“The Present” mette totalmente a nudo la realtà palestinese

William Parry

12 aprile 2021 – The Electronic Intifada

La regista anglo-palestinese Farah Nabulsi ha vissuto un paio di settimane straordinarie.

Il mese scorso il suo cortometraggio, The Present (Il Regalo) – il suo debutto come regista – è stato il primo selezionato per un premio dell’Accademia Britannica delle Arti Cinematografiche e Televisive (BAFTA), prima di ottenere, alcuni giorni dopo, la nomination per un premio oscar, che verrà assegnato a fine aprile.

Poi è giunta la notizia che Netflix stava trasmettendo in streaming il film.

Infine il 10 aprile il corto di 24 minuti ha vinto il BAFTA, aggiungendosi ai numerosi premi e riconoscimenti ricevuti dalla sua uscita lo scorso anno.

Che cosa significa tutto ciò per Nabulsi?

Per me la priorità era che il film fosse visto. È da questo che traggo veramente la mia soddisfazione. Quindi tutto questo significa una maggiore visibilità, che è già stata ampia – e per un cortometraggio, sotto molti aspetti senza precedenti nella nostra storia. In questo senso sono molto, molto soddisfatta”, ha detto a Electronic Intifada in videocollegamento.

Nabulsi si inserisce in un elenco di registi il cui lavoro è ineluttabilmente legato all’identità palestinese. La piccola storia di Nabulsi mostra, con dettagli che spezzano il cuore, il controllo fisico brutale ed umiliante che Israele esercita quotidianamente su milioni di palestinesi, e la fatica fisica, emotiva e mentale che deriva dal suo essere implacabile.

Tuttavia, curiosamente, mentre i suoi film sono inestricabilmente legati alle realtà palestinesi, Nabulsi dice che le sue influenze culturali hanno poco a che fare con la cultura palestinese ed araba.

Cresciuta a Londra e avendo frequentato una “scuola veramente inglese”, Nabulsi dice di non avere conosciuto molto l’arte o la musica araba. Pur amando gli scritti di Edward Said e la poesia di Mahmoud Darwish, dice di aver letto le loro opere “attraverso la lente di chi non legge molto bene l’arabo, ed ha quindi fatto ricorso alle traduzioni.”

Prima di diventare regista, le piacevano i film di Annemarie Jacir e Hany Abu-Assad [due registi palestinesi, ndtr.], ma ammette ridendo che William Shakespeare e altri artisti occidentali sono stati importanti e in vari modi più formativi nella sua crescita culturale.

Il modo in cui affronto il mio lavoro è leggermente diverso”, dice Nabulsi. “Che mi piaccia o no, mantengo un piede in occidente, sempre. Quindi quando scrivo e creo le mie storie e le dirigo, penso di subire una certa influenza dalla mia educazione e anche dalle mie influenze occidentali, forse più che da quelle palestinesi, se devo essere onesta. Non intendo far finta che non sia così.”

I tempi stanno cambiando?

Con un cortometraggio che mostra senza veli la brutale realtà dell’apartheid israeliano sulla vita quotidiana dei palestinesi ottenendo attenzione internazionale – e con una nuova amministrazione USA guidata da Joe Biden e la promessa di tenere quest’estate le elezioni palestinesi a lungo rimandate – Nabulsi trova motivi di ottimismo?

Non vedo reali differenze tra Biden e Trump”, dice Nabulsi. “Sono teste dello stesso serpente, solo che uno indossa una maschera e l’altro no.”

Tuttavia ritiene che i quattro anni di presidenza di Donald Trump abbiano rivelato chiare prese di posizione politiche che quelli che mantengono una posizione neutrale non possono più negare, inclusi alcuni sionisti progressisti.

È diventato molto chiaro che quando si pensa a Trump, a Netanyahu in Israele, a Orban in Ungheria, a Bolsonaro in Brasile, a Modi in India, subito si pensa ‘fascisti!’ e si vede chiaramente chi siano questi compari e che cosa stiano facendo.”

Di conseguenza, sostiene Nabulsi, “questa trasversalità tra altri movimenti per i diritti e antirazzisti è venuta sempre più allo scoperto e questa fratellanza e sorellanza sono state di aiuto. Perciò sono molto contenta dei tempi che stiamo vivendo, ma non di Biden.”

Riguardo alle elezioni palestinesi previste in estate, Nabulsi ammette che “le piace l’idea” di Marwan Barghouti candidato alla presidenza dalla sua cella di un carcere israeliano.

Certo,” dice. “Dà davvero una lieve sensazione alla (Nelson) Mandela, ma non mi faccio illusioni che ciò non possa concludersi del tutto o non vada invece a finire in niente.”

Dice che se l’attuale leadership avesse sinceramente a cuore gli interessi dei palestinesi, “dovrebbe entrare nel XXI secolo e stare al gioco.” Aggiunge che non riesce a capire perché non abbiano buttato la palla direttamente nel campo di Israele molto tempo fa.”

Perché non hanno dichiarato collettivamente: “Sapete che c’è? Ecco: un solo Stato. Prendetevi cura di noi, riprendetevi l’occupazione, riprendetevi tutto questo. Oslo? [gli Accordi di Oslo del 1993 da cui è nata l’Autorità Nazionale Palestinese, ndtr.] Lo avete ucciso, è defunto ed eccone tutti i motivi: le colonie, questo, quello e quell’altro: fatto. Quindi è tutto inutile.”

Anche l’Autorità Nazionale Palestinese è vuota. I leader palestinesi adesso devono chiedere agli israeliani di “vivere con voi. Devono farlo con molta sincerità e dire seriamente: ‘Ecco ciò che vogliamo!’ e mettere Israele di fronte a una scelta.”

Così devono decidere: ‘Oh no! No, no, no! Ecco il vostro Stato!’, oppure devono fare i conti con un’inequivocabile apartheid.”

I due Stati, dice, “erano una buona idea quando era praticabile, ma adesso chiaramente non lo è. Ma il peccato originale ideologico di Israele è il colonialismo di insediamento, quindi, a meno che non lo abbandonino, loro non vogliono i due Stati. Non è mai stata la loro intenzione.”

Primi germogli

Nonostante gli scenari politici che influenzano l’attuale situazione, Nabulsi scorge guadagnare terreno segni autentici di progresso – che alla fine incominceranno ad influenzare, dal basso verso l’alto, quegli stessi scenari politici.

Cita alcuni esempi recenti, compresi il rapporto “Questo è apartheid” dell’associazione israeliana per i diritti umani B’Tselem, la recente decisione della Corte Penale Internazionale di indagare sui crimini di guerra israeliani e negli ultimi anni il cambiamento di ex sionisti progressisti come il giornalista americano Peter Beinart [noto editorialista ebreo americano che nel 2020 ha affermato di non credere più in uno Stato ebraico, ndtr.].

Sono una di quelle persone che credono che si tratti veramente di tutte le gocce dell’oceano che si uniscono. Non è un solo movimento o un individuo o un rapporto – certo, ci sono momenti di svolta e ci sono individui chiave, ma alla fine si tratta di una miscela di tutte queste cose.”

Senza questo ottimismo, dice, fare film sarebbe inutile.

William Parry è un giornalista e fotografo freelance che vive nel Regno Unito. È autore di ‘Against the wall: the art of resistance in Palestine’ [Contro il muro: l’arte della resistenza in Palestina] e coautore del documentario breve ‘Breaking the generations: palestinian prisoners and medical rights’ [Spezzare le generazioni: i prigionieri palestinesi e il diritto a cure mediche].

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




I soldati israeliani uccidono un palestinese ad un posto di blocco improvvisato in Cisgiordania

Akram Al-Waara, Betlemme, Cisgiordania occupata

6 aprile 2021 – Middle East Eye

Osama Mansour, padre di cinque figli, è stato ucciso a colpi di arma da fuoco dopo che i soldati gli avevano detto di ripartire

Nelle prime ore di martedì mattina i soldati israeliani hanno sparato, uccidendolo, ad un uomo palestinese e hanno ferito sua moglie mentre i due stavano tornando a casa nel loro villaggio di Biddu, a nord-ovest di Gerusalemme, nella Cisgiordania occupata.

Osama Mansour, 42 anni, e sua moglie Sumayya, 35, stavano tornando a casa intorno alle 2 e 30 del mattino quando sono stati fermati a un posto di controllo improvvisato fuori dal vicino villaggio di al-Jib, dove i soldati israeliani stavano conducendo un’operazione di ricerca e cattura.

In un’intervista con il canale di notizie Palestine TV, Sumayya Mansour ha riferito che i soldati israeliani hanno fermato l’auto su cui viaggiavano lei e suo marito al posto di blocco e hanno detto loro di spegnere il motore, cosa che, afferma, hanno fatto.

“Poi ci hanno detto di riaccendere il motore dell’auto e andarcene, e così siamo partiti – e poi tutti quanti hanno iniziato a spararci addosso dei proiettili”, ha detto dal suo letto d’ospedale nella città di Ramallah in Cisgiordania.

Secondo le testimonianze dei membri della famiglia, prima di dire alla coppia di andarsene, i soldati hanno chiesto di controllare i loro documenti, che Osama Mansour ha di buon grado consegnato e hanno perquisito l’auto.

Imran Mansour, 57 anni, cugino vicino di casa di Osama ha riferito a Middle East Eye: “Dopo aver controllato i documenti di identità e i loro nomi sul computer e perquisito da cima a fondo l’auto, i soldati hanno ritenuto che non costituissero una minaccia e hanno detto loro di rimettere in moto l’auto e di passare”.

“Avevano percorso appena pochi metri quando i soldati hanno iniziato a sparare contro di loro da tutte le direzioni”, dice Imran Mansour, riferendo le testimonianze raccolte da Sumayya e da altri testimoni oculari.

L’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) ha condannato il “crimine atroce”, definendolo “solo uno di una lunga e continua serie di esecuzioni extragiudiziarie” commesse dalle forze israeliane.

L’esercito israeliano ha dichiarato che il veicolo dei Mansour avrebbe accelerato [dirigendosi] verso un gruppo di soldati “tanto da mettere in pericolo le loro vite”, e che i soldati avrebbero risposto con colpi di arma da fuoco “per contrastare la minaccia”.

“Ciò è assolutamente ridicolo”, riferisce a MEE Imran Mansour. “Perché un padre di cinque figli, con la moglie in macchina, avrebbe tentato un’aggressione mentre stava tornando a casa dai figli?

“Se Osama avesse davvero cercato di attaccare i soldati non avrebbe eseguito tutti i loro ordini: fermare l’auto, spegnere il motore, dare ai soldati i loro nomi e documenti d’identità, lasciargli perquisire l’auto”, aggiunge il parente.

Secondo la Wafa, l’agenzia di stampa ufficiale dell’Autorità Nazionale Palestinese, dei testimoni oculari hanno affermato che i soldati israeliani avrebbero lanciato una granata assordante in direzione dell’auto, facendo sì che Osama Mansour, che era alla guida, accelerasse il veicolo.

Imran Mansour riferisce che, pur non essendo in grado di confermare se fosse stata la granata stordente ad indurre suo cugino ad accelerare l’auto, le persone che hanno assistito all’episodio gli hanno detto che nella zona erano in corso degli scontri a causa di un’operazione di arresto da parte dei soldati ad al-Jib e che in quell’area erano state sparate granate assordanti e lacrimogeni.

Nessuna assistenza medica

Secondo le testimonianze rese da Sumayya alla televisione palestinese, pochi istanti dopo gli spari dei soldati contro la sua auto, ha chiamato suo marito e lui le ha chiesto se fosse ferita. Pochi secondi dopo, ha detto, è crollato sul suo grembo e l’auto ha iniziato a sterzare.

“L’auto andava a destra e a sinistra, quindi ho preso la guida finché non ho trovato un gruppo di giovani davanti a me e mi sono fermata in modo che potessero aiutarci”, racconta.

Secondo Imran Mansour, i giovani hanno caricato la coppia nei loro veicoli e li hanno portati al locale ospedale di Biddu. La coppia è stata poi trasferita in un ospedale della città di Ramallah, dove Osama è stato dichiarato morto.

“Osama è stato colpito alla testa da due proiettili”, dice Imran Mansour, aggiungendo che Sumayya è stata ferita dai frammenti di un proiettile, ma si trovava in condizioni stabili e già il primo pomeriggio di martedì ha chiesto di essere dimessa dall’ospedale e tornare a casa.

Secondo Imran Mansour i soldati israeliani non hanno fornito nessun primo soccorso o assistenza medica alla coppia dopo che la loro auto si è fermata a breve distanza dal posto di blocco improvvisato.

“Sono rimasti lì a guardare mentre i giovani cercavano di soccorrere Osama e Sumayya”, afferma. “Non hanno fatto nulla per aiutarli.”

Ucciso a “sangue freddo”

La morte di Osama è stata uno shock per la famiglia Mansour, che è stata informata dell’incidente dall’ospedale locale di Biddu.

“In Palestina questo genere di cose accade quasi ogni giorno, ma speri che non debba mai accadere a te o alla tua famiglia”, ha dichiarato Imran a MEE.

Secondo lui, la morte di Osama e il fatto che i soldati che lo hanno ucciso sostengano che lui li abbia attaccati porta alla mente dei familiari ricordi penosi e un dolore conosciuto.

“Non è la prima volta che ciò accade alla nostra famiglia”, dice, aggiungendo che nel 2016 uno dei loro parenti, il diciannovenne Sawsan Mansour, è stato colpito a morte a un posto di blocco israeliano a nord di Gerusalemme.

“I soldati hanno affermato che stesse cercando di pugnalarli, ma nessuno dei soldati è stato ferito e gli hanno sparato a sangue freddo, proprio come hanno fatto oggi con Osama”, afferma, aggiungendo che in quell’occasione i testimoni oculari hanno affermato che Sawsan era stato lasciato sanguinare per ore, senza nessun soccorso medico.

Questi crimini accadono sempre contro il popolo palestinese, quando usciamo con le nostre auto o superiamo i posti di blocco. Come palestinese sei sempre spaventato e vivi solo nel terrore che una tale tragedia capiti alla tua famiglia”, afferma Imran.

Imran racconta a MEE che suo cugino Osama era “un uomo semplice”, che ha vissuto la sua vita facendo tutto il possibile per provvedere alla moglie e ai cinque figli, le più giovani dei quali sono due gemelle di sette anni.

“È stato ucciso a sangue freddo, e i soldati che lo hanno ucciso non saranno mai ritenuti responsabili”, ha detto, criticando i tribunali israeliani che “proteggono a tutti i costi i loro soldati”.

Le organizzazioni per i diritti umani hanno sempre dichiarato che i soldati e gli agenti di polizia vengono raramente ritenuti responsabili dell’uccisione di palestinesi dal sistema giudiziario israeliano, promuovendo quella che alcuni hanno definito una cultura dell’impunità.

“Se un palestinese viene ucciso senza motivo, tutto ciò che un soldato deve fare è invocare l’autodifesa, e viene rilasciato senza nemmeno una tirata d’orecchi”, dice Imran. “E questo è quello che stanno cercando di fare ora con Osama.

“Osama non è il primo, né sarà l’ultimo palestinese che viene ucciso a sangue freddo, senza nessun motivo, dagli israeliani”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Il ritorno dei progetti People-to-People: rinunciare a rendere Israele responsabile

Yara Hawari 

6 aprile 2021 – Al Shabaka

Sintesi

I finanziamenti ai progetti People-to-People [Da-Persona-a-Persona] (P2P) sono ripresi negli USA e in Europa, minacciando di danneggiare le leggi internazionali e i diritti dei palestinesi. L’analista esperta di Al-Shabaka Yara Hawari esamina le sconcertanti implicazioni delle iniziative P2P e offre indicazioni su come i decisori politici possano contrastarle per portare avanti una giusta pace che chiami Israele a rendere conto delle sue violazioni dei diritti dei palestinesi.

Introduzione

Tra le iniziative finanziate in Palestina dai donatori è stato riattivato lo schema People-to-People (P2P), che riguarda progetti che uniscono attori palestinesi e israeliani della società civile in cosiddette collaborazioni e discussioni. Sottolineando i concetti di cooperazione, comprensione e costruzione della pace, P2P è pubblicizzato come un progetto positivo nel momento in cui la situazione politica si sta aggravando. Benché in apparenza P2P possa sembrare promettente, il contesto è profondamente problematico, presentando fondamentali ostacoli sia epistemici che materiali sul terreno, per riuscire a portare Israele a rispondere delle sue violazioni dei diritti umani dei palestinesi e raggiungere una pace giusta.

Invece di identificare la colonizzazione di insediamento israeliana e l’occupazione militare come la causa profonda, l’inquadramento complessivo [P2P] si basa sulla convinzione aprioristica che ci sia un lungo conflitto tra palestinesi e israeliani. Inoltre stabilisce che il contatto e il dialogo siano il modo per porre fine alla violenza e quindi al conflitto, creando un falso parallelo tra l’oppressione strutturale da parte degli occupanti israeliani e la giustificata resistenza dei palestinesi oppressi.

Diversi attori locali ed internazionali hanno anche dimostrato che P2P è inutile, perché la grande maggioranza dei palestinesi non ne vuole sapere. Infatti la società civile palestinese rifiuta in modo unanime l’idea di P2P perché i progetti non si basano sui principi delle leggi internazionali o sul riconoscimento dei diritti fondamentali dei palestinesi. Di fatto spesso arrivano persino a compromettere tali diritti.

Benché fin dall’inizio degli anni 2000 P2P sia in declino, recentemente è stato rivitalizzato con il Middle East Partnership for Peace Act [legge sulla Collaborazione per la Pace in Medio Oriente] di Nita M. Lowey [parlamentare USA, ndtr.], approvata dal Congresso USA nel dicembre 2020. La legge prevede 250 milioni di dollari in cinque anni per due fondi, uno dei quali specificatamente incentrato su “progetti di pace e riconciliazione” tra palestinesi e israeliani. Notizie nei media l’hanno definita un’iniziativa per riprendere gli aiuti ai palestinesi dopo una lunga interruzione durante l’amministrazione Trump. È stata persino festeggiata come una spinta al riavvicinamento e a un approccio nuovo a un processo di pace altrimenti stagnante.

Una rapida occhiata a questa legge e al finanziamento in sé non provocheranno necessariamente un allarme per molti parlamentari progressisti. Tuttavia un’analisi più approfondita sia del testo della legge che delle sue probabili implicazioni rivela un preoccupante precedente a minacciare le leggi internazionali e i diritti fondamentali dei palestinesi, anche perché ignorano l’impunità del regime israeliano. Questo articolo di politica presenta una critica a P2P e dimostra il pericolo di questo progetto volendo garantire giustizia ai palestinesi. Infine l’articolo arriva a concludere che quanti appoggiano i principi fondamentali delle leggi internazionali e i diritti dei palestinesi dovrebbero contrastare questi finanziamenti e il contesto P2P più in generale e portare Israele a rendere conto delle sue violazioni.

Un quadro problematico e ormai defunto

Il predecessore di P2P è stata la diplomazia Track II [Cammino II] degli anni ’80, in cui vennero utilizzati canali ufficiosi per creare spazi informali in cui discutere alternative di soluzione con l’intento di influenzare prima o poi quanti erano coinvolti nella diplomazia Track I, in cui avvenivano negoziati ufficiali tra dirigenti politici. Ma P2P è decollato dopo la firma degli Accordi di Oslo del 1993, che ampliarono l’ambito della diplomazia Track II per includere le organizzazioni della società civile palestinese e israeliana che non intendevano necessariamente influenzare i politici, ma piuttosto creare una migliore comprensione tra i due popoli.

Mentre la traiettoria storica del quadro P2P è complessa, è importante notare che conobbe un periodo di significativo declino iniziato all’inizio degli anni 2000 in seguito a vari fattori: lo scoppio della Seconda Intifada, il crollo della “sinistra” israeliana, alcuni membri della quale avevano partecipato ai progetti P2P, e nel 2007 l’emergere di un rinnovato accordo della società civile palestinese contro la normalizzazione.

“Contrasto alla normalizzazione” è una definizione coniata e definita dalla società civile palestinese. Trova le sue radici nella lotta palestinese contro l’occupazione britannica culminata con la Grande Rivolta del 1936-1939. “Contrasto alla normalizzazione” vuol dire rifiuto palestinese di partecipare a progetti, eventi o attività che promuovano il concetto secondo cui Israele è un’entità legittima che a sua volta avrebbe normalizzato i rapporti tra l’oppressore e l’oppresso.

Come tattica il contrasto alla normalizzazione è un tentativo di rifiutare la legittimazione e l’occultamento delle violazioni dei diritti dei palestinesi da parte di Israele attraverso la patina del dialogo. Un esempio di normalizzazione sarebbe un progetto che intenda unire donne israeliane e palestinesi per discutere delle sfide che devono affrontare rispettivamente nella società senza citare la fondamentale disparità tra loro, una disparità che sottomette regolarmente le donne palestinesi alla violenza da parte del regime israeliano.

Il contrasto alla normalizzazione non è semplicemente una posizione di principio, ma anche una tattica politica che riconosce il fallimento di un dialogo tra palestinesi ed israeliani e una costruzione della pace che non siano fondati sui principi fondamentali delle leggi internazionali. Infatti riconosce che i progetti P2P ignorano le responsabilità israeliane nella violazione dei diritti dei palestinesi e di conseguenza i palestinesi vedono i progetti P2P come tattiche specificamente destinate a garantire l’impunità di Israele.

Oltretutto P2P sottolinea l’importanza della “cooperazione oltre i confini” per raggiungere una pace duratura. Progetti all’interno di questo quadro sono destinati a “iniziare e promuovere contatti a livello di base e l’interazione tra persone sui lati opposti del confine.” Ma nel caso della Palestina ciò è chiaramente inapplicabile. Come Edward Said e altri intellettuali e attivisti palestinesi hanno instancabilmente sostenuto, il conflitto non è tra due parti uguali intrappolate in una lotta simmetrica. È invece un colonialismo d’insediamento e un’oppressione senza sosta di Israele nei confronti dei palestinesi.

Il concetto di confine è altrettanto errato. Il regime israeliano è un’entità sovrana de facto dal fiume Giordano al mare Mediterraneo. Da decenni ha tenuto milioni di palestinesi sotto occupazione militare e, nel contempo, continua ad espropriare terra palestinese. Il risultato è la bantustanizzazione dei palestinesi in piccole enclave. Da parte sua il regime israeliano non ha mai ufficialmente dichiarato i suoi confini; farlo sarebbe stato in conflitto con le sue intenzioni espansioniste. In questo modo la narrazione P2P di due popoli in conflitto attraverso un confine condiviso rappresenta in modo errato la situazione di un popolo palestinese occupato e colonizzato.

Ancora peggio, P2P presuppone che i palestinesi cooperino e si riconcilino con un popolo e un’entità che approvano la loro colonizzazione e occupazione o che le praticano direttamente. Non sorprende che tali progetti siano nella stragrande maggioranza falliti. Infatti le analisi di un rapporto del 2014 della Commissione per lo Sviluppo Internazionale del governo britannico riguardo ai programmi P2P in Cisgiordania hanno rilevato che tali progetti hanno avuto un costo elevato e nel complesso hanno prodotto “risultati, modularità e un impatto strategico dimostrabile scarsi.”

Un’altra narrazione comune è il falso assunto che iniziative e finanziamenti P2P abbiano il potenziale di “far ripartire” l’economia palestinese, un concetto pericoloso che ignora di proposito il dato di fatto che l’economia palestinese è totalmente soffocata dal regime israeliano. Oltre a essere falso, ciò non considera il regime israeliano responsabile della continua distruzione dell’economia palestinese. Infatti fin dalla fondazione dello Stato israeliano nel 1948 e in seguito alle successive ondate di occupazione della terra palestinese l’economia dei palestinesi è stata schiacciata.

Gli Accordi di Oslo l’hanno ulteriormente assoggettata, e il Protocollo di Parigi del 1994 è stato particolarmente dannoso. Ha imposto un’unione doganale iniqua, che concede alle imprese israeliane accesso diretto al mercato palestinese, ma limita l’ingresso dei prodotti palestinesi a quello israeliano; concede allo Stato di Israele il controllo sulla riscossione delle imposte; rafforza ulteriormente l’uso dello shekel israeliano in Cisgiordania e a Gaza, lasciando l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) appena creata senza mezzi per imporre il controllo fiscale o adottare politiche macroeconomiche autonome.

In effetti ciò significa che oggi il regime israeliano ha il totale controllo diretto o indiretto sulle leve dell’economia palestinese. L’occupazione militare rafforza questa situazione, consentendo al regime israeliano di esercitare il controllo fisico sulle attività economiche quotidiane dei palestinesi e di espandere l’espropriazione della terra palestinese.

L’iniezione di denaro in questo sistema attraverso iniziative finanziate con P2P non è ciò di cui ha bisogno l’economia palestinese. Invece, come ha scritto Leila Farsakh [economista giordano-palestinese, ndtr.], “l’economia palestinese…non può esistere, per non dire prosperare, fino a quando la comunità internazionale non chiamerà Israele a rispondere in base alle leggi internazionali, proteggerà i diritti dei palestinesi e obbligherà Israele a porre fine alla sua occupazione.”

Il Middle East Partnership for Peace Act

Indipendentemente dalle questioni fondamentali su illustrate, il quadro P2P è tornato di moda in seguito al Middle East Partnership for Peace Act [legge per la Collaborazione in Medio Oriente per la Pace] di Nita M. Lowey nel 2000. La legge è stata proposta al Congresso USA dall’ex parlamentare democratica Nita Lowey e dal repubblicano Jeff Fortenberry, a dimostrazione dell’appoggio bi-partisan alla legge.

In seguito alla sua approvazione l’Alliance for Middle East Peace [Alleanza per la Pace in Medio Oriente] (ALLMEP) ha rivendicato l’iniziativa spiegando che si è trattato del risultato di “oltre un decennio di sostegno” da parte di ALLMEP “alla creazione di un Fondo Internazionale per la Pace Israelo-palestinese.” ALLMEP cita una “vasta coalizione” di sostenitori, che include J Street, il New Israel Fund, Jewish Federations of North America, l’Israel Action Network, Churches for Middle East Peace, AIPAC, AJC e l’Israel Policy Forum. Significativamente tutte queste organizzazioni tranne una sono dichiaratamente sioniste.

Un mese prima della legge, ALLMEP ha citato un dibattito parlamentare in Inghilterra diretto dalla deputata Catherine McKinnell, a capo di Labour Friends of Israel [Amici Laburisti di Israele], che ha portato avanti l’idea di creare un fondo simile in Gran Bretagna. Si sosteneva che la proposta era ampiamente appoggiata da deputati sia dell’opposizione che del partito di governo. Nel dibattito McKinnell ha finito con un accenno all’International Fund for Ireland [Fondo Internazionale per l’Irlanda, istituito per finanziare progetti di pacificazione in Irlanda del nord, ndtr.] e al Good Friday Agreement [Accordo del Venerdì Santo, che ha posto fine alla guerra civile nell’Irlanda del Nord, ndtr.]. In effetti ALLMEP fa riferimento all’ International Fund for Ireland (IFI) come “quadro concettuale” che sta dietro a questa idea di un fondo per “la pace israelo-palestinese” e cita il Partnership for Peace Act [legge per una pace condivisa ndtr] quale primo passo verso un tale fondo.

Dopo il dibattito, McKinnell ha inviato una lettera aperta a James Cleverly, ministro per il Medio Oriente e il Nord Africa presso l’Ufficio per gli Esteri, il Commonwealth & lo Sviluppo (FCDO). Nella lettera chiede al ministro di incontrarla per discutere del coinvolgimento britannico in tale fondo. Ha anche chiesto al ministro di impegnarsi a “discutere con l’amministrazione Biden come il Middle East Partnership for Peace Fund possa trasformarsi in una vera istituzione internazionale.” Infine ha proposto che la Gran Bretagna presenti una richiesta agli USA per uno dei seggi come membro internazionale nel consiglio del Partnership for Peace Act.

La legge è stata adottata anche nel testo della legge di bilancio per il Dipartimento di Stato e le Operazioni Estere del 2021. Essa destina 50 milioni di dollari all’anno per oltre 5 anni per la costituzione di due fondi: il fondo “People-to-People Partnership for Peace” con USAID [discussa agenzia federale USA per la cooperazione internazionale, ndtr.] e la Joint Investment for Peace Initiative [Iniziativa di Investimenti Congiunti per la Pace] dipendente dall’ International Development Finance Corporation [Società Finanziaria per lo Sviluppo Internazionale, istituzione finanziaria federale USA che gestisce i fondi per lo sviluppo, ndtr.].

Il fondo P2P è governato e gestito dall’Amministrazione dell’Agenzia USA per lo Sviluppo Internazionale in collaborazione con il Segretario di Stato e il ministero delle Finanze USA.

Vi sovrintende un consiglio di amministrazione formato da cinque cittadini USA nominati dall’amministrazione dell’Agenzia USA per lo Sviluppo Internazionale. La legge, stilata per la prima volta nel giugno del 2019, stabilisce che i membri del consiglio debbano essere persone che hanno “dimostrato esperienza e competenza nelle questioni relative a Israele e ai territori palestinesi,” e fa particolare riferimento alla competenza in campo economico. Due seggi del consiglio sono riservati a rappresentanti di organizzazioni internazionali di governi esteri: da qui la summenzionata richiesta di McKinnell di un rappresentante britannico.

Il fondo sarà finanziato principalmente dagli USA, ma la legge afferma anche che “raccoglierà ulteriori contributi per il Fondo dalla comunità internazionale, compresi Paesi del Medio Oriente e in Europa.”

Gli Stati che hanno recentemente normalizzato i rapporti con il regime israeliano saranno senza dubbio inclusi tra quelli a cui si chiederanno contributi. È anche probabile che gli ideatori del fondo sperino che diventi il principale meccanismo attraverso il quale finanziamenti internazionali saranno diretti in Palestina e i palestinesi saranno obbligati a impegnarsi nel “dialogo” P2P con gli israeliani come condizione per ricevere finanziamenti. In cambio questo darà come risultato il monopolio e la micro-gestione da parte degli Usa della maggioranza dei progetti finanziati dai donatori in Palestina.

Minare le leggi internazionali e rinunciare a chiamare Israele a rispondere dei suoi crimini

Benché il discorso del Partnership for Peace Act riguardi pace e cooperazione, una lettura attenta del testo della legge rivela preoccupanti lacune che consentono il totale annullamento dei diritti dei palestinesi. Così facendo la legge incoraggia le violazioni israeliane del diritto internazionale.

Nel settembre 2020 l’analista politica di Al-Shabaka e avvocatessa per i diritti umani Zaha Hassan ha notato che una prima bozza della legge vietava la “discriminazione geografica” nella presentazione di richieste da parte di beneficiari da “Israele, Cisgiordania e Gaza.” In altre parole chiunque, compresi i coloni israeliani in Cisgiordania, avrebbero potuto presentare domanda di finanziamenti.

In effetti Hassan ha evidenziato che un rapporto della commissione per gli Stanziamenti del Senato [USA] che ha messo in discussione la prima versione della legge, aveva esplicitamente affermato che i finanziamenti avrebbero dovuto essere utilizzati “per incoraggiare il commercio tra l’economia israeliana e palestinese in Cisgiordania.” Benché la versione finale non contenga più quella formulazione, essa non presenta alcuna definizione che possa impedire ai coloni di far richiesta di finanziamenti. Eppure l’impresa di colonizzazione del regime israeliano in Cisgiordania, avviata da un governo laburista israeliano poco dopo la conquista della Cisgiordania nel 1967, è uno dei crimini più vergognosi contro il popolo palestinese.

Oggi ci sono oltre 622.500 coloni israeliani che vivono in centinaia di insediamenti illegali in Cisgiordania, compresa Gerusalemme est. Questa impresa di colonizzazione ha avuto un impatto incredibilmente devastante sulla vita dei palestinesi in Cisgiordania. La terra palestinese è continuamente espropriata per le colonie e le loro infrastrutture, rinchiudendo i palestinesi in enclave sempre più piccole collegate da pochissime strade in pessimo stato.

Oltre a questo le colonie si impadroniscono delle migliori risorse della Cisgiordania, in particolare dell’acqua. Per decenni il regime israeliano ha sistematicamente scavato pozzi e ha bloccato l’acceso dei palestinesi alle sorgenti in Cisgiordania, mentre deviava nel contempo l’acqua per rifornire la propria popolazione, compresa quella che vive negli insediamenti illegali. Non è quindi sorprendente che le colonie illegali israeliane siano spesso definite il maggior ostacolo alla pace, anche dalle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU.

Mentre queste attività e la costante espansione del regime israeliano sulla terra palestinese sono continuamente condannate dalla comunità internazionale e dalle associazioni per i diritti umani, non ci sono state conseguenze e il regime israeliano deve ancora essere chiamato a risponderne. Tuttavia il Partnership for Peace Act va ben oltre la semplice mancata richiesta al regime israeliano di risponderne; esso fornisce deliberatamente una scappatoia per non vietare esplicitamente ai coloni degli insediamenti illegali di chiedere finanziamenti, incentivando quindi l’attività di colonizzazione e arricchendo i coloni.

Come detto in precedenza, la legge di bilancio USA proposta nel luglio 2020 dalla Camera dei Rappresentanti USA per l’anno fiscale 2020-2021 ha incluso provvedimenti per il Partnership for Peace Act. Le disposizioni impongono inoltre una serie di clausole per ricevere i finanziamenti, comprese restrizioni all’accesso per i palestinesi nel caso in cui l’ANP promuova un’inchiesta della Corte Penale Internazionale contro crimini di guerra di Israele. In particolare il testo include la seguente clausola:

Nessuno dei fondi stanziati sotto la voce “Fondo per il sostegno economico” di questa legge può essere messo a disposizione per assistenza all’Autorità Nazionale Palestinese se dopo la data di entrata in vigore di questa legge: (I) i palestinesi ottengono la stessa posizione di Stato membro o la piena adesione come Stato nelle Nazioni Unite o in qualunque loro specifica agenzia al di fuori di un accordo negoziato tra Israele e i palestinesi; o se i palestinesi promuovono un’indagine giuridicamente autorizzata della Corte Penale Internazionale (CPI), o appoggiano attivamente una simile indagine che sottoponga cittadini israeliani a un’inchiesta per presunti crimini contro i palestinesi.

Ciò è particolarmente significativo, considerando che nel febbraio 2021 l’ufficio della procura generale e la Camera Preliminare della Corte Penale internazionale (CPI) hanno stabilito che la Palestina ricade sotto la giurisdizione della CPI, consentendo quindi un’indagine per crimini di guerra contro Israele in Palestina. Meno di un mese dopo, nel marzo 2021, la procura ha annunciato l’apertura di un’inchiesta formale. Mentre ciò può essere festeggiato come una prima vittoria, molti ostacoli si prospettano ancora, compreso il fatto che l’ANP possa o meno essere convinta ad abbandonare l’inchiesta con la minaccia del ritiro dei finanziamenti.

Benché la CPI conserverebbe la giurisdizione anche se la ANP dovesse rinunciare a sostenere un’indagine e presentare denunce per crimini di guerra, ciò avrebbe un pesante impatto sulla causa. Infatti lascerebbe nelle mani di attori non statali, come le Ong per i diritti umani, la responsabilità di presentare denunce. Le denunce da parte di Stati hanno un peso politico maggiore, soprattutto nei confronti della CPI, che si basa molto sulla collaborazione degli Stati per condurre le proprie indagini.

È estremamente problematico il fatto che un ente finanziatore imponga simili limitazioni alla distribuzione dei propri fondi. Si deve quindi mettere in discussione la sincerità di ogni tentativo di “pace e riconciliazione” che limiti i finanziamenti in base al fatto che un popolo o, in questo caso, uno Stato persegua attraverso un’istituzione giudiziaria internazionale la richiesta di procedere in giudizio contro responsabili di crimini di guerra. Inoltre va notato che l’amministrazione Trump ha presentato clausole simili insieme all’“Accordo del Secolo”, che vietava alla dirigenza palestinese di ricorrere a un’indagine della CPI.

Clausole come queste, che politicizzano i finanziamenti incardinandoli a condizioni ingiuste, non solo sono dannose nel garantire i diritti fondamentali dei palestinesi, ma minano anche l’intero sistema della giustizia internazionale rafforzando l’impunità israeliana in quanto rinunciano a chiedere conto delle sue gravi violazioni del diritto internazionale. Il Partnership for Peace Act non è sicuramente una ragione di ottimismo, è uno strumento politico utilizzato contro i palestinesi che potrebbero cercare di utilizzare mezzi giudiziari affinché il regime israeliano sia chiamato a rispondere delle proprie continue sofferenze sotto l’occupazione israeliana. È una condanna a morte per i palestinesi che cercano giustizia attraverso i canali giudiziari formali del sistema internazionale.

Mettere in dubbio la falsa vernice di pace e riconciliazione

Questo articolo ha dimostrato come il Partnership for Peace Fund agisca all’interno di un quadro epistemico che pretende che la mancanza di collaborazione, di dialogo e di opportunità economiche per i palestinesi siano il principale ostacolo alla pace tra palestinesi e israeliani. Questo articolo ha anche dimostrato che ciò è semplicemente falso. Il principale ostacolo per “raggiungere la pace” sono le violazioni dei diritti dei palestinesi da parte del regime israeliano da oltre settant’anni, così come la continua colonizzazione della terra palestinese.

Tuttavia il fondo non è l’unico ad adottare questa narrazione. È l’ultimo esempio di una storia più lunga di iniziative P2P simili che tentano di minare i diritti fondamentali dei palestinesi attraverso una vernice di pace e riconciliazione.

Alla luce delle leggi emanate negli USA e della possibilità che leggi simili vengano emanate altrove, in particolare in Gran Bretagna e in Europa, è fondamentale che quanti appoggiano le leggi internazionali e i diritti dei palestinesi si oppongano con decisione a tali iniziative che minacciano il diritto internazionale e privilegiano una falsa vernice di dialogo e responsabilizzazione.

Come ha notato Omar Barghouti [co-fondatore del movimento BDS, ndtr.]:

“La lotta è innanzitutto per la libertà, la giustizia e l’autodeterminazione dell’oppresso…Solo attraverso la fine dell’oppressione ci può essere una vera potenzialità per quella che chiamo coesistenza etica, basata sulla giustizia e sulla piena uguaglianza per chiunque, non una coesistenza del tipo ‘padrone-schiavo’ che invocano molti nell’ ‘industria della pace’.”

L’impostazione P2P dovrebbe essere rifiutata in quanto inadeguata e problematica nel contesto palestinese e, in effetti, in ogni contesto di colonialismo d’insediamento definito da un notevole asimmetria di potere. Politici e legislatori dovrebbero invece appoggiare progetti e iniziative che si basino sui principi fondamentali delle leggi internazionali e sulla protezione dei diritti umani dei palestinesi invece che su quelli che li ignorano per promuovere il “dialogo”.

Infine, dovrebbero appoggiare i meccanismi esistenti che si oppongono all’espansionismo del colonialismo d’insediamento israeliano e dell’occupazione militare. Ciò include il divieto di importazione nei mercati internazionali dei prodotti delle colonie illegali o di investimenti da istituzioni e imprese complici delle violazioni dei diritti umani da parte di Israele. In ultima analisi Israele sarà chiamato realmente a pagare le conseguenze delle sue azioni con l’applicazione di sanzioni internazionali. Infatti obbligarlo a risponderne è l’unico cammino attraverso il quale ottenere una pace giusta.

Yara Hawari

Yara Hawari è analista esperta di Al-Shabaka: La Rete Politica Palestinese. Ha ottenuto un dottorato in Politiche del Medio Oriente presso l’università di Exeter, dove ha insegnato in vari corsi di post-grado e continua ad essere ricercatrice onoraria. In aggiunta al suo lavoro accademico centrato su storia indigena e storia orale, è anche una assidua commentatrice che scrive su vari mezzi di comunicazione, tra cui The Guardian, Foreign Policy e Al Jazeera in inglese.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Ingerenze straniere nelle elezioni palestinesi

Adnan Abu Amer

21 Marzo 2021 Al-Jazeera

Mentre i palestinesi iniziano il conto alla rovescia per le loro elezioni legislative e presidenziali rispettivamente in maggio e luglio, sembra crescere l’interesse tra soggetti stranieri nel manipolare il loro esito. Questo ha iniziato a preoccupare la leadership palestinese.

Il 16 febbraio il general maggiore Jibril Rajoub, segretario generale del Comitato Centrale di Fatah, ha dichiarato alla televisione palestinese che alcuni Paesi arabi hanno cercato di interferire pesantemente nelle elezioni palestinesi e nei colloqui di riconciliazione tra Fatah e Hamas.

Tre giorni dopo Bassam al-Salhi, segretario generale del Partito del Popolo Palestinese e membro del Comitato Esecutivo dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), in un’intervista sul sito web Arabi21 ha detto: “Molti Paesi invieranno ingenti quantità di denaro perché vogliono influenzare il Consiglio Legislativo. Siamo di fronte ad interferenze da parte di molti Paesi, arabi e stranieri.”

Benché questi dirigenti palestinesi non abbiano fatto i nomi dei soggetti stranieri a cui si riferiscono, sembra che siano preoccupati soprattutto per le pressioni di Egitto, Giordania e Emirati Arabi Uniti (EAU). Tutti loro hanno parecchie poste in gioco nelle elezioni e preconizzano determinati risultati in linea con i loro interessi regionali e interni.

Interessi stranieri

Non è un segreto che indire le elezioni da parte del presidente (dell’ANP) Mahmoud Abbas non è stata una decisione volontaria o dovuta a iniziative arabe, ma il risultato di pressioni americane ed europee. L’Unione Europea ha persino minacciato di interrompere il supporto finanziario che fornisce a Ramallah se fossero state cancellate le elezioni. Sia Bruxelles che Washington vogliono che l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) riconquisti legittimità prima di procedere con le loro trattative con i palestinesi. Le elezioni sono anche appoggiate da altri due importanti attori regionali: la Turchia e il Qatar.

Tuttavia l’annuncio delle votazioni non è stato ben accolto da alcune capitali arabe, soprattutto Il Cairo e Amman. Entrambe temono il ripetersi delle elezioni del 2006, quando Hamas riportò una netta vittoria a Gaza, che condusse ad un conflitto armato con Fatah. Se ciò accadesse di nuovo, potrebbe avere un effetto destabilizzante sugli affari interni sia dell’Egitto che della Giordania.

In particolare il regime egiziano considera Hamas un ramo della Fratellanza Musulmana, che ha cercato di sradicare fin dal colpo di Stato contro il presidente Mohamed Morsi nel 2013. Una vittoria potrebbe rendere Hamas più sordo alle pressioni del Cairo, dal momento che otterrebbe una legittimazione elettorale. Potrebbe anche ridare vigore alla Fratellanza (Musulmana) in Egitto.

Anche la Giordania teme un rafforzamento di Hamas, ma è preoccupata anche da una possibile instabilità post-elettorale, che potrebbe provocare agitazioni all’interno della vasta popolazione palestinese che vi abita.

Gli Emirati Arabi Uniti mostrano altresì un serio interesse nelle elezioni palestinesi. Guidando l’azione della normalizzazione araba con Israele, hanno tentato di strappare la questione palestinese ai suoi sponsor tradizionali – Egitto e Giordania – per rinsaldare ulteriormente le relazioni con Israele ed assicurarsi l’appoggio USA.

Neanche Israele è stato felice all’annuncio delle nuove elezioni palestinesi. Anche se i suoi propri cittadini sono stati chiamati a quattro elezioni in due anni, Israele preferisce che i palestinesi non vadano affatto alle urne perché vuole mantenere lo status quo. Israele vuole che Abbas resti al potere e continui a collaborare con i servizi di sicurezza israeliani, consentendo ad Israele di espandere costantemente l’occupazione e l’apartheid. Perciò chiunque formi il governo israeliano dopo le elezioni del 23 marzo probabilmente auspicherà una vittoria di Fatah (specialmente della componente vicina a Abbas) e cercherà di indebolire Hamas.

Le forze israeliane hanno già cercato di intimidire i membri di Hamas in Cisgiordania, arrestando alcuni loro leader e attaccandone altri per scoraggiarli dal partecipare alle elezioni.

Diplomazia della pressione

La prima avvisaglia che le elezioni palestinesi non sarebbero state una questione interna è giunta il 17 gennaio, meno di 48 ore dopo che Abbas ha emesso il decreto presidenziale con l’annuncio della data delle elezioni, con i capi dell’intelligence egiziana e giordana, Abbas Kamel e Ahmed Hosni, arrivati a Ramallah.

Ho saputo da fonti palestinesi informate su questa prima visita che Kamel e Hosni hanno discusso con Abbas i dettagli procedurali delle elezioni, compresa la situazione politica di Fatah, che ha affrontato divisioni interne e potrebbe andare incontro a defezioni prima del voto.

Attualmente non vi è accordo all’interno del partito riguardo alla rielezione di Abbas e c’è la possibilità che emergano degli sfidanti. C’è un ormai crescente sostegno alla candidatura di Marwan Barghouti, un leader di Fatah che sta scontando diversi ergastoli in un carcere israeliano.

Inoltre all’interno di Fatah non c’è accordo nemmeno sui candidati al Consiglio Legislativo. Al momento si stanno predisponendo diverse liste elettorali che cercheranno di attrarre l’elettorato tradizionale di Fatah: una della cerchia di Abbas; una di Nasser al-Qudwa, nipote del defunto leader palestinese Yasser Arafat; e una di Mohammed Dahlan, ex capo della sicurezza di Gaza, espulso da Fatah nel 2011.

Questi disaccordi all’interno di Fatah prima delle elezioni sicuramente favoriranno Hamas, che è riuscito a garantire una coesione interna e avrà gioco facile nello sconfiggere il suo indebolito e diviso antagonista.

E’ per questo motivo che Egitto e Giordania vogliono assicurarsi che Fatah abbia una lista elettorale unica ed un candidato condiviso per l’elezione presidenziale. Ed è per la stessa ragione che stanno facendo pressione su Abbas perché si riconcili con Dahlan.

L’ex dirigente di Fatah è stato uno stretto alleato degli EAU, che negli ultimi dieci anni lo hanno appoggiato, sponsorizzato e sostenuto in tutti i modi. Alcuni osservatori ritengono che Abu Dhabi abbia formato Dahlan come futuro capo dell’Autorità Nazionale Palestinese. Ciò ha provocato molta ansia ad Abbas, che finora ha rifiutato di riammettere Dahlan nel partito.

Dahlan ed i suoi sostenitori non fanno mistero dell’appoggio politico, mediatico e finanziario che ricevono dagli Emirati per poter rientrare nella politica palestinese. Questo appoggio li ha messi in grado di creare alleanze con forze politiche palestinesi, compresi personalità di Fatah scontente di Abbas.

Hamas, contrario al ritorno di membri della fazione di Dahlan nella Striscia di Gaza a causa del loro ruolo nel conflitto armato del 2007, alla fine ha accettato di lasciarli tornare dopo aver ricevuto pressioni dall’Egitto. Questo ha permesso a Dahlan di annunciare diversi progetti umanitari per i palestinesi, compresa la distribuzione di vaccini anti Covid, senza coordinarsi con l’Autorità Nazionale Palestinese.

Lo scopo finale di tutte queste attività è assicurare che qualunque nuova leadership palestinese venga eletta sarà facilmente influenzabile da quelle potenze straniere e spinta ad accettare qualunque nuova richiesta proverrà da Israele. Ciascuno di questi attori vuole giocare un ruolo importante nella questione palestinese, sperando di ingraziarsi gli USA e ottenere il loro appoggio.

Ma ciò che faranno queste ingerenze sarà minare il processo democratico in Palestina e sabotare ancora una volta l’autorità del volere del suo popolo.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera.

Adnan Abu Amer

Il dott. Adnan Abu Amer è capo del Dipartimento di Scienze Politiche all’università Ummah di Gaza. E’ ricercatore a tempo parziale presso molti centri di ricerca palestinesi ed arabi e scrive periodicamente per Al Jazeera, The New Arabic e The Monitor. Ha scritto più di 20 libri sul conflitto arabo-israeliano, sulla resistenza palestinese e su Hamas.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Israele imprigiona i politici palestinesi prima delle elezioni nell’Autorità Nazionale Palestinese

Tamara Nassar 

2 marzo 2021, ElectronicIntifada

In vista delle elezioni legislative e presidenziali palestinesi che si terranno nei prossimi mesi Israele sta inasprendo il giro di vite su personalità della società civile e politica palestinese nella Cisgiordania occupata.

Lunedì Israele ha condannato la parlamentare palestinese Khalida Jarrar a due anni di carcere, a una multa di 1.200 dollari [1000 € ca, ndtr.] e una pena sospesa di un anno.

Il suo crimine? Essere un membro di un partito politico di sinistra, il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina.

Israele considera gruppi “terroristici” praticamente tutti i partiti palestinesi e le organizzazioni di resistenza, il che significa che qualsiasi persona politicamente attiva può essere arrestata.

“La scelta del momento non è casuale”, ha detto l’avvocato palestinese Yafa Jarrar della condanna di sua madre, riferendosi alle elezioni palestinesi.

Khalida Jarrar è stata arrestata con una imponente incursione militare notturna nella sua casa nell’ottobre 2019 e da allora è trattenuta senza accusa né processo.

La sua detenzione è avvenuta solo otto mesi dopo il suo rilascio da un precedente periodo di 20 mesi di detenzione amministrativa – senza accusa né processo.

È stata arrestata nell’ambito di quella che il gruppo per i diritti dei prigionieri palestinesi Addameer ha affermato essere una campagna israeliana iniziata nella seconda metà del 2019 contro attivisti politici e studenti.

Addameer ha aggiunto che Israele ha falsamente accusato Jarrar di essere coinvolta nell’uccisione dell’adolescente israeliana Rina Shnerb.

Shnerb è stata uccisa nell’agosto 2019 da quello che i militari israeliani hanno stabilito essere un ordigno esplosivo improvvisato vicino all’insediamento di Dolev in Cisgiordania.

Ma lunedì il procuratore militare israeliano ha cambiato l’accusa contro Jarrar includendo solo le sue attività politiche, e le accuse di coinvolgimento nell’omicidio di Shnerb sono cadute.

Jarrar ha già trascorso anni nelle carceri israeliane e le è stato proibito viaggiare a causa della sua appartenenza al FPLP.

Il primo voto in 15 anni

Le elezioni legislative e presidenziali palestinesi previste per maggio e luglio sarebbero le prime dalle elezioni legislative del 2006, quando Hamas vinse con una vittoria schiacciante battendo Fatah, fazione dell’Autorità Nazionale Palestinese al potere guidata da Mahmoud Abbas.

Tuttavia, il partito di Abbas, sostenuto da Israele, Stati Uniti, Unione Europea e alcuni stati arabi, non ha permesso ad Hamas di assumere il governo dell’Autorità Nazionale Palestinese.

Invece, le milizie allineate con Fatah a Gaza, in accordo con gli Stati Uniti, hanno cercato di rimuovere Hamas dal potere con la forza.

Ma nel giugno 2007 Hamas si è preventivamente mosso contro di loro, espellendo da Gaza le forze di Fatah sostenute dagli Stati Uniti.

Il tentativo di golpe contro Hamas dopo la sua vittoria alle elezioni ha portato all’attuale divisione per cui l’ANP di Abbas sostenuta dall’occidente ha mantenuto il controllo in Cisgiordania mentre Hamas, isolata a livello internazionale, ha governato all’interno della Striscia di Gaza assediata.

Non vi è alcuna garanzia che si svolgeranno le elezioni, poiché negli ultimi anni sono state programmate numerose votazioni poi rinviate a tempo indeterminato.

Le elezioni sono largamente viste come un modo per rafforzare la legittimità dei principali partiti politici palestinesi a 15 anni dall’ultima votazione e alla luce della nuova amministrazione statunitense.

Come ha scritto di recente Ali Abunimah di The Electronic Intifada, non è chiaro perché Hamas si fidi che lo stesso partito di Abbas e Fatah che ha guidato il colpo di stato contro Hamas nel 2007 rispetterà ora i risultati.

“Qualsiasi riconciliazione o ‘unità nazionale’ può basarsi solo sul fatto che Fatah di Abbas abbandoni la collaborazione con Israele e che Hamas abbandoni la resistenza”, ha scritto Abunimah.

L’arresto dei membri di Hamas

Israele ha regolarmente incarcerato funzionari palestinesi eletti solo perché non approva il loro punto di vista, e ora sta incrementando tali arresti in vista delle elezioni programmate. Questo fa “parte dello sforzo israeliano in corso per sopprimere l’esercizio della sovranità politica e dell’autodeterminazione dei palestinesi”, ha affermato Addameer. Nelle ultime settimane Israele ha operato molti arresti di personalità appartenenti ad Hamas nella Cisgiordania occupata.

A febbraio le forze israeliane hanno arrestato Adnan Asfour e Yasser Mansour di Hamas e hanno disposto che Asfour fosse tenuto in detenzione amministrativa per sei mesi.

Mansour è anche membro del Consiglio legislativo palestinese.

Hamas ha detto che l’arresto dei suoi politici in Cisgiordania “conferma il fatto che l’occupazione ha preso di mira il processo elettorale”.

Naif al-Rajoub, membro del Consiglio legislativo palestinese, ha detto che le forze di occupazione israeliane hanno fatto irruzione nella sua casa a febbraio e gli hanno intimato di non partecipare alle elezioni.

Al-Rajoub ha detto all’agenzia di stampa Shehab che le forze israeliane gli hanno detto di non candidarsi alle elezioni e di non partecipare alla campagna elettorale e che gli permetterebbero solo di andare alle urne.

Altre figure di Hamas arrestate da Israele nelle ultime settimane includono Khalid al-Haj, Abd al-Baset al-Haj, Omar al-Hanbali e Fazee al-Sawafta.

La scorsa settimana un tribunale militare israeliano ha prorogato di quattro mesi la detenzione amministrativa di Khitam Saafin, a capo dell’Unione dei Comitati delle Donne palestinesi. Saafin è stata arrestata insieme ad altri attivisti politici palestinesi a novembre e da allora è detenuta senza accusa né processo.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




L’apartheid vaccinale di Israele

Amira Hass

 

1 marzo 2021 – Haaretz

I ceppi del COVID non terranno in considerazione le bugie di Israele secondo cui esso “non è responsabile” della salute dei palestinesi.

La domanda scomoda ogni giorno è: “Sei stata vaccinata?” La risposta imbarazzata è “sì.” A chiedere sono vicini e amici palestinesi, conoscenti e intervistati, residenti in Cisgiordania (esclusa Gerusalemme Est) e nella Striscia di Gaza. Non lo fanno con l’intenzione di mettermi in imbarazzo, né tanto meno di farmi vergognare. Esprimono un interesse umano e amichevole. Di solito alla mia risposta replicano: “É fantastico.” Il disagio e l’imbarazzo derivano dal fatto che noi, cittadini di Israele, veniamo vaccinati e loro no. 

Anche se possiamo vantarci di essere primi al mondo per la vaccinazione di cittadini e residenti, resta il fatto che Israele ha escluso dalla vaccinazione circa 4,5 milioni di palestinesi, sebbene essi vivano tutti sotto il suo controllo. Il governo continua a dichiarare di non essere responsabile della loro salute. Allora va ricordato: ciascuno di quei 4,5 milioni è iscritto nel registro della popolazione palestinese controllata da Israele.

 

Che cosa si intende per controllo? È Israele a decidere chi è nel registro. Se il certificato di nascita di qualche neonato palestinese non viene convalidato da Israele, quel neonato non viene registrato. Non è sufficiente la certificazione del Ministero degli Interni palestinese per fare avere la carta di identità ad una sedicenne di Gaza, Hebron o Barta’a. Ci vuole il consenso di Israele. I funzionari del Ministero degli Interni israeliano che lavorano per l’Amministrazione Civile devono confermare i dettagli della carta di identità, che altrimenti viene considerata “contraffatta.”

 

Per favore, ditemi quale altro Paese del mondo sia “non responsabile” della salute di quelle stesse persone che ha l’autorità di riconoscere come “esistenti” oppure no.

E questo si aggiunge alle altre questioni relative ai palestinesi su cui è Israele a decidere: la quantità di acqua che consumano, le restrizioni al loro diritto di muoversi, l’entità del loro sviluppo economico, le università palestinesi in cui hanno diritto a studiare, l’estensione della terra che possono coltivare.

 

L’elenco dei settori in cui si esplica il dominio di Israele sui palestinesi “che non possono beneficiare dei nostri vaccini” è più lungo di quanto non si possa illustrare esaurientemente in questo articolo.

Eppure, come prevedibile, la vaccinazione dell’apartheid non fa scalpore in Israele. Le considerazioni morali per noi non valgono.

 

Vi siete imbattuti in qualche appello di docenti di filosofia di università israeliane che chiedano al Primo Ministro Benjamin Netanyahu di vaccinare senza alcuna discriminazione l’intera popolazione che risiede in questo Paese fra il Mare Mediterraneo e il fiume Giordano? Avete sentito dei rabbini in Israele chiedere al governo, in nome della loro autorità spirituale, di fare in modo che l’efficace campagna di vaccinazione non trascuri nessuno?

Queste sono domande retoriche. Grazie a gruppi per i diritti umani, si è aperta un’unica crepa in quell’insensibilità: vaccineremo i palestinesi che lavorano in Israele. 

 

Per noi le considerazioni legali valgono solo se sono a nostro vantaggio, e a patto che l’unica interpretazione legale sia Ginevra-à-la-carte. [Geneva-Shmeneva nel testo di Hass – l’aggiunta del prefisso “shm” in yiddish trasforma il termine in modo da sminuirlo e/o ridicolizzarlo, ndtr]. Vale a dire che Israele non è una potenza occupante e che quindi non è vincolato dalle Convenzioni di Ginevra per quanto concerne i suoi obblighi di potenza occupante.

Anche se le organizzazioni internazionali hanno decretato l’opposto.  Quando ci viene bene, decidiamo che gli Accordi di Oslo sono vincolanti: per esempio, la clausola che l’Autorità Nazionale Palestinese è responsabile della salute degli abitanti.

Ma se ci conviene, storciamo il naso davanti al fatto che gli Accordi di Oslo avrebbero dovuti essere validi solo per cinque anni, e davanti alla clausola che vieta alle parti di stabilire fatti sul terreno in modo tale da avere un impatto sulla fase permanente.

 

L’utilitarismo sanitario ormai è l’unica cosa che sta a cuore all’ebreo medio in Israele, come dimostra la tardiva consapevolezza che i lavoratori palestinesi devono essere vaccinati. La scorsa settimana ONE – movimento internazionale di lotta alla povertà – ha affrontato il problema dell’iniqua distribuzione mondiale dei vaccini, con le Nazioni ricche che si accaparrano circa un miliardo di dosi in più del necessario, mentre quelli poveri non sono in grado di acquistarli.

“Ogni nuova infezione rappresenta una possibilità di mutazione” ha rammentato ONE nella sua dichiarazione. “Ci sono già oltre 4.000 varianti di Covid-19 e alcune varianti – come quelle sud-africana e inglese – si stanno dimostrando più contagiose di altre.

Ogni nuovo ceppo del virus presenta un aumento del rischio che la malattia evolva al punto da rendere inefficaci gli attuali vaccini, strumenti diagnostici e trattamenti. I leader delle Nazioni ricche non renderanno alcun servizio né ai loro cittadini né al resto del mondo accumulando vaccini.”

Se questo vale per gli USA e la Francia nei confronti di Messico e Marocco, vale sicuramente anche per Israele e i palestinesi.

 

Non sono soltanto i palestinesi che lavorano in Israele o nelle colonie a vivere gomito a gomito con la società israeliana. I palestinesi che vengono nei centri commerciali in Cisgiordania e i coloni che frequentano attività commerciali palestinesi nell’Area C [sotto il totale controllo israeliano, ndtr], quali negozi di alimentari, officine meccaniche, chioschi di falafel; i soldati che fanno irruzione tutte le sere nelle case dei palestinesi, li arrestano, li picchiano e li ammanettano, si avvicinano alle loro facce per urlare contro di loro; gli agenti del Servizio di Sicurezza Shin Bet che respirano la stessa aria viziata delle persone che torturano per poi tornare a casa e passare del tempo nel parco vicino con i figli; i palestinesi di Gerusalemme hanno parenti e amici in Cisgiordania, nonché soci e imprese dove si incontrano; i commercianti palestinesi si vedono con quelli israeliani; i palestinesi con cittadinanza israeliana non hanno smesso di andare a trovare i fratelli e le sorelle in Cisgiordania.

 

Non esiste una separazione ermetica fra le due popolazioni, né può esistere.

Le subdole mutazioni del virus non tengono in considerazione le bugie di Israele secondo cui esso “non è responsabile” della salute dei palestinesi.

   

(traduzione dall’inglese di Stefania Fusero)

 




I palestinesi condannano la mossa di Israele di inviare vaccini all’estero

Linah Alsaafin

25 febbraio 2021 – Al Jazeera

Il ministro degli esteri dell’Autorità Nazionale Palestinese denuncia l’invio di vaccini da parte di Israele agli alleati stranieri come “ricatto politico”.

L’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) ha condannato in quanto “iniziativa immorale” l’impegno da parte di Israele di inviare vaccini contro il coronavirus a Paesi lontani ignorando i cinque milioni di palestinesi che vivono a pochi chilometri di distanza sotto la sua occupazione militare.

Giovedì l’Honduras ha ricevuto da Israele la prima spedizione di vaccini contro il COVID-19, dopo che i media israeliani avevano riferito all’inizio di questa settimana l’intenzione del governo di inviare vaccini al Paese centroamericano, oltre che a Guatemala, Ungheria e Repubblica Ceca.

Il Guatemala ha seguito la discutibile decisione degli Stati Uniti di trasferire lo scorso anno la propria ambasciata a Gerusalemme, mentre l’Honduras ha promesso di fare lo stesso.

L’Ungheria ha aperto a Gerusalemme un ufficio per le missioni commerciali e anche la Repubblica Ceca si è impegnata ad aprire uffici diplomatici in quella città.

Il ministro degli Affari Esteri dell’ANP, Riyad al-Malki, ha detto che la decisione di Israele di fornire vaccini ad alcuni Paesi in cambio di concessioni politiche è una forma di “ricatto politico e un’iniziativa immorale”.

Giovedì in un’intervista all’emittente radio Voice of Palestine [stazione radio con sede a Ramallah, filiale della Palestinian Broadcasting Corporation sotto il controllo dell’ANP, ndtr.] al-Malki ha detto che la decisione “conferma l’assenza di principi morali e di valori” da parte di Israele.

Condurremo una campagna internazionale per combattere un tale sfruttamento dei bisogni umanitari di questi Paesi”, ha affermato.

I casi di coronavirus nella Gerusalemme Est occupata, in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza sono arrivati a più di 203.000. Almeno 2.261 persone sono morte a causa del virus e mercoledì la ministra della Salute dell’Autorità Nazionale Palestinese Mai al-Kaila ha affermato che il numero di casi di coronavirus è in forte aumento.

“Il numero di test positivi ha superato il 20% nella Cisgiordania occupata e il 9% nella Striscia di Gaza”, ha detto a una stazione radio locale.

Al-Kaila ha aggiunto che il tasso di ospedalizzazione nella Cisgiordania occupata è dell’80%, il più alto dall’inizio della pandemia.

Il potere persuasivo del vaccino

Yara Asi, una ricercatrice presso l’Università della Florida centrale, esperta di salute e sviluppo negli Stati colpiti da conflitti, ha denunciato il potere persuasivo del vaccino israeliano.

L’uso della promessa del farmaco salvavita per fare pressione sui Paesi in via di sviluppo perché spostino ambasciate o prendano altre complesse decisioni politiche è cinismo politico ad altissimo livello“, ha detto ad Al Jazeera.

“Queste operazioni consentono inoltre a Israele di fornire alcuni vaccini ai palestinesi sotto l’egida della ‘generosità‘, offuscando ulteriormente i loro doveri legali in qualità di potenza occupante e trattando la Palestina come se fosse solo un altro Paese povero che ha bisogno di aiuto, e non un territorio in cui Israele esercita un controllo economico e politico quasi totale”.

In base alla Quarta Convenzione di Ginevra Israele, in quanto potenza occupante, deve garantire “l’adozione e l’applicazione delle misure di profilassi e prevenzione necessarie per combattere la diffusione di malattie contagiose ed epidemie”.

Funzionari delle Nazioni Unite e organizzazioni a favore dei diritti umani hanno affermato che Israele è una potenza occupante responsabile del benessere dei palestinesi. Israele ha sostenuto di non avere tali obblighi sulla base degli accordi di pace ad interim degli anni ’90.

[Israele] in poco meno di due mesi ha già fornito dosi di vaccino a più della metà dei suoi 9,3 milioni di abitanti, divenendo leader mondiale nella campagna di vaccinazione delle popolazioni. Tuttavia, nonostante abbia annunciato il mese scorso che avrebbe consegnato 5.000 dosi di vaccino all’Autorità Nazionale Palestinese, finora ne sono state ricevute solo 2.000.

Inoltre, dopo che in un primo tempo Israele ha bloccato una spedizione del vaccino russo destinato alla Striscia di Gaza, l’enclave costiera sotto assedio ha ricevuto la scorsa settimana 1.000 vaccini Sputnik a doppia somministrazione.

[Gaza] ha ricevuto separatamente dagli Emirati Arabi Uniti 22.000 vaccini Sputnik, ma gli operatori sanitari di Gaza hanno affermato di aver bisogno di 2,6 milioni di dosi per vaccinare tutte le persone di età superiore ai 16 anni.

“La selezione da parte di Israele dei Paesi da aiutare se vi vede un vantaggio politico è qualcosa di completamente diverso”, dice Asi.

“Fare ciò mentre i palestinesi anziani e ad alto rischio che vivono letteralmente a qualche chilometro di distanza aspettano i vaccini che per la maggior parte dei palestinesi non arriveranno nè nell’arco dei prossimi mesi nè addirittura nel 2021 rappresenta un disprezzo palese per i cinque milioni di persone che vivono sotto l’occupazione israeliana da più di 50 anni.”

Il senatore americano Bernie Sanders ha condannato l’iniziativa di Israele di inviare vaccini ad altri Paesi politicamente allineati prima di distribuirli ai palestinesi.

“In quanto potenza occupante Israele è responsabile della salute di tutte le persone sotto il suo controllo”, ha twittato mercoledì Sanders. “È vergognoso che [il primo ministro israeliano] Netanyahu utilizzi vaccini di scorta per ricompensare i suoi alleati stranieri mentre tanti palestinesi nei territori occupati stanno ancora aspettando.

“Non politicamente vantaggioso”

Sono state sollevate obiezioni anche all’interno del governo israeliano, ma le questioni sono incentrate sugli aspetti tecnici piuttosto che sull’obbligo di dare la priorità alla vaccinazione dei palestinesi sotto l’occupazione israeliana.

Secondo il quotidiano israeliano Haaretz, il ministro della Difesa Benny Gantz avrebbe chiesto al primo ministro Benjamin Netanyahu di interrompere immediatamente il processo di invio di vaccini contro il coronavirus in Paesi stranieri e di consultare il consiglio di sicurezza prima di prendere tali decisioni.

“I vaccini sono di proprietà dello Stato di Israele e quando hai sostenuto che ‘sono state raccolte dosi di vaccino inutilizzate’, mentre la maggior parte della popolazione di Israele non è stata ancora vaccinata con la seconda dose, hai detto il falso”, ha sostenuto Gantz in una lettera a Netanyahu, al consigliere per la sicurezza nazionale e al procuratore generale.

Netanyahu, che il 23 marzo è in lizza per la rielezione, ha messo in gioco il suo successo politico sulla riuscita della campagna di vaccinazione in Israele.

Asi sottolinea che il programma COVAX sostenuto dalle Nazioni Unite – progettato per fornire i vaccini ai Paesi più poveri contemporaneamente ai Paesi ricchi – è fondamentale per porre fine a questa pandemia, ma agisce su un piano di “equità e di non discriminazione”.

“In sostanza il messaggio è che fornire vaccini ai palestinesi non è politicamente abbastanza vantaggioso da costituire una priorità“, spiega.

“E Netanyahu ha scommesso sul fatto che, a solo un mese di distanza da difficili elezioni, vale la pena resistere alla condanna internazionale che Israele sta ricevendo per aver ignorato i palestinesi a vantaggio dei propri interessi politici”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Un’indagine forense smonta la narrazione della polizia israeliana sull’uccisione ad un posto di blocco

Oren Ziv

23 febbraio 2021 – +972 MAGAZINE

La polizia di frontiera ha ucciso Ahmad Erekat dopo che la sua auto ha urtato un posto di blocco, etichettandolo come un “terrorista”. Una perizia legale solleva interrogativi sulla storia e sulla condotta della polizia.

Il 23 giugno 2020 Ahmad Erekat, un palestinese di 27 anni di Abu Dis, nella Cisgiordania occupata, si recava in auto a Betlemme per prelevare sua sorella da un salone da parrucchiera, poche ore prima del suo matrimonio.

Verso le 15:50 Erekat raggiungeva il famigerato “Container Checkpoint” [Posto di Blocco del container, già teatro di precedenti uccisioni di palestinesi da parte dei soldati. Prima che l’esercito si installasse lì, c’era un container che un uomo del posto usava come piccolo negozio di alimentari, ndtr.] situato sulla strada principale che collega nord e sud della Cisgiordania. Secondo gli accordi di Oslo, l’area su entrambi i lati del checkpoint si trova sotto il pieno controllo dell’Autorità Nazionale Palestinese, ma il posto di blocco è presidiato 24 ore al giorno dall’esercito israeliano.

Mentre attraversava il checkpoint, Erekat ha sterzato investendo un gabbiotto pieno di agenti di polizia. Erekat è sceso dall’auto disarmato. Gli ufficiali gli hanno sparato sei proiettili. Il cadavere di Erekat è stato rimosso dall’area un’ora e mezza dopo essere stato colpito.

Circa 24 ore dopo il portavoce della polizia di frontiera israeliana ha rilasciato un breve video [ripreso] da una sola delle molte telecamere di sicurezza che si trovano nel checkpoint. Il video mostra i momenti in cui l’auto di Erekat urta il gabbiotto e viene colpito.

Gli organi di informazione israeliani si sono affrettati a definire l’episodio un atto di terrorismo. Il loro sospetto che Erekat volesse intenzionalmente far scontrare la sua auto contro il posto di blocco si è poi rafforzato dopo che è comparso un secondo video, che lo mostrava alla guida della sua auto mentre parlava rivolto alla telecamera del suo telefono dichiarando di non essere una “spia”.

L’assassinio di Erekat, purtroppo, non è [un fatto] eccezionale. Negli ultimi anni, soldati e agenti di polizia israeliani hanno ucciso a colpi di arma da fuoco decine di palestinesi, compresi coloro che non rappresentavano una minaccia immediata. In tali casi il comportamento del palestinese è quasi sempre stato etichettato automaticamente come un “attacco terroristico”.

Su richiesta della famiglia Erekat, Forensic Architecture [Architettura Forense], un gruppo di ricerca che utilizza strumentazioni e tecnologie architettoniche per indagare su casi di violenze e violazioni dei diritti umani di Stato in tutto il mondo, insieme all’organizzazione palestinese per i diritti umani Al-Haq, ha cercato di ricostruire l’uccisione di Ahmad. Otto mesi dopo il suo assassinio hanno pubblicato un’indagine visuale approfondita sull’incidente.

Come ricostruire un’uccisione

Raccontata dalla famosa attivista politica e intellettuale Angela Davis, l’inchiesta ha scoperto che Erekat è stato colpito nonostante non rappresentasse una minaccia per le forze di sicurezza che si trovavano al posto di blocco. Ha anche scoperto che dopo essere stato colpito Erekat non ha ricevuto cure mediche, nonostante le riprese mostrino che era ancora vivo.

L’indagine ha inoltre rilevato che il corpo di Erekat, che è stato lasciato a terra per circa un’ora e mezza, è stato denudato prima di essere portato via. Non è mai stato restituito alla famiglia e rimane ancora oggi sotto la custodia israeliana.

Israele utilizza regolarmente i cadaveri dei palestinesi che hanno, o sono sospettati di avere, compiuto attacchi violenti contro soldati e civili israeliani come merce di scambio nel corso dei negoziati, direttamente con le famiglie palestinesi o con i loro leader politici. Secondo B’Tselem Israele detiene attualmente 70 corpi di palestinesi.

L’indagine ha incrociato le riprese della telecamera di sicurezza con i video registrati dai conducenti palestinesi che si trovavano al posto di blocco, così come [con quelle] degli organi di informazione arrivati ​​dopo la sparatoria. Con l’aiuto del filmato e delle testimonianze, i ricercatori hanno costruito un modello 3D di un posto di blocco e hanno utilizzato come modalità di indagine lo shadowing [simulazione grafica delle ombre, ndtr.] e l’open source [fonti di informazione aperte e interattive, ndtr.] per ricostruire una sequenza degli eventi.

L’indagine di Forensic Architecture e di Al-Haq:

Dopo l’omicidio, Ben Vaknin, in servizio come agente nelle operazioni della polizia di frontiera in Cisgiordania, ha detto che “un terrorista ha cercato di uscire dall’auto. Una volta uscito ha iniziato a correre verso le [forze di sicurezza], che insieme a un comandante lo hanno neutralizzato e hanno circoscritto l’area “.

Ma l’indagine forense mostra che Erekat è uscito dal suo veicolo disarmato con le mani in alto, e che si è diretto nella direzione opposta rispetto agli ufficiali al checkpoint. “[Ahmad] non costituiva alcun pericolo immediato nel momento in cui è stato colpito”, conclude l’inchiesta.

Secondo Forensic Architecture e Al-Haq, tre agenti della polizia di frontiera hanno sparato contro Erekat sei proiettili in due secondi. Uno di loro ha sparato il primo proiettile mentre Erekat si trovava a quattro metri dall’agente più vicino. Mentre l’agente continuava a sparare Erekat ha continuato ad allontanarsi dal gabbiotto. Quando sono stati sparati i primi due colpi Erekat ha sollevato le mani verso l’alto e si è mosso all’indietro. Al terzo colpo è caduto e le tre pallottole rimanenti sono state sparate dopo che era già a terra.

Negazione delle cure mediche

Il giorno dell’omicidio il portavoce Vaknin ha riferito che Erekat era stato visitato da paramedici. “Dopo poco tempo un’equipe sanitaria ha annunciato la morte del terrorista”. Eppure le indagini mostrano che in realtà Erekat è stato lasciato a terra senza alcun aiuto. Un video girato al posto di blocco alle 15:53, pochi minuti dopo la sparatoria, da un autista palestinese mostra Erekat a terra mentre ancora si muove.

Un’ambulanza israeliana è arrivata sul luogo pochi minuti dopo il fatto, ma i paramedici non hanno assistito Erekat. Secondo l’indagine un’ambulanza palestinese è arrivata sul posto 20 minuti dopo gli spari, ma è stata respinta dalle forze di sicurezza israeliane. Un paramedico che ha parlato con gli investigatori ha detto che sono stati in grado di capire da lontano che nessuno si stava prendendo cura di Erekat.

Il filmato del conducente palestinese mostra anche un agente della polizia di frontiera che cammina vicino al corpo di Erekat e tiene un “pollice verso l’alto” per segnalare che va tutto bene. Secondo gli investigatori, questo comportamento dimostra che le forze di sicurezza non pensavano che Erekat indossasse degli esplosivi, ma ciononostante non l’hanno curato.

In passato in casi simili, come nel caso dell’uccisione da parte della polizia di Yacoub Abu al-Qi’an nel villaggio beduino di Umm al-Hiran [nel gennaio 2017, ndtr.], le forze di sicurezza israeliane hanno affermato di non aver curato i palestinesi feriti perché temevano che trasportassero esplosivi. Questa affermazione non si riscontra affatto nel caso di Erekat, eppure egli è stato comunque lasciato sulla strada mentre stava morendo dissanguato.

Nel processo contro Elor Azaria, il soldato israeliano che ha sparato alla testa a un aggressore palestinese mentre quest’ultimo giaceva immobilizzato a terra, è stato rivelato che Magen David Adom, dei servizi di pronto soccorso israeliani, si astiene abitualmente dal curare i palestinesi fino all’arrivo sul posto di un geniere, ritardando in modo significativo le cure mediche.

Forensic Architecture e Al-Haq hanno scoperto che un’ambulanza israeliana ha lasciato la scena alle 16:30 trasportando solo un’agente della polizia di frontiera che era stata leggermente ferita nell’incidente. Il video registrato otto minuti dopo la partenza dell’ambulanza mostra Erekat nella stessa posizione in cui era stato ripreso inizialmente, pochi minuti dopo che era stato colpito.

Secondo gli investigatori questo dimostra che Erekat non ha ricevuto alcun trattamento medico, dal momento che un medico avrebbe sicuramente spostato il suo corpo per controllare le sue ferite. Questo, dicono gli investigatori, è come “uccidere facendo passare il tempo”.

L’uso dei corpi per una punizione collettiva

Attraverso un’analisi del filmato della telecamera di sicurezza, l’auto di Erekat viaggiava a una velocità di circa 15 chilometri all’ora e non ha accelerato. L’esperto forense di collisioni, il dottor Jeremy J. Bauer, ha confermato che l’auto stava utilizzando circa il 4,4% della sua capacità potenziale dopo aver deviato verso il gabbiotto, e non ha escluso che Erekat abbia frenato di colpo prima dell’urto. Gli investigatori dicono che questo mette in dubbio la narrazione dell’esercito secondo cui Erekat avrebbe pianificato di effettuare un attacco.

Inoltre l’indagine mostra che quando il gabbiotto è stato urtato, la distanza tra la ruota posteriore e la sagoma dell’auto si è accentuata, il che, secondo Bauer, potrebbe indicare che l’auto stesse rallentando. Per qualche istante anche la ruota anteriore smette di girare, il che, dicono gli investigatori, potrebbe indicare una frenata.

Gli investigatori fanno anche notare che le autorità israeliane non hanno controllato la scatola nera dell’auto né hanno pubblicato i video delle altre telecamere di sicurezza.

L’indagine non fa riferimento ai video resi pubblici dopo l’incidente, incluso quello di Erekat che si riprende mentre guida la sua auto, [dove egli appare] chiaramente turbato in seguito ai commenti su di lui sulle piattaforme sociali, che lo accusavano di collaborare con Israele. “Non ho mai tradito la mia nazione, tuo fratello non è una spia”, diceva in quel momento.

“Abbiamo ritenuto urgente condurre l’inchiesta perché gli israeliani non hanno aperto una propria indagine”, ha detto il ricercatore capo di Forensic Architecture Israele-Palestina, che ha chiesto di restare anonimo per paura di rappresaglie. “Era importante per noi mostrare quanti proiettili sono stati sparati, chi li ha sparati e cosa è successo al suo corpo dopo che è stato colpito.

La nostra indagine è una risposta alla mancanza quasi totale di controllo sulle forze di occupazione israeliane quando si abbia a che fare con le uccisioni extragiudiziali di palestinesi. Essa descrive un persistente modello di comportamento da parte dell’esercito israeliano secondo cui i palestinesi vengono uccisi con l’uso di armi letali, viene negata [loro] l’assistenza sanitaria e i loro corpi sono usati dall’esercito contro le famiglie come merce di scambio e come strumenti di punizione collettiva ,continuano.

In un comunicato rilasciato a +972, la polizia israeliana ha affermato di aver indagato sull’incidente e di aver rafforzato la convinzione secondo cui Erekat avrebbe deliberatamente speronato con la sua auto il gabbiotto, sarebbe corso fuori dall’auto e avrebbe minacciato l’incolumità delle forze di sicurezza. La polizia ha aggiunto che i video trovati sul telefono di Erekat non hanno fatto altro che rafforzare la loro convinzione secondo cui egli avrebbe effettuato deliberatamente un attacco.

La polizia ha inoltre insistito sul fatto che Erekat sarebbe stato “visitato sul posto dal personale sanitario pochi minuti dopo l’attacco ed è stato verificato che non aveva polso e non respirava, quindi la rianimazione non è stata eseguita… e di conseguenza è stata accertata la sua morte. Durante l’incidente nei confronti del deceduto non ci sono stati trattamenti o lesioni umilianti”.

Nonostante l’affermazione della polizia di aver indagato sull’incidente, dopo l’episodio né la famiglia di Erekat, né le organizzazioni per i diritti umani, né i media hanno ricevuto una copia dei verbali. Nel frattempo, Israele continua a trattenere il corpo di Erekat.

Oren Ziv

Oren Ziv è fotoreporter, membro fondatore del collettivo fotografico Activestills [collettivo di fotografi che usano le immagini fotografiche come strumento di lotta per i diritti sociali e contro tutte le forme di oppressione, ndtr.] e cronista di Local Call [organo di informazione online in lingua ebraica in co-edizione con Just Vision e +972 Magazine, ndtr.]. Dal 2003, ha documentato una serie di tematiche sociali e politiche in Israele e nei territori palestinesi occupati con un’enfasi sulle comunità di attivisti e le loro lotte. Il suo lavoro di reporter si è concentrato sulle proteste popolari contro il muro e le colonie, a favore degli alloggi a prezzi accessibili e altre questioni socio-economiche, sulle lotte contro il razzismo e la discriminazione e sulla battaglia per la libertà degli animali.

(traduzione dall’inglese di Aldo lotta)




Vaccini anti Covid-19: Gaza riceverà il primo lotto del russo Sputnik V

MEE e agenzie

17 febbraio 2021 – Middle East Eye

Israele ha ammesso di aver ritardato la consegna di vaccino a Gaza per motivi politici

Mercoledì (17 febbraio) la striscia di Gaza assediata riceverà il suo primo lotto di vaccini anti Covid 19 la cui consegna era stata ritardata da Israele. 

Mille vaccini russi Sputnik V arriveranno dal valico di Betania fra la Cisgiordania occupata e Israele a Gaza al valico di Erez [tra Israele e Gaza, ndtr.].

I vaccini, donati dalla Russia, saranno somministrati al personale sanitario nel territorio assediato. 

All’inizio della settimana, Israele aveva ammesso di aver rallentato il trasferimento dei vaccini per motivi politici. 

Il Cogat, l’ente militare israeliano responsabile della gestione israeliana dei territori palestinesi occupati, ha detto all’agenzia AFP che l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) aveva richiesto il trasferimento a Gaza di 1000 dosi di vaccino, ma che “questa richiesta è in attesa di una decisione politica”.

Citando fonti israeliane, l’AFP afferma che permettere il trasferimento dalla Cisgiordania a Gaza non è una semplice misura amministrativa di competenza del Cogat, ma piuttosto una decisione politica probabilmente legata alle trattative fra Israele e Hamas, il gruppo politico che di fatto governa la Striscia di Gaza dal 2007.

L’ANP ha anche accusato Israele di bloccare la consegna del vaccino dalla Cisgiordania dopo la sua richiesta di trasferimento a Gaza. 

Mai al-Kaila, la Ministra della Salute palestinese, ha detto che Israele ha la “totale responsabilità” per il blocco dell’invio.

“Oggi, 2.000 dosi dello Sputnik V, il vaccino russo, sono state trasferite per entrare nella Striscia di Gaza, ma le autorità dell’occupazione impediscono il loro ingresso” ha detto Kaila nella sua dichiarazione di lunedì. 

“Queste dosi erano destinate al personale medico che lavora in reparti di terapia intensiva per pazienti Covid-19 e a coloro che operano in quelli di emergenza.”

A quel che si dice solo metà delle 2.000 dosi sono state trasferite mercoledì a Gaza.

Consegne ritardate

All’inizio del mese, l’ANP ha cominciato a somministrare le prime vaccinazioni al personale sanitario in prima linea, attingendo a un iniziale approvvigionamento di 10.000 dosi del vaccino Sputnik V e anche alle dosi di Moderna fornite da Israele.

Ma il lancio del vaccino in Cisgiordania è stato ritardato dall’intoppo delle consegne.  

Comunque, L’ANP, che ha un limitato autogoverno nella Cisgiordania occupata, ha detto che condividerà la sua limitata fornitura di vaccino con l’enclave costiera.

Dall’inizio della pandemia a Gaza ci sono stati più di 53.000 casi e almeno 537 morti.

Israele, che sta portando avanti una delle campagne vaccinali più veloci al mondo pro capite, sta facendo i conti con critiche internazionali perché non ha condiviso le forniture di vaccini con i palestinesi che vivono nella Cisgiordania occupata e a Gaza sotto blocco israeliano. 

All’inizio del mese, dopo le critiche, Israele ha inviato all’ANP 5.000 dosi da somministrare nella Cisgiordania occupata, dove risiedono circa 3 milioni di palestinesi. 

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Il declino dei settori produttivi palestinesi: il commercio interno come microcosmo dell’impatto dell’occupazione

 Ibrahim Shikaki 

7 febbraio 2021 – Al Shabaka

Sintesi

L’occupazione israeliana ha paralizzato i settori produttivi palestinesi, portando al predominio del commercio interno nell’economia palestinese. L’analista politico di Al Shabaka Ibrahim Shikaki esamina come queste distorsioni strutturali si siano sviluppate in conseguenza delle politiche economiche oppressive di Israele da quando ha occupato la Palestina nel 1967. Shikaki propone delle raccomandazioni alla comunità internazionale e alle organizzazioni umanitarie su come appoggiare l’autodeterminazione economica dei palestinesi.

Introduzione

L’occupazione israeliana ha sistematicamente inflitto ai palestinesi costi economici disastrosi, che gli economisti hanno analizzato per decenni. Tuttavia una dimensione che queste analisi hanno trascurato riguarda le distorsioni nella struttura dell’economia palestinese e l’impatto dannoso di queste distorsioni. Il termine “struttura economica” si riferisce al contributo di diversi settori economici, compresi agricoltura, industria, edilizia e commercio, alle variabili economiche fondamentali della produzione (PIL) e dell’impiego.

Considerando che uno studio complessivo di queste distorsioni strutturali va oltre l’ambito di questo articolo, ci concentreremo su un particolare settore economico che ha giocato un ruolo sempre più predominante nell’economia palestinese: il commercio interno. In sintesi, il commercio interno riguarda la vendita e l’acquisto di beni al dettaglio e all’ingrosso, compreso il commercio con Israele. Il crescente rilievo del contributo del commercio interno nell’attività economica complessiva in Palestina è parte di un costante allontanamento dai settori produttivi come agricoltura e industria verso servizi, commercio ed edilizia.

Questo articolo sostiene che il predominio del commercio interno a spese dei settori produttivi non è né il risultato di uno sforzo consapevole di politiche da parte dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) né il risultato di un governo liberista del mercato. Al contrario è il sottoprodotto delle politiche di occupazione israeliane e una chiara conseguenza della dipendenza dell’economia palestinese da quella israeliana fin dal 1967.

L’articolo sostiene che il commercio interno è un microcosmo dell’economia palestinese nel suo complesso, evidenziando l’inutilità dell’appoggio internazionale e dei donatori per lo sviluppo sotto occupazione. Al contrario, ciò che sarebbe necessario riguarda il rafforzamento dell’elaborazione indipendente, trasparente, responsabile e collettiva di politiche palestinesi, un tipo di guida e governo che la dirigenza palestinesi degli ultimi 25 anni non può dirigere o realizzare.

Il predominio del commercio interno in Palestina

Prima di approfondire i dati che dimostrano l’attuale predominio del commercio interno nell’economia palestinese è utile familiarizzarsi con le attività economiche e i sotto-settori che rientrano in questa categoria generale. Secondo la più recente Classificazione Industriale Standard Internazionale [classificazione delle attività economiche definita dalla Divisione Statistica delle Nazioni Unite, ndtr.] (ISIC-4), la denominazione ufficiale relativa al settore del commercio interno è “Commercio all’ingrosso e al dettaglio; riparazione di veicoli a motore e motocicli.”

Questa classificazione generale include 43 diversi sotto-settori. Secondo il censimento delle imprese PCBS [Ufficio Centrale di Statistica palestinese, ndtr.] del 2017 i tre settori prevalenti, che rappresentano il 50% di ogni struttura economica nel commercio interno palestinese, erano “vendita al dettaglio in negozi non specializzati prevalentemente di cibo, bevande o sigarette”, “commercio al dettaglio di cibo in negozi specializzati” e “vendita al dettaglio di vestiti, calzature e prodotti di cuoio in negozi specializzati”. In altre parole metà di tutte le unità economiche nel maggior settore dell’economia palestinese era composta da negozi di generi alimentari, noti come “al-dakakin”, così come da negozi di cibo e vestiti al dettaglio.

Dati della Contabilità generale del PCBS mostrano che il commercio interno gioca un ruolo sempre più importante in termini di contributo al valore aggiunto (cioè PIL) complessivo della Palestina. Nel 2018 il commercio interno ha rappresentato il 22% sul totale del PIL palestinese (circa 2,9 miliardi di euro nel 2018). Ciò supera il contributo di qualunque altro settore economico come agricoltura (7,5%), industria (11,5%) e il più complessivo settore dei servizi (20%), che include istruzione, salute, l’immobiliare e altri settori. All’interno del solo settore privato il commercio interno rappresenta circa il 40% del valore aggiunto.

Il fatto che il commercio interno rappresenti quasi un quarto dell’attività economica totale non è una cosa naturale nell’economia palestinese né rappresentativa della specializzazione della sua forza lavoro. Come mostra il grafico 1 che segue, i primi giorni dell’ANP a metà degli anni ’90 videro un periodo di breve durata di elevata fiducia che contribuì a determinare un ruolo relativamente forte del settore manifatturiero. Tuttavia gli anni della Seconda Intifada (2000-2005) ridussero praticamente tutti i settori economici tranne la pubblica amministrazione, rispecchiando l’aumento degli aiuti alla spesa salariale del settore pubblico come ultima risorsa per l’ occupazione.

Fonte: PCBS. Calcolo nazionale a prezzi attuali e costanti, vari anni.

Ramallah – Palestina.

Nel 2006, dopo la Seconda Intifada, cominciò ad emergere un chiaro modello verso una svolta neoliberista e un crescente accesso al credito. Ma, nonostante questa svolta, i settori produttivi palestinesi rimasero stagnanti o declinarono, mentre il contributo del commercio interno più che raddoppiò in 10 anni (dal 10% nel 2008 al 22% nel 2018). La cosa non sorprende dato che la svolta neoliberista rafforzò il predominio delle attività economiche “che eludono l’occupazione”, che operarono per evitare gli ostacoli posti da Israele con pochissima attenzione nei confronti del popolo palestinese. I settori produttivi non lo fanno in quanto devono contrastare lo status quo del controllo israeliano sulla terra e le frontiere, fondamentali per l’agricoltura e l’industria.

Comunque il contributo al PIL è solo uno degli indicatori del predominio del commercio interno. Dal 1997 ogni dieci anni il PCBS ha condotto un censimento generale, incluso un censimento delle imprese, che fornisce dati sul numero di attività economiche nazionali e dei lavoratori in ognuno dei vari settori e sotto-settori. Per sua natura il censimento non copre alcune attività economiche, come il lavoro in Israele e l’auto-impiego. Tuttavia l’esclusione del lavoro dei palestinesi in Israele consente al censimento di offrire una stima migliore dell’occupazione creata dal settore privato interno.

Le tendenze evidenziate dal censimento sono rivelatrici. Il numero di imprese che operano nel commercio interno sono aumentate da 39.600 nel 1997 a 56.993 e 81.260 rispettivamente nel 2007 e nel 2017. Mediamente queste cifre rappresentano il 53% di tutte le attività economiche che operano nell’economia palestinese. Come detto sopra, e come spiegato nella tabella 1, tre sotto-settori rappresentano metà di questo dato.

Tavola 1: I principali sotto-settori palestinesi

 

Sottosettori

Numero di imprese

Percentuale delle imprese del commercio interno

Percentuale su tutte le imprese

Negozi alimentari “al-dakakin”

17309

21%

11%

Negozi alimentari al dettaglio

10567

13%

6.7%

Negozi di vestiti al dettaglio

10364

12.7%

6.5%

Parrucchieri e trattamenti estetici

8629

Non inclusi nel settore del commercio interno

5.5%

 

Fonte: PCBS, 2018. Censimento della popolazione, delle abitazioni e delle imprese, 2017, Risultati finali.

Rapporto sulle imprese., Ramallah-Palestina

Riguardo all’occupazione, mediamente il 37% di tutti i lavoratori inclusi nel censimento erano impiegati nel settore del commercio interno, di gran lunga il maggiore tra tutti i settori economici, seguito da quello manifatturiero (22%). Oltretutto il settore era il secondo come lavoro femminile (18%) dopo quello relativo all’istruzione, che impiega il 26% di tutte le lavoratrici incluse nel censimento. Tuttavia è da notare che la presenza delle donne nel settore del commercio interno sottostima la partecipazione complessiva delle donne. Per esempio, il censimento delle attività del 2017 indica che, mentre le donne rappresentano il 24% del totale della forza lavoro (rispetto al 76% degli uomini), nel settore del commercio interno la manodopera era approssimativamente divisa tra il 91% di uomini e il 9% di donne.

Va anche notato che dal boom del credito privato nel 2008 il commercio interno è stato il settore economico a godere del maggior numero di crediti e mutui agevolati, tra il 20% e il 25% del totale del credito al settore privato (1). L’ammontare del credito erogato alle attività del commercio interno è cresciuto dai circa 250 milioni di euro nel 2008 all’1,11 miliardi di euro nel 2019, un aumento quasi del 250% in dieci anni. Il settore più vicino nel 2019 è stato il credito per il “patrimonio edilizio residenziale”, con circa 865 milioni di euro. Per contestualizzare il tutto, settori produttivi come l’agricoltura e l’industria sommavano rispettivamente solo circa 76 milioni e 372 milioni di euro.

Inoltre il lavoro palestinese in Israele, che nel 1987 raggiunse più del 40% della forza lavoro palestinese totale, nell’economia palestinese ha avuto un duplice impatto sulla crisi dei settori produttivi e la crescita delle attività legate al commercio. In primo luogo, mentre questi lavoratori palestinesi migranti venivano pagati il 50% in meno dei lavoratori israeliani, i loro stipendi erano comunque più alti della media di quelli palestinesi nell’economia interna. Ciò ha attirato lavoratori per il mercato israeliano e fatto salire artificialmente i salari palestinesi all’interno, accrescendo i costi per i produttori palestinesi. In secondo luogo, il lavoro in Israele ha creato quello che l’UNCTAD [Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo, ndtr.] definisce la “differenza tra produzione interna e reddito.”

In altre parole, il reddito dei lavoratori palestinesi in Israele creò un potere d’acquisto notevolmente superiore a quello dei settori produttivi interni. Il reddito addizionale si rivolse all’edilizia o a un sempre maggiore livello di importazioni, e quest’ultimo portò a un livello di deficit commerciale senza precedenti.

Da quanto detto risulta chiaro che il commercio interno è il principale settore che contribuisce alla produzione, all’occupazione e al debito personale nell’economia palestinese. Ciò significa un grave colpo per i settori produttivi palestinesi. La comprensione di come si sia determinata questa situazione richiede un esame della storia economica della Palestina che riguarda le distorsioni strutturali create dall’occupazione israeliana e il rapporto di dipendenza determinato dalle politiche economiche colonialiste di Israele da quando ha occupato la Palestina nel 1967.

Dipendenza e commercio nel contesto israelo-palestinese

Gli studiosi latinoamericani sono stati i primi a proporre la teoria della dipendenza. La specifica osservazione che hanno fatto è che le risorse, comprese le risorse umane, naturali ed altri beni primari sono state esportate dai Paesi periferici dal Sud Globale ai Paesi centrali nel Nord Globale, mentre i prodotti finiti si sono spostati nella direzione opposta. In seguito a ciò non solo la maggior parte della produzione di valore aggiunto avviene nel centro, ma anche la struttura economica della periferia è stata trasformata per soddisfare le esigenze del centro invece che del proprio sviluppo a lungo termine.

La dipendenza ha chiuso le economie della periferia in un ciclo di sviluppo rachitico per cui sono state incapaci di sviluppare una forte base produttiva, il loro deficit commerciale è andato alle stelle e sono rimaste dipendenti dal lavoro e dai mercati delle economie del centro. In termini marxisti, il centro fa uso dell’“esercito industriale di riserva” della periferia per garantire prezzi bassi della produzione ed ha aperto i mercati della periferia alle proprie merci per garantirsi che non ci siano crisi di “sovraproduzione”, con le imprese che non riescono a vendere i propri beni perché quello che producono supera di molto la domanda esistente.

Con una dipendenza così intesa, la relazione tra le economie palestinese e israeliana dal 1967 offre un esempio da manuale. Da una parte le risorse naturali (come terra, acqua e minerali), prodotti non finiti e risorse umane (lavoro) si sono spostati dalla periferia palestinese all’economia centrale israeliana, mentre i beni finiti si sono spostati dall’economia israeliana a quella palestinese.

Nei primi 20 anni dell’occupazione israeliana il deficit complessivo del commercio estero dell’economia palestinese è cresciuto da 28 a 541 milioni di euro. Oltretutto questo deficit commerciale è stato prevalentemente il risultato degli scambi con Israele, che nei primi 20 anni crebbero da 82 milioni a 1 miliardo 18 milioni di euro. I palestinesi hanno esportato in Israele beni dell’industria leggera e alcuni prodotti agricoli, mentre hanno importato beni di consumo finiti e durevoli, che sono prodotti non di consumo immediato ma che durano per alcuni anni.

Questa tendenza non è cambiata dopo la creazione dell’ANP nel 1994. Al contrario, alimentata dall’aiuto internazionale e dalla disponibilità di credito in seguito alla Seconda Intifada, nel 2019 il deficit commerciale ha raggiunto il picco di 4,5 miliardi di euro, con più di metà (il 55%) di questo debito attribuibile al commercio con Israele. Già negli anni ’80 più di due terzi di tutto il commercio palestinese era legato ad Israele. Dalla fondazione dell’ANP, mediamente il commercio palestinese è dipeso da Israele per il 75% delle importazioni e per l’80% delle esportazioni.

Sia importazioni che esportazioni raccontano una storia di dipendenza. In molti casi le importazioni palestinesi da Israele venivano in precedenza prodotte all’interno, compresi vestiti, calzature, bibite, mobili e persino beni per l’edilizia e farmaci. D’altronde le esportazioni raccontano di una accresciuta dipendenza. Dall’inizio dell’occupazione nel 1967 Israele non solo ha sfruttato il lavoro a buon mercato dei migranti palestinesi, ma ha anche sfruttato il lavoro palestinese all’interno della Cisgiordania, di Gaza e di Gerusalemme est, compreso quello femminile.

In pratica gli imprenditori israeliani mandavano tessuti grezzi a imprenditori palestinesi in subappalto che poi avrebbero assunto donne palestinesi pagando loro bassi salari. Il prodotto finale sarebbe tornato agli uomini d’affari israeliani che spesso li avrebbero venduti sui mercati palestinesi. In seguito a ciò, molti dei beni considerati esportazioni palestinesi in Israele erano in realtà prodotti intermedi legati a israeliani e in seguito rivenduti sul mercato palestinese come beni finiti e imballati in modo che i capitalisti israeliani ricavassero guadagni dalla fase finale della catena produttiva. In altre parole, la dipendenza era così stretta che persino le esportazioni non erano l’esito di un prospero settore produttivo, ma un risultato della disparità di potere imposta da Israele all’economia palestinese, con la stragrande maggioranza dei benefici a favore del regime israeliano.

I costi economici dell’occupazione militare israeliana

Le dinamiche fin qui delineate mostrano non solo la stretta dipendenza dei palestinesi dai prodotti e dal mercato del lavoro israeliani, ma spiegano anche come il commercio di beni, soprattutto israeliani, sia progressivamente diventato la principale attività economica in Cisgiordania e a Gaza. Ciò è stato in parte dovuto all’influenza del reddito di lavoratori [palestinesi, ndtr.] in Israele e delle rimesse dei palestinesi che lavorano nei Paesi del Golfo, e in parte all’indebolimento dei settori produttivi.

Tuttavia non sono state solo queste dinamiche sotterranee di dipendenza che hanno potenziato il commercio interno e indebolito i settori produttivi. C’è stato anche un impegno coordinato da parte del regime israeliano a soffocare l’attività economica dei palestinesi, rafforzando nel contempo negozianti e commercianti palestinesi. I tentativi di ridurre il settore produttivo palestinese sono stati documentati da rapporti ufficiali israeliani. Per esempio nel 1991 il rapporto della Commissione Sadan [creata dal ministro della Difesa Moshe Arens per studiare la situazione economica nei territori occupati, ndtr.] affermò: “Nessuna priorità è stata data alla promozione dell’imprenditoria locale e al settore degli affari” e che “le autorità hanno scoraggiato tali iniziative ogni volta che esse entravano in competizione sul mercato israeliano con le imprese israeliane esistenti.”

In effetti alcune delle prime ordinanze militari emanate da Israele erano di natura economica, il cui risultato fu la chiusura di tutte le banche che operavano in Cisgiordania e a Gaza e l’imposizione di una complessa rete di procedure amministrative e restrizioni tuttora in vigore. Queste restrizioni hanno reso praticamente impossibile per i palestinesi avviare un’attività economica o importare nuovi macchinari, anche per l’edilizia. Tra il 2016 e il 2018 le autorità militari israeliane hanno approvato solo il 3% delle licenze edilizie nell’Area C, che comprende più del 60% della Cisgiordania. Oltretutto il blocco imposto contro Gaza dal 2007 ha diminuito la possibilità delle sue imprese ed ha gravemente colpito i settori produttivi, costando in ultima analisi all’economia più di 13 miliardi di euro nel periodo dal 2007 al 2018.

Dal 1967 Israele ha anche controllato il commercio palestinese. Mentre consentiva a qualche prodotto agricolo e dell’industria leggera di entrare nel mercato israeliano, questi beni erano necessari all’industria e al settore della trasformazione di prodotti agricoli come sesamo, tabacco e cotone. Una parte fondamentale della strategia economica di Israele è stata la politica dei “ponti aperti”, che ha consentito movimenti di beni senza restrizioni tra la riva orientale e quella occidentale del fiume Giordano. Ciò è stato usato per “svuotare” il mercato palestinese di certi prodotti palestinesi per far posto a quelli israeliani, che non avrebbero potuto essere esportati nei Paesi arabi a causa del boicottaggio arabo contro Israele.

Gradualmente il commercio all’ingrosso e al dettaglio dei prodotti israeliani ha giocato un ruolo fondamentale nelle attività economiche in Cisgiordania e a Gaza. Dalla sua istituzione nel 1981 l’“Amministrazione civile” dell’esercito israeliano, l’unica istituzione governativa della Cisgiordania e a Gaza fino al 1994 e che mantiene ancora il controllo dell’Area C, ha offerto incentivi e bonus economici a impresari e commercianti palestinesi che accettano di esportare alcuni prodotti. Ciò non solo priva i mercati palestinesi di questi prodotti, ma è stato anche fondamentale per le riserve di denaro estero di Israele, in quanto una delle condizioni di questi incentivi era depositare i pagamenti in dinari giordani nelle banche israeliane. La politica dei “ponti aperti” ha spostato la produzione palestinese dalla soddisfazione delle necessità locali alla produzione di beni ed alla coltivazione di prodotti destinati ai mercati esteri.

Svuotando il mercato palestinese e consentendo il libero movimento dei prodotti israeliani, la politica dei “ponti aperti” ha creato dipendenza sia della produzione che del consumo dai prodotti israeliani e nel contempo ha rafforzato il ruolo del commercio tra i ricchi commercianti capitalisti palestinesi.

Effettivamente i proprietari di grandi imprese economiche e i dirigenti delle camere di commercio nelle città palestinesi hanno fatto fortuna grazie all’occupazione. Alcuni di questi mercanti godono persino di franchigie ed hanno iniziato a commerciare prodotti israeliani. Siccome il loro interesse corrisponde a quello dei commercianti israeliani, e in conseguenza della loro tendenza a ingraziarsi e a negoziare con il regime occupante, essi sono visti come “la prima classe sociale ad essersi legata all’economia israeliana.”

Il dopo Oslo e la continua capitolazione nella formulazione di politiche

I primi 25 anni dell’occupazione israeliana impedirono lo sviluppo dei settori produttivi palestinesi e concentrarono l’attività economica nella compravendita di beni importati, la grande maggioranza dei quali israeliani. Dopo l’istituzione dell’ANP nel 1994 cambiò molto poco nella struttura dell’economia. Accordi firmati, tra cui il Protocollo di Parigi, diedero all’ANP il controllo formale sulle entrate fiscali. Tuttavia l’accordo formalizzò semplicemente la già esistente iniqua unione doganale tra le due economie. Livelli asimmetrici dei prezzi continuarono a danneggiare sia produttori che consumatori palestinesi, dato che obbligarono l’economia palestinese ad operare soggetta ad una struttura israeliana con costi elevati, nonostante la grande disparità dei livelli di reddito tra le due economie.

Cosa più importante, il controllo sui confini, sulle risorse e sul sistema dei permessi nella maggior parte dei terreni agricoli palestinesi – e sui terreni adatti a scopi industriali – rimane nelle mani di Israele. I settori produttivi continuano a ridursi e il commercio interno diventa più importante che mai. L’élite economica palestinese ha anche abbandonato le attività produttive che richiederebbero di opporsi allo status quo, optando invece per investire in servizi, finanza e importazioni. Il potere economico dei capitalisti palestinesi con rapporti nei Paesi del Golfo non dà origine ad attività legate alla produzione. I loro utili sono invece ricavati “da diritti di importazione esclusivi su prodotti israeliani e dal controllo su ampi monopoli.”

I progetti internazionali dopo la Seconda Intifada sono andati nella stessa direzione, compresi il progetto “The Arc” della Rand Corporation [organizzazione no profit USA, ndtr.], il piano di John Kerry [segretario di Stato Usa nell’amministrazione Obama, ndtr.] e del Quartetto [composto da ONU, USA, UE e Russia, ndtr.] nel 2014 e, più di recente, quello di Jared Kushner [genero e consigliere di Trump per il Medio Oriente, ndtr.] del 2019. Mentre questi piani variano quanto al livello di coinvolgimento dei palestinesi e alla sensibilità riguardo alla situazione politica, adottano una versione fondamentalista del mercato in opposizione a un approccio più sfumato riguardo al ruolo del settore pubblico. Per esempio il piano Kushner trasuda ideologia economica conservatrice, come la cosiddetta struttura fiscale a favore dello sviluppo. Si basa anche sui principi della dottrina “legge ed economia” che porta al controllo giudiziario sulla legislazione per dare priorità a un’ideologia economica ortodossa al di sopra di considerazioni di carattere morale e giuridico.

In sintesi, la crescita del commercio interno ha portato a un allontanamento dalla produzione e verso attività che danno meno spazio allo sviluppo ed alla trasformazione dell’economia. Tuttavia, oltre alle tendenze produttive sfavorevoli, ci sono altre preoccupazioni sociali. Le donne sono sottorappresentate in questo segmento della forza lavoro e la preponderanza del commercio interno porta a un impatto redistributivo negativo all’interno della società palestinese.

Una misura della differenza di reddito che ne risulta può essere valutata attraverso l’evoluzione della quota di reddito, che è la quota di entrate totali prodotta dal lavoro rispetto a quello totale generato dal capitale (profitto, rendita e interesse). Mentre non esistono serie ufficiali della quota di reddito, un semplice indicatore si ottiene dividendo il compenso dei dipendenti di un settore per il valore aggiunto lordo, individuando così la distribuzione tra i lavoratori e i capitalisti. Utilizzando questo metodo il commercio interno presenta risultati peggiori rispetto ad altri settori, con una media negli ultimi 10 anni del 15% rispetto alla media del 27% in tutti i settori dell’economia.

Conclusione e suggerimenti su come procedere

Non c’è un suggerimento di politiche uguale per tutti per risolvere le distorsioni strutturali nell’economia palestinese che l’hanno allontanata dai settori produttivi. Tuttavia la crescita dei settori produttivi dovrebbe essere coltivata in un più ampio contesto di politiche economiche per lo sviluppo. Fadle Naqib, esperto di politica economica della Palestina, riassume le sue tre raccomandazioni per il settore economico in questo modo: rivitalizzare il settore agricolo, espandere il settore manifatturiero e adottare una strategia nazionale per lo sviluppo tecnologico.

Tuttavia andrebbe presa in considerazione anche la situazione politica che impatta sullo sviluppo economico palestinese. In effetti nel 2010 la Banca Mondiale riconobbe che “l’efficacia del sostegno allo sviluppo a lungo termine è pesantemente dipendente dal contesto politico tra israeliani e palestinesi,” e, come tale, dovrebbe ripensare il proprio mandato, ruolo e ambito nelle attività in Cisgiordania e a Gaza.”

Quelle che seguono sono raccomandazioni per le istituzioni finanziarie internazionali, compresi la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale, così come per la comunità internazionale e le organizzazioni umanitarie in generale, per sostenere l’autodeterminazione economica dei palestinesi palestinese:

  • Riconoscere che il rapporto tra le economie palestinese e israeliana ha distrutto ogni sviluppo possibile dell’economia palestinese. Quindi è sbagliato ed assurdo presupporre che le dinamiche che governano il rapporto tra le due economie siano quelle di un mercato libero.

  • Fornire aiuto internazionale diretto per appoggiare gli agricoltori palestinesi nelle zone minacciate di annessione, comprese quelle colpite dalle colonie israeliane e dal Muro.

  • Fare pressione sul regime israeliano per agevolare la concessione di permessi nell’Area C, comprese licenze edilizie per strutture residenziali e produttive.

  • Rafforzare una   elaborazione di politiche palestinesi indipendenti appoggiando centri di ricerca indipendenti e studiosi, sindacati e rappresentanti di gruppi che normalmente sono assenti dal processo decisionale, compresi donne, giovani e rifugiati. Ciò deve essere fatto con un processo trasparente, controllabile e collettivo che comprenda tutti i soggetti interessati.

  • Fare pressione sul governo israeliano per porre fine all’occupazione perché i palestinesi abbiano il controllo sulla loro politica economica.

  • Riconoscere che porre fine all’occupazione israeliana porterà anche il settore privato palestinese a fiorire e prosperare.

Note:

1. Dato ricavato dal sito dell’Autorità Monetaria Palestinese (PMA)

Ibrahim Shikaki

Analista politico di Al-Shabaka, Ibrahim Shikaki è professore associato di economia al Trinity College, Hartford, Connecticut. Ha ottenuto il dottorato presso la New School for Social Research (NSSR) di New York ed è stato docente presso le università NSSR, The International University College di Torino, Birzeit e Al-Quds. È stato anche ricercatore al Palestine Economic Policy Research Institute (MAS) di Ramallah e al Diakonia’s IHL Research Center a Gerusalemme est. I suoi recenti scritti includono un capitolo su politica economica della dipendenza e composizione di classe in Palestina in via di pubblicazione, e un articolo sugli aspetti economici del piano Barhain di Kushner.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)