Il Belgio è sulla strada giusta, ma l’Europa ha tradito la Palestina

Dr Ramzy Baroud

30 novembre 2021 Middle East Monitor

Anche se la decisione presa il 25 novembre dal governo belga di etichettare i prodotti provenienti dalle colonie illegali israeliane è lodevole, alla fine si dimostrerà inefficace.

Paragonato ad altri Paesi europei, quali Gran Bretagna, Germania, Francia, il Belgio ha una tradizione di solidarietà nei confronti della Palestina. Sia attraverso la cancellazione di missioni commerciali, sia attraverso l’aperto sostegno da parte della società civile, artisti, intellettuali e gente comune, il Belgio ha dimostrato il desiderio di giocare un ruolo costruttivo per porre fine all’occupazione israeliana della Palestina.

E’ evidente che non basteranno una simbolica solidarietà e dichiarazioni politiche per costringere Israele al rispetto della legge internazionale, allo smantellamento dell’apartheid, alla fine dell’occupazione militare e al riconoscimento del diritto alla libertà per i palestinesi.

Il dilemma cui si trova di fronte il Belgio vale anche per il resto dell’Europa. Mentre i governi europei insistono sulla centralità di tematiche quali democrazia, diritti umani e legge internazionale nelle loro relazioni con Israele, essi non fanno però alcun gesto significativo per garantire che Israele rispetti quelle che l’Unione Europea proclama essere le sue politiche.

La decisione belga di distinguere fra prodotti israeliani provenienti da Israele e quelli che arrivano dalle colonie israeliane illegali non si basa sul quadro normativo di riferimento del Belgio, ma su varie importanti sentenze prese dalla UE. Ad esempio, nel novembre del 2015 l’Unione Europea ha emesso nuove direttive per garantire che i prodotti delle colonie illegali vengano etichettati come tali. Nel gennaio del 2016, poi, pare che la UE abbia ‘ribadito’ la volontà di etichettare in modo chiaro tali prodotti.

Tuttavia da allora non si sono viste molte etichette di quel tipo, tanto da costringere i cittadini UE, con il sostegno di varie organizzazioni della società civile, a rivolgersi direttamente ai tribunali dell’Unione per rimediare al fallimento dell’establishment politico europeo. Nel novembre del 2019 il più importante organo giurisdizionale della UE, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, ha deliberato che i prodotti provenienti dalle colonie illegali israeliane devono fornire “l’indicazione di tale provenienza (consentendo così ai consumatori di fare) scelte consapevoli.”

Vale a dire che la recente decisione presa dal Belgio non è che una tardiva implementazione di varie sentenze prese in passato e mai fatte rispettare nella maggioranza dei Paesi della UE.

Invece di dimostrare il proprio inequivocabile sostegno al Belgio e di cominciare ad implementare anche loro la sentenza della Corte di Giustizia della UE, la maggior parte dei Paesi europei è rimasta in silenzio di fronte all’attacco di Israele, che ha dichiarato che la decisione del Belgio è “anti- israeliana”, e ha impropriamente sostenuto che “rafforza gli estremisti”.

Non appena i media internazionali hanno dato notizia della decisione del governo belga, Israele ha fatto le solite scenate. Il viceministro degli Esteri Idan Roll ha immediatamente annullato una riunione programmata in precedenza con dei funzionari belgi, costringendo così il ministero degli esteri a Bruxelles a giustificare e a chiarire meglio la propria posizione.

Come prevedibile, l’Autorità Nazionale Palestinese, organizzazioni di attivisti e della società civile e molti soggetti individuali hanno lodato il Belgio per la sua coraggiosa posizione, che è analoga a quelle adottate in passato da Paesi come l’Irlanda, che è stata la prima nazione dell’Unione Europea a dare attuazione a questo provvedimento lo scorso maggio.

Questa euforia è prevalentemente alimentata dalla convinzione che questi passi possano preludere ad altre azioni concrete, che alla fine darebbero la spinta decisiva per un totale boicottaggio europeo di Israele. Ma è davvero così?

Alla luce delle divisioni fra gli europei in tema di etichettatura dei prodotti provenienti dalle colonie illegali, di una netta distinzione fra colonie e “Israele vero e proprio”, e della crescita esponenziale degli scambi fra Israele e Unità Europea, bisogna guardarsi dal saltare a conclusioni affrettate.

Secondo dati della Commissione Europea, la UE è il maggiore partner commerciale di Israele, con un valore totale di scambio di 31 miliardi di euro nel 2020.

Ma, cosa più importante, l’Unione Europea è stata il principale punto di accesso per l’integrazione di Israele in una più vasta dinamica globale non solo di politica e sicurezza, ma anche di cultura, musica e sport. Se il commercio europeo con Israele è facilitato dall’Accordo Euromediterraneo del 1995 [regola l’import-export di prodotti agricoli fra UE e Israele, ndtr], l’integrazione di Israele in Europa è regolata principalmente dal piano di Politica Europea di Vicinato (PEV) del 2004. Il secondo accordo, in particolare, aveva l’obiettivo di controbilanciare i successi ottenuti dai palestinesi e dai loro sostenitori nella delegittimazione dell’occupazione e apartheid praticati da Israele in Palestina.

Non sarebbe verosimile credere che proprio la UE, che ha fatto la scelta strategica di legittimare, integrare e normalizzare Israele agli occhi degli europei e del resto della comunità internazionale, possa essere lo stesso soggetto che costringerà Israele a rispondere dei suoi obblighi rispetto alla legge internazionale.

E non dimentichiamo che, anche se tutti i Paesi europei decideranno di etichettare i prodotti delle colonie, non basterà questo a smuovere Israele, tanto più perché la UE farà quanto in suo potere per compensare qualsiasi deficit commerciale dovesse derivarne.

Inoltre qualsiasi tipo di pressione, simbolica o reale che sia, esercitata dalla UE avviene spesso nel contesto della soluzione dei due Stati in Israele e Palestina, dichiaratamente abbracciata dagli europei. Se è pur vero che quella ‘soluzione’ resta l’unica ratificata dalla comunità internazionale, la complessità del problema, il buon senso e i ‘fatti compiuti’ ci dicono che la coesistenza in un unico Stato laico e democratico rimane l’unica conclusione pratica, possibile e evidentemente giusta per questa tragedia prolungata.

Nonostante le dichiarazioni eloquenti ed inequivocabili della UE sull’illegalità dell’occupazione israeliana, è ovvio che gli europei non hanno una vera strategia su Palestina e Israele. Se invece una strategia c’è, essa è piena di confusioni e contraddizioni. Insomma, Israele non ha alcun motivo di prendere l’Europa sul serio.

E’ facile accusare la UE di ipocrisia. Tuttavia la condotta della UE verso Israele non si spiega solo con l’ipocrisia, ma presumibilmente deriva dalla mancanza di unità politica e di una comunità di vedute fra gli Stati membri dell’Unione. Nei fatti la UE aiuta a sostenere l’occupazione israeliana, finanziandola vuoi direttamente o indirettamente. Attraverso gli scambi commerciali, la legittimazione politica e l’integrazione culturale di Israele, l’Unione Europea ha consentito che si perpetuasse lo status quo dell’occupazione apparentemente senza fine della Palestina. Se anche si imponessero etichette su tutti i prodotti delle colonie ebraiche, non basterà certo questo ad invertire la marcia.

Se la posizione del Belgio è di per sé lodevole – in quanto riflette l’attivismo e pressione incessantemente esercitati dalla società civile del Paese – essa non dovrebbe esser vista come alternativa ad una coraggiosa posizione politica e morale simile a quella adottata durante la lotta anti-apartheid in Sudafrica. Prima di allora, l’Europa ha l’obbligo di dimostrare la volontà di stare dalla parte giusta della storia.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la linea editoriale di Middle East Monitor.

traduzione dall’inglese di Stefania Fusero




L’occupazione reca danno non solo ai palestinesi, ma anche al pianeta

L’occupazione reca danno non solo ai palestinesi, ma anche al pianeta

Edilizia sprecona, un doppio sistema stradale, viaggi rallentati dai posti di blocco e asfalto al posto di spazi aperti: la politica di Israele in Cisgiordania e a Gaza ha un costo ecologico.

Amira Hass

7 novembre 2021 – Haaretz

 

L’inquinatore numero 1 nei territori palestinesi occupati è il controllo che Israele esercita sulla terra e l’impresa di colonizzazione. Non è una citazione letterale, ma questo è lo spirito di ciò che ha detto la scorsa settimana il Primo Ministro palestinese Mohammad Shtayyeh al summit sull’ambiente COP26.

La sua presenza è stata a stento menzionata sui media internazionali, per non parlare di quelli israeliani, a ulteriore dimostrazione di quanto marginale sia diventata la questione palestinese nell’agenda globale. Ma ciò non sminuisce affatto il danno all’ambiente.

Tutti gli studi e gli articoli relativi alle condizioni ambientali nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania rilevano un rapporto con la politica israeliana. Questi comprendono un dettagliato documento dell’ONU del 2020, rapporti dell’associazione giuridica palestinese Al-Haq nel corso di vari anni ed un articolo pubblicato dal gruppo di esperti palestinesi Al-Shabaka nel 2019 (“Climate change, the Occupation and a vulnerable Palestine” – “Cambiamenti climatici, occupazione e la vulnerabilità della Palestina”).

È tuttavia difficile quantificare l’impatto totale sul riscaldamento del clima delle azioni del governo e dei civili israeliani nei territori conquistati nel 1967.

La relazione della ragioneria dello Stato sulla mancata limitazione da parte di Israele delle emissioni di gas che causano l’effetto serra non menziona nemmeno i territori (occupati). E neppure analizza la spaventosa previsione dell’ONU, risalente al 2012, secondo cui la Striscia di Gaza sarebbe diventata inabitabile entro il 2020 se Israele non avesse profondamente modificato la sua politica verso l’enclave. Sono passati quasi due anni dalla “scadenza” posta dall’ONU e nulla di sostanziale è cambiato. L’ONU deve aver sottovalutato l’enorme capacità di resilienza degli abitanti di Gaza.

Tuttavia un’affermazione chiave presente nel report della Ragioneria getta luce sulla rimozione israeliana riguardo all’impatto dell’occupazione sull’inquinamento locale e globale. Così si legge: “In una situazione di conflitto o di potenziale conflitto tra i principali obiettivi dei ministeri del governo e l’obiettivo di ridurre le emissioni di gas causa dell’effetto serra, i ministeri danno priorità alla promozione degli obiettivi centrali dei loro compiti ministeriali rispetto alla riduzione delle emissioni – fatta eccezione per il Ministero della Protezione Ambientale…”

Come rispecchiato nella politica dichiarata e messa in atto, gli obiettivi dei governi israeliani – compreso quello attuale – consistono nell’espandere le colonie, spingere sempre più israeliani ed ebrei della diaspora a stabilirsi in Cisgiordania, garantire il totale controllo su circa il 60% della Cisgiordania (“Area C”), perpetuare la separazione tra la Striscia di Gaza e la Cisgiordania, mantenere separate le popolazioni palestinese ed ebraica e abituare il mondo, come “soluzione”, alla realtà di enclave palestinesi separate e scollegate tra loro.

Un conseguente scopo non dichiarato è l’indebolimento sistematico dell’economia palestinese. Tutti questi obiettivi hanno un costo, nella forma di un danno ambientale sui generis. Eccone alcuni esempi.

Asfalto fin dove arriva lo sguardo

Parte del danno che l’occupazione sta provocando all’ecosistema si concentra nella superflua e ideologicamente motivata edificazione e costruzione di strade a spese degli spazi aperti e verdi palestinesi.

L’edificazione per gli ebrei nelle colonie si sta molto espandendo, sia per migliorare l’attrattività che per impadronirsi di quanta più terra palestinese possibile.

Nell’ottica di mantenere separate le due comunità, dei palestinesi e dei coloni, e di consolidare l’annessione de facto, Israele sta creando un sistema di doppie strade. Il principale criterio per pianificare nuove strade è soddisfare la domanda dei coloni presenti e futuri, il che significa accrescere il loro numero e accorciare i tempi di spostamento tra le colonie e Israele. I veicoli palestinesi sono indotti o costretti a viaggiare su strade secondarie, parallele e circonvallazioni. Ai palestinesi è vietato percorrere la maggior parte delle strade che collegano le colonie tra loro e con Israele, o devono percorrere strade che non li portano da nessuna parte.

Inoltre migliaia di metri quadri in Cisgiordania sono asfaltati e non rispondono ad alcuno scopo civile: “strade di sicurezza” intorno alle colonie, a spese dei terreni da pascolo e da coltivazione palestinesi, e strade asfaltate lungo la tortuosa barriera di separazione, ad uso esclusivo dei veicoli militari.

Per di più gli alberi vengono sradicati, i terreni agricoli distrutti e l’accesso ai terreni coltivati sia in Cisgiordania che nella Striscia di Gaza è interdetto con l’apparente motivazione della sicurezza, a causa della violenza dei coloni e allo scopo di espandere le colonie e le loro infrastrutture.

Aumento delle emissioni

Inoltre le restrizioni alla mobilità e diversi divieti relativi allo sviluppo sono fattori che concorrono all’incremento delle emissioni di gas serra. Le distanze e i tempi di percorrenza tra le enclave e le sotto-enclave palestinesi – cioè dai villaggi vicini alla loro città capoluogo – aumentano a causa dei posti di blocco fissi e mobili e delle zone a cui i palestinesi è vietato l’accesso, come le colonie e i blocchi di colonie. Tempi di percorrenza più lunghi significano più consumo di carburante e maggiori emissioni.

Non solo vi è stato un generale aumento di automobili sulle strade: ingorghi di traffico sono provocati dai posti di blocco lungo le strade e agli ingressi delle città. I veicoli che vanno a passo di lumaca negli ingorghi inquinano di più di una guida continua a velocità normale. Uno studio del 2018 dell’istituto palestinese di ricerca applicata Arij ha riscontrato che in Cisgiordania ogni anno vengono sprecati 80 milioni di litri di carburante a causa degli intasamenti ai posti di blocco, delle zone chiuse alle auto palestinesi e della necessità di fare delle deviazioni. Lo studio ha stimato che questo provoca ogni anno 196.000 tonnellate in più di emissioni di CO2.

Lo studio ha anche calcolato che vengono perse 60 milioni di ore di lavoro all’anno, con un costo di 270 milioni di dollari.

Israele controlla tutte le risorse idriche del Paese, ma non considera la Striscia di Gaza come parte geografica naturale di esso, che significherebbe godere di una quota delle risorse idriche, come per esempio avviene per le comunità ebraiche nel deserto. Perciò la Striscia di Gaza deve arrangiarsi con una parte delle falde acquifere costiere all’interno dei suoi confini artificiali, che non forniscono acqua sufficiente per una popolazione di due milioni di persone. Dopo essere state sfruttate eccessivamente per 30 anni, le falde sono state inquinate da infiltrazioni saline e di acque reflue. Circa il 96% della sua acqua è considerato non potabile e deve essere depurato in impianti specifici. Tale depurazione consuma un’enorme quantità di carburante al giorno, poi l’acqua depurata viene trasportata [con autobotti ndtr.] nelle case, producendo ulteriori emissioni.

Collegare Gaza alla rete idrica nazionale israeliano (che utilizza grandi quantità delle risorse della Cisgiordania) sarebbe stato meglio sia per i palestinesi che per il clima del pianeta.

In Cisgiordania Israele raziona la quantità di acqua che i palestinesi possono estrarre e usare. A causa delle scarse quantità il flusso nelle tubazioni è debole e l’acqua non riesce a raggiungere molti quartieri e villaggi palestinesi situati ad altezze relativamente elevate. Tuttavia ancora una volta la soluzione è ad alto dispendio di carburante: trasferire l’acqua in autobotti che la fanno confluire in cisterne sui tetti e in pozzi.

Inoltre Israele rifiuta di consentire a decine di villaggi e di comunità di pastori, soprattutto nella Valle del Giordano e nelle colline a sud di Hebron, di collegarsi al sistema idrico. Queste comunità palestinesi impoverite devono dipendere dall’acqua trasportata da autobotti e trattori, per la quale pagano cinque volte tanto se non di più, e questo senza contare il danno recato all’ecologia.

Tendenze neoliberiste

Il controllo di Israele limita le possibilità energetiche e di sviluppo dei palestinesi in enclave isolate senza contiguità territoriale.

L’Autorità Nazionale Palestinese ha incoraggiato, e continua a farlo, tendenze neoliberiste che danneggiano l’ambiente, come l’aumento dei consumi, compreso quello delle automobili. Ma la sua situazione di inferiorità e di soggiogamento rende difficile prevedere e pianificare a lungo termine,

anche attraverso aspetti che accolgano comportamenti economici di responsabilità ambientale.

Ridurre le emissioni richiede lo sviluppo del trasporto pubblico a prescindere da considerazioni di profitto. Ma, anche se l’Autorità Nazionale Palestinese non era in bancarotta, un progetto come un sistema ferroviario tra le città palestinesi è stato reso impossibile a causa della frammentazione del territorio in sacche isolate, senza nessuna autorità sulla terra circostante. Il miglioramento delle opzioni esistenti di trasporto pubblico, come autobus e minibus, richiede di finanziare le imprese private e comunali e di aumentare il salario dei conducenti, considerando i costi aggiuntivi dovuti alle attese ai posti di blocco e al dover effettuare deviazioni più lunghe; sono necessarie anche nuove linee di autobus, in grado di viaggiare per più ore.

La soluzione di ridurre i perenni ingorghi di traffico aggiungendo delle uscite dalle città (e costruendo corsie per il trasporto pubblico in ogni distretto) è difficile se non impossibile.       Ciò è dovuto alle colonie e ai loro piani di espansione, alle norme di pianificazione discriminatorie dell’Amministrazione Civile (israeliana) e alla richiesta dell’apparato di sicurezza che il numero di punti di ingresso e di uscita dalle città palestinesi sia il più limitato possibile.

Il controllo israeliano sulla terra, le risorse idriche e la pianificazione in più del 60% della Cisgiordania non consente all’ANP di razionalizzare la distribuzione dell’acqua: cioè di distribuire attraverso tubazioni l’acqua dalle aree fertili (per esempio Gerico) ad altre, come Betlemme.

Il controllo e le limitazioni alla pianificazione da parte israeliana rendono inoltre più difficile all’ANP spostare le aree industriali “sporche” fuori dalle zone residenziali ed espandere i confini urbani sulla base di considerazioni ambientaliste.

Inoltre, l’Autorità Nazionale Palestinese viene limitata nella sua possibilità di sviluppare una consapevolezza tra la popolazione riguardo alla protezione ambientale immediata e a lungo termine ed è geograficamente vincolata nella sua possibilità di applicare le leggi e le norme esistenti – per esempio per l’impedire l’interramento a scopo di lucro di rifiuti israeliani e altri generi di scorie nei terreni dei villaggi palestinesi.

La cronica debolezza finanziaria dell’ANP, il suo mancato rispetto della promessa che il processo di Oslo avrebbe portato alla fine dell’occupazione e la sua fama di essere corrotta hanno ridotto al minimo la fiducia della gente in essa. La fiducia della popolazione è essenziale quando un governo intende far crescere la consapevolezza e formulare politiche in ogni ambito, dalla delicata ma necessaria questione della riduzione della natalità, alla riduzione dell’utilizzo di pesticidi chimici, alla promozione dell’uso del trasporto pubblico. La divisione interna palestinese tra Gaza e la Cisgiordania, tra Hamas e Fatah, sviluppata e approfondita dalla politica israeliana di isolare e scollegare Gaza, limita inoltre lo sviluppo e la messa in atto di una pianificazione e progettazione a lungo termine sull’ambiente da parte palestinese.

 

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)

 




In Cisgiordania il furto di terre è consentito solo al governo israeliano

In Cisgiordania il furto di terre è consentito solo al governo israeliano

Zvi Bar’el

3 novembre 2021 – Haaretz

 

Questa settimana il ministro della difesa Benny Gantz è stato ispirato dalla shekhina (spirito divino) e ha deciso di non sostenere l’iniziativa che permetterebbe l’acquisto di terre in Cisgiordania da parte di privati cittadini ebrei, invece che tramite una società e ciò solo previa approvazione dell’Amministrazione Civile. Una fonte della Difesa ha spiegato ad Haaretz che “estendere l’opzione di acquistare dei terreni a ogni cittadino darebbe come risultato acquisizioni irresponsabili da parte di ebrei e sarebbe visto dall’Autorità Palestinese come ‘uno sgarbo’ (Lunedì).

I nostri cuori hanno sussultato davanti a un gesto così rispettoso, a tale profondità di visione e saggezza diplomatica. La decisione di Gantz è la risposta del ministero della Difesa a una petizione presentata da Regavim, un’ONG a favore dei coloni, contro la legge attuale, “una legge razzista che esiste in un solo posto al mondo, qui in Israele,” secondo il direttore generale Meir Deutsch. La “legge razzista” alla quale fa riferimento permette di acquistare privatamente terre in Cisgiordania solo a palestinesi, giordani o stranieri di origine araba. Che cos’è questo se non apartheid antiebraico?

Ma un momento prima che crolli il mondo e che i nostri cuori si riempiano di orgoglio per la coraggiosa decisione del ministro, va ricordato che anche questa legge che Gantz sta difendendo intrepidamente è palesemente illegale. Essa contraddice il diritto internazionale, che vieta di trasferire un popolo occupante nei territori occupati e di cambiare la composizione demografica di quei territori; non mette freno alla “impresa delle colonie” e sotto i suoi auspici avamposti e fattorie individuali sono stati e saranno autorizzati. Gantz si oppone alla criminalità privata, solo quella supervisionata dal governo è legale.

La paura di Gantz “di fare uno sgarbo” all’AP è superflua. Lo stesso si può dire della paura espressa dal maggiore Zvi Mintz, che era a capo del dipartimento immobiliare della divisione per la consulenza legale dell’IDF [Forze di Difesa Israeliane, l’esercito israeliano, ndtr.] della Giudea e Samaria [cioè la Cisgiordania, ndtr.], che “l’emendamento (ossia il permesso concesso a privati cittadini ebrei di acquistare terre) è probabile che sia visto come una violazione delle leggi di confisca in tempo di guerra e che porti a notevoli critiche a livello internazionale.”

Perché ciò che è vero circa l’acquisto da parte di privati cittadini è anche vero, secondo il diritto internazionale, per gli acquisti da parte di società. Bastava ascoltare le critiche mosse dal Segretario di Stato USA, Antony Blinken, e dal portavoce della Casa Bianca circa l’intenzione di procedere con la costruzione di oltre 3.000 unità abitative in Cisgiordania, per rendersi conto che ai loro occhi, e a quelli della comunità internazionale, non c‘è differenza fra l’illegalità delle colonie sponsorizzate dal governo e lo stesso reato perpetrato da un privato cittadino. Entrambi sono crimini. Tra l’altro per l’AP non fa alcuna differenza chi fa lo sgarbo, un privato cittadino, una società o un governo.

Lasciamo da parte le violazioni del diritto internazionale, il disprezzo per le critiche della comunità internazionale e la resa ai signori e padroni che vivono sulle terre rubate. Queste fanno già parte di un’antica cultura politica. Ma quando la sopravvivenza di questo governo intoccabile, teneramente coccolato, si basa su una decisione scolpita nella pietra di non fare nulla che susciti una controversia diplomatica per timore di strappare la fragile copertura protettiva di questa unità della coalizione, qual è il significato della nuova costruzione nelle colonie?

Tutti i partiti cosiddetti di “sinistra” avrebbero dovuto sollevare una protesta, puntare il dito accusatorio contro il ministro della Difesa e minacciare di far cadere il governo. Dopo tutto, si è già d’accordo che non ci sia “fattibilità diplomatica” di negoziati diplomatici, per non parlare di una soluzione del conflitto.

Apparentemente la sinistra nel governo di destra non solo non si rende conto della contraddizione fra l’espandere le colonie e l’assenza di una praticabilità diplomatica, ma sta anche aggiudicando a se stessa e ai propri colleghi la “fattibilità politica” di perpetuare l’impossibilità diplomatica.

Forse hanno chiuso gli occhi per un momento, ma quando Gantz non ha emendato la legge, non stava pensando all’AP, ma ai suoi colleghi nel governo. Con un cenno della mano ha anche concesso legittimità alla legge esistente che la sinistra ha cercato per anni e con tutte le forze di annullare e ha indossato la veste del giusto che ora proclama la propria innocenza.

 

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)

 




Cresce la resistenza in Cisgiordania, aumentano i timori di Israele

Dr Adnan Abu Amer

4 ottobre 2021 Middle East Monitor

Con la progressiva ripresa delle operazioni della resistenza palestinese in Cisgiordania, i servizi di sicurezza e l’esercito di Israele sono sempre più preoccupati per quello che considerano un allarmante risveglio delle cellule della resistenza.

Di fronte ai recenti attacchi armati in Cisgiordania i servizi di sicurezza israeliani si interrogano sulla possibilità di mantenere la ferrea stretta imposta sulla Cisgiordania. Al momento all’interno del sistema di sicurezza israeliano prevale la convinzione che sono ormai finiti i tempi di relativa calma in Cisgiordania, almeno per l’imminente futuro.

Israele si rende conto che l’infrastruttura della resistenza non è stata completamente scoperta e che essa molto probabilmente consiste di piccoli nuclei che sono cresciuti e disseminati in un’area relativamente estesa nelle città, campi e paesi della Cisgiordania.

La nuova infrastruttura militare di Hamas in Cisgiordania è completamente diversa dalla tradizionale infrastruttura organizzativa basata su relazioni strette modellate su famiglia, clan, amicizia, luoghi di residenza e di lavoro, conoscenze di lunga data. I membri delle cellule non hanno più bisogno di incontrarsi, perché gli attivisti del movimento nel nord della Cisgiordania ricevono armi o istruzioni dai dintorni di Gerusalemme, e viceversa. Pertanto al momento Israele si concentra più sul lavoro di intelligence che su quello operativo, in quanto gli ambiti dell’attuale infrastruttura di Hamas non sono ancora del tutto chiari per la sicurezza israeliana.

Israele sostiene che le direttive dei capi di Hamas vengono trasmesse ai livelli successivi in Cisgiordania vuoi indirettamente, tramite il movimento di Gaza, o direttamente, e che talvolta ciò avviene in incontri mediante messaggi criptati. Questa è una grave minaccia per la sicurezza che l’esercito israeliano si trova ad affrontare.

Questo significa che la campagna israeliana a Gerusalemme e Jenin che mirava a colpire la pluriennale infrastruttura delle forze di resistenza non è completamente riuscita, perché oltre alle attività militari a Gaza, Hamas ha stabilito non da ieri un’infrastruttura organizzativa in Cisgiordania sotto la guida dei suoi alti dirigenti. L’obiettivo è di avere una forza di combattimento radicata nella zona.

Ciò dimostra che la serie di blitz portati avanti da esercito e apparati di sicurezza a Jenin e Ramallah nelle ultime settimane non erano di routine, non solo per le dimensioni e il numero di vittime, ma per le ripercussioni sul futuro della sicurezza sul terreno. Questi blitz sono una risposta alle esistenti tensioni a Gaza, agli attacchi offensivi in Cisgiordania e all’evasione di prigionieri dalla prigione di Gilboa.

La sicurezza israeliana ha fatto trapelare che si sarebbe già iniziato ad addestrare elementi armati, nonchè a tentare di produrre materiale esplosivo all’interno delle case. I membri delle cellule sono abitanti delle zone di Ramallah e Jenin, dove Hamas possiede già una solida infrastruttura, e dove l’Autorità Nazionale Palestinese e le sue forze di sicurezza stanno incontrando difficoltà operative.

E’ ormai evidente che Hamas sta cercando di creare un’infrastruttura armata attiva in Cisgiordania con l’obiettivo di attirare l’esercito in grosse operazioni nel cuore delle principali località dei Territori, mettendo così in cattiva luce l’Autorità Nazionale Palestinese ed il suo apparato di sicurezza per la loro collaborazione con Israele.

A dispetto di tutto ciò, non è ancora chiaro se l’esercito israeliano sia completamente riuscito a neutralizzare l’infrastruttura della resistenza a seguito delle sue recenti operazioni delle ultime settimane, specialmente nella recente serie di raid. Comunque sia, nell’esercito resta il timore che la capacità di penetrazione di Hamas in Cisgiordania possa crescere ulteriormente, non solo sul piano militare, ma anche politico ed educativo, e che la Striscia di Gaza e la Cisgiordania possano trasformarsi in due arene per un unico fronte, con il movimento di Hamas che le controlla e guida in base ai propri interessi e alla propria ideologia.

La preoccupazione israeliana per l’escalation delle operazioni di resistenza in Cisgiordania coincide con il 16^ anniversario del ritiro di Israele dalla Striscia di Gaza, il che contribuisce alla diffusione dell’ipotesi israeliana che se, in seguito a qualche accordo con l’Autorità Nazionale Palestinese, ci sarà un analogo ritiro da alcune parti della Cisgiordania, si verificheranno allora in Cisgiordania dei cambiamenti simili a quelli avvenuti a Gaza, e in quel caso Israele si troverà presto esposta alla minaccia di lanci di razzi dalla Cisgiordania verso le città di Kfar Saba, Petah Tikva e i dintorni di Tel Aviv.

traduzione dall’inglese di Stefania Fusero




Barghouti: l’Autorità Palestinese non ha autorità

28 settembre 2021 – Middle East Monitor

Ieri l’agenzia di stampa Sama [agenzia di notizie siriana, ndtr.] ha riferito che Marwan Barghout, membro del Comitato Centrale di Fatah, ha detto dal carcere: “ L’Autorità Palestinese (ANP) non ha autorità” e ha aggiunto che la battaglia per Gerusalemme “ha rivelato l’inettitudine e la fragilità” del sistema politico palestinese.

Barghouti ha anche detto che l’ANP “ha permesso all’occupazione israeliana di non spendere nulla,” facendo notare che l’occupazione “pratica la pulizia etnica ed è responsabile di molti atti di aggressione contro i palestinesi.”

Ha spiegato che la frazione principale dell’Olp ” ha accettato condizioni inferiori al minimo” necessario per raggiungere la pace con l’occupazione israeliana.

Immigrazione, colonie, rafforzamento dell’esercito e potenti alleanze internazionali “sono il pilastro dell’occupazione israeliana,” ha spiegato Barghouti, osservando che gli ebrei immigrati in Israele sono 32.000 all’anno e che il numero dei coloni ebrei israeliani nella Cisgiordania occupata è salito negli ultimi dieci anni a 200.000.

Nel frattempo Israele ha accresciuto la sua potenza militare e sta stringendo alleanze con Russia, Cina e India, oltre agli USA. Questo Stato occupante sta cercando al contempo di diventare una nazione centrale nella regione con cui i Paesi vicini stanno cercando di stringere alleanze, ha spiegato.

La recente battaglia per Gerusalemme avvenuta a maggio nei territori occupati e in Israele, “è la prova che, nonostante sofferenze e dolori, i palestinesi non smetteranno di combattere per i propri diritti,” ha concluso Barghouti.

Ciò ha anche “evidenziato l’inettitudine e la fragilità del sistema politico palestinese e dimostrato che dobbiamo produrre una nuova leadership alternativa tramite elezioni generali.”

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Le forze armate israeliane hanno ucciso cinque palestinesi durante incursioni nei pressi di Jenin e Gerusalemme.

Shatha Hammad ,Lubna Masarwa

26 Settembre 2021,Middle East Eye

Secondo le notizie Israele trattiene i corpi di quattro dei palestinesi uccisi dopo l’operazione nel corso della quale due soldati israeliani sono stati gravemente feriti.

Domenica le forze armate israeliane hanno ucciso almeno cinque palestinesi durante raid militari nella Cisgiordania occupata vicino alla città di Jenin e a nord-ovest di Gerusalemme

Il quotidiano israeliano Haaretz ha scritto che durante i raid sono rimasti gravemente feriti due soldati israeliani un ufficiale e un soldato dell’unità Dovdovan [reparto che agisce sotto copertura in abiti civili travestendosi da palestinesi ndt].

Secondo quanto riferito, raid israeliani con scontri a fuoco hanno avuto luogo a Burqin, Qabatiya, Kafr Dan, Biddu e Beit Anan.

Tre dei cinque palestinesi, tutti di Biddu, sono stati uccisi nel villaggio di Beit Anan.

Gli uomini sono stati identificati dalle loro famiglie come Ahmad Zahran, Mahmoud Hmaidan e Zakariya Badwan.

Uno sciopero generale di un giorno è stato dichiarato domenica a Beit Anan e Biddu per protestare contro queste morti.

Le forze armate israeliane hanno anche ucciso almeno due palestinesi vicino a Jenin.

Dalle notizie raccolte si apprende che Israele trattiene quattro corpi dei palestinesi uccisi, i tre di Beit Anan e uno di quelli vicino a Jenin.

Appello per l’unità

Funzionari locali hanno detto che una delle persone uccise vicino a Jenin era un palestinese di 22 anni chiamato Osama Sobh del villaggio di Burqin, a sud-ovest della città di Jenin.

Muhammad al-Sabah, il sindaco di Burqin, ha detto a MEE che Sobh è deceduto per le ferite riportate dopo essere stato portato all’ospedale di Jenin. È stato sepolto a Burqin più tardi domenica.  

Sabah ha anche dichiarato che l’esercito israeliano ha ferito altri sei palestinesi che sono stati portati all’ospedale

Il gruppo armato Jihad Islamica ha dichiarato che Sobh era un membro dell’ala militare del gruppo, le Brigate al-Quds.

“Chiediamo a tutte le fazioni di agire insieme e in cooperazione con le Brigate al-Quds per combattere il nemico sionista”, si legge in seguito nella dichiarazione. 

Immagini pubblicate online mostrano soldati israeliani che portano via un cadavere da Beit Anan.

“Inseguito da settimane”

Il portavoce dell’esercito israeliano Amnon Scheffler ha affermato che tutte le vittime erano combattenti di Hamas.

Il primo ministro israeliano Naftali Bennett, in viaggio verso le Nazioni Unite a New York, ha affermato che le truppe israeliane hanno agito in Cisgiordania contro i combattenti di Hamas “che stavano per sferrare attacchi nell’immediato”.

Il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) Mahmoud Abbas ha condannato le uccisioni e ha affermato che “l’uccisione di cinque palestinesi nell’area di Gerusalemme e Jenin è un efferato crimine commesso da Israele”.

Ma, secondo Quds.net, la famiglia di Zahran ha accusato l’ANP di aver aiutato l’operazione dell’esercito israeliano che ha ucciso il loro parente. 

“L’Autorità Palestinese è quella che ci ha mandato gli israeliani”, ha detto la madre di Zahran, che ha sottolineato che le forze israeliane lo stavano inseguendo da settimane e hanno interrogato e arrestato membri della famiglia prima di ucciderlo.

Incursioni alle prime ore del mattino.

Il sindaco di Beit Anan, Muhammad Ragheb Rabie, ha detto a MEE che le truppe dell’unità mobile dell’esercito israeliano hanno preso d’assalto il villaggio intorno alle 3 del mattino e si sono poi dirette verso l’area di Ein Ajab, nel nord-ovest di Gerusalemme.

“Potevamo sentire i suoni dei combattimenti da quest’area, che è una zona industriale che contiene allevamenti di pollame e frantoi”, ha detto Rabie.

Ha detto che l’esercito israeliano è stato visto trasportare le vittime durante il suo ritiro.

Ha aggiunto che nell’area si potevano vedere sangue e residui del raid dell’esercito israeliano e ha sottolineato che gli israeliani avevano impedito ai residenti di entrare e uscire dal villaggio.

Sabah [il sindaco di Burqin, vedi sopra ndt] ha detto che le forze dell’esercito israeliano hanno preso d’assalto anche Burqin alle 3 del mattino e hanno circondato la casa di Muhammad al-Zareini, un abitante del villaggio.

“Le forze israeliane hanno sparato all’impazzata sulla casa di Muhammad al-Zareini, dove vivevano sua moglie e i suoi figli, prima di ritirarsi alle 7 del mattino dopo averlo arrestato”, ha detto Sabah.

“Le forze di occupazione irrompono continuamente con violenza nel mio villaggio e, quando lo fanno, gli israeliani spesso sparano proiettili veri contro le case e i civili della zona”.

Il mese scorso, l’esercito israeliano ha ucciso quattro palestinesi nel campo profughi di Jenin durante un’operazione che ha portato a scontri armati.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Israele cattura gli ultimi due palestinesi fuggiti

Israele cattura gli ultimi due palestinesi fuggiti

Tamara Nassar

20 settembre 2021-The Electronic Intifada

 

Nella notte di domenica, le forze di occupazione israeliane hanno catturato i due palestinesi ancora in fuga dall’inizio di questo mese da una delle prigioni più fortificate del paese.

Ayham Kamamji e Munadel Infiat sono stati arrestati nella città di Jenin, nel nord della Cisgiordania occupata.

Secondo il quotidiano di Tel Aviv Haaretz, l’agenzia di spionaggio e tortura nazionale israeliana Shin Bet ha ricevuto informazioni sulla posizione dei due uomini poche ore prima dell’arresto.

La polizia e i soldati israeliani hanno circondato la casa in cui alloggiavano.

Gli israeliani sapevano, secondo quanto da loro affermato, che i due erano a Jenin da diversi giorni. Il capo della polizia Kobi Shabtai ha detto che Israele stava preparando una “operazione complessa” per catturare gli uomini.

Ma entrambi gli uomini, disarmati, si sono arresi senza opporre resistenza.

In un’intervista con i media locali, il padre di Kamamji ha detto che suo figlio lo ha chiamato nelle prime ore di domenica e ha spiegato che aveva deciso di costituirsi per proteggere i residenti dell’edificio.

Ciò è credibile, dato che Israele ha regolarmente utilizzato la cosiddetta “procedura della pentola a pressione” per costringere i palestinesi ricercati ad arrendersi uscendo da un edificio in cui si nascondono, oppure a essere uccisi in una esecuzione extragiudiziale.

Le forze israeliane usano macchine edili come armi, insieme ad armi da fuoco ed esplosivi, per distruggere gradualmente l’edificio sopra quelli che si nascondono all’interno se si rifiutano di arrendersi.

Altri si sono chiesti perché i due uomini non siano andati al campo profughi di Jenin, che è vicino alla città e un’area che Israele evita a causa della forte resistenza.

Tuttavia, la loro capacità di evitare la cattura per quasi due settimane, pur entrando nella Cisgiordania occupata nel mezzo di una massiccia caccia all’uomo, è stata un grande imbarazzo e umiliazione per Israele.

Nonostante la loro cattura, la fuga dei sei uomini è vista come una vittoria che solleva il morale dei palestinesi di tutto il mondo, che vedono la loro impresa come un colpo devastante per il cosiddetto apparato di sicurezza di Israele.

Non è chiaro se l’Autorità Nazionale Palestinese o altri informatori abbiano avuto un ruolo nella cattura degli uomini, dato il cosiddetto coordinamento della sicurezza – collaborazione – dell’A.N.P. con Israele.

I sei uomini erano fuggiti dalla prigione di Gilboa nel nord di Israele il 6 settembre attraverso un tunnel sotterraneo dal bagno della loro cella.

Il tunnel sbucava appena fuori le mura della prigione direttamente sotto una torre di guardia.

Mahmoud Arda e Yacoub Qadri sono stati catturati nella città di Nazareth, nel nord di Israele, il 10 settembre, mentre Muhammad Arda e Zakaria Zubeidi sono stati arrestati all’inizio del giorno successivo a Shibli Umm al-Ghanam, una città palestinese nel nord di Israele.

L’intelligence israeliana e le autorità carcerarie hanno interrogato i quattro uomini che devono affrontare nuove accuse relative alla loro fuga.

 

(Traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




‘Sola e ammanettata’: una madre palestinese ha paura di partorire all’interno della prigione israeliana

Shatha Hammad

Kufr Nimah, Cisgiordania occupata

27 agosto 2021 – Middle East Eye

Incinta e affetta da complicanze, Anhar al-Deek afferma che sarebbe più sicuro se suo figlio potesse rimanere nel suo grembo

***Il 3 settembre Anhar al-Deek è stata liberata su cauzione di 40.000 shekel pari a 10.500 euro e posta agli arresti domiciliari. Leggi la notizia dopo questo articolo.

Anhar al-Deek, 25 anni, si sta avvicinando alla data del parto, ma a differenza della maggior parte delle madri, Anhar teme la nascita di suo figlio. Sente che è più sicuro che lui rimanga nel suo grembo che dietro le sbarre della prigione israeliana in cui è detenuta, dove non prova altro che paura e ansia.

L’esercito israeliano ha arrestato Anhar l’8 marzo nel villaggio di Kufr Nima, a ovest della città di Ramallah, mentre si trovava nei terreni agricoli della sua famiglia.

Gli agenti l’hanno accusata di un tentato accoltellamento. I tribunali israeliani non hanno emesso una sentenza in risposta all’appello della sua famiglia per il rilascio, ignorando il fatto che è incinta e soffre di complicanze.

Anhar è riuscita a far uscire una lettera rivolta alla sua famiglia attraverso un’altra detenuta recentemente rilasciata. Esprimendo la sua paura di affrontare le fasi del parto lontano dalla sua famiglia, ha scritto: “Cosa devo fare se sono nata lontano da voi e sono stata ammanettata mentre stavo per partorire?

“Sapete quanto è [difficile] un parto cesareo… Immaginatelo in prigione, sola e in manette”.

La madre di Anhar, Aisha di 57 anni, trascorre intanto il suo tempo a prendersi cura di sua nipote di un anno e mezzo, Julia.

“Si sveglia di notte chiamando sua madre e non la trova vicino a lei”, ha detto Aisha.

“Ciò che mi addolora di più è che a volte mi chiama ‘mamma’, o chiama ‘mamma’ qualsiasi donna della famiglia”.

Picchiata durante la gravidanza

In occasione dell’arresto di Anhar Aisha ha riferito a MEE che sua figlia era uscita per una passeggiata nel terreno di famiglia sulla collina Raysan e che soffriva di depressione a causa della gravidanza.

Un gruppo di soldati israeliani l’ha aggredita e l’ha accusata di aver tentato di accoltellarli.

“Anhar ci ha detto che durante l’arresto l’hanno picchiata duramente, nonostante gridasse che era incinta, ma a loro non importava”, continua Aisha.

Immediatamente dopo il suo arresto Anhar è stata portata nella prigione di HaSharon, dove per un mese è stata sottoposta ad interrogatori e messa in isolamento.

Anhar ha detto ai suoi avvocati di essere stata tenuta in condizioni durissime e sottoposta a lunghe ore di interrogatorio, senza alcuna considerazione per il suo stato fisico e psicologico.

“Anhar è stata sottoposta per un mese a pesanti torture, dopodiché è stata trasferita nella prigione di Damon, dove le prigioniere vivono in condizioni difficili”, sostiene Aisha, aggiungendo che Anhar non può dormire a causa della mancanza di un materasso decente.

Dice che sua figlia soffre di forti dolori al bacino e ai piedi, oltre che di stanchezza generale.

Isolamento

Durante la sua prima gravidanza – con Julia – Aisha non aveva mai lasciato sola la figlia Anhar, soprattutto nel corso dell’ultimo mese. Le era rimasta accanto durante il parto e si è occupata di lei costantemente.

Questa volta, tuttavia, Aisha vive nella paura e nell’ansia per il fatto di non poter fare nulla per sua figlia.

Nella sua lettera Anhar ci ha comunicato che non sapeva come si sarebbe svegliata dopo il parto senza al proprio fianco sua madre e suo marito”, continua Aisha.

“Pensa anche molto a come sarà incatenata al letto”.

L’amministrazione carceraria israeliana ha informato Anhar che dopo il parto lei e il suo bambino saranno posti in isolamento come precauzione contro la trasmissione del coronavirus ad altri dopo il ritorno dall’ospedale.

Mi preoccupa molto che le altre prigioniere non potranno occuparsi di Anhar. Lei e suo figlio staranno soli in cella,” afferma Aisha.

Un modello”

Nel 1972, la prigioniera palestinese Zakiya Shammout ha dato per prima alla luce un figlio in una prigione israeliana.

Anhar chiamerà suo figlio “Alaa”. Sarà il nono bambino palestinese a subire la stessa sorte.

In un breve servizio l’agenzia di stampa ufficiale palestinese Wafa ha documentato le esperienze di sette detenute che hanno partorito in carcere, scoprendo che tutte avevano sofferto, in particolare perché durante il travaglio e il parto le braccia e le gambe erano incatenate al letto.

La sorella di Anhar, Amna, ha detto a MEE che il massimo che ha potuto fare per sua sorella è stato organizzare campagne sui social media e contattare le organizzazioni per i diritti umani e gli organi di informazione per attirare l’attenzione sul caso di sua sorella.

“Oggi ci poniamo molte domande sul ruolo delle organizzazioni di donne e dei difensori dei diritti umani nel sostenere le donne palestinesi di fronte agli attacchi israeliani, alle persecuzioni e alle grandi ingiustizie a cui sono soggette”, dice Amna.

“Anhar è oggi un modello non della sofferenza delle prigioniere, ma della sofferenza delle donne palestinesi”.

Amna afferma che la sua più grande paura per Anhar deriva dagli attacchi di depressione di cui soffre e dalla probabilità che subisca ulteriori traumi dopo il parto, una situazione che verrebbe esasperata dalle condizioni carcerarie.

Messaggi vocali

Dal momento del suo arresto ad Anhar è stata concessa solo una visita dei familiari, del marito, mentre sua madre e sua sorella non hanno potuto vederla per quasi sei mesi, da quando è stata arrestata.

Le viene anche impedito di parlare con la sua famiglia al telefono. La madre di Anhar afferma che l’esercito israeliano ha anche ritirato al marito di Anhar il permesso di lavoro per l’accesso alle aree occupate dal 1948 [cioè in Israele, ndtr.], come ulteriore punizione per la famiglia.

“Fino ad ora non ho potuto vederla e ho sentito la sua voce solo una volta, ma le inviamo dei messaggi vocali sulla sua bambina Julia attraverso una delle stazioni radio locali che lei può ascoltare”, aggiunge Aisha.

Anhar ci ha detto di smettere di lasciare che Julia si rivolga a lei alla radio; non riesce a capire che sua figlia sta crescendo, lontana da lei”.

Secondo il Palestine Prisoners Club [ONG che monitora e sostiene i prigionieri politici palestinesi, ndtr.] Anhar è una delle 11 madri palestinesi imprigionate nelle carceri israeliane, su un totale di 40 detenute. La maggioranza si trova nella prigione di Damon in condizioni durissime e vergognose.

In un comunicato l‘organizzazione ha dichiarato che quando l’amministrazione carceraria israeliana consente ai bambini di andarle a trovare viene loro impedito di abbracciare le loro madri, una situazione che è peggiorata con la diffusione del Covid-19 e la mancanza di visite regolari da parte dei familiari.

***

Prigioniera incinta trasferita agli arresti domiciliari con un’ammenda di 40.000 shekel

3 settembre 2021 – IMEMC News

Secondo quanto riportato da Quds News Network [Rete di notizie Quds; la QNN è una delle principali agenzie d’informazione nei territori palestinesi occupati, ndtr.] giovedì il tribunale militare israeliano di Ofer ha deciso di rilasciare Anhar ad-Deek, 25 anni, la donna palestinese al nono mese di gestazione, dopo una permanenza di sei mesi in una prigione israeliana.

Giovedì la Commissione palestinese per gli affari dei detenuti ed ex detenuti [organo operativo del ministero per gli affari dei detenuti dell’Autorità Nazionale Palestinese, ndtr.] ha annunciato che le autorità di occupazione hanno rilasciato ad-Deek assegnandole gli arresti domiciliari e una ammenda di 40.000 shekel (10.500 euro).

Ad-Deek, sposata e madre di un bambino, della città di Kafr Ni’ma, all’interno del governatorato di Ramallah nella Cisgiordania centrale occupata, è stata arrestata dalle forze israeliane l’8 marzo, Giornata internazionale della donna, a seguito di quello che le autorità hanno affermato essere un presunto tentativo di accoltellamento.

Organizzazioni a difesa dei diritti umani hanno organizzato campagne per chiedere alle autorità di occupazione di rilasciare immediatamente la detenuta incinta.

Sulla base di notizie correlate le autorità carcerarie hanno rilasciato anche un’altra donna palestinese, Ayat Mahfouth, dopo averla tenuta in prigione per cinque anni.

Secondo Addameer [ONG palestinese che monitorizza il trattamento dei prigionieri palestinesi e fornisce assistenza legale, ndtr.] Le donne palestinesi incinte non sono sfuggite agli arresti di massa di civili palestinesi sotto il regime di occupazione israeliano illegale. Tra il 2003 e il 2008 Addameer ha documentato quattro casi di detenute palestinesi costrette a partorire mentre si trovavano nelle carceri israeliane; tutte loro hanno ricevuto cure prenatali e postnatali molto scarse o inesistenti.

Poiché l’incarcerazione di donne incinte comporta un rischio elevato non solo per la donna stessa ma anche per gli esiti del parto e per la successiva crescita e sviluppo del neonato, i loro casi sono estremamente preoccupanti. Le donne incinte nelle carceri e nei centri di detenzione israeliani non godono di alcun trattamento preferenziale in termini di dieta, spazio vitale o trasferimenti negli ospedali”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




L’Autorità Nazionale Palestinese sta perdendo il controllo sulla Cisgiordania

Lubna Masarwa, Dania Akkad

30 agosto 2021 – Middle East Eye

Mesi di crescente repressione e di arresti portano a interrogarsi sul suo imminente collasso persino i sostenitori dell’Autorità Nazionale Palestinese.

Il 23 agosto, vedendo che le forze di sicurezza arrestavano circa una trentina di manifestanti che esigevano risposte riguardo alla morte di Nizar Banat, un oppositore di Mahmoud Abbas deceduto dopo un’irruzione di agenti della sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) in casa sua, un membro dell’ANP si è ricordato di quello che era avvenuto in Egitto quarant’anni fa.

“Ciò mi ricorda gli ultimi giorni di (Anwar) Sadat,” ha confidato a Middle East Eye, a condizione di rimanere anonimo per una questione di sicurezza personale. Nelle settimane che nel 1981 precedettero l’assassinio del presidente egiziano, Sadat aveva fatto arrestare 1.600 egiziani di ogni orientamento politico. “Avevano cominciato ad arrestare tutti quanti, come giornalisti e scrittori, e chiunque si ribellasse a Sadat.”

I suoi membri e alcuni osservatori affermano che la fragilità dell’ANP è al centro dell’attenzione da mesi. Ciò è iniziato in aprile, quando il presidente Mahmoud Abbas ha rinviato le elezioni politiche. In maggio l’ANP è rimasta ai margini quando Israele ha bombardato Gaza.

Durante l’estate l’ANP ha reagito con l’arresto di decine di attivisti alle manifestazioni che criticavano le sue iniziative, e persino quelle in solidarietà con i palestinesi di Gaza, rimanendo nel contempo in silenzio mentre le forze di sicurezza israeliane uccidevano una quarantina di palestinesi nella Cisgiordania occupata.

Per gli attivisti e il membro dell’ANP gli arresti dello scorso fine settimana sono l’ultimo segnale in ordine di tempo dell’indebolimento dell’ANP, il che li porta a chiedersi se non stia per perdere il controllo della Cisgiordania.

Sul piano politico sono finiti”

Qualche ora dopo le dimostrazioni, cui hanno partecipato studenti universitari, registi e poeti, durante una veglia di protesta contro gli arresti le forze dell’ordine dell’ANP hanno arrestato un altro manifestante, Khader Adnan, celebre per i suoi scioperi della fame senza uguali durante le sue varie incarcerazioni in detenzione amministrativa nelle prigioni israeliane.

Fadi Quran, difensore dei diritti umani ed esperto di diritto internazionale che era tra gli arrestati, ha detto di essere stato interrogato sulla ragione per la quale ha distribuito bandiere palestinesi e, durante un’udienza, ha chiesto al giudice di condannarlo per essere il primo palestinese sanzionato per il possesso della bandiera nazionale.

L’assurdità della situazione e l’inasprimento dell’ANP di fronte alle critiche portano molti a chiedersi se si tratti di un ultimo attacco disperato: “Ci sono tutti gli elementi per un collasso dell’Autorità Nazionale Palestinese,” afferma Jamal Juma’a, direttore della campagna Stop the Wall [Stop al muro, ndtr.], con sede a Ramallah.

“Sul piano politico sono finiti. Come progetto nazionale, sono finiti. Aggiungi a questo la corruzione generalizzata e ci sono tutte le condizioni per un crollo dell’ANP.” Da parte sua il membro dell’ANP afferma: “Non posso dire se l’Autorità Nazionale Palestinese collasserà a breve, ma sicuramente attraversa una crisi profonda e non sono sicuro di sapere dove questo porterà.”

Jenin è un buon punto di partenza per vedere a cosa potrebbe assomigliare un’ANP che perde il controllo della Cisgiordania.

Negli ultimi due mesi ci sono state parecchie sparatorie nel campo profughi di Jenin tra giovani abitanti armati e le forze di sicurezza israeliane che fanno regolarmente irruzione nel campo.

Dopo due incidenti a luglio e agosto, durante i quali le forze di sicurezza israeliane hanno ferito due palestinesi a Jenin, la scorsa settimana hanno ucciso quattro palestinesi quando un’irruzione nel campo si è trasformata in uno scontro a fuoco.

In risposta il primo ministro palestinese Mohammed Shtayyeh ha criticato le forze israeliane e chiesto all’ONU e alle organizzazioni internazionali di fornire una protezione al popolo palestinese.

Ma Shatha Hamaysha, giornalista freelance di Jenin che collabora con MEE, racconta che la sparatoria della scorsa settimana era stata scatenata dai maldestri tentativi dell’ANP di cercare di controllare la situazione a Jenin.

Secondo lei l’ANP ha proposto di fare da intermediaria tra gli israeliani e i giovani combattenti armati e poco prima dello scontro a fuoco ha arrestato parecchi abitanti che avevano rifiutato di adeguarsi a questo piano.

Quelli che hanno combattuto respingono l’ingerenza dell’ANP, soprattutto alcuni giovani che recentemente si sono uniti ai combattenti a causa della frustrazione provocata dall’ANP.

Precisa che l’ANP ha cercato di risolvere la situazione a Jenin “a modo suo”, diffondendo l’immagine secondo cui controlla la situazione, ma la realtà in città è molto diversa. “A Jenin l’Autorità ha perso la sua presenza sociale e tenta in vari modi di controllare la sicurezza, di imporre l’ordine e di ripristinare la calma,” afferma Hamaysha.

Un’opinione pubblica che non ha più paura

Precisa comunque che si continua a gettare benzina sul fuoco. La settimana scorsa le forze israeliane hanno messo in atto esercitazioni militari nei posti di controllo che circondano Jenin “per inviare un velato messaggio a Jenin e ai suoi giovani.”

A livello locale queste esercitazioni sono considerate come vane dimostrazioni di forza. Per il membro dell’ANP l’incapacità delle forze di sicurezza a proteggere gli abitanti dagli israeliani o di controllare i gruppi armati nel campo profughi è un chiaro segnale. “L’ANP è sempre molto debole. Non può entrare in un luogo come Jenin,” sostiene. Quello che succede a Jenin si estenderà? È la domanda che molti si pongono in Cisgiordania.

MEE ha chiesto all’ANP se ha fatto da intermediaria tra i giovani armati e gli israeliani; se ha arrestato persone ricercate dagli israeliani; se ha svolto attività prima della sparatoria della settimana scorsa e se ha perso il controllo di Jenin. Al momento della pubblicazione [di questo articolo] l’ANP non aveva ancora risposto.

Altro segnale che indica che all’ANP sfugge il controllo sono le persone che sono state arrestate. Non si tratta di sostenitori di Hamas, bersaglio abituale dell’ANP, ma di attivisti laici, persino di alcuni che fino a poco tempo fa sostenevano l’ANP.

Mazin Qumsiyya, docente di biologia alle università di Betlemme e Bir Zeit e attivista politico, era tra i manifestanti di Ramallah. Durante le proteste sono stati arrestati 17 suoi amici, racconta.

Secondo lui questi arresti riflettono un’ANP che non sa cosa deve fare, perché le sue solite strategie sono inefficaci con un’opinione pubblica che non ha più paura.

“Pensavano che quella di Nizar Banat sarebbe diventata una storia vecchia, ma non è stato così. Si sta allargando,” sostiene. “La gente non sta zitta e reagisce sempre di più.”

“Penso che ci si avvii verso il collasso dell’ANP, in particolare riguardo alla sicurezza. Le persone non hanno più paura dell’ANP. Nemmeno quelli che vengono arrestati hanno paura. Quando si supera l’ostacolo della paura tutto è possibile.”

Hani al-Masri, direttore generale di Masarat (Centro Palestinese di Ricerche Politiche e di Studi Strategici) a Ramallah, afferma che il recente comportamento dell’ANP è il riflesso di un’istituzione che reprime perché non sa che altro fare dopo aver perso il sostegno popolare.

“L’Autorità Nazionale Palestinese si è trovata impreparata dopo aver perso le fonti di legittimità interne: legittimità rivoluzionaria, legittimità della resistenza e del consenso nazionale, legittimità delle urne e legittimità dei risultati raggiunti,” elenca.

“Non le restano che le fonti di legittimità esterne: legittimità del potere e della sicurezza. Dopo il fallimento del suo progetto politico, non ne ha adottato uno nuovo.”

Continua: “Ha abbandonato la direzione del suo popolo in tutte le manifestazioni dell’Intifada di Gerusalemme ed ha l’impressione che gli avvenimenti l’abbiano sopraffatta. Ha voluto prendere l’iniziativa arrestando più di 120 persone dal maggio scorso, per inviare un messaggio forte: nessuno, qualunque sia la sua età, può sfuggire agli arresti.”

Un peso per il popolo palestinese

Un sondaggio dei primi di giugno del Palestinian Center for Policy and Survey Research [Centro Palestinese per la Politica e la Ricerca] e della fondazione Konrad-Adenauer appena dopo il rinvio delle elezioni da parte di Abbas mostra che più del 56% dei palestinesi ritiene che l’ANP sia un peso per il popolo palestinese.

Secondo il membro dell’ANP non è nell’interesse degli Stati Uniti o degli israeliani lasciare che l’ANP collassi. Ma dice di prevedere un periodo molto confuso per l’organizzazione, divorata da lotte intestine.

“La sostituzione di Abu Mazen (Mahmoud Abbas) è fonte di conflitti, ma ci sono anche diatribe riguardanti gli incarichi ministeriali,” afferma questa fonte. “Oggi Fatah [principale organizzazione dell’ANP, ndtr.] è disunito. Ci sono divisioni e molti non sono d’accordo con quello che succede sul terreno, in particolare con gli arresti.”

Nel frattempo, avverte, in Cisgiordania circolano dappertutto armi sulle quali l’ANP non ha alcun controllo.

Come Qumsiyya, Juma’a è convinto che i palestinesi abbiano bisogno di un’alternativa politica forte per sostituire l’ANP, di alternative prima di metterla seriamente in discussione.

“Succede di tutto e l’ANP arresta dei palestinesi. Ma dove sono le fazioni politiche? Cosa fanno per porvi termine?” si interroga Juma’a.

“L’Olp deve agire e intervenire. Le fazioni politiche nell’ANP devono dare le dimissioni [dagli incarichi governativi, ndtr.] invece di servire da copertura.”

Secondo Qumsiyya il problema è che i palestinesi pensano di non avere che due possibilità davanti a sé: Hamas o Abbas.

“Ma non è vero. Abbiamo numerose scelte. Molti gruppi si presentavano alle elezioni e in uno di essi c’era lo stesso Nizar Banat. Non faceva parte né di Fatah né di Hamas,” continua.

“La gente vuole un cambiamento profondo, non solo superficiale. Vuole che Abu Mazen e tutto il suo sistema spariscano.”

Tra i manifestanti arrestati il 23 agosto si preparano già piani per nuove dimostrazioni.

Dopo essere stato liberato, sulla sua pagina Facebook il regista Mohammed Alatar ha ringraziato le persone che hanno inviato messaggi di solidarietà al momento del suo arresto.

“Di fatto mi vergogno, perché in Palestina eravamo soliti festeggiare quando eravamo (liberati) dalle prigioni dell’occupazione. Ormai festeggiamo l’uscita dalle nostre stesse prigioni,” scrive.

“Spero che presto tutto questo caos finisca e che ci concentriamo di nuovo sulla nostra fondamentale missione, che consiste nel sbarazzarci dall’occupazione ed essere liberi.”

Poi invita le persone a tornare in piazza Manara a Ramallah, teatro degli arresti di sabato, per una nuova manifestazione.

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)




Israele sabota l’agricoltura palestinese con prodotti a basso costo

Amany Mahmoud

23 agosto 2021 – Al Monitor

Israele inonda i mercati palestinesi con grandi quantità di prodotti agricoli a basso costo per rovinare l’agricoltura palestinese.

I palestinesi denunciano che Israele distrugge e brucia i raccolti ed erode con prodotti a buon mercato il settore agricolo da cui gli agricoltori dipendono.

Alcuni dei principali raccolti durante i quali Israele infligge deliberatamente perdite agli agricoltori sono quelli delle olive e dell’uva: inonda i mercati palestinesi in Cisgiordania con grandi quantità di questi prodotti a prezzi inferiori, ostacolando la produzione dei palestinesi e incoraggiando la loro dipendenza economica da Israele.

In particolare la stagione della vendemmia, che inizia in agosto, è minacciata dalla concorrenza israeliana. Israele coltiva terreni agricoli nelle colonie che si trovano nei pressi delle città palestinesi e invia migliaia di tonnellate di uva nei mercati palestinesi. Israele utilizza fertilizzanti e altri prodotti chimici nella coltivazione dell’uva per fare in modo che il prodotto maturi in fretta.

In Cisgiordania i palestinesi coltivano circa 64 milioni di m2 di vigne, in cui sono impegnati circa 10.000 agricoltori palestinesi. Secondo il Consiglio Palestinese di Frutta e Uva, i palestinesi producono annualmente circa 50 milioni di kg di uva, di cui circa 27 milioni nel governatorato di Hebron, 6 milioni in quello di Betlemme e altri 6 milioni in quello di Jenin. In Cisgiordania l’uva rappresenta circa il 12% della produzione agricola totale della Palestina.

I palestinesi esportano in Israele grandi quantità di vari prodotti agricoli, per un valore annuo di 300 milioni di dollari. I palestinesi della Cisgiordania esportano quotidianamente verso Israele circa 280.000 kg di prodotti agricoli. Nel contempo, le importazioni agricole annuali palestinesi da Israele raggiungono circa il miliardo di dollari.

Per proteggere i prodotti palestinesi l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) vieta l’importazione di uva coltivata nelle colonie e considera ogni transazione commerciale con Israele un delitto. A dispetto di questo divieto, il mercato palestinese è inondato da prodotti israeliani proibiti e con marchio israeliano, importati illegalmente dai principali commercianti palestinesi nel cuore della notte per evitare i posti di blocco palestinesi.

Mahmoud Abou Merhi, agricoltore palestinese e attivista contro le colonie ebraiche, proprietario di un vigneto di circa 2 ettari, dice ad Al-Monitor che la vendemmia è uno dei raccolti agricoli più importanti in Palestina, e le famiglie palestinesi la festeggiano con canti tradizionali nelle vigne perché porta abbondanza e prosperità ai coltivatori.

“Tuttavia ora abbiamo timore della stagione della vendemmia: ogni anno i coloni ebrei distruggono deliberatamente le nostre vigne e sabotano il raccolto, cospargendo pesticidi tossici sui campi che lo distruggono o cacciando gli agricoltori e le loro famiglie dai terreni agricoli,” afferma.

Abou Merhi teme che la vendemmia di quest’anno vada persa, dato che il mercato locale è invaso da una grande quantità di uva israeliana a buon mercato. “Grandi quantità di uva palestinese rischiano di andare a male a causa delle temperature elevate e delle eccedenze di prodotti israeliani sul mercato palestinese.”

L’agricoltore palestinese Atef Abou Walid dice ad Al Monitor che Israele sta cercando di espellere i coltivatori palestinesi dalle loro terre e li spinge ad abbandonare questa professione, ereditata di generazione in generazione, in modo da insediare avamposti coloniali ed espanderli sulle terre dei cittadini che si trovano presso le colonie.

“Quando i palestinesi vanno al mercato vedono grandi quantità di frutta e verdura israeliane a prezzi che fanno concorrenza ai prodotti locali. A volte i prodotti israeliani costano meno di quelli palestinesi. Persino se la qualità è inferiore, spesso i cittadini finiscono con il comprare i prodotti israeliani a buon mercato,” nota.

Abu Wadi aggiunge: “Nonostante le gravi perdite che subiamo, i nostri agricoltori continueranno a coltivare le nostre terre per impedire che Israele raggiunga il suo obiettivo di confiscarle.” Egli accusa Israele di imporre restrizioni supplementari ai coltivatori palestinesi, in quanto di recente ha iniziato a chiudere le strade agricole che portano ai vigneti di Hebron, nel sud della Cisgiordania, isolando circa 2.000 ettari di terreni, molti dei quali sono vigneti.

Le attrezzature israeliane avanzate, i prodotti chimici, i fertilizzanti e i moderni sistemi di irrigazione aiutano gli agricoltori israeliani a offrire i loro prodotti agricoli, e in particolare l’uva, circa un mese prima che la produzione palestinese arrivi sul mercato. Israele vieta di fornire ai coltivatori palestinesi queste tecnologie e materiali, in particolare pesticidi e fertilizzanti chimici, che permettono l’allungamento della durata della vita della loro uva e ne migliorano sapore e qualità.

Fathi Abou Ayashn, direttore del Consiglio di Frutta e Uva, dichiara ad Al Monitor che i mercati palestinesi sono stati invasi da circa 27.000 tonnellate di uva sempre matura, il che attira l’attenzione dei consumatori.

“I mercati palestinesi non sono protetti, quindi i prodotti israeliani li possono inondare,” prosegue. Ciò è dovuto all’assenza di controlli efficaci dei prodotti israeliani sul mercato palestinese. I mercati palestinesi e israeliani sono strettamente interconnessi, il che permette a molti commercianti di importare in modo massiccio i prodotti e i beni israeliani.”

Abou Ayyash spiega che le autorità competenti che controllano il mercato non hanno risorse finanziarie, cosa che indebolisce la capacità dei palestinesi di controllare molti beni e merci. “Non abbiamo neppure standard tecnici vincolanti per tutti i beni commercializzati in Palestina e pochissimi procedimenti giudiziari sono stati avviati contro i trasgressori.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)