne pagheranno le conseguenze

Il recente arrivo del più popolare telepredicatore evangelico africano, TB Joshua, per rivolgersi a migliaia di pellegrini stranieri a Nazareth, ha prodotto un insieme di costernazione e di rabbia nella città dell’infanzia di Gesù.

C’è stata un’opposizione generalizzata da parte di movimenti politici di Nazareth, così come tra i gruppi comunitari e i leader religiosi, che hanno invocato un boicottaggio dei suoi due raduni. Si è aggiunto anche il consiglio dei mufti [autorità religiosa islamica, ndtr.], che ha descritto gli eventi come “una linea rossa per la fede nei valori religiosi.”

I raduni di Joshua, che includono episodi di esorcismo in pubblico, hanno avuto luogo in un anfiteatro all’aria aperta su una collina sopra Nazareth originariamente costruita per i fedeli del papa. Il luogo è stato utilizzato da papa Benedetto nel 2009.

Il pastore nigeriano, che ha milioni di seguaci in tutto il mondo e si autodefinisce un profeta, ha sollevato l’ostilità locale non solo perché il suo modello di cristianesimo si allontana di molto dalle più tradizionali dottrine delle chiese mediorientali. Rappresenta anche una tendenza dei cristiani stranieri, guidati da una lettura apocalittica della Bibbia, che si intromettono ancor più esplicitamente in Israele e nei territori palestinesi occupati – e in un modo che aiuta direttamente le politiche del governo israeliano di estrema destra.

Incremento del turismo di cui c’è molto bisogno

Nazareth è la più grande comunità palestinese in Israele sopravvissuta alla Nakba, o catastrofe, del 1948, che cacciò la maggioranza della popolazione autoctona da gran parte della propria patria e la sostituì con uno Stato ebraico. Oggi un quinto dei cittadini israeliani è palestinese.

La città e le sue immediate vicinanze includono la più alta concentrazione di palestinesi cristiani della regione. Ma ha a lungo patito dell’ostilità delle autorità israeliane, che hanno privato Nazareth di risorse per impedire che diventasse una capitale politica, economica o culturale della minoranza palestinese.

La città praticamente non ha terre su cui espandersi o zone industriali per ampliare le proprie risorse economiche, e Israele ha rigidamente limitato le sue possibilità di sviluppare un’adeguata industria turistica. La maggioranza dei fedeli vi passa brevemente per visitare la basilica dell’Annunciazione, il luogo in cui l’angelo Gabriele avrebbe detto a Maria che avrebbe portato in grembo Gesù.

Le autorità municipali di Nazareth hanno approfittato dell’occasione di sfruttare la pubblicità, e le entrate, fornite dalla visita di Joshua. La speranza a lungo termine del Comune è che, se la città potesse attirare almeno una piccola parte dei più di 60 milioni di cristiani evangelici degli USA e gli altri milioni in Africa ed Europa ciò fornirebbe un’enorme spinta all’economia della città.

Dati recenti mostrano che il turismo evangelico verso Israele è costantemente aumentato, rappresentando ora circa un settimo di tutti i visitatori dall’estero.

Giocare con il fuoco

Ma, come indicano le conseguenze negative della visita di Joshua, Nazareth potrebbe giocare con il fuoco incoraggiando questo tipo di pellegrini a interessarsi maggiormente alla regione. La maggior parte dei cristiani locali comprende che gli insegnamenti di Joshua non sono rivolti a loro – e, di fatto, probabilmente li danneggiano.

Il pastore nigeriano ha scelto Nazareth per diffondere il suo messaggio, ma si è trovato di fronte la viva opposizione di quanti credono che stia utilizzando la città solo come scenario per la sua più grande missione – che appare totalmente indifferente al dramma dei palestinesi, sia di quelli che vivono in Israele in luoghi come Nazareth o di quelli sotto occupazione.

A Nazareth le fazioni politiche hanno sottolineato i “legami di Joshua con circoli di estrema destra e dei coloni in Israele.” Egli avrebbe avuto incontri riguardo al fatto di avviare attività nella Valle del Giordano, il luogo in cui si ritiene che sia stato battezzato Gesù, ma anche la spina dorsale agricola della Cisgiordania. L’area è presa di mira dal governo di estrema destra di Benjamin Netanyahu per l’espansione delle colonie e la possibile annessione, condannando di conseguenza i tentativi di creare uno Stato palestinese.

Una visione dell’Apocalisse

Durante la sua visita in Israele, Joshua ha anche avuto modo di parlare con figure importanti del governo, come Yariv Levin, uno stretto alleato di Netanyahu, che è stato titolare di due ministeri considerati fondamentali dalla comunità evangelica: quello del turismo e quello dell’integrazione in Israele di nuovi ebrei immigrati dagli USA e dall’Europa.

Nella comunità evangelica molti, compreso Joshua, pensano che sia loro dovere incoraggiare gli ebrei a spostarsi dai loro Paesi d’origine alla Terra Promessa per anticipare la fine del mondo, che sarebbe stata profetizzata dalla Bibbia.

Questa è l’Assunzione in cielo, quando Gesù ritornerà per costruire il suo regno sulla terra e i buoni cristiani prenderanno il loro posto al suo fianco. Tutti gli altri, compresi gli ebrei che non si saranno pentiti, è implicito, bruceranno nel fuoco eterno dell’inferno.

Il dirupo sulla valle di Megiddo, dove Joshua e i suoi discepoli si sono riuniti, offre una veduta su Tel Megiddo, il nome attuale del sito biblico di Armageddon, dove molti evangelici credono avverrà presto la fine del mondo.

Accelerare la seconda venuta

Questi cristiani non sono semplici osservanti di un progetto divino rivelato, sono parte attiva, cercando di avvicinare la fine del mondo.

Difatti i traumi del conflitto israelo-palestinese – i decenni di spargimenti di sangue, colonizzazione ed espulsione violenta dei palestinesi – non possono essere compresi separandoli dall’influenza dei dirigenti cristiani dell’Occidente in Medio Oriente nello scorso secolo. Essi hanno progettato in molti modi l’Israele che oggi conosciamo.

Dopotutto i primi sionisti non furono ebrei, ma cristiani. Un forte movimento cristiano-sionista – noto allora come “restaurazionismo” – sorse all’inizio del XIX° secolo, anticipando e influenzando pesantemente la sua successiva controparte ebraica.

La particolare lettura “restaurazionista” della Bibbia comportava che essi credessero che la seconda venuta del Messia avrebbe potuto essere accelerata se il popolo eletto da dio, gli ebrei, fosse tornato alla Terra Promessa dopo 2.000 anni di presunto esilio.

Charles Taze Russell, un pastore USA della Pennsylvania, viaggiò in tutto il mondo dagli anni ’70 dell’Ottocento in poi implorando gli ebrei di fondare un focolare nazionale per sé stessi in quella che allora era la Palestina. Produsse persino un progetto su come uno Stato ebraico potesse essere creato là. Lo fece circa 20 anni prima che il giornalista ebreo viennese Theodor Herzl pubblicasse il suo famoso libro che delineava uno Stato Ebraico.

Il laico Herzl non si interessava molto di dove questo Stato ebraico sarebbe stato fondato. Ma i suoi seguaci – profondamente consapevoli della presa del sionismo cristiano nelle capitali occidentali – concentrarono la propria attenzione sulla Palestina, la Terra Promessa biblica, nella speranza di conquistarsi potenti alleati in Europa e negli USA.

Parola d’ordine per i seguaci di Herzl

L’appoggio dell’impero britannico era particolarmente prezioso. Nel 1840 Lord Shaftesbury, che grazie a sua moglie era in rapporto con Lord Palmerston, in seguito primo ministro, pubblicò sul “London Times” un’inserzione che sollecitava il ritorno degli ebrei in Palestina.

Il sionismo cristiano fu un importante fattore che influenzò il governo inglese nel 1917 per l’emanazione della Dichiarazione Balfour – di fatto un impegno della Gran Bretagna che divenne la matrice per la creazione di uno Stato ebraico sulle rovine della patria della popolazione autoctona.

Scrivendo a proposito della dichiarazione, lo storico israeliano Tom Segev ha osservato: “Gli uomini che l’hanno prodotta erano cristiani e sionisti e, in molti casi, antisemiti.” Ciò perché i cristiani sionisti partivano dal presupposto che gli ebrei non si potessero integrare nei loro Paesi d’origine. Invece avrebbero potuto servire come strumenti del volere di dio, spostandosi in Medio Oriente in modo che i cristiani potessero essere redenti.

Edwin Montagu fu l’unico ministro del governo britannico ad opporsi alla Dichiarazione Balfour, ed era anche l’unico membro ebreo. Avvertì – per buone ragioni – che il documento si sarebbe “dimostrato un terreno comune per gli antisemiti in ogni Paese al mondo.”

Lotta fino all’Assunzione”

Mentre un secolo fa gli ebrei sionisti guardavano alla potenza imperiale britannica perché li appoggiasse, oggi il loro patrono sono gli USA. I portabandiera del sionismo cristiano hanno goduto di una crescente influenza a Washington a partire dalla guerra dei Sei Giorni del 1967.

Questo processo ha raggiunto il suo apice sotto la presidenza di Donald Trump. Si è circondato di una miscela di estremisti ebrei e cristiani sionisti. Il suo ambasciatore in Israele, David Friedman, e il suo inviato in Medio Oriente, Jason Greenblatt, sono ferventi sostenitori ebrei delle colonie illegali. Ma, a quanto pare, alla Casa Bianca ci sono anche importanti cristiani, come il vice presidente Mike Pence e il segretario di Stato Mike Pompeo.

Prima che entrasse nel governo, Pompeo era stato chiaro riguardo alla sua fede evangelica. Nel 2015 ha detto a una congregazione: “È una lotta senza fine…fino all’Assunzione in cielo. Siatene parte. Partecipate alla lotta.”

Lo scorso marzo ha appoggiato l’idea che Trump possa essere stato mandato da dio per salvare Israele da minacce come l’Iran. “Confido che dio stia lavorando qui,” ha detto alla Rete Televisiva Cristiana [CBN una rete televisiva americana di produzione religiosa evangelica molto conservatrice ndtr].

Nel contempo Pence ha affermato: “La mia passione per Israele sgorga dalla mia fede cristiana…È veramente il più grande privilegio della mia vita essere il vicepresidente di un presidente che si preoccupa così profondamente del nostro più prezioso alleato.”

Il gigante addormentato si risveglia.

Lo scorso anno lo spostamento dell’ambasciata USA a Gerusalemme da parte di Trump, svuotando di significato qualunque accordo negoziato del conflitto israelo-palestinese, era inteso a compiacere la sua base cristiana sionista. Circa l’80% degli evangelici bianchi ha votato per lui nel 2016 ed egli avrà bisogno del loro appoggio di nuovo nel 2020 se spera di essere rieletto.

Non a caso la nuova ambasciata USA a Gerusalemme è stata consacrata da due importanti telepredicatori evangelici, John Hagee e Robert Jeffress, noti per il loro appoggio fanatico a Israele – così come per i loro occasionali accessi antisemiti.

Più di un decennio fa Hagee, fondatore di “Cristiani Uniti per Israele”, disse ai delegati di una conferenza organizzata dall’AIPAC, principale gruppo lobbystico di Israele a Washington: “Il gigante addormentato del sionismo cristiano si è svegliato. Ci sono 50 milioni di cristiani che applaudono in piedi lo Stato di Israele.”

Le attività del gruppo di Hagee includono pressioni sul Congresso per dure leggi a favore di Israele, come la recente legge “Taylor Force” che taglia drasticamente il finanziamento USA all’Autorità Nazionale Palestinese, il governo provvisorio palestinese. Il gruppo è anche attivo nel contribuire a far pressione a favore di leggi a livello statale e federale che penalizzino chiunque boicotti Israele. Per gli evangelici USA e altrove Israele è sempre più una questione fondamentale. Un sondaggio del 2015 mostrava che circa i tre quarti credono che avvenimenti in Israele siano stati profetizzati nel Libro dell’Apocalisse della Bibbia.

Molti si aspettano da Trump che completi una catena di eventi messi in movimento da politici britannici un secolo fa – e in numero sempre maggiore sono direttamente coinvolti nella speranza di accelerare il processo.

Legami più stretti con i coloni

La visione israeliana di una “riunificazione degli esiliati” – incoraggiando gli ebrei di tutto il mondo a spostarsi nella regione in base alla “legge del ritorno” – corrisponde perfettamente alla fede dei cristiani sionisti in un progetto divino per il Medio Oriente.

Anche gli sforzi dei coloni estremisti ebrei di colonizzare la Cisgiordania, la maggior parte di un qualunque futuro Stato palestinese, si accorda con la concezione dei cristiani sionisti della Cisgiordania come il “cuore biblico”, un’area che gli ebrei devono possedere prima che Gesù ritorni.

Per queste ragioni gli evangelici stanno sviluppando rapporti sempre più stretti con gli estremisti religiosi ebrei israeliani, soprattutto nelle colonie. Recenti iniziative hanno incluso programmi di studio della Bibbia, on line e presenziali, condotti da ebrei ortodossi, spesso coloni, destinati specificamente a cristiani evangelici. I seminari sono disegnati per rafforzare la narrazione dei coloni, così come per demonizzare i musulmani e, per estensione, i palestinesi.

Il corso più popolare offerto da “Root Source” [Sorgente Principale], una di queste iniziative, è intitolato “Islam: idee e inganni”. Utilizza il Vecchio e il Nuovo Testamento per sostenere l’argomentazione secondo cui l’Islam “è estremamente pericoloso”.

Pochi mesi fa Haaretz, il principale giornale progressista israeliano, ha pubblicato un’inchiesta sul crescente afflusso di volontari e finanziamenti evangelici nelle colonie illegali in Cisgiordania – il principale ostacolo per raggiungere una soluzione dei due Stati.

Una sola organizzazione USA, “Hayovel”, ha portato più di 1.700 volontari cristiani negli ultimi 10 anni per contribuire a una colonia nei pressi di Nablus, nel cuore della Cisgiordania.

Affluisce denaro degli evangelici

Un crescente numero di iniziative simili è stato agevolato da nuove norme introdotte lo scorso anno dal governo israeliano per finanziare gruppi cristiani sionisti come Hayovel perché promuova all’estero le colonie.

È molto più difficile sapere esattamente quanto denaro degli evangelici affluisca nelle colonie, a causa della mancanza di trasparenza riguardo alle donazioni USA fatte da chiese e istituzioni benefiche. Ma l’inchiesta di Haaretz stima che nell’ultimo decennio siano stati investiti più di 65 milioni di dollari.

Dieci anni fa Ariel, una colonia posta nel pieno centro della Cisgiordania, ha ricevuto da John Hagee Ministries [Sermoni di John Hagee] 8 milioni di dollari per un centro sportivo. Un altro gruppo evangelico, “J. H. Israel”, vi ha speso 2 milioni di dollari per un centro per una leadership nazionale.

Altre associazioni benefiche cristiane che storicamente hanno finanziato progetti in Israele stanno sempre più prendendo in considerazione anche l’assistenza alle colonie.

Se un piano di pace di Trump, che dovrebbe essere reso pubblico alla fine di quest’anno, sostenesse l’annessione di parti della Cisgiordania, come ampiamente previsto, probabilmente scatenerebbe un nuovo e anche maggiore flusso di denaro degli evangelici nelle colonie.

Immune alla ragione

Proprio questo è il problema per i palestinesi, e per il Medio Oriente in generale. I cristiani sionisti si stanno ancora una volta immischiando, che si tratti di funzionari del governo, leader o comunità di una chiesa. L’influenza degli evangelici si può riscontrare dagli USA e il Brasile all’Europa, all’Africa e al Sudest asiatico.

I governi europei generalmente hanno preoccupazioni più concrete e pressanti che realizzare profezie bibliche per giustificare politiche di divide et impera in Medio Oriente. Vogliono soprattutto il controllo sulle risorse petrolifere della regione, e possono garantirsele solo attraverso il potere militare per impedire che Nazioni rivali vi si affermino.

Ma l’acritico sostegno di decine di milioni di cristiani in tutto il mondo, la cui passione per Israele è immune alla ragione, fanno il lavoro per quei governi accettando come niente fosse guerre e furto di risorse.

Sia Israele che l’Occidente hanno tratto beneficio dall’aver creato l’immagine di un impavido Stato ebraico circondato da barbari arabi e musulmani decisi a distruggerlo. In conseguenza di ciò, Israele ha goduto di una sempre crescente integrazione nel blocco delle potenze occidentali, mentre ai governi occidentali sono stati offerti facili pretesti per interferire nella regione, direttamente o delegando questa intromissione a Israele.

La ricompensa per Israele è stata l’appoggio incondizionato da parte degli USA e dell’Europa, mentre opprime ed espelle dalle loro terre i palestinesi.

Con una base evangelica dietro di lui, Trump non ha la necessità di offrire argomenti plausibili prima di agire. Può spostare l’ambasciata USA a Gerusalemme o approvare l’annessione della Cisgiordania, o attaccare l’Iran.

Schierarsi contro i nemici di Israele

Da questo punto di vista qualunque nemico Israele sostenga di avere – i palestinesi o l’Iran – diventa automaticamente acerrimo nemico di decine di milioni di cristiani evangelici. Netanyahu comprende la crescente importanza di questa acritica lobby straniera, mentre la posizione sua e di Israele precipita tra gli ebrei USA progressisti, inorriditi dalla deriva verso destra dei governi che vi si susseguono.

Nel 2017 Netanyahu ha detto a una folla di evangelici a Washington: “Quando dico che non abbiamo migliori amici dei sostenitori cristiani di Israele, so che siete sempre stati con noi.” Per i palestinesi questa è una brutta notizia. La maggior parte di questi evangelici, come T.B. Joshua, sono in larga misura indifferenti o ostili al destino dei palestinesi – anche dei palestinesi cristiani, come quelli di Nazareth.

Un recente editoriale di Haaretz ha evidenziato che Netanyahu e i suoi politici stanno ora “adoperandosi per rendere gli evangelici – che appoggiano il rifiuto radicale di Israele riguardo ai palestinesi – l’unica base dell’appoggio americano per Israele.”

La verità è che questi cristiani sionisti vedono la regione attraverso un unico, esclusivo prisma: qualsiasi cosa contribuisca all’imminente arrivo del messia è ben accetta. L’unico problema è tra quanto tempo il “popolo eletto” da dio si riunirà nella Terra Promessa.

Se i palestinesi ostacolano Israele, queste decine di milioni di cristiani stranieri saranno assolutamente contenti di vedere la popolazione autoctona di nuovo cacciata – come lo è stata nel 1948 e nel 1967.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Jonathan Cook

Jonathan Cook è un giornalista britannico residente dal 2001 a Nazareth. È l’autore di tre libri sul conflitto israelo-palestinese. È stato vincitore del Martha Gellhorn Special Prize for Journalism.

(traduzione di Amedeo Rossi)




L’inviato USA dice che Israele ha ‘il diritto’ di annettersi parte del territorio della Cisgiordania: intervista al NYT

MEE e Agenzie

8 giugno 2019 – Middle East Eye

L’Autorità Nazionale Palestinese ha denunciato le affermazioni di David Friedman in quanto ‘non hanno nulla a che vedere con la logica, la giustizia o la legge’

L’ambasciatore USA in Israele ha detto al New York Times che Israele ha il diritto di annettersi almeno “parte” della Cisgiordania occupata, facendo considerazioni che probabilmente accentueranno l’opposizione palestinese a un piano USA atteso da lungo tempo.

I dirigenti palestinesi hanno rigettato il piano prima ancora che sia totalmente reso noto, facendo riferimento a una serie di iniziative da parte dell’amministrazione del presidente USA Donald Trump che secondo loro mostra la sua irrimediabile parzialità a favore di Israele.

Nell’intervista pubblicata sabato dal New York Times l’ambasciatore USA in Israele David Friedman ha affermato che un certo livello di annessione della Cisgiordania sarebbe legittimo.

A determinate condizioni penso che Israele abbia il diritto di tenersi parte della Cisgiordania, ma difficilmente tutta,” ha detto.

Non è chiaro a quali territori della Cisgiordania si riferisca Friedman e se la presa di possesso da parte di Israele rientrerebbe in un accordo di pace che includa scambi di terre – un’idea ventilata in precedenti negoziati – piuttosto che un’iniziativa unilaterale come l’annessione, ha detto la Reuter [agenzia di notizie inglese, ndtr.].

Il segretario generale dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) Saeb Erekat ha condannato sulle reti sociali le affermazioni di Friedman.

Nel contempo un portavoce dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) ha affermato che Friedman è una delle molte figure di rilievo della politica USA che sul problema israelo-palestinese sono “estremiste” e mancano di “maturità politica”.

Il ministero degli Esteri dell’ANP ha affermato che sta pensando di presentare sulla questione una denuncia alla Corte Penale Internazionale (CPI).

In base a quale logica Friedman pensa che Israele abbia il diritto di annettersi parte della Cisgiordania?” ha chiesto domenica il ministero in un comunicato stampa. “Su quale realtà basa la sua convinzione? Sulla legge internazionale che vieta l’annessione di territori con la forza? O sulla realtà imposta dalle autorità dell’occupazione?”

Il ministero ha proseguito chiamando Friedman una “persona ignorante in politica, in storia e in geografia e che appartiene allo Stato delle colonie…(Egli) non ha niente a che vedere con la logica, la giustizia o la legge finché è al servizio dello Stato dell’occupazione, che egli è desideroso di difendere con ogni mezzo.”

Sabato il centro israeliano di monitoraggio delle colonie Peace Now ha chiesto a Trump di rimuovere Friedman dal suo incarico se vuole che i suoi tentativi di pace abbiano una qualche credibilità.

L’ambasciatore Friedman è un cavallo di Troia inviato dalla destra dei coloni, che sabota gli interessi di Israele e le possibilità di pace. Il prezzo sarà pagato dagli abitanti dell’area, non da Friedman o Trump. Se intende fungere da mediatore corretto, stasera il presidente USA dovrebbe mandare Friedman a fare i bagagli,” avrebbe detto Peace Now citato da Haaretz.

La fondazione di uno Stato palestinese nei territori, compresa la Cisgiordania, che Israele ha occupato nella guerra dei Sei Giorni del 1967, è stata al centro di ogni piano di pace in Medio Oriente del passato. Tuttavia i palestinesi hanno sempre più spesso affermato che la soluzione dei due Stati, come è nota, è da tempo diventata impraticabile a causa dei tentativi israeliani di consolidare il controllo sulle terre palestinesi e incrementare la costruzione di colonie illegali.

Alcuni sostengono che lo status quo rende una soluzione per uno Stato unico con uguali diritti per cittadini sia israeliani che palestinesi l’unica opzione equa per garantire l’autodeterminazione e i diritti umani per tutti. Non è stata fissata nessuna data certa per la presentazione del piano dell’amministrazione Trump, comunemente noto come l’accordo del secolo, anche se alla fine di questo mese si terrà in Bahrein una conferenza sui suoi aspetti economici.

Le affermazioni pubbliche rese da funzionari dell’amministrazione USA suggeriscono finora che il piano si baserà in modo consistente sull’appoggio finanziario all’economia palestinese, per la maggior parte con fondi degli Stati arabi del Golfo, in cambio di concessioni sul territorio e sulla fondazione di uno Stato.

Assolutamente l’ultima cosa di cui il mondo ha bisogno è uno Stato fallito palestinese tra Israele e la Giordania,” ha affermato Friedman nell’intervista al Times. “Forse non lo accetteranno, forse non risponde alle loro condizioni minime. Ci basiamo sul fatto che il giusto piano, nel momento giusto, col tempo riscuoterà la giusta reazione.”

Friedman, un fiero sostenitore delle colonie illegali israeliane, ha detto al Times che il piano di Trump mira a migliorare la qualità della vita dei palestinesi ma non è in grado di ottenere “una soluzione permanente del conflitto.”

Comunque ha detto che gli Stati Uniti intendono avere uno stretto coordinamento con la Giordania, alleato arabo, che potrebbe affrontare rivolte tra la vasta popolazione palestinese riguardo a un piano percepito come apertamente favorevole a Israele. I palestinesi rifiutano in modo massiccio un piano centrato sull’economia per risolvere un conflitto durato 71 anni che ha portato all’espulsione forzata e all’esilio di milioni di rifugiati e all’imposizione di un’occupazione militare brutale e discriminatoria su quelli che sono rimasti.

La pubblicazione dell’accordo del secolo si prevede sarà ulteriormente rimandata dopo che il parlamento israeliano ha convocato elezioni anticipate per settembre, le seconde di quest’anno.

Il piano potrebbe essere considerato troppo delicato da essere reso noto nel corso della campagna elettorale.

In aprile, durante la campagna per le prime elezioni generali [di quest’anno], il primo ministro Benjamin Netanyahu si è impegnato ad annettere colonie a Israele, un’iniziativa a lungo sostenuta da molti parlamentari della sua alleanza di destra e di partiti religiosi.

In seguito alla continua espansione delle colonie da parte dei successivi governi di Netanyahu, più di 600.000 coloni ebrei vivono ora in Cisgiordania e nella Gerusalemme est occupata, in violazione delle leggi internazionali.

Un funzionario USA, parlando in forma anonima, ha detto alla Reuter: “Nessun piano per l’annessione unilaterale da parte di Israele di qualunque parte della Cisgiordania è stato presentato da Israele agli USA, né è in discussione.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




Israele: perché il parlamento convoca nuove elezioni ?

Giovedì 30 maggio 2019 – MEE

MEE esamina le ragioni per cui Benjamin Netanyahu non è riuscito a formare un governo e gli avvenimenti che ne sono seguiti

In seguito al fallimento del tentativo del Primo Ministro Benjamin Netanyahu di formare un governo di coalizione prima di mercoledì a mezzanotte e al conseguente scioglimento della Knesset [parlamento israeliano, ndtr.], approvato con 74 voti contro 45 dai deputati israeliani, Israele terrà nuove elezioni legislative il prossimo 17 settembre.

Nonostante avesse proclamato con sicurezza la propria vittoria alle elezioni legislative del 9 aprile scorso, Benjamin Netanyahu ha visto la sua autorità pesantemente compromessa da questi sviluppi che derivano dalla sua incapacità di formare un governo di coalizione, nonostante quanto si attendeva.

Nello scrutinio del mese scorso il Likud di Netanyahu e i partiti di destra e religiosi considerati suoi alleati naturali hanno ottenuto una maggioranza di 65 seggi su 120.

La ragione principale del fallimento del Primo Ministro è stata la sua incapacità di ottenere il sostegno di ‘Israel Beitenu’, il partito di estrema destra guidato dal suo ex Ministro della Difesa Avigdor Lieberman, che nell’ultimo scrutinio ha ottenuto cinque seggi alla Knesset.

Lieberman ha dichiarato che non avrebbe fatto parte di un governo in cui sedessero anche i partiti ultra-ortodossi Shas e ‘Giudaismo unito della Torah’, a causa di un disaccordo relativo ad un progetto di legge sul servizio militare.

Quest’ultimo obbligherebbe gli ‘haredim’ (ultra-ortodossi), che si occupano dello studio della Torah, a entrare nelle forze armate israeliane – obbligo dal quale sono attualmente esentati. Avigdor Lieberman afferma da tempo che gli uomini israeliani dovrebbero suddividersi equamente l’onere del servizio militare.

Mercoledì, sulla sua pagina Facebook, Lieberman ha addossato al Likud la responsabilità della convocazione di nuove elezioni, affermando che il partito aveva rifiutato di votare il progetto di legge ultra-ortodosso.

Tuttavia, poche ore prima di mezzanotte, il portavoce del Likud, Jonathan Urich, ha twittato : «Non si tratta di servizio militare né di ‘principi’. Lieberman vuole distruggere Netanyahu. Tutto il resto sono chiacchiere. »

Anche se è molto improbabile che Lieberman possa vincere le prossime elezioni, gli ultimi avvenimenti sembrano aver notevolmente rafforzato la sua posizione, attribuendogli verosimilmente alle prossime elezioni il ruolo di “ago della bilancia”.

Alcuni commentatori hanno anche visto le azioni di Avigdor Lieberman come un tentativo di rafforzare la propria posizione nella corsa alla guida del governo una volta che sarà terminata l’era Netanyahu.

Quinta elezione in dieci anni

Se da un lato lo scioglimento del parlamento israeliano ha permesso a Benjamin Netanyahu di evitare quello che per lui è lo scenario peggiore – cioè che il Presidente israeliano Reuven Rivlin scegliesse un’altra persona per cercare di formare un governo – esso ha riportato il Paese di fronte alla prospettiva di un’altra campagna elettorale divisiva.

Nessun partito ha mai ottenuto la maggioranza assoluta alla Knesset, facendo dei governi di coalizione la norma, ma lo svolgimento di elezioni così ravvicinate è senza precedenti nella storia di Israele. Lo scioglimento della Knesset significa che Israele terrà la quinta elezione dal 2009.

Benjamin Netanyahu, che nell’attesa resta in carica, dovrebbe pur sempre diventare a luglio il Primo Ministro israeliano più a lungo in carica, superando il padre fondatore di Israele, David Ben Gurion. A 69 anni, Netanyahu ha chiaramente fatto sapere di avere l’intenzione di ripresentarsi e di vincere queste elezioni.

La sfida non potrebbe essere più importante per il dirigente israeliano, che è di fronte a tre mesi di indagine per corruzione. Netanyahu ha negato qualunque azione illecita in questi affari e dovrebbe dichiararsi non colpevole in un’udienza preliminare fissata per l’inizio di ottobre dal procuratore generale, che lo scorso febbraio ha annunciato l’intenzione di incriminare il Primo Ministro.

Dopo le elezioni di aprile l’attenzione dell’opinione pubblica era del resto meno incentrata sulla formazione della coalizione che sulle iniziative che i sostenitori di Netanyahu avrebbero potuto prendere in parlamento per garantirgli l’immunità.

Non c’è alcun dubbio che Netanyahu avrebbe preferito elezioni più vicine, ma in base alla legge del Paese le campagne elettorali israeliane devono durare almeno 90 giorni, da cui la data del mese di settembre.

Ora, la data di queste nuove elezioni, che cade appena due settimane prima dell’udienza preliminare del suo processo, sembra escludere le sue possibilità di beneficiare dell’immunità, anche se le vincesse.

Un’altra sfida Netanyahu-Gantz ?

Anche se finora il Likud ha serrato i ranghi intorno a Netanyahu, questo potrebbe cambiare se i membri del partito avvertissero che il Primo Ministro è in una posizione di debolezza, incapace di formare una coalizione. Gideon Saar e Israel Katz sono possibili rivali di Netanyahu all’interno del Likud.

Benny Gantz sarà probabilmente di nuovo uno dei principali rivali di Benjamin Netanyahu nella lotta per la carica di Primo Ministro. Benché sia nuovo alla politica, Gantz, ex capo di stato maggiore, si è rivelato un valido rivale nelle elezioni di aprile.

Figlio di sopravvissuti all’Olocausto, Benny Gantz ha servito nell’esercito dal 1977 al 2015, data in cui si è dimesso dalla sua carica di comandante.

Ha recentemente creato un partito di centro, ‘Blu e Bianco’, che ha fatto campagna elettorale in aprile promettendo un governo pulito, pace e sicurezza. Il partito ha ottenuto 35 seggi alla Knesset, tanti quanti il Likud.

‘Blu e bianco’ conta tra i suoi esponenti più in vista Yair Lapid, ex Ministro delle Finanze (di centro-sinistra) e Moshe Ya’alon, ex Ministro della Difesa (di destra).

Benny Gantz ha invitato a proseguire le trattative di pace con i palestinesi, salvaguardando nel contempo gli interessi israeliani in materia di sicurezza. Ha detto che avrebbe fatto delle concessioni territoriali ai palestinesi, ma ha evitato la questione della creazione di uno Stato palestinese.

Da parte sua prima delle elezioni di aprile Benjamin Netanyahu aveva annunciato che, se avesse ottenuto un altro mandato, avrebbe dichiarato la sovranità israeliana sulle colonie nella Cisgiordania occupata – cioè una possibile annessione.

Anche le sue strette relazioni con il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump dovrebbero rivestire un ruolo importante nella campagna elettorale.

Tuttavia è difficile dire come le vicissitudini politiche in Israele influenzeranno le prospettive di riuscita del piano di pace elaborato dall’amministrazione Trump, noto come l’accordo del secolo, il cui annuncio viene rinviato da molto tempo.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Accordo del secolo

L’“accordo del secolo”? La benedizione americana al furto di terre e alla ghettizzazione dei palestinesi da parte di Israele

Nel corso degli ultimi 18 mesi la squadra di Trump per il Medio oriente sembra aver iniziato ad applicare il piano anche se non l’ha ancora reso pubblico

 

Jonathan Cook

 

Venerdì 10 maggio 2019 – Middle East Eye

 

Un rapporto pubblicato questa settimana dal giornale Israel Hayom che svelerebbe in apparenza “l’accordo del secolo” di Donald Trump dà l’impressione di un piano di pace che avrebbe potuto essere elaborato da un agente immobiliare o da un venditore di automobili.

Ma se l’autenticità del documento non è dimostrata, e al contrario persino messa in discussione, esistono seri motivi per credere che apra la strada a ogni futura dichiarazione dell’ amministrazione Trump.

 

Grande Israele

Si tratta soprattutto di una sintesi della maggior parte delle pretese della destra israeliana per la creazione del Grande Israele, con qualche concessione destinata ad ammansire i palestinesi – la maggior parte delle quali con l’obiettivo di alleggerire parzialmente lo strangolamento dell’economia palestinese da parte di Israele.

È esattamente ciò a cui assomiglierebbe l’“accordo del secolo” in base alle dichiarazioni del mese scorso di Jared Kushner che davano un primo quadro di questo piano.

L’organo di stampa che ha pubblicato la fuga di notizie è altrettanto significativo: Israel Hayom. Questo giornale israeliano appartiene a Sheldon Adelson, un miliardario americano dei casinò, uno dei principali donatori del partito repubblicano [USA, ndtr.] e uno dei maggiori finanziatori della campagna elettorale di Trump per la campagna presidenziale.

Adelson è anche un fedele alleato del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Nell’ultimo decennio il suo giornale non ha fatto altro che servire da portavoce dei governi ultranazionalisti di Netanyahu.

 

Netanyahu responsabile della fuga di notizie?

Adelson e Israel Hayom  hanno facile accesso alle figure più rappresentative delle amministrazioni americana e israeliana. Ed è stato ampiamente denunciato che nel giornale si scrivono poche cose interessanti senza che non siano state approvate in precedenza da Netanyahu o dal suo proprietario all’estero.

Il giornale ha rimesso in dubbio l’autenticità e la credibilità del documento, che è stato diffuso sulle piattaforme delle reti sociali, suggerendo persino che “è assolutamente possibile che il documento sia un falso” e che il ministero degli Esteri israeliano aveva deciso di occuparsi della questione.

La Casa Bianca aveva già informato che, dopo lunghi rinvii, aveva l’intenzione di svelare finalmente “l’accordo del secolo” il mese prossimo, dopo la fine del mese sacro per i musulmani del Ramadan.

Un responsabile anonimo della Casa Bianca ha dichiarato al giornale che il documento divulgato era “ipotetico” e “inesatto” – il genere di debole smentita che potrebbe ugualmente significare che il rapporto è, in effetti, in gran parte esatto.

Se il documento si rivela autentico, Netanyahu sembra essere il colpevole più probabile della divulgazione. Ha supervisionato il ministero degli Esteri per anni e Israel Hayom è spesso definito come il “Bibiton”, o il giornale di Bibi, dal soprannome del primo ministro.

Tastare il terreno

Il presunto documento, come l’ha pubblicato Israel Hayom, sarebbe un disastro per i palestinesi. Supponendo che Netanyahu ne approvi la divulgazione, le sue motivazioni non sarebbero forse molto difficili da individuare.

Da un certo punto di vista la divulgazione potrebbe costituire un mezzo efficace per Netanyahu e l’amministrazione Trump per tastare il terreno, per lanciare un ballon d’essai e decidere se osare pubblicare il documento così com’è o se devono apportarvi delle modifiche.

Ma è anche possibile che Netanyahu sia forse arrivato alla conclusione che mettere palesemente in pratica l’essenza di quello che già riesce a fare di nascosto potrebbe avere un prezzo non gradito – un prezzo che al momento potrebbe preferire evitare.

La fuga di notizie intende provocare un’opposizione anticipata al piano che arrivi sia da Israele che dai palestinesi e dal mondo arabo, nella speranza di impedire chee venga reso pubblico?

Forse ha sperato che le indiscrezioni, e la reazione che esse suscitano, obblighino la squadra di Trump per il Medio Oriente a rimandare di nuovo la pubblicazione del piano o a impedirne totalmente la diffusione.

Tuttavia, che “l’accordo del secolo” sia o no svelato tra poco, il documento divulgato – se è autentico – dà un’idea plausibile del pensiero dell’amministrazione Trump.

Dato che la squadra di Trump per il Medio oriente sembra aver cominciato ad applicare il piano, anche se quest’ultimo non è stato reso pubblico, durante gli ultimi otto mesi – dallo spostamento dell’ambasciata americana a Gerusalemme al riconoscimento dell’illegale annessione da parte di Israele delle alture siriane del Golan – questa fuga di notizie permette di far luce su come si articolerebbe la “soluzione” americano-israeliana del conflitto israelo-palestinese.

 

Annessione della Cisgiordania

L’entità palestinese proposta sarebbe denominata “Nuova Palestina”, ciò che costituirebbe probabilmente una pagina del manuale di strategia di Tony Blair, ex-primo ministro britannico diventato ambasciatore della comunità internazionale in Medio oriente dal 2007 al 2015.

Negli anni ’90 Blair ha allontanato il suo stesso partito, il partito Laburista, dalla sua tradizione socialista, poi lo ha ribattezzato il partito favorevole alle imprese, che ha dato come risultato – sbiadita copia di quello che era – il “New Labour”.

Il nome “Nuova Palestina” maschera efficacemente il fatto che questa entità demilitarizzata sarebbe sprovvista dei caratteri e dei poteri normalmente attribuiti a uno Stato. Secondo le rivelazioni, la Nuova Palestina non esisterebbe che su un’infima frazione della Palestina storica.

Tutte le colonie illegali di popolamento in Cisgiordania sarebbero annesse a Israele, ciò che sarebbe in linea con l’impegno preso da Netanyahu poco prima delle elezioni legislative dello scorso mese. Se il territorio annesso comprende la maggior parte della zona C, il 62% della Cisgiordania su cui in base agli accordi di Oslo Israele si è visto accordare un controllo temporaneo e che la destra israeliana intende insistentemente annettere, alla Nuova Palestina resterebbe il controllo del 12% della Palestina storica.

In altre parole l’amministrazione Trump sembra pronta a dare la propria benedizione a un Grande Israele che comprenda l’88% delle terre rubate ai palestinesi nel corso degli ultimi 70 anni.

“Nuova Palestina”

Ma è molto peggio di questo. La Nuova Palestina esisterebbe sotto forma di una serie di cantoni separati, o Bantustan, circondati da un oceano di colonie israeliane – ormai definite parte di Israele. L’entità sarebbe fatta a pezzi e tagliata come nessun altro Paese al mondo.

La Nuova Palestina non avrebbe un esercito, ma solo una forza di polizia con armi leggere. Non potrebbe agire che come una serie di municipalità scollegate tra loro.

In realtà è difficile immaginare come la “Nuova Palestina” cambierebbe in modo sostanziale la triste situazione attuale dei palestinesi. Non si potrebbero spostare tra questi cantoni se non attraverso lunghi giri, delle circonvallazioni e dei tunnel. Più o meno come ora.

 

Municipalità osannate

Il solo vantaggio proposto dal presunto documento è un progetto di bustarelle proveniente dagli Stati Uniti, dall’Europa e da altri Stati sviluppati, anche se finanziato principalmente dai ricchi Stati petroliferi del Golfo, in modo da alleviare la loro coscienza per aver spogliato i palestinesi delle loro terre e della loro sovranità.

Questi Stati forniranno 30 miliardi di dollari (26 miliardi di euro) in cinque anni per aiutare la Nuova Palestina a creare e a gestire i suoi municipi osannati. Se vi sembra una grossa somma di denaro, ricordatevi che ciò rappresenta otto miliardi di dollari in meno rispetto all’aiuto che gli Stati Uniti consegnano da un decennio a Israele per comprare armi e aerei da guerra.

Nel documento non compare chiaramente quello che succederà alla Nuova Palestina dopo questo periodo di 5 anni. Ma, considerato che il 12% della Palestina storica attribuita ai palestinesi costituisce il territorio più povero di risorse della regione – privato da Israele di risorse idriche, di coesione economica e di risorse chiave utilizzabili come le cave della Cisgiordania – è difficile non vedere il naufragio annunciato dell’entità dopo l’affievolirsi del flusso iniziale di denaro.

Anche se la comunità internazionale accettasse di destinare più soldi, la Nuova Palestina sarebbe per sempre totalmente dipendente dagli aiuti.

Gli Stati Uniti e altri Paesi sarebbero in grado di aprire o chiudere i rubinetti in base al “buon comportamento” dei palestinesi – come avviene attualmente. I palestinesi vivrebbero in modo permanente nel timore per le conseguenze delle critiche dei guardiani della loro prigione.

Fedele al suo impegno di far pagare al Messico la costruzione del muro lungo la frontiera sud degli Stati Uniti, a quanto pare Trump vorrebbe che l’entità palestinese pagasse Israele per fornirle una sicurezza militare. In altri termini, gran parte di questo aiuto di 30 miliardi di dollari ai palestinesi si ritroverebbe probabilmente nelle tasche dell’esercito israeliano.

È interessante notare che il presunto articolo sostiene che sono gli Stati produttori di petrolio, e non i palestinesi, che sarebbero i “principali beneficiari” dell’accordo. Ciò indica come l’accordo di Trump sia venduto agli Stati del Golfo: è un’occasione per loro di legarsi totalmente a Israele, alla sua tecnologia e alle sue capacità militari, in modo che il Medio oriente possa seguire le orme delle “tigri economiche” dell’Asia.

 

Pulizia etnica a Gerusalemme

Gerusalemme è descritta come una “capitale condivisa”, ma le clausole scritte in piccolo dicono tutt’altro. Gerusalemme non sarebbe divisa, con da una parte l’est palestinese e dall’altra l’ovest israeliano, come per lo più si era previsto. Invece di ciò, la città sarebbe diretta da una municipalità unificata sotto controllo israeliano. Esattamente come ora.

La sola concessione significativa ai palestinesi sarebbe che gli israeliani non sarebbero autorizzati a comprare case palestinesi, impedendo – almeno in teoria – l’assunzione del controllo di Gerusalemme est in modo più pesante da parte dei coloni ebrei.

Ma, dato che in cambio i palestinesi non sarebbero autorizzati a comprare delle case israeliane e che la popolazione palestinese a Gerusalemme est soffre già di una grave carenza di alloggi e che un’amministrazione comunale israeliana avrebbe il potere di decidere dove le case potrebbero essere costruite e per chi, è facile immaginare che la situazione attuale – Israele che si serve del controllo della gestione del territorio per cacciare i palestinesi da Gerusalemme – semplicemente continuerebbe.

In più, siccome i palestinesi a Gerusalemme sarebbero dei cittadini della Nuova Palestina, e non di Israele, quelli che sarebbero incapaci di installarsi in una Gerusalemme sotto dominazione israeliana non avrebbero altra scelta che emigrare in Cisgiordania. Sarebbe esattamente la stessa forma di pulizia etnica burocratica che i palestinesi stanno sperimentando attualmente.

Gaza aperta verso il Sinai

Riprendendo le recenti affermazioni di Jared Kushner, genero di Trump e consigliere per il Medio oriente, i vantaggi del piano per i palestinesi sono tutti legati ai potenziali utili economici e non politici.

I palestinesi sarebbero autorizzati a lavorare in Israele, come avveniva normalmente prima di Oslo, e verosimilmente, come allora, unicamente nei lavori peggio pagati e più precari, nei cantieri edili e in agricoltura.

Un corridoio terrestre, sicuramente sorvegliato da contractors militari israeliani che i palestinesi dovranno pagare, dovrebbe ricollegare Gaza alla Cisgiordania. Confermando informazioni precedenti relative ai progetti dell’amministrazione Trump, Gaza sarebbe aperta al mondo, e sul vicino territorio del Sinai sarebbero creati una zona industriale e un aeroporto.

Questa terra – la cui estensione sarebbe da definire nei negoziati – sarebbe presa in affitto all’Egitto.

Come sottolineato in precedenza da Middle East Eye, tale decisione rischierebbe di incoraggiare progressivamente i palestinesi a considerare il Sinai, invece di Gaza, come il centro della loro vita, un altro mezzo per procedere alla progressiva pulizia etnica.

Nel contempo la Cisgiordania sarebbe collegata alla Giordania da due passaggi di frontiera – probabilmente attraverso corridoi terrestri che attraverserebbero la valle del Giordano, che dovrebbe essere annessa anch’essa a Israele. Di nuovo, con i palestinesi chiusi in cantoni non collegati e circondati dal territorio israeliano, c’è da supporre che con il tempo molti cercherebbero una nuova vita in Giordania.

Nel corso di tre anni i prigionieri politici palestinesi sarebbero liberati dalle prigioni israeliane sotto l’autorità della Nuova Palestina. Tuttavia il piano non dice niente sul diritto al ritorno per i milioni di rifugiati palestinesi, i discendenti di quelli che sono stati cacciati da casa loro durante le guerre del 1948 e del 1967.

Pistola alla tempia

Alla maniera di don Corleone, l’amministrazione Trump sembra pronta a mettere una pistola alla tempia dei dirigenti palestinesi per obbligarli a firmare l’accordo.

Secondo il rapporto divulgato, gli Stati Uniti vieterebbero qualunque trasferimento di denaro ai palestinesi dissidenti, con lo scopo di obbligarli a sottomettersi.

Questo presunto piano esigerebbe che Hamas e la Jihad islamica si disarmino consegnando le loro armi all’Egitto. Se rifiutassero l’accordo, il rapporto sostiene che gli Stati Uniti autorizzerebbero Israele ad “attentare” contro i dirigenti – per mezzo di assassini extragiudiziari che costituiscono da molto tempo il pilastro della politica israeliana riguardo ai due gruppi.

Ciò che è meno credibile è il fatto che il presunto documento suggerisce che la Casa Bianca sarebbe pronta a dimostrare la propria fermezza anche nei confronti di Israele, tagliando l’aiuto americano se Israele non rispettasse i termini dell’accordo.

Dato che Israele ha regolarmente infranto gli accordi di Oslo – e il diritto internazionale – senza dover affrontare gravi sanzioni, è facile immaginare che in pratica gli Stati Uniti troverebbero delle soluzioni per evitare che Israele debba pagare le conseguenze di ogni violazione dell’accordo.

Imprimatur americano

Il presunto documento presenta tutte le caratteristiche del piano Trump, o almeno di una sua versione recente, perché descrive nero su bianco la situazione che Israele ha creato per i palestinesi nel corso di questi ultimi vent’anni.

Ciò dà semplicemente a Israele l’imprimatur ufficiale degli Stati Uniti per il furto massiccio delle terre e la riduzione in cantoni dei palestinesi.

Dunque, se offre alla destra israeliana la maggior parte di quello che vuole, che interesse ha Israel Hayom – portavoce di Netanyahu – a compromettere il suo successo divulgandolo?

Alcune ragioni potrebbero spiegarlo.

Israele ha già raggiunto tutti i suoi obiettivi – rubare la terra, annettere le colonie di insediamento, consolidare il suo controllo esclusivo su Gerusalemme, fare pressione sui palestinesi perché se ne vadano dalla loro terra e partano per gli Stati vicini – senza annunciare ufficialmente che si tratta del suo piano.

Ha realizzato grandi progressi in tutti i suoi obiettivi senza dover ammettere pubblicamente che la creazione di uno Stato per i palestinesi è un’illusione. Per Netanyahu, la questione deve essere sapere perché dovrebbe rendere pubblica la visione globale di Israele quando può essere realizzata di nascosto.

Timore di un contraccolpo

Ma, peggio ancora per Israele, una volta che i palestinesi e il mondo che sta a guardare capiranno che l’attuale situazione catastrofica per i palestinesi non migliorerà, ci sarà probabilmente un contraccolpo.

L’Autorità Nazionale Palestinese potrebbe crollare, la popolazione palestinese scatenerebbe una nuova ribellione, la cosiddetta “opinione pubblica araba” accetterebbe probabilmente questo piano meno di quanto i suoi dirigenti o di quanto Trump non desideri, e gli attivisti solidali in Occidente, soprattutto il movimento per il boicottaggio, beneficerebbero di un’ enorme spinta per la loro causa.

Inoltre sarebbe impossibile per i difensori di Israele continuare a negare che Israele ha messo in atto quello che l’accademico israeliano Baruch Kimmerling aveva definito “politicidio”: la distruzione dell’avvenire dei palestinesi, del loro diritto all’autodeterminazione e della loro integrità in quanto un solo popolo.

Se questa è la versione della pace in Medio oriente proposta da Trump, egli gioca alla roulette russa – e Netanyahu esiterà forse a lasciargli premere il grilletto.

 

 

Jonathan Cook è un giornalista britannico residente dal 2001 a Nazareth. E’ l’autore di tre libri sul conflitto israelo-palestinese. È stato vincitore del Martha Gellhorn Special Prize for Journalism.

 

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

 

 

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Trump e annessione israeliana del Golan

Il via libera di Trump sul Golan prepara l’annessione della Cisgiordania da parte di Israele

Mondoweiss

Jonathan Cook – 26 marzo 2019

 

Quando lo scorso anno il presidente Donald Trump ha spostato l’ambasciata USA a Gerusalemme occupata, sabotando di fatto ogni speranza di costituzione di uno Stato palestinese sostenibile, ha stracciato le regole internazionali.

La scorsa settimana ne ha calpestato le pagine spiegazzate che rimanevano. Naturalmente lo ha fatto su Twitter.

In riferimento a una grande parte del territorio che Israele ha tolto alla Siria nel 1967, Trump ha scritto: “Dopo 52 anni è ora che gli Stati Uniti riconoscano in pieno la sovranità di Israele sulle Alture del Golan, che sono di fondamentale importanza strategica e riguardo alla sicurezza per lo Stato di Israele e per la stabilità regionale.”

Israele espulse 130.000 siriani dalla Alture del Golan nel 1967, con il pretesto della Guerra dei Sei Giorni, e poi 14 anni dopo annesse il territorio in violazione delle leggi internazionali. Una piccola popolazione di drusi siriani è l’unica sopravvissuta da quell’operazione di pulizia etnica.

Replicando le sue azioni illegali nei territori palestinesi occupati, subito Israele spostò coloni e attività economiche ebraici nel Golan.

Finora nessun Paese aveva riconosciuto l’appropriazione del bottino da parte di Israele. Nel 1981 gli Stati membri dell’ONU, compresi gli USA, dichiararono i tentativi di Israele di cambiare lo status del Golan “nulli e privi di valore”.

Ma negli ultimi mesi il presidente israeliano Benjamin Netanyahu ha iniziato a intensificare i tentativi di rompere questo consenso di lunga data ed è riuscito ad avere dalla sua parte l’unica superpotenza mondiale.

Si è dato da fare quando Bashar Al Assad – aiutato dalla Russia – ha iniziato a recuperare in modo decisivo le perdite territoriali che il governo siriano aveva patito durante gli otto anni di guerra del Paese.

La lotta ha coinvolto una serie di altri Paesi. Lo stesso Israele ha utilizzato il Golan come base da cui lanciare operazioni sotto copertura per aiutare gli oppositori di Assad, compresi i combattenti dello Stato Islamico, nella Siria meridionale. L’Iran e le milizie libanesi di Hezbollah, nel contempo, hanno cercato di limitare lo spazio di manovra di Israele a favore del leader siriano.

Netanyahu ha giustificato pubblicamente con la presenza dell’Iran nelle vicinanze la necessità per Israele di prendere possesso permanente del Golan, definendolo una zona cuscinetto vitale contro i tentativi iraniani di “utilizzare la Siria come base per distruggere Israele.”

Prima di questo, quando Assad stava perdendo terreno a favore dei suoi nemici, il leader israeliano ne aveva fatto una questione diversa. Allora aveva sostenuto che la Siria stava andando in pezzi e che il suo presidente non sarebbe mai stato in grado di reclamare il Golan.

L’attuale ragione [addotta da] Netanyahu non è più convincente della precedente. La Russia e le Nazioni Unite sono già molto avanti nel ridefinire una zona smilitarizzata sul lato siriano della linea di separazione dei contendenti. Ciò garantirebbe che l’Iran non possa schierarsi vicino alle Alture del Golan.

Lunedì notte, durante un incontro tra Netanyahu e Trump a Washington, il presidente ha convertito il suo tweet in un decreto esecutivo.

Il tempismo è significativo. È un altro goffo tentativo da parte di Trump di immischiarsi nelle elezioni israeliane, previste per il 9 aprile. Fornirà a Netanyahu una notevole spinta nel momento in cui lotta contro incriminazioni per corruzione e una effettiva minaccia da parte del partito rivale, “Blu e Bianco” [coalizione di centro, ndt.], guidata da ex-generali dell’esercito.

Netanyahu ha controllato a stento la sua esultanza dopo il tweet di Trump, e lo avrebbe chiamato per dirgli: “Tu hai fatto la storia!”

Ma, in verità, non si è trattato di un capriccio. Israele e Washington sono andati in questa direzione da parecchio.

In Israele, c’è un appoggio condiviso tra tutti i partiti al fatto che Israele si impossessi del Golan.

Michael Oren, ex ambasciatore israeliano negli USA e consigliere di Netanyahu, lo scorso anno ha formalmente lanciato un piano per quadruplicare in un decennio le dimensioni della popolazione di coloni nel Golan, portandola a 100.000 persone.

Lo scorso mese il Dipartimento di Stato USA ha offerto il proprio palese visto di approvazione quando ha incluso per la prima volta le Alture del Golan nella sezione “Israele” del suo rapporto annuale sui diritti umani.

Questo mese il senatore repubblicano Lindsey Graham ha fatto una vera e propria visita pubblica nel Golan su un elicottero militare israeliano, insieme a Netanyahu e a David Friedman, l’ambasciatore di Trump in Israele. Graham ha detto che lui e il suo amico senatore Ted Cruz avrebbero fatto pressione perché il presidente USA cambiasse lo status del territorio.

Nel contempo Trump non ha fatto segreto del suo disprezzo nei confronti delle leggi internazionali. Questo mese i suoi funzionari hanno vietato l’ingresso negli USA a personale della Corte Penale Internazionale, con sede all’Aia, che sta facendo un’inchiesta su crimini di guerra USA in Afghanistan.

La CPI si è inimicato sia Washington che Israele nei suoi iniziali, e scarsi, tentativi di obbligare entrambi a rispondere delle loro azioni.

Qualunque siano le piroette di Netanyahu riguardo alla necessità di scongiurare una minaccia iraniana, Israele ha altre, e più concrete, ragioni per tenersi stretto il Golan.

Il territorio è ricco di sorgenti d’acqua e fornisce ad Israele il controllo decisivo sul Mare di Galilea, un grande lago di acqua dolce che è di fondamentale importanza in una regione che deve affrontare una sempre maggiore carenza d’acqua.

I 1.200 km2 di terra rubata sono stati sfruttati in modo aggressivo, dai fiorenti vigneti e meleti all’industria turistica che, in inverno, include le pendici coperte di neve del monte Hermon.

Come ha notato “Who Profits”, un’organizzazione israeliana per i diritti umani, in un rapporto dello scorso mese, imprese israeliane e statunitensi stanno anche installando impianti di energia eolica per vendere elettricità.

E Israele ha collaborato in silenzio con il gigante USA dell’energia “Genie” per sfruttare le potenzialmente grandi riserve di petrolio sotto il Golan. Il consigliere e genero di Trump Jared Kushner ha investimenti di famiglia in “Genie”. Ma estrarre il petrolio sarà difficile finché Israele non potrà sostenere in modo plausibile di avere sovranità sul territorio.

Per decenni gli USA hanno regolarmente cercato di obbligare Israele a iniziare colloqui di pace pubblici e riservati con la Siria.   Solo tre anni fa Barack Obama ha appoggiato una condanna del Consiglio di Sicurezza dell’ONU a Netanyahu per aver affermato che Israele non avrebbe mai restituito il Golan.

Ora Trump ha dato il via libera a Israele perché se ne impossessi per sempre.

Ma, qualunque cosa egli dica, la decisione non porterà sicurezza ad Israele, o stabilità regionale. Di fatto rende insensato l’“accordo del secolo” di Trump, un piano di pace regionale a lungo rimandato per porre fine al conflitto israelo-palestinese che, secondo indiscrezioni, dovrebbe essere svelato poco dopo le elezioni israeliane.

Al contrario, il riconoscimento da parte degli USA si dimostrerà una manna per la destra israeliana, che chiede a gran voce l’annessione di vaste zone della Cisgiordania e piantare di conseguenza l’ultimo chiodo sulla bara della soluzione dei due Stati.

La destra israeliana può ora plausibilmente sostenere: “Se Trump ha accettato il fatto che ci siamo impossessati illegalmente del Golan, perché non [accetterebbe] anche il nostro furto della Cisgiordania?”

Una versione di questo articolo è comparsa per la prima volta su “The National”, Abu Dhabi.

 

Su Jonathan Cook

 

Jonathan Cook ha vinto il Premio Speciale Martha Gellhorn per il giornalismo. Tra i suoi libri: “Israel and the Clash of Civilisations: Iraq, Iran and the Plan to Remake the Middle East” [“Israele e il crollo della civiltà: Iraq, Iran ed il piano per rifare il Medio Oriente”] (Pluto Press), e “Disappearing Palestine: Israel’s Experiments in Human Despair” [“Palestina scomparsa: esperimenti israeliani in disperazione umana”] (Zed Books).

 

 

(traduzione di Amedeo Rossi)