Il piano di annessione di Israele è la riproposizione della Nakba

David Hearst

15 maggio 2020 – Middle East Eye

Nella sua visione attuale Israele conosce un solo percorso: intensificare il suo dominio su un popolo a cui ha rubato e continua a rubare la terra

Gli anniversari commemorano eventi passati. E sarebbe lecito pensare che un evento accaduto 72 anni fa faccia parte davvero nel passato.

Questo è vero per la maggior parte degli anniversari, tranne che nel caso della Nakba, il “disastro, catastrofe o cataclisma” che segna la ripartizione del Protettorato della Palestina del 1948 e la creazione di Israele.

La Nakba non è un evento passato. Da allora, la spoliazione di terre, case e la creazione di rifugiati è proseguita quasi senza sosta. Non è qualcosa che è successo ai nostri nonni.

Succede o potrebbe succedere a noi in qualsiasi momento della nostra vita.

Un disastro ricorrente

Per i palestinesi la Nakba è un disastro ricorrente. Nel 1948 almeno 750.000 palestinesi furono sfollati dalle loro case. Un numero ulteriore, da 280.000 a 325.000, abbandonarono nel 1967 le loro abitazioni situate nei territori conquistati da Israele.

Da allora, Israele ha escogitato mezzi più sottili per spingere i palestinesi fuori dalle loro case. Uno di questi strumenti è la revoca della residenza. Tra l’inizio dell’occupazione israeliana di Gerusalemme est nel 1967 e la fine del 2016, Israele ha revocato, nella Gerusalemme est occupata, lo status di almeno 14.595 palestinesi.

Altri 140.000 abitanti di Gerusalemme est sono stati “tacitamente trasferiti” dalla città nel 2002, con la costruzione del muro di separazione, attraverso il blocco dell’accesso al resto della città. Quasi 300.000 palestinesi di Gerusalemme est possiedono una residenza permanente rilasciata dal ministero degli interni israeliano.

Due aree sono state tagliate fuori dalla città, sebbene si trovino all’interno dei suoi confini municipali: Kafr ‘Aqab a nord e Shu’fat Refugee Camp a nord-est.

I residenti dei quartieri in queste aree pagano le tasse municipali e di altro genere, ma né le istituzioni comunali di Gerusalemme né quelle governative si occupano di questo territorio o lo considerano sottoposto alla loro responsabilità.

Di conseguenza, queste parti di Gerusalemme est sono diventate terra di nessuno: la città non fornisce servizi comunali di base come la rimozione dei rifiuti, la manutenzione delle strade e l’istruzione, e mancano le aule e le strutture per gli asilo nido.

Gli impianti idrici e fognari non soddisfano i bisogni della popolazione, tuttavia le autorità non fanno nulla per ripararli. Per raggiungere il resto della città, i residenti devono quotidianamente passare sotto le forche caudine dei posti di blocco.

Un altro strumento di esproprio è l’applicazione della Legge sulla Proprietà degli Assenti, che, quando venne approvata, nel 1950, fu concepita come fondamento per poter trasferire le proprietà dei palestinesi allo Stato di Israele.

Il ricorso ad essa a Gerusalemme est venne generalmente evitato fino alla costruzione del muro. Sei anni dopo, fu usata per espropriare il “territorio abbandonato” dai residenti palestinesi di Beit Sahour per la costruzione di 1.000 unità abitative ad Har Homa, a Gerusalemme sud. Ma generalmente il suo scopo è quello di fornire uno stratagemma per un”espropriazione strisciante”.

Una Nakba in tempo reale

Il fulcro della campagna elettorale del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e il fine giuridico essenziale dell’attuale coalizione di governo israeliana costituirebbero un altro capitolo, nel 2020, dell’ espropriazione nei confronti dei palestinesi. Tali sono i piani per annettere un terzo – o peggio due terzi – della Cisgiordania.

Tre scenari sono attualmente in discussione: il piano radicale dell’annessione della Valle del Giordano e di tutto ciò che gli Accordi di Oslo definiscono Area C. Questa costituisce circa il 61 % del territorio della Cisgiordania che è amministrato direttamente da Israele e ospita 300.000 palestinesi.

Il secondo scenario è rappresentato dall’annessione della sola Valle del Giordano. Secondo i sondaggi israeliani e palestinesi condotti nel 2017 e nel 2018, c’erano 8.100 coloni e 53.000 palestinesi che vivevano in questa terra. Israele ha diviso questo territorio in due entità: la valle del Giordano e il Consiglio Regionale di Megillot-Mar Morto.

Il terzo scenario consiste nell’annessione delle colonie intorno a Gerusalemme, la cosiddetta area E1, che comprende Gush Etsion e Maale Adumin [insediamenti coloniali israeliani situati rispettivamente a Sud e a Est di Gerusalemme, ndtr.]. In entrambi i casi i palestinesi che vivono nei villaggi vicini a questi insediamenti sono minacciati di espulsione o trasferimento. Ci sono 2.600 palestinesi che vivono nel villaggio di Walaja e in parti di Beit Jala che sarebbero coinvolti nell’annessione di Gush Etsion, nonché 2.000-3.000 beduini che vivono in 11 comunità intorno a Maale Adumin, come Khan al-Ahmar.

Cosa succederebbe ai palestinesi che vivono nei territori annessi da Israele?

In teoria potrebbe venire loro offerta la residenza, come nel caso dell’annessione di Gerusalemme est. In pratica, la residenza sarebbe offerta solo a pochi eletti. Israele non vorrà risolvere un problema creandone un altro.

La maggior parte della popolazione palestinese delle aree annesse sarebbe trasferita nella grande città più vicina, come è accaduto per i beduini del Negev e gli abitanti di Gerusalemme est, che si ritrovano in aree isolate dal resto della città.

Il monito dei generali

Questi piani hanno generato reazioni di allarme nei responsabili della sicurezza di Israele, che sono abituati ad essere ascoltati, ma che ora esercitano una minore influenza rispetto al passato sui processi decisionali.

Ciò non è dovuto al fatto che gli ex generali abbiano alcuna obiezione morale riguardo l’espropriazione delle terre palestinesi o perché ritengano che i palestinesi abbiano un diritto legale ad esse. No, le loro obiezioni si basano sull’eventualità che l’annessione possa mettere in pericolo la sicurezza di Israele.

Un interessante riassunto del loro pensiero è fornito da un documento accessibile pubblicato anonimamente dall’Institute for Policy and Strategy (IPS) di Herzliya [Centro di studi internazionale e interdisciplinare privato situato nel distretto di Tel Aviv, ndtr.]. Essi affermano che l’annessione destabilizzerebbe il confine orientale di Israele, che è “caratterizzato da grande stabilità e da un grado molto basso di attività terroristiche” e che provocherebbe una “scossa profonda” alle relazioni di Israele con la Giordania.

“Per il regime hascemita, l’annessione è sinonimo dell’idea di una patria alternativa per i palestinesi, vale a dire la distruzione del regno hascemita a favore di uno stato palestinese.

“Per la Giordania – afferma il documento dell’ IPS – una tale mossa costituirebbe una violazione materiale dell’accordo di pace tra i due paesi. In queste circostanze, la Giordania potrebbe violare l’accordo di pace. Accanto a ciò, potrebbe esserci una minaccia strategica alla sua stabilità interna, a causa di possibili inquietudini tra i palestinesi, in combinazione con le gravi difficoltà economiche che la Giordania sta affrontando “

Ciò costituirebbe per la Giordania solo il primo dei problemi legati all’annessione. Anche un’opzione minimalista di annettere la E1 – l’area adiacente a Gerusalemme – separerebbe Gerusalemme est dal resto della Cisgiordania, mettendo a rischio la custodia da parte della Giordania dei siti sacri islamici e cristiani di Gerusalemme.

L’annessione, sostiene l’IPS, porterebbe anche alla “graduale disintegrazione” dell’Autorità Nazionale Palestinese.

Ancora una volta, non c’è nessuno spirito di bontà qui. Ciò che preoccupa gli analisti israeliani è l’onere che graverebbe sull’esercito. “L’efficacia della cooperazione con Israele in materia di sicurezza si deteriorerà e si indebolirà, e chi la sostituirà? l’IDF [forze di difesa israeliane, ndtr]! Costringendo ingenti forze ad occuparsi del contrasto delle rivolte e delle violazioni dell’ordine e del mantenimento del sistema organizzativo sui palestinesi”.

I responsabili della sicurezza continuano affermando che l’annessione potrebbe innescare un’altra intifada e rafforzare l’idea di una soluzione di un solo Stato “che sta già acquisendo una presa crescente nella comunità palestinese”.

Il fattore saudita

Nell’ambito più esteso del mondo arabo, il documento rileva che Israele perderebbe molte delle alleanze che ritiene di aver realizzato in Arabia Saudita, negli Emirati Arabi Uniti e in Oman e, sul piano internazionale, determinerebbe uno sviluppo della campagna sul Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni.

Il ruolo dell’Arabia Saudita nel domare le fiamme della reazione araba al piano di annessione di Netanyahu è stato recentemente menzionato specificamente negli ambienti della sicurezza israeliani. Il sostegno saudita a qualsiasi forma di annessione è stato ritenuto cruciale.

Come al solito, il regime del principe ereditario Mohammed bin Salman ha cercato di attenuare l’ostilità saudita nei confronti di Israele attraverso i media e in particolare le serie televisive. Una serie dal titolo Exit 7 prodotta dalla MBC TV dell’Arabia Saudita recentemente conteneva una scena con due attori che discutevano del processo di normalizzazione con Israele.

“L’Arabia Saudita – afferma uno dei personaggi – non ha ottenuto nulla quando sosteneva i palestinesi e ora deve stabilire relazioni con Israele … Il vero nemico è colui che ti maledice, rinnega i tuoi sacrifici e il tuo sostegno e ti maledice giorno e notte più degli israeliani”.

La scena ha provocato una reazione sui social media e infine una piena dichiarazione di sostegno alla causa palestinese da parte del ministro degli Esteri degli Emirati.

Il tentativo ha dimostrato i limiti del controllo sulle menti da parte dello Stato saudita, che sarà ulteriormente indebolito dal calo del prezzo del petrolio e dall’avvento dell’austerità nel mondo arabo.

Il futuro re saudita non sarà più in grado di risolvere i suoi problemi.

Il Comitato

Vale la pena ripetere ancora una volta che il motivo alla base dell’elenco degli effetti destabilizzanti dell’annessione non è una qualche inquietudine inerente alla perdita della proprietà o dei diritti. La preoccupazione centrale dei responsabili della sicurezza deriva dalla possibilità che le frontiere esistenti di Israele possano essere messe in pericolo a causa della voglia di strafare.

Per ragioni analoghe, un certo numero di giornalisti israeliani ha previsto che l’annessione non avverrà mai.

Potrebbero avere ragione. Il pragmatismo potrebbe avere la meglio. Oppure potrebbero sottovalutare la parte che svolgono nei calcoli di Netanyahu il fondamentalismo religioso nazionalista, David Friedman, ambasciatore degli Stati Uniti e il miliardario statunitense Sheldon Adelson, i tre architetti dell’attuale politica.

Mentre il ruolo degli Stati Uniti come “l’onesto mediatore” nel conflitto è stato a lungo messo in scena come una finzione, questa è la prima volta che io ricordi che un ambasciatore USA e un importante finanziatore americano fanno sì che i coloni siano più zelanti dello stesso primo ministro del Likud.

Friedman è presidente del comitato congiunto USA-Israele sull’annessione delle colonie, che dovrebbe determinare i confini di Israele dopo l’annessione. Questo comitato è insignificante sul piano internazionale, poiché non rappresenta nessun’altra parte in conflitto, senza poi parlare dei palestinesi, i cui leader hanno boicottato il processo.

Due fonti separate del comitato congiunto hanno dichiarato a Middle East Eye che esso si sta orientando verso l’espansione, una volta per tutte, di Israele in Cisgiordania, e non in modo graduale. Una fonte ha detto che riguarderà l’intera area C – in altre parole l’opzione radicale.

Ancora una volta potrebbero sbagliarsi. Entrambi sostengono che l’annessione perseguita seguirà i tratti dell’ “Accordo del Secolo” di Donald Trump, che riduce l’attuale 22 % della Palestina storica a un gruppo di bantustan sparsi per il Grande Israele.

Il culmine

La Nakba, che oggi compie 72 anni, continua a vivere e a respirare veleno. La Nakba non riguarda solo i rifugiati originari ma i loro discendenti – oggi circa cinque milioni di loro sono idonei a ricevere i servizi dell’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e l’Occupazione dei rifugiati palestinesi (UNWRA).

La decisione di Trump di interrompere il finanziamento dell’UNWRA e l’insistenza di Israele sul fatto che solo i sopravvissuti originari del 1948 dovrebbero essere riconosciuti [rifugiati palestinesi, ndtr.], hanno scatenato una campagna internazionale con cui i palestinesi sottoscrivono una dichiarazione in cui rifiutano di rinunciare al loro diritto al ritorno.

La dichiarazione afferma: “Il mio diritto al ritorno in patria è un diritto inalienabile, individuale e collettivo, garantito dalle leggi internazionali. I rifugiati palestinesi non cederanno mai ai progetti su “una patria alternativa”. Qualsiasi iniziativa che colpisca le basi intrinseche del diritto al ritorno e lo annulli è illegittima e inefficace e non mi rappresenta in alcun modo”.

Significativamente è stata diffusa dalla Giordania, un altro segno che gli animi si stanno lì accendendo.

La valutazione da parte della sicurezza israeliana, secondo cui la soluzione dei due stati è morta nelle menti della maggioranza dei palestinesi, è sicuramente corretta. La maggior parte dei palestinesi vede l’annessione come il culmine del progetto sionista per stabilire uno stato a maggioranza ebraica e la conferma della loro convinzione che l’unico modo in cui questo conflitto finirà è nella sua dissoluzione.

Ma per lo stesso motivo, i piani di annessione in discussione dovrebbero costituire una prova per la comunità internazionale, se ne fosse necessaria una, che Israele, tanto lontano dall’essere un Paese che viva nella paura e sotto attacco permanente da parte di oppositori irrazionali e violenti, sia uno Stato che non può condividere il territorio con i palestinesi, e tanto meno tollerare l’autodeterminazione dei palestinesi in uno Stato indipendente.

Nella sua attuale visione, Israele conosce un solo percorso: approfondire il suo dominio su un popolo del quale ha rubato e continua a rubare la terra.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

David Hearst

David Hearst è caporedattore di Middle East Eye. Ha lasciato The Guardian come capo redattore esteri. Nel corso di 29 anni di carriera ha scritto sulla bomba di Brighton [attentato dell’IRA contro la Thatcher il 12 ottobre 1984 con l’uccisione di 5 membri del Partito Conservatore, ndtr.], sullo sciopero dei minatori, sul contraccolpo lealista sulla scia dell’accordo anglo-irlandese nell’Irlanda del Nord, sui primi conflitti, dopo la dissoluzione dell’ex Jugoslavia, in Slovenia e Croazia, sul crollo dell’Unione Sovietica, sulla Cecenia, e sui conseguenti molteplici conflitti. Ha descritto il declino morale e fisico di Boris Eltsin e le condizioni che hanno creato l’ascesa di Putin. Dopo l’Irlanda, è stato nominato corrispondente dall’Europa per la sezione europea del Guardian, poi è entrato a far parte dell’ufficio di Mosca nel 1992, prima di diventare direttore di redazione nel 1994. Ha lasciato la Russia nel 1997 per entrare nell’ufficio esteri, è diventato direttore per l’Europa e quindi direttore associato per gli esteri. E’ passato a The Guardian da The Scotsman, dove ha lavorato come corrispondente per il settore istruzione.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Settant’anni dopo i palestinesi sfollati interni aspettano ancora di ritornare a casa

Orly Noy

15 maggio 2020 – +972Magazine

Muhammad Kayal è uno delle centinaia di migliaia di cittadini palestinesi in Israele che, 72 anni dopo la Nakba, restano rifugiati all’interno del Paese e a cui Israele non permette di ritornare a quelle che erano le loro terre, ora spesso abbandonate.

Le restrizioni imposte dalla pandemia da coronavirus e il divieto di assembramenti quest’anno hanno attutito, in un certo modo, la tensione emotiva, simbolica e fisica in occasione della Festa dell’Indipendenza/ Giornata della Nakba.

Ogni anno Israele si compiace nell’autocelebrazione con massicci sorvoli dell’aeronautica e fuochi di artificio, ignorando con tutte le sue forze il fatto che questo per i palestinesi è il giorno della catastrofe. Ogni volta gli israeliani restano sorpresi del fatto che né il passare del tempo né le leggi draconiane sono riusciti a cancellare il disastro o a estirparne il ricordo fra i palestinesi.

Non è chiaro quanto gli israeliani siano consapevoli del fatto che persino mentre ogni anno loro stanno celebrando il Giorno dell’indipendenza nei parchi in tutto il paese i cittadini palestinesi tengono annualmente marce del ritorno verso le diverse comunità da cui i loro anziani furono espulsi nel 1948 e a cui non sono mai più potuti tornare.

Sebbene la data ufficiale che segna la Giornata della Nakba sia il 15 maggio, le marce del ritorno si svolgono tradizionalmente durante la Festa dell’Indipendenza di Israele (che cambia in base al calendario ebraico). La pandemia ha spostato su Zoom le commemorazioni, che includono altre attività organizzate dal

, con una minore partecipazione rispetto agli anni scorsi.

Quando il tema del ritorno appare nei discorsi israeliani, essi tendono a focalizzarsi sul ritorno dei rifugiati palestinesi che al momento vivono fuori dai confini del Paese. Eppure il Comitato stima che fra i cittadini di Israele ci siano circa 400.000 sfollati interni (IDPs).

Muhammad Kayal, consigliere ed ex direttore del Comitato, è un giornalista e traduttore la cui famiglia fu espulsa da al-Birwa, vicino a San Giovanni d’Acri, nel nord del Paese. Kayal lo chiama orgogliosamente “il villaggio di Mahmoud Darwish,” il defunto poeta palestinese. Oggi vive a Jedeidi-Makr, a circa due chilometri da al-Birwa, dove ora ci sono un kibbutz e un insediamento agricolo.

Cosa rispondi quando la gente ti chiede da dove vieni?

Dico che sono di al-Birwa e che vivo a Jedeidi. Mio padre ha detto per tutta la sua vita: ‘Sono di al-Birwa’, anche se ha abitato a Jedeidi per circa 60 anni. Quando parlava della ‘gente del nostro villaggio,’ si riferiva ad al-Birwa”.

I discendenti degli abitanti originari si tengono in contatto? Conosci altri che fanno parte di quella comunità, che condividono la tua identità?

Sicuro, siamo in contatto costante. Ogni anno per la Festa dell’Indipendenza, o, per meglio dire, la giornata della Nakba, gli abitanti originari di al-Birwa e ora residenti in tutto il Paese si incontrano sui terreni del villaggio. Quando ci sono delle celebrazioni e nelle giornate di lutto invitiamo centinaia di espulsi e loro discendenti, in migliaia vengono al paese per trovare conforto.”

Come instillate questo senso di appartenenza nelle generazioni dei più giovani? Se tuo padre ha detto fino al giorno della sua morte che era di al-Birwa e tu dici che sei di al-Birwa e Jedeidi, cosa diranno le future generazioni?

Nella giornata della Nakba durante le marce del ritorno portiamo bambini e giovani al villaggio. Organizziamo per i giovani delle visite ai paesini spopolati, stampiano t-shirt con la scritta ‘Sono di al-Birwa’ in arabo e abbiamo un gruppo attivo su Facebook per i discendenti degli espulsi.

Promuoviamo anche la poesia nazionale come quella di Mahmoud Darwish e progetti come ‘Udna’ (che in arabo significa “siamo ritornati”, un progetto congiunto del Comitato, della ONG israeliana Zochrot, che si focalizza sulla Nakba, e altri, nda). Va avanti da tre anni e porta i giovani ai villaggi spopolati, con molte conferenze e produzione di materiali scritti.

Ci sono anche film che trattano il tema. Abbiamo un progetto speciale, ‘Il cammino del ritorno delle donne’, rivolto a centinaia di donne di diverse comunità che partecipano a visite, conferenze e film sui villaggi, che includono molte attività mirate alle giovani.”

Ti sembra che stia funzionando? Che questo senso di appartenenza si stia diffondendo fra le generazioni dei più giovani?

Sai, è come per tutte le cose: ci sono quelli più coinvolti e attivi e quelli meno. Ma se prendi come esempio le marce, più del 70% dei partecipanti sono giovani di seconda, terza e quarta generazione dalla Nakba.”

Il compito principale del Comitato è la conservazione della memoria e la creazione della consapevolezza. Evitate intenzionalmente le attività politiche concrete che mirano a ottenere il diritto al ritorno di rifugiati e sfollati interni?

Noi ci coordiniamo con l’High Follow-Up Commitee [Alto Comitato per il Seguimento, ndtr.], che include i partiti arabi, per esempio quando organizziamo le marce annuali. Tutti i movimenti politici vi partecipano.”

C’è l’impressione che la Lista Unita vada cauta sul conflitto sollevato da questo tema. Il ritorno di rifugiati e IDPs non è ai primi posti nei programmi.

Durante la campagna elettorale ho sollevato precisamente questo problema con un gruppo di attivisti della Lista Unita. Loro hanno detto che se ne è parlato nelle pubblicazioni della Lista Unita rivolte alla società araba. Ma per noi non è abbastanza. Sia l’Autorità Nazionale Palestinese che la Lista Unita sottovalutano il tema e non mettono in evidenza la Nakba e il diritto al ritorno, per concentrarsi invece su altre questioni. Eppure parlarne è esattamente quello che farebbe ottenere loro un maggiore sostegno nella società araba.

È vero che questo è un dibattito impopolare nella società ebraica. Loro cercano di insabbiare e minimizzare, eppure eccoci qua: Benny Gantz non voleva la Lista Unita. Persino l’Autorità Nazionale Palestinese parla della fine dell’occupazione e del blocco agli insediamenti, ma non si preoccupa del diritto al ritorno. Così tutto è nelle mani di Abu Mazen (il presidente palestinese Mahmoud Abbas) e della Lista Unita. Tutto ciò mentre ci sono decine di marce del ritorno a Gaza.

È anche importante sottolineare che la Nakba non si è conclusa, ma continua, con demolizioni di case, espropri di terreni, politiche di espulsione, la legge dello Stato Nazione (ebraico). Fino ad oggi non un solo rifugiato è potuto ritornare al villaggio da cui era stato espulso.”

Le marce annuali di solito si dirigono verso zone remote e non c’è stata una marcia di massa, per esempio, su Manshiyyeh o Sheikh Muwannis [quartieri palestinesi distrutti che ora si trovano rispettivamente a sud e a nord di Tel Aviv]. Si teme che queste marce diventino il luogo di uno scontro diretto con l’establishment israeliano?

Nel 1948 sono stati spopolati 531 villaggi e 11 città, per esempio San Giovanni d’Acri, Haifa, Yaffa, Be’er Sheva e altre. Fino ad ora ci sono state 22 marce e quest’anno il coronavirus ne ha impedito lo svolgimento. In passato abbiamo organizzato una marcia a Wadi Zubala nel Naqab e nelle zone intorno a Tiberiade, San Giovanni d’Acri e Haifa. Ci sono molti posti in cui non siamo ancora andati. Stiamo decisamente considerando l’idea di organizzarne in una delle grandi città.

In tutta sincerità, il Comitato e i suoi amministratori sono rappresentanti dei villaggi e delle città spopolate e non tutti la pensano allo stesso modo. Alcuni sono più cauti, altri meno. Alcuni si battono per i propri diritti, in questo caso il diritto di protestare e sollevare il dibattito sui IDPs, mentre altri preferiscono organizzare le marce in zone dove gli scontri sono meno probabili.

Cinque anni fa abbiamo tenuto un incontro ad Haifa e per noi è stato importante che i rappresentanti della zona fossero preparati a tenere là una marcia. Ma poi ci sono state le elezioni e la gente ha detto che voleva concentrarsi su quello. Non stiamo dicendo di no, al contrario siamo assolutamente intenzionati a fare una delle prossime in una delle grandi città da cui i palestinesi sono stati espulsi.”

Durante tutta la nostra conversazione, Kayal ha frequentemente menzionato i rifugiati palestinesi della diaspora e il loro diritto al ritorno. Mi chiedo cosa sia più difficile: desiderare ardentemente la propria terra da lontano, dall’esilio fuori dai confini del Paese, o da una casa le cui finestre quasi si affacciano sui terreni a cui ti è proibito tornare.

Ancora oggi, alcuni degli anziani di al-Birwa sanno indicare esattamente il pezzo di terra che apparteneva loro,” dice Kayal. “Dobbiamo tenerlo bene in mente. Un piccolo kibbutz occupa un’area gigantesca, mentre a Jedeidi la gente vive in condizioni di sovraffollamento. Quindi è ovvio che vogliono ritornare, che rivogliono la loro terra.”

Quando parli di ritornare ad al-Birwa intendi dire che vorresti vivere accanto al kibbutz e all’insediamento agricolo o al loro posto? Quando si parla del ritorno molti ebrei fanno proprio questa domanda.

Nella vasta maggioranza dei casi, le zone costruite dei villaggi originari sono ora terre abbandonate. È così per esempio a Iqrit e Bir’im e in molti altri posti, eppure la gente non può ritornarci. Noi non ignoriamo la realtà presente, ma crediamo che ristabilire il diritto al ritorno sia possibile. L’ostacolo è rappresentato dal pensiero ideologico e politico sionista.

Noi facciamo visite dal Naqab all’Alta Galilea. Per la maggior parte dei territori vuoti è stato dichiarato che il proprietario non esiste, anche se i proprietari ci sono e sono cittadini dello Stato che li ha cacciati. È una decisione politica basata su un’ideologia razzista.”

Quest’articolo è apparso la prima volta in ebraico su Local Call [edizione in ebraico di +972, ndtr.].

Orly Noy è una redattrice di Local Call, un’attivista politica e una traduttrice di poesia e prosa in farsi. Fa parte del consiglio di amministrazione di B’Tselem [ong israeliana per la difesa dei diritti umani, ndtr.] ed è un’attivista del partito politico Balad [partito ebreo e palestinese che fa parte della Lista Unita, ndtr.]. Nei suoi scritti parla delle linee che intersecano e definiscono la sua identità di ebrea mizrahi [cioè originaria di un Paese musulmano, ndtr.], di donna di sinistra, di donna, una migrante temporanea che vive dentro un’immigrata perpetua e del dialogo costante fra entrambe.

(Traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




David Friedman a proposito di “quando i palestinesi diventeranno canadesi”

JONATHAN OFIR 

11 maggio 2020 – Mondoweiss

Due giorni fa sul quotidiano gratuito Israel Hayom [giornale israeliano di estrema destra, ndtr.], finanziato da Sheldon Adelson [miliardario statunitense finanziatore di Trump e delle colonie israeliane, ndtr.], organo della propaganda di Netanyahu noto in ebraico anche come “Bibiton” (“Bibi” per Benjamin, “iton” che significa carta in ebraico) è apparsa un’intervista con l’ambasciatore degli Stati Uniti in Israele David Friedman.

L’intervista è un potente strizzata d’occhio a Israele perché prosegua con l’annessione di un terzo della Cisgiordania, una importante prospettiva aperta dall’“accordo del secolo” di Trump e un progetto alla base del nuovo accordo Netanyahu-Gantz per il governo di unità. L’annessione dovrebbe iniziare il 1° luglio.

“Stiamo dialogando, e tutti concordano che a luglio la gente che sta dalla parte degli israeliani vuole essere pronta il 1° luglio a procedere”, afferma Friedman. “Non siamo noi che stiamo dichiarando la sovranità – il governo di Israele deve dichiararla. E allora saremo pronti a riconoscerla in base a quello. Come ha affermato il segretario di Stato, è in primo luogo una decisione di Israele. Quindi, dovete procedere voi per primi.”

Dobbiamo ricordare che chi parla così è un patrono delle colonie ebraiche. Friedman ha curato una delle maggiori raccolte di fondi per la colonia di Beit El, costruita interamente su proprietà privata palestinese rubata. Come Jared Kushner, che con il patrimonio familiare ha finanziato gli insediamenti dei coloni religiosi più fondamentalisti (come la yeshiva [scuola religiosa, ndtr.] Od Yosef Chai a Yitzhar), il fatto che Friedman qui finga “imparzialità” è assolutamente ridicolo.

Il suo “non siamo noi che stiamo dichiarando la sovranità” è un clamoroso falso, in quanto non spetta comunque agli Stati Uniti farlo, e quindi non è che quella frase esprima in realtà alcun tipo di ripensamento. In pratica sta dicendo “andate avanti e noi vi seguiremo”. La cosa si aggiunge poi ai recenti riconoscimenti statunitensi delle annessioni unilaterali israeliane, prima di Gerusalemme est (con lo spostamento dell’ambasciata) e poi delle alture siriane occupate del Jolan (Golan). È quasi come se Friedman stesse pregando Israele: “Fallo, siamo proprio qui per metterci il timbro d’approvazione”. E Friedman sa che non ha davvero bisogno di pregare molto.

Ma, come per gli accordi di Oslo (anche se Rabin aveva assicurato che sarebbe finita sicuramente con “meno di uno Stato [palestinese]”), qualcuno a destra si preoccupa che questo “accordo del secolo” possa in qualche modo tradursi in una qualche specie di Stato palestinese, fosse anche solo uno Stato-bantustan a tutti gli effetti e scopi pratici.

E qui arriva la potente strizzata d’occhio razzista di Friedman:

“Li capisco, ma [stiamo dicendo] che non dovete convivere con quello Stato palestinese, dovrete convivere con uno Stato palestinese quando i palestinesi diventeranno canadesi. E quando i palestinesi diventeranno canadesi, tutti i vostri problemi saranno scomparsi.

Questo a molti può sembrare un linguaggio mistico – invece è un linguaggio chiaramente codificato per coloro a cui Friedman si rivolge. In pratica sta dicendo “Non preoccupatevi, comunque non succederà mai”, perché i palestinesi non diventeranno mai canadesi.

E le sue espressioni fanno chiaramente eco a quelle di un ex consigliere capo del primo ministro israeliano Ariel Sharon, Dov Weissglas, che nel 2004 cercava di sopire la preoccupazione che l’imminente piano di “disimpegno” da Gaza del 2005 potesse in qualche modo dare come risultato uno Stato palestinese.

Weissglas diceva:

Ciò su cui sono totalmente d’accordo con gli americani è che una parte degli accordi non sarebbe stata per niente concordata [con i palestinesi, ndtr.], e che non ci saremo occupati neppure del resto fino a quando i palestinesi non diventeranno finlandesi. Questo è il senso di ciò che abbiamo fatto.” (sottolineatura mia).

Vale la pena di leggere una sezione più ampia dell’intervista di Weissglas ad Haaretz nel 2004, per scoprire la logica complessiva:

Il significato del piano di disimpegno è il congelamento del processo di pace. E congelando quel processo si impedisce la creazione di uno Stato palestinese e si impedisce una discussione sui rifugiati, i confini e Gerusalemme. In effetti, l’intero pacchetto chiamato Stato palestinese, con tutto ciò che comporta, è stato rimosso a tempo indefinito dalla nostra agenda. E tutto questo con autorevolezza e con il nulla osta. Tutto con la benedizione del presidente e la ratifica di entrambe le aule del Congresso. […] Questo è esattamente ciò che è successo. Infine, il termine “processo di pace” è un insieme di concetti e impegni. Il processo di pace è l’istituzione di uno Stato palestinese con tutti i rischi per la sicurezza che questo comporta. Il processo di pace è l’evacuazione delle colonie, è il ritorno dei rifugiati, è la divisione di Gerusalemme. E tutto questo è stato ora congelato … Ciò su cui sono totalmente d’accordo con gli americani è che una parte degli accordi non sarebbe stata per niente concordata [con i palestinesi, ndtr.], e che non ci saremmo occupati neppure del resto fino a quando i palestinesi non diventeranno finlandesi. Questo è il senso di ciò che abbiamo fatto.

È una logica molto simile a quella di Friedman. Il piano ha lo scopo di congelare le cose. C’è apparentemente anche un congelamento parziale, per un periodo di 4 anni, della costruzione di colonie su metà dell’ “Area C”, poiché questa area è potenzialmente assegnata, secondo il piano Trump, ad una “espansione” delle aree palestinesi A e B. Secondo gli accordi interinali di Oslo, l’area C, che comprende oltre il 60% della Cisgiordania, avrebbe dovuto essere temporaneamente sotto il pieno controllo israeliano per un periodo di cinque anni, durante i quali si sarebbero dovuti iniziare i negoziati sullo status finale. In realtà, Oslo ha permesso a Israele di congelare l’area C e di farne una grande arena di pulizia etnica. L’area A (con i principali centri abitati) era prevista sotto il pieno controllo palestinese e l’area B con un controllo condiviso tramite il coordinamento dell’Autorità Nazionale Palestinese con l’esercito israeliano.

Friedman spiega la diversa logica dell’annessione dell’area C:

“Esistono tre categorie di territorio nell’area C: quella popolata da comunità ebraiche e la sovranità territoriale consente a queste comunità di crescere in maniera significativa. Questa è la maggioranza – diciamo un 97% della popolazione – e in quelle aree non ci sono restrizioni alla crescita. Ad esempio, Ariel diventerà uguale a Tel Aviv (non ci saranno restrizioni). E questa è la prima categoria. Una seconda categoria è rappresentata dalla metà dell’area C riservata ai palestinesi (da destinare a uno Stato palestinese durante i quattro anni concessi), e non vi è prevista alcuna costruzione, né israeliana né palestinese. Poi c’è una terza categoria, e sono le “enclavi” o “bolle”. Questo è un 3%, sono comunità ebraiche lontane. Quindi, ciò che accade a quelle comunità è che Israele dichiara la propria sovranità su di loro, ma non si espandono, possono ingrandirsi ma non possono espandersi. Per quanto riguarda la stragrande maggioranza delle colonie, le regole sarebbero quelle stesse che vigono allinterno della Linea Verde (linea del cessate il fuoco di Israele del 1949). ”

A Friedman viene chiesto “Quando inizia il conto alla rovescia dei quattro anni?” e lui risponde: “Il giorno in cui Israele inizia a far valere la propria sovranità e dichiara il blocco delle costruzioni nelle aree concordate dell’area C.”

Friedman afferma che non ci sono ulteriori termini o condizioni, ma l’intervistatore Ariel Kahana lo sfida: “Qualcun altro ha detto che c’è una nuova condizione dell’impegno israeliano ad accettare la creazione di uno Stato palestinese”.

Friedman dà una risposta di basso profilo, che placa gli espansionisti israeliani, i quali sanno cosa significhi veramente “processo di pace” – in pratica, niente, apparentemente in “buona fede”:

In proposito la condizione è che il primo ministro [israeliano] accetti di negoziare con i palestinesi e li inviti a un incontro, si impegni nelle discussioni, e le mantenga aperte e le persegua in buona fede per quattro anni.”

Kahana offre la prevista propaganda a favore di Netanyahu: “In realtà l’ha già fatto.”

E Friedman prende spunto da questo valzer apologetico israeliano:

E deve continuare così. In questo momento, i palestinesi non sono disposti a venire al tavolo, ma se tra due anni tornano e dicono: “Aspetta, abbiamo fatto un errore e siamo disposti a negoziare”, dovrà essere disposto a sedersi e discutere. Ma solo per un tempo limitato, vogliamo mantenere [valida] questa opzione per quattro anni. Questa è l’idea.”

Ecco, non si pensa che accada davvero. Il tutto è congegnato per porre condizioni che garantiscano che il negoziato non abbia mai luogo, ad esempio l’insistenza dal 2009 di Netanyahu sul fatto che i palestinesi non si limitino a riconoscere Israele (cosa che avevano già fatto con gli accordi del 1993), ma lo riconoscano come Stato ebraico. Questa definizione in sostanza richiede ai palestinesi di rendere onore all’essenza della propria espropriazione, sbattendoci la testa dopo aver già riconosciuto Israele più di quanto Gandhi avesse fatto col Pakistan. Solo allora Netanyahu dirà di essere disposto a parlare “senza precondizioni”.

Questa nella terminologia sionista è la “buona fede”. Allo stesso modo, Friedman sta presentando l’immediata annessione di metà dell’Area C come un fatto compiuto, e qualunque cosa ne verrà ai palestinesi, essi dovrebbero esserne persino felici.

Secondo i suoi criteri è anche generoso:

“Abbiamo gettato le basi di un fondo infrastrutturale che crescerebbe notevolmente se i palestinesi arrivassero al tavolo e vi si impegnassero. Abbiamo identificato i cambiamenti che dovrebbero verificarsi all’interno della società e del governo palestinesi affinché il tutto funzioni – non ignoriamo il fatto che i palestinesi continuano a pagare i terroristi e continuano a incitare alla violenza. E’ molto più in là di dove chiunque altro sia arrivato finora.”

Friedman rilancia il solito argomento dell’hasbara [la propaganda israeliana, ndtr.], secondo cui i palestinesi “pagano i terroristi”, poiché l’Autorità Nazionale Palestinese sostiene le famiglie dei palestinesi incarcerati o uccisi da Israele. Che ci possano essere atti che prendono di mira i civili e quindi rientrino probabilmente nella definizione di “terrorismo” è un fatto, ma la definizione di Israele è molto ampia e considera qualsiasi attacco ai soldati armati come “terrorismo”.

Analogamente, Israele imprigiona regolarmente i palestinesi senza alcun processo legale (“Detenzione Amministrativa”) per periodi di 6 mesi rinnovabili e infligge regolarmente punizioni collettive sotto forma di demolizioni di case, revoca di residenza e permessi di lavoro ai familiari ecc., e dunque l’assistenza economica palestinese deve essere vista anche come un rimedio temporaneo all’essere stati presi di mira. Ma la generalizzazione fatta da Friedman ha lo scopo di etichettare i palestinesi come terroristi e sostenitori del terrorismo.

Ed è improbabile che i terroristi diventino canadesi, no?

Friedman si emoziona per il “cuore biblico di Israele”, non importa che sia in Palestina. E parla della sua creatura, Beit El. Tutta quella terra rubata è come la “Statua della Libertà”:

“E poi Hebron, Shiloh, Beit El, Ariel, intendo dire che questi posti non si discutono (non sono da restituire ai palestinesi). Qualcuno metteva persino in discussione Gush [Etzion, prima colonia israeliana nei territori occupati, ndtr.] e Maaleh Adumim [una delle colonie più grandi, nei pressi di Gerusalemme, ndtr.], forsanche un’ amministrazione democratica può averlo ritenuto possibile, ma nessuno ha mai messo in discussione il cuore biblico di Israele. Era in parte perché non capivamo quanto fosse importante per Israele. È impensabile chiedere a Israele di rinunciarvi. È come chiedere agli Stati Uniti di rinunciare alla Statua della Libertà “.

E questo simbolismo è molto importante, è nel “DNA nazionale” del “popolo ebraico”:

“È una piccola cosa [la Statua della Libertà] ma non l’abbandoneremmo mai, è molto importante per noi. O il memoriale di Lincoln, a nessun costo! Perché è il nostro DNA nazionale. E (lo stesso vale per) il popolo ebraico “.

Mai, a nessun costo! Caspita, che fervore religioso! Ma se i palestinesi vogliono solo Gerusalemme Est come capitale? Oh, dai, siate ragionevoli! È soltanto del popolo ebraico! E se i palestinesi dicono che è “molto importante” per loro, se il diritto internazionale dice che Israele non dovrebbe annetterla? Peggio per loro. E se dicono che non si arrenderanno, ” a nessun costo”? Bene, allora sono solo terroristi fondamentalisti, che insensati!

Friedman sta dicendo a Israele: tieni duro, continua con le pantomime per 4 anni, abbiamo fatto questo per te. I palestinesi non si trasformeranno in canadesi in quattro anni. Faremo questo passo, consolideremo un’altra parte della conquista colonialista della Palestina e poi procederemo a prenderne di più. David Friedman non sta consigliando ai palestinesi di emigrare in Canada – sta dicendo loro di andare all’inferno.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




I palestinesi promettono di sfidare l’ordine israeliano sulla questione dei pagamenti ai prigionieri

MEE e agenzie

9 maggio 2020 – Middle East Eye

L’ordine militare israeliano sospenderebbe i sussidi destinati a sostenere i prigionieri e le loro famiglie

Venerdì notte i leader palestinesi hanno promesso di sfidare un ordine militare israeliano che potrebbe sospendere i pagamenti straordinari destinati a sostenere i prigionieri, i loro parenti e le famiglie delle persone uccise durante i disordini.

L’ordine, che dovrebbe entrare in vigore sabato, minaccia multe e carcere per chiunque effettui tali pagamenti e nei giorni scorsi ha sollecitato le banche palestinesi a chiudere i conti dei prigionieri e delle loro famiglie. Israele considera il programma [di sussidi] una ricompensa per la violenza e da tempo cerca di eliminarlo.

Il Times of Israel ha riferito che Ramallah [il governo dell’Autorità Nazionale Palestinese, ndtr.] ha promesso di proseguire i sussidi a circa 11.000 persone e famiglie, descrivendoli come una forma di welfare sociale e di compensazione per ciò che sostiene essere un iniquo sistema di giustizia militare.

I prigionieri e le loro famiglie sono per lo più considerati eroi da molti palestinesi e la chiusura dei conti bancari ha scatenato una furiosa reazione. Due filiali di una banca, la Cairo Amman Bank, sono state attaccate nella notte; una è stata data alle fiamme e l’altra presa a colpi di fucile.

Ci sono 13 banche attive nelle zone della Cisgiordania governate dall’Autorità Nazionale Palestinese. Il Times ha riportato che sette di esse sono di proprietà palestinese, cinque sono giordane e una egiziana.

Secondo l’Associazione dei prigionieri palestinesi, quattro banche hanno iniziato a chiudere i conti.

In un comunicato visionato dalla agenzia Reuters l’esercito israeliano ha affermato che l’ordine militare gli consente di sequestrare le risorse appartenenti a coloro che commettono un crimine contro la sicurezza.

Ma venerdì notte il Primo Ministro palestinese Mohammad Shtayyeh ha detto che le banche hanno accettato di riaprire i conti. “Le famiglie dei prigionieri possono attivare i loro conti bancari a partire da domenica,” ha affermato in una dichiarazione. “Respingiamo le minacce israeliane alle banche riguardo fondi destinati ai prigionieri e ai martiri e non ci piegheremo ad esse.”

Samer Bani Odeh, un cinquantunenne rilasciato nel 2011 dopo aver trascorso 16 anni in un carcere israeliano per appartenenza ad un gruppo armato, ha detto alla Reuters che la Cairo Amman Bank gli aveva comunicato la chiusura del suo conto.

Un dirigente della banca di Nablus ci ha incontrati (un gruppo di prigionieri) e ha detto: ci dispiace, ma dobbiamo chiudere i vostri conti. Questo non dipende da noi,” ha detto Odeh.

L’Associazione delle Banche in Palestina ha difeso la chiusura dei conti in quanto finalizzata a proteggere i beni dei prigionieri dal sequestro e le banche dalla punizione israeliana. Ha invitato l’ANP a trovare un altro modo per effettuare i pagamenti.

L’Autorità Nazionale Palestinese dispone di un limitato autogoverno in alcune parti della Cisgiordania, terra occupata da Israele dalla guerra del 1967 ed in cui vivono circa 3 milioni di palestinesi.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




100 anni di vergogna: l’annessione della Palestina è iniziata a Sanremo

Ramzy Baroud

6 MAGGIO 2020 – Mondoweiss

Cento anni fa, i rappresentanti di poche grandi potenze si incontrarono a Sanremo, una tranquilla cittadina italiana sulla riviera ligure. Insieme, segnarono il destino dei vasti territori sottratti all’Impero ottomano in seguito alla sua sconfitta nella prima guerra mondiale.

Fu il 25 aprile 1920 che la Risoluzione della Conferenza di Sanremo venne approvata dal Consiglio Supremo degli Alleati dopo la prima guerra mondiale. Furono istituiti dei protettorati occidentali in Palestina, Siria e “Mesopotamia” – Iraq. Gli ultimi due furono teoricamente stabiliti in vista di una provvisoria autonomia, mentre la Palestina fu concessa al movimento sionista perché vi realizzasse una patria per gli ebrei.

Si legge nella risoluzione: “Il Protettorato sarà responsabile dell’attuazione della dichiarazione (Balfour), redatta originariamente l’8 novembre 1917 dal governo britannico e condivisa dalle altre potenze alleate, a favore dell’istituzione in Palestina di un focolare nazionale per il popolo ebreo”.

La risoluzione assegnava un maggiore riconoscimento internazionale alla decisione unilaterale della Gran Bretagna, di tre anni prima, di concedere la Palestina alla federazione sionista allo scopo di stabilirvi una patria ebraica, in cambio del sostegno sionista alla Gran Bretagna durante la Grande Guerra.

E, come nella Dichiarazione Balfour britannica, fu fatta sbrigativa menzione degli sfortunati abitanti della Palestina, la cui storica patria veniva ingiustamente confiscata e consegnata ai coloni.

L’istituzione di quello Stato ebraico, sulla base della risoluzione di Sanremo, faceva riferimento ad un vago “accordo” secondo cui “nulla sarà fatto che possa pregiudicare i diritti civili e religiosi delle esistenti comunità non ebraiche in Palestina”.

L’aggiunta di cui sopra fu semplicemente un misero tentativo di apparire politicamente equilibrati, mentre in realtà non venne mai messo in atto alcuno strumento di applicazione per garantire che l’ “accordo” fosse mai rispettato o messo in pratica.

In effetti, si potrebbe sostenere che il lungo coinvolgimento dell’Occidente nella questione israelo-palestinese abbia seguito lo stesso schema della risoluzione di Sanremo: per cui al movimento sionista (e quindi a Israele) vengono salvaguardati i suoi obiettivi politici, soggetti a condizioni inapplicabili che non vengono mai rispettate o messe in pratica.

Si noti come la stragrande maggioranza delle risoluzioni delle Nazioni Unite relative ai diritti dei palestinesi sia stata storicamente approvata dall’Assemblea generale, non dal Consiglio di Sicurezza, dove gli Stati Uniti sono una delle cinque grandi potenze che esercitano il diritto di veto, sempre pronti ad affossare qualsiasi tentativo di far rispettare il diritto internazionale.

È questa dicotomia storica che ha portato all’attuale situazione di stallo politico.

Le leadership palestinesi, una dopo l’altra, fallirono nel cambiare l’opprimente paradigma. Decenni prima dell’istituzione dell’Autorità Nazionale Palestinese, numerose delegazioni, comprese quelle che rivendicavano la rappresentanza del popolo palestinese, percorsero l’Europa, facendo appello a un governo e all’altro, patrocinando la causa palestinese e chiedendo giustizia.

Cosa è cambiato da allora?

Il 20 febbraio, l’amministrazione Donald Trump ha pubblicato la propria versione della Dichiarazione Balfour, definita “Accordo del Secolo”.

L’iniziativa americana che, ancora una volta, ha infranto il diritto internazionale, apre la strada per ulteriori annessioni coloniali israeliane della Palestina occupata. Minaccia sfacciatamente i palestinesi che, nel caso non collaborino, saranno severamente puniti. In realtà lo sono già stati, nel momento in cui Washington ha tagliato tutti i finanziamenti all’Autorità Nazionale Palestinese e alle istituzioni internazionali che forniscono aiuti primari ai palestinesi.

Come nella Conferenza di Sanremo, nella Dichiarazione Balfour e in numerosi altri documenti, a Israele è stato chiesto, sempre in modo educato ma senza alcuna formale imposizione di tali richieste, di concedere ai palestinesi alcuni gesti simbolici di libertà e indipendenza.

Alcuni potrebbero sostenere, e giustamente, che l’Accordo del Secolo e la risoluzione della conferenza di Sanremo non sono identici nel senso che la decisione di Trump è stata unilaterale, mentre Sanremo è stato il risultato del consenso politico tra vari paesi – Gran Bretagna, Francia, Italia e altri.

È vero, ma due punti importanti devono essere presi in considerazione: in primo luogo, anche la Dichiarazione Balfour è stata una decisione unilaterale. Gli alleati del Regno Unito impiegarono tre anni per accettare e condividere la decisione illegale presa da Londra di concedere la Palestina ai sionisti. La domanda ora è: quanto tempo impiegherà l’Europa a sostenere come proprio l’Accordo del Secolo?

In secondo luogo, lo spirito di tutte queste dichiarazioni, promesse, risoluzioni e accordi è lo stesso, per cui le superpotenze decidono in virtù del loro enorme potere di riorganizzare i diritti storici delle nazioni. In qualche modo, il colonialismo del passato non è mai veramente morto.

L’Autorità Nazionale Palestinese, come le precedenti leadership palestinesi, è trattata con la proverbiale carota e bastone. Lo scorso marzo, il genero del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, Jared Kushner, ha detto ai palestinesi che se non fossero tornati ai negoziati (inesistenti) con Israele, gli Stati Uniti avrebbero sostenuto l’annessione della Cisgiordania da parte di Israele.

Ormai da quasi tre decenni e, certamente, dalla firma degli accordi di Oslo nel settembre 1993, l’ANP ha scelto la carota. Ora che gli Stati Uniti hanno deciso di cambiare del tutto le regole del gioco, l’Autorità di Mahmoud Abbas sta affrontando la sua più grave minaccia esistenziale: inchinarsi a Kushner o insistere per il ritorno a un paradigma politico morto che è stato costruito, quindi abbandonato, da Washington.

La crisi all’interno della leadership palestinese viene affrontata con assoluta chiarezza da parte di Israele. La nuova coalizione di governo israeliana, composta dal Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu e Benny Gantz, in precedenza rivali, ha raggiunto un accordo provvisorio sul fatto che l’annessione di vaste aree della Cisgiordania e della Valle del Giordano sia solo una questione di tempo. Stanno semplicemente aspettando il cenno di assenso americano.

È improbabile che debbano aspettare a lungo, poiché il segretario di Stato, Mike Pompeo, il 22 aprile ha affermato che l’annessione dei territori palestinesi è “una decisione israeliana”.

Francamente, ha poca importanza. La Dichiarazione Balfour del 21° secolo è già stata fatta; si tratta solo di trasformarla nella nuova realtà incontestata.

Forse è giunto il momento per la leadership palestinese di capire che strisciare ai piedi di coloro che hanno ereditato la Risoluzione di Sanremo, costruendo e sostenendo la colonizzazione israeliana, non è mai e non è mai stata una risposta.

Forse è il momento per un serio ripensamento.

Ramzy Baroud

Ramzy Baroud è giornalista, scrittore e redattore di Palestine Chronicle. Il suo ultimo libro è The Last Earth: A Palestinian Story (Pluto Press, Londra, 2018). Ha conseguito un dottorato di ricerca in Studi Palestinesi presso l’Università di Exeter ed è uno studioso non residente presso il Centro di studi globali e internazionali di Orfalea, UCSB.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Un’avvisaglia del COVID-19

Sarah Algherbawi

29 Aprile 2020The Electronic Intifada

 

Con il coronavirus che devasta la terra, noi a Gaza ci siamo fatti forza per affrontare il massimo impatto.

Sovrappopolati, impoveriti e sottoposti a un assedio israeliano che ha falcidiato i nostri servizi sanitari, un’epidemia vera e propria qui sarebbe una catastrofe.

Non è un’iperbole. Di fatto, noi sappiamo già a quale miscela mortale siamo di fronte a Gaza, perché si è quasi verificata solo pochi mesi fa.

Il 7 dicembre (2019) una sciagura ha colpito la famiglia al-Louh a Deir al-Balah, nel centro della Striscia di Gaza, quando 30 congiunti hanno contratto il morbillo. Sono stati tutti ricoverati all’ospedale al-Aqsa.

La famiglia estesa al-Louh vive in uno stesso edificio –otto nuclei familiari su tre piani – che ospita circa 50 persone, cosa non rara nel contesto affollato e privo di spazio di Gaza. La prima persona infetta registrata con la malattia è stato un bambino di 4 anni. Ma il virus si è diffuso come un incendio tra i parenti: in tutto sono stati contagiati 17 minori, 8 uomini e 5 donne.

Nell’arco di un mese i membri della famiglia al-Louh – dai bambini agli adulti – hanno contratto il virus. Per la maggior parte ne sono guariti. Karam, di 31 anni, sposato con un figlio, ha perso la sua battaglia. Secondo il suo medico, Reem Abu Arban, Karam soffriva di problemi di salute pregressi che hanno compromesso il suo sistema immunitario.

È stata una tragedia familiare aggravata dal contagio di tutti i membri, vecchi e giovani. Non hanno voluto parlare con i media, ma una di loro, la madre di uno dei bambini contagiati, ha accettato di parlare con The Electronic Intifada in condizioni di anonimato.

In tre giorni la maggior parte della famiglia è stata contagiata. Non sapevamo che fosse morbillo, pensavamo fosse una normale influenza.”

La donna ha detto di essere stata profondamente sconvolta quando il suo unico figlio, che aveva allora 9 anni, ha contratto il virus.

All’inizio i medici ci hanno detto che era molto grave. Ma dopo cinque giorni di terapia ha incominciato a migliorare. Grazie a dio adesso sta bene ed è tornato alla normalità.”

Epidemia improvvisa

Il morbillo è un virus altamente infettivo che comporta gravi complicazioni, a volte letali. L’infezione normalmente si trasmette attraverso contatto diretto o per via aerea e si installa nelle vie respiratorie prima di diffondersi nel corpo.

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) il morbillo resta una delle principali cause di morte tra i bambini a livello mondiale.

I contagi della famiglia al-Louh fanno parte dei 965 casi sospetti di morbillo e dei 549 casi confermati a Gaza tra giugno 2019 e il 10 febbraio [2020], sempre secondo l’OMS.

Oltre a quello di Karam, l’epidemia ha causato un altro decesso.

Gaza ha avviato un programma di monitoraggio sanitario basato su indicatori nel 1986. Da allora solo nel 2000 vi è stato un caso confermato di morbillo.

Funzionari del Ministero della Sanità hanno detto di aver sospettato che il morbillo fosse stato importato. Secondo l’OMS le vaccinazioni contro il morbillo a Gaza hanno avuto un notevole successo, con il 97% di tasso di copertura tra il 2009 e il 2018.

Majdi Dhuhair, direttore di medicina preventiva al Ministero della Sanità, ha detto di sospettare che l’ultima epidemia sia arrivata dall’estero.

Alcuni Paesi confinanti presentano casi di morbillo a causa di individui che non hanno seguito il programma internazionale di vaccinazione. Pensiamo che il virus sia entrato a Gaza tramite viaggiatori.”

Tuttavia non tutti si vaccinano a Gaza. Questo sembra essere stato il caso della famiglia al-Louh, ha detto Dhuhair.

Diffusione

Nella prima settimana del 2020 il Ministero della Sanità ha lanciato un’altra campagna di vaccinazioni per tutti i bambini tra sei mesi e un anno.

Inoltre, il Ministero ha vaccinato circa 3.000 operatori sanitari in tutta Gaza dopo che 2 medici e 25 infermiere si sono ammalati di morbillo in seguito al contatto diretto coi pazienti.

Tra gli operatori sanitari contagiati vi era una dottoressa incinta di 3 mesi. La donna – che ha mantenuto l’anonimato – ha dovuto restare in isolamento fino alla guarigione. Non si può somministrare il vaccino alle donne in gravidanza.

Anche due ex colleghi mi hanno sorpresa rispondendo ad una richiesta dei social media di contatti con chi era stato contagiato.

Aysar Nasrallah, di 31 anni, e suo fratello Ahmad, di 29, hanno contratto entrambi il morbillo.

Ha iniziato Ahmad, che è andato in ospedale lamentando forti dolori alle ossa. Lì, un’analisi del sangue ha rivelato che aveva il morbillo.

Non sappiamo come Ahmad si sia contagiato”, ha detto Aysar. “E’rimasto a letto 16 giorni e in tutto il corpo gli sono comparse puntini rossi.”

Dopo che Ahmad è guarito, gli stessi sintomi si sono manifestati in suo fratello.

Non sapevo come il morbillo si trasmettesse da una persona all’altra e non pensavo che mi sarei contagiato, dato che faccio sport e seguo una dieta salutare.”

Sul baratro

Mentre l’epidemia di morbillo del 2019 a Gaza è stata probabilmente importata e messa sotto controllo relativamente in fretta, il settore sanitario di Gaza non offre molte speranze nel momento in cui il Covid-19 invade silenziosamente il mondo.

Dopo 13 anni di assedio e di sanzioni devastanti imposti da Israele, la carenza di farmaci, di attrezzature protettive e di letti per isolamento e in terapia intensiva è una realtà cronica a Gaza.

Gli attivisti per i diritti umani e gli esperti di sanità temono da tempo una catastrofe umanitaria se una pandemia scoppiasse a Gaza.

Pochi esperti si sono sorpresi dell’epidemia di morbillo. Tutti hanno paura della pandemia di coronavirus. Munir al-Bursh, capo del dipartimento farmacologico al Ministero della Sanità di Gaza, ha affermato che il totale collasso del settore della sanità di Gaza non fa che rendere “più probabile” la diffusione di ulteriori patologie.

Secondo il Ministero della Sanità locale, la metà di tutti i farmaci indispensabili è semplicemente introvabile a Gaza, e secondo le Nazioni Unite l’altra metà è disponibile per meno di un mese.

I dirigenti accusano Israele perché la potenza occupante ha la responsabilità legale del benessere dei palestinesi di Gaza. Ma non considerano senza colpa l’Egitto e l’Autorità Nazionale Palestinese in Cisgiordania, ha detto Ashraf al-Qedra, portavoce del Ministero della Sanità.

Sia Israele che l’Egitto vietano ai palestinesi di Gaza di andare a farsi curare all’estero, ha detto al-Qedra. La rivalità mai risolta tra Hamas e Fatah, la fazione prevalente nell’ANP in Cisgiordania, ha provocato la riduzione dell’assistenza finanziaria dalla Cisgiordania. Al-Bursh ha detto che l’ANP nel 2019 ha speso per Gaza meno del 10% del budget sanitario di 40 milioni di dollari.

Ma anche se a livello ufficiale hanno le mani legate a causa della cronica carenza di risorse e dell’assenza di progressi politici, sia nei confronti dell’ANP che di Israele, c’è chi a Gaza ha imparato qualcosa dall’epidemia di morbillo del 2019.

A Deir al-Balah, la persona della famiglia al-Louh che ha parlato a The Electronic Intifada è felice che suo figlio sia guarito dal morbillo, ma ha ancor più paura del contagioso coronavirus. Si attiene ad un’assoluta cautela.

Quella volta sono andata molto vicina a perdere mio figlio”, ha detto a The Electronic Intifada. “Adesso, con il coronavirus, sono ossessionata dal cercare di proteggerlo, soprattutto perché il settore sanitario di Gaza è così scadente.”

Sarah Algherbawi è una scrittrice e traduttrice freelance di Gaza.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




L’esercito israeliano è contrario all’annessione della valle del Giordano sostenuta dai suoi dirigenti politici

Adnan Abu Amer

28 aprile 2020 – Middle East Monitor

I generali israeliani hanno rivelato che l’annuncio dell’annessione della valle del Giordano e di colonie in Cisgiordania porterà al collasso dei servizi di sicurezza palestinesi, perché essi perderanno il controllo della popolazione e verranno visti come collusi con l’occupazione. Inoltre il piano di annessione darà come risultato il collasso della stessa ANP [Autorità Nazionale Palestinese, ndtr.] perché dimostrerà ai palestinesi il suo fallimento nel processo politico, anche se questo dovesse significare che l’opinione pubblica palestinese si rivolga ad Hamas, che sta cercando di trarre vantaggio dall’eventuale caos relativo alla sicurezza in Cisgiordania.

Stanno emergendo sempre più voci di un certo numero di ex- importanti generali e dirigenti dell’esercito e dei sistemi di sicurezza israeliani secondo i quali ogni decisione di annettere la Cisgiordania costituisce una minaccia per il destino degli israeliani e Israele potrebbe non essere in grado di affrontare le conseguenze di una simile iniziativa. Tuttavia ai sostenitori del piano di annessione non interessa quello che potrebbe succedere il giorno dopo, intendono semplicemente soddisfare i propri desideri, benché ci siano ancora molte questioni irrisolte.

Molti generali israeliani credono che i risultati di un qualunque processo di annessione, totale o parziale, provocheranno reazioni che Israele non sarà in grado di affrontare o gestire, soprattutto perché il danno provocato dall’annessione avrà un effetto domino. Porrà una minaccia alla sicurezza dello Stato, alla sua economia e ai suoi rapporti con i vicini arabi.

Oltretutto il fatto che i decisori politici israeliani non ascoltino le raccomandazioni di chi ha l’esperienza nel prevedere le conseguenze del piano di annessione suggerisce una mancanza di responsabilità, perché questi esperti stanno dicendo che riprendere il controllo israeliano sui palestinesi costerà al bilancio israeliano circa 14, 8 miliardi di dollari.

L’attuale capo di stato maggiore dell’esercito israeliano, Aviv Kochavi, ha manifestato la propria irritazione nei confronti del suo ministro della Difesa, Naftali Bennett [della coalizione di estrema destra dei coloni “Nuova Destra”, ndtr.] per aver posto le basi dell’annessione senza averlo coinvolto in questi sforzi. Ciò ha implicato radunare importanti ufficiali di vari settori dell’esercito, dell’amministrazione civile e del coordinatore israeliano delle attività di governo nei territori occupati [enti israeliani che gestiscono i territori palestinesi, ndtr.] ed esperti di diritto e chiedere loro di preparare una serie di scenari per annettere la valle del Giordano e alcune colonie.

Sul terreno la decisione di annettere la valle del Giordano e altre zone porterà a proteste di massa da parte dei palestinesi e indebolirà la Giordania a causa della diffusione di caos e disordini che potrebbero avvenire sul suo territorio. Ciò potrebbe consentire l’ingresso nel Paese dell’influenza iraniana, lasciando Israele senza confini sicuri mentre sulla sua porta di casa si insedierebbero milizie filo-iraniane.

Ci sono stime secondo cui l’annuncio da parte di Israele di un piano per l’annessione della valle del Giordano sia una finzione da sbandierare e serva come messaggio all’opinione pubblica israeliana secondo cui la valle del Giordano è ancora presente nell’agenda politica del partito. Pertanto l’idea dell’annessione di un terzo della Cisgiordania riappare quando si inizia a parlare di elezioni e poi viene subito accantonata e ritirata dopo il voto.

L’appello israeliano ad annettere la valle del Giordano è un’implicita manifestazione della mancanza di volontà di raggiungere un accordo politico con i palestinesi, in quanto tale annessione danneggia l’accordo di pace con la Giordania e l’Egitto, oltre alle minacce che i palestinesi interrompano il coordinamento per la sicurezza con Israele.

Si prevede che annettere la Cisgiordania senza un accordo con l’ANP danneggerà seriamente il progetto sionista. Non c’è modo di ottenere un’annessione, ridotta o estesa, o di dire che l’annessione includerà solo la “Zona A” della Cisgiordania o le colonie ebraiche al suo interno.

Il danno diretto risultante dall’annessione è la cessazione del coordinamento per la sicurezza con l’ANP, che non sarà in grado di sopravvivere, obbligando l’esercito israeliano a schierarsi in tutta la Cisgiordania. A quel punto è difficile immaginare gli scenari previsti. Si potrebbe assistere alla fine del sogno sionista perché la comunità internazionale considererebbe Israele una nuova versione del regime di apartheid sudafricano.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Covid-19 in Palestina : la duplice lotta dei palestinesi contro l’epidemia e l’apartheid

Samah Jabr

26 aprile 2020Chronique de Palestine

Ho scritto questo articolo in una giornata che ha visto la conferma di un aumento improvviso e in controtendenza dei casi di Covid-19 tra i palestinesi del piccolo quartiere di Silwan, a Gerusalemme est.

In quello stesso giorno dei soldati israeliani al posto di controllo di Qalandia mi hanno negato l’accesso al mio luogo di lavoro a Ramallah, nonostante gli avessi mostrato il mio documento di responsabile ufficiale d’urgenza del Ministero della Salute palestinese – che è stato ignorato dai soldati con queste parole: “Noi non riconosciamo un simile documento.”

Nella Palestina occupata la pandemia di Covid-19 ha già colpito le diverse comunità palestinesi, ciascuna delle quali dispone di un sistema sanitario fragile, non integrato nel sistema nazionale. Al tempo stesso è documentato il fatto che i palestinesi di Gerusalemme e quelli del 1948 [cioè con cittadinanza israeliana, ndtr.], che sono in carico al sistema sanitario israeliano, soffrono da tempo di disuguaglianze nelle cure.

Tali disuguaglianze hanno già un impatto sulle patologie croniche, sulla speranza di vita e sui tassi di mortalità. La risposta del sistema sanitario israeliano al Covid-19 ha accentuato il divario tra la maggioranza ebrea (80% della popolazione) e la minoranza palestinese (20%), servite dallo stesso sistema.

Nonostante che la minoranza palestinese sia sovra-rappresentata tra gli operatori sanitari all’interno del sistema sanitario israeliano, le loro comunità sono state tuttavia insufficientemente servite durante questa pandemia. Le forniture di materiale informativo in lingua araba sono state tardive, l’accesso ai servizi Covid-19 nelle città arabe è stato difficoltoso. Non vi è stata una rappresentanza araba nel Comitato di salute d’ emergenza e vi è stata una enorme carenza nei test.

Tutti questi elementi hanno contribuito all’aumento dei casi che attualmente osserviamo nelle comunità arabe. Mentre mobilitava la maggioranza ebrea per affrontare la pandemia, il Primo Ministro israeliano si è impegnato in una odiosa campagna discriminatoria contro la partecipazione araba nel governo ed ha criticato ingiustamente i palestinesi affermando che non rispettavano le regole di isolamento – forse per fornire in anticipo una falsa spiegazione nel caso di un aumento del numero di palestinesi contagiati.

In realtà i quartieri palestinesi hanno aderito alle regole relative alla pandemia più scrupolosamente di quelli ebrei, benché fossero trattati peggio. Il sovrintendente della polizia Yaniv Miller, incaricato di assistere le pattuglie nelle zone ebraiche che non rispettavano l’isolamento, ha dichiarato alle reclute dell’esercito: “Vi ricordo, ragazzi, che non ci troviamo nei territori (occupati) della Cisgiordania, né sul confine. Un poliziotto ci mette molto a sparare. Un poliziotto spara solo come ultima risorsa dopo che hanno sparato su di lui,” (riportato da Haaretz il 3 aprile 2020).

Con un altro tentativo di mascherare le ineguaglianze nella prestazione di servizi sanitari, la ministra israeliana della Cultura Miri Regev [del partito di destra Likud, ndtr.] è persino riuscita a scovare due cittadini arabi, Ahmad Balawneh, un infermiere, e Yasmine Mazzawi, un’ addetta alle ambulanze, per far loro accettare il suo invito ad accendere una torcia durante le commemorazioni del Giorno dell’Indipendenza [israeliana] il 29 aprile, che è anche il giorno della Nakba [lett. catastrofe, la pulizia etnica operata dalle milizie sioniste, ndtr.] palestinese…Un insulto collettivo, camuffato da premio!

La situazione in Cisgiordania e a Gaza riflette i differenti livelli di oppressione politica cui sono sottoposte le due regioni. Recentemente ho descritto le misure prese dal Ministero della Salute in Cisgiordania in un’intervista, che spiega che le rigide misure riguardo all’isolamento, con tutti i loro devastanti effetti economici, sono la miglior linea di condotta che l’Autorità Nazionale Palestinese potesse adottare, stante la nostra mancanza di risorse a livello di cure sanitarie specialistiche e l’assenza di sovranità sui nostri confini.

Gaza è ancor meno preparata e più svantaggiata: lì la situazione potrebbe essere molto pericolosa a causa dell’impatto assai negativo dell’assedio e delle condizioni socio-economiche devastanti. La popolazione di Gaza sopravvive con una densità di 5.000 abitanti per km2 e una forte incidenza di anemia, malnutrizione e insicurezza alimentare.

Gli abitanti di Gaza soffrono di una serie altrettanto rilevante di patologie croniche e di problemi di salute mentale; sono alla mercé di una vasta gamma di poteri oppressivi che decidono su qualunque cosa e su chiunque entri e fugga dalla sua gabbia. L’interruzione degli aiuti americani – una punizione politica – ha compromesso l’UNRWA (agenzia dell’ONU per i rifugiati palestinesi, ndtr.), gli ospedali palestinesi di Gerusalemme e molti altri ambiti del sistema sanitario in Palestina.

Malgrado questa realtà, Israele intende vantarsi del suo sostegno, della sua generosità e del suo aiuto all’Autorità Nazionale Palestinese. Le Nazioni Unite hanno lodato Israele per la sua “eccellente” collaborazione con l’Autorità Nazionale Palestinese nella lotta contro il Covid-19 attraverso diverse fasi: il trasferimento di 25 milioni di dollari all’Autorità Nazionale Palestinese (a partire dai soldi delle imposte precedentemente trattenuti!), l’invio di attrezzature mediche in Cisgiordania e a Gaza – tra cui 20 apparecchi respiratori da aggiungersi agli 80 già esistenti – , 300 kit per i test e 50.000 mascherine.

Israele ha lasciato passare verso i territori palestinesi i materiali ordinati dall’OMS ed ha consentito a Gaza di ricevere denaro dal Qatar. Quelli che sono impressionati dalla bontà di Israele sembrano ignorare l’articolo 56 dellaquarta Convenzione di Ginevra che stabilisce: “Con tutti i mezzi di cui dispone, la potenza occupante ha il dovere di assicurare e  di mantenere, con la collaborazione delle autorità nazionali e locali, i presidi e i servizi medici e ospedalieri, la sanità pubblica e l’igiene nel territorio occupato, in particolare per ciò che riguarda l’adozione e l’applicazione delle misure profilattiche e preventive necessarie a lottare contro la diffusione delle malattie contagiose e delle epidemie. Il personale medico di tutte le categorie è autorizzato a svolgere le proprie funzioni.”

Coloro che fanno gli elogi di Israele sembrano anche ignorare che l’epidemia dell’occupazione continua ad infierire come sempre, con le demolizioni di case – mentre tutti sono esortati a “restare a casa” – le uccisioni e gli arresti, mentre si pianifica l’annessione della Valle del Giordano.

Passa inosservata l’unica prescrizione specifica per la pandemia: che i soldati israeliani devono indossare un equipaggiamento di protezione individuale quando entrano a Betlemme per arrestare delle persone. E passa inosservato il fatto che le forze israeliane letteralmente scaricano gli operai palestinesi ai posti di controllo della Cisgiordania ogni volta che sospettano che questi lavoratori siano contagiati.

Non si nota neanche il tentativo del governo israeliano di scambiare prigionieri israeliani con gli aiuti sanitari a Gaza! La verità è che Israele è responsabile della malattia dei palestinesi e del deterioramento del loro benessere, cosa che avrà ripercussioni sulla nostra epigenetica (*) per le future generazioni.

In queste circostanze i palestinesi si uniscono a tutti coloro che oggi sulla Terra lottano contro la pandemia. Facendolo, intendiamo affermare il nostro desiderio di sovranità e ci sentiamo anche meglio preparati ad affrontare la chiusura e l’incertezza di molte altre comunità in cui si litiga per acquistare armi da fuoco o stoccare le merci dei supermercati, o procurarsi materiale sanitario al mercato nero.

In Palestina cerchiamo di accettare questa sfida con spirito di collaborazione sociale e di altruismo. I nostri risultati ci permettono di dire che “fin qui va tutto bene” e ci rendiamo conto che questa non è la tappa più difficile nella nostra lunga lotta per l’autodeterminazione e per la libertà.

L’urgenza dovuta alla pandemia infatti contribuisce a rafforzare la fiducia dei palestinesi nelle nostre capacità di essere indipendenti e non ci sentiamo soli in questa battaglia. Al di là di ciò, crescono le nostre speranze di poter utilizzare l’ambito della medicina come una forma di diplomazia in tempi di crisi, creando dei canali per collaborare con altri Paesi che ci avevano lasciati soli nella nostra lotta nazionale….

L’attuale crisi non deve impedirci di lavorare per i nostri obbiettivi a lungo termine. È ora più urgente che mai mettere fine all’assedio di Gaza e al sistema di apartheid che riduce la Palestina ad un incubatore di epidemie sanitarie e sociali.

Nota :

(*) Meccanismo che modifica la fisionomia dei geni.

La dottoressa Samah Jabr è una psichiatra che lavora a Gerusalemme est e in Cisgiordania. Attualmente è responsabile dell’Unità di salute mentale del Ministero della Sanità palestinese. Ha insegnato in università palestinesi e internazionali. La dottoressa Jabr funge spesso da consulente delle organizzazioni internazionali in materia di sviluppo della salute mentale. È anche una prolifica scrittrice. Il suo ultimo libro è stato tradotto in francese: ‘Dietro i fronti – cronache di una psichiatra psicoterapeuta palestinese sotto occupazione’ [ed. italiana: “Dietro i fronti”, Sensibili alle foglie, 2019].

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)

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Il piano di annessione di Netanyahu è una minaccia alla sicurezza nazionale di Israele

 Ami Ayalon, Tamir Pardo, Gadi Shamni

23 aprile 2020– Foreing Policy

L’annessione della Cisgiordania incrinerebbe i trattati di pace di Israele con l’Egitto e la Giordania, susciterebbe la rabbia degli alleati nel Golfo, minerebbe l’Autorità Nazionale Palestinese e metterebbe in pericolo Israele come democrazia ebraica.

Quattro giorni dopo che la Casa Bianca ha ribadito la decisione di perseguire l'”accordo del secolo” del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, la lunga instabilità politica di Israele si è conclusa lunedì con un accordo di coalizione che potrebbe mettere tragicamente fine a qualunque prospettiva di israeliani e palestinesi di tornare al tavolo dei negoziati.

L’ accordo tra il partito Likud di Benjamin Netanyahu e il Blu e Bianco di Benny Gantz fissa il 1 ° luglio come data in cui mettere in atto l’annessione unilaterale israeliana di grandi porzioni del territorio della Cisgiordania, importante elemento del piano Trump. Se il governo congiunto procederà conformemente, le altre caratteristiche del piano diverranno irrilevanti. Questo sta accadendo nonostante 220 generali, ammiragli ed ex dirigenti israeliani di Mossad, Shin Bet e polizia, membri di Commanders for Israel’s Security (CIS) [movimento di ex alti funzionari fondato nel 2014, ndtr.], abbiano firmato una lettera aperta a tutta pagina sui giornali israeliani il 3 aprile esortando i loro ex colleghi nel governo – in particolare Gantz e Gabi Ashkenazi, entrambi ex capi di stato maggiore dell’esercito israeliano – a chiedere di bloccare l’annessione unilaterale dei territori della Cisgiordania. Pochi giorni dopo, 149 eminenti leader ebrei americani si sono uniti a Israel Policy Forum [organizzazione ebraica americana che lavora per una soluzione negoziata a due Stati, ndtr.] in un appello simile, e subito dopo, 11 membri del Congresso degli Stati Uniti hanno espresso un altro monito sulle conseguenze negative di una tale mossa.

A prescindere dalle loro – e nostre – serie riserve riguardo a molti elementi del piano Trump, tutti e tre quei gruppi hanno concordato sugli effetti negativi dell’annessione sulla prospettiva di un’eventuale soluzione a due Stati israeliano e palestinese, e sul rischio di minare un altro pilastro fondamentale della strategia degli Stati Uniti nella regione: i trattati di pace di Israele con Egitto e Giordania.

L’Egitto è un importante attore nella regione e funge da principale intermediario tra Israele e Hamas nel prevenire episodi di violenza o nel porvi fine una volta scoppiati. Il Cairo è anche un partner importante di Israele nella lotta contro lo Stato Islamico, gli affiliati di al Qaeda e altri terroristi che operano nella e dalla penisola del Sinai; l’annessione della Cisgiordania potrebbe scatenare proteste di popolo in Egitto che potrebbero costringere l’amministrazione di Abdel Fattah al-Sisi a riconsiderare quelle relazioni.

La situazione è ancora più precaria in Giordania. Il regno si trova appena oltre il fiume Giordano rispetto alla Cisgiordania e ha una consistente popolazione palestinese. Pertanto, è sempre stato molto sensibile a sviluppi sfavorevoli in Cisgiordania. Per decenni il confine di Israele con la Giordania è stato più sicuro di altre frontiere. Inoltre, il vasto territorio del regno ha fornito a Israele uno spazio strategico insostituibile per la deterrenza, il rilevamento e l’intercettazione – per terra e per aria – di forze ostili, principalmente dall’Iran.

A seguito di un’annessione unilaterale potrebbe fallire un altro obiettivo del piano Trump: la speranza di consolidare i primi risultati dell’amministrazione nell’incoraggiare una maggiore cooperazione tra Israele e i partner regionali statunitensi nel Golfo e altrove. Proprio come la pandemia di coronavirus e il crollo dei prezzi del petrolio hanno contribuito alle preoccupazioni sulla stabilità interna delle monarchie del Golfo, questi regimi saranno anche costretti a prevenire la rabbia popolare reagendo pubblicamente all’annessione israeliana nel timore che i loro avversari, principalmente Iran e Turchia, utilizzino la loro inazione per minarne la legittimità popolare.

Non ha senso rischiare tutto ciò per annettere un territorio su cui Israele ha già il pieno controllo riguardo alla sicurezza. Sia Israele che gli Stati Uniti devono riconsiderare la cosa prima che il danno sia fatto.

Questa mossa sconsiderata non avrebbe solo conseguenze negative per la sicurezza di Israele, ma anche ripercussioni sul futuro di Israele come democrazia ebraica.

I leader ebrei statunitensi e i membri del Congresso hanno sottolineato che sarebbe in pericolo il supporto bipartisan dagli Stati Uniti di cui Israele ha a lungo goduto, un altro importante pilastro nell’equilibrio della sua sicurezza nazionale.

Come la maggior parte degli israeliani, molti politici e opinionisti statunitensi non erano consapevoli, come è risultato dalle nostre discussioni, del rapido passaggio dell’annessione unilaterale da capriccio di una trascurabile minoranza messianica di destra a elemento d’azione fondamentale nell’agenda di Netanyahu nel governo di coalizione che è appena riuscito a formare. Ora ogni dubbio è cancellato.

Il drammatico appello pubblico dei 220 alti funzionari della sicurezza israeliani in pensione era stato pensato per rafforzare l’opposizione all’annessione da parte degli aspiranti partner nella coalizione di Netanyahu guidati da Gantz, proprio nel momento in cui Netanyahu era pressato dagli irriducibili sostenitori dell’annessione (o ne orchestrava la pressione) perché non cedesse in merito ad essa.

Prevedendo tale pressione, per oltre due anni il CIS ha condiviso i risultati riguardanti le molteplici conseguenze dell’annessione unilaterale con i membri della Knesset e il gabinetto israeliani, nonché con la popolazione israeliana. Inoltre è stato spesso chiamato a informare funzionari della Casa Bianca, membri del Congresso, diplomatici statunitensi e leader ebrei statunitensi.

In breve, questo passo irreversibile, una volta fatto, probabilmente scatenerà una reazione a catena fuori controllo in Israele. Il punto di svolta potrebbe essere la fine del coordinamento palestinese della sicurezza con Israele. Già accolte come simbolo delle aspirazioni ad uno Stato, le agenzie di sicurezza palestinesi hanno perso il sostegno popolare poiché lo Stato appariva sempre meno probabile. Peggio ancora, sia gli ufficiali giovani che quelli più anziani riferiscono di aver ricevuto accuse di tradimento, di non essere più al servizio delle aspirazioni nazionali palestinesi ma solo dell’occupazione israeliana.

Durante i momenti di tensione, con una crescente pressione popolare, l’assenteismo dal servizio nelle agenzie si avvicinava al 30%. È nostra opinione (così come di centinaia di altri generali in pensione) che un voto della Knesset sull’annessione potrebbe ridurre la residua legittimità del coordinamento per la sicurezza.

Potrebbe essere irrilevante se la stessa Autorità Nazionale Palestinese (ANP) sopravviverà o meno a questo, o se la sua leadership vorrà ancora che il coordinamento della sicurezza continui. Se quelli che attualmente prestano servizio nelle agenzie di sicurezza si rifiutano di presentarsi al lavoro, si può solo sperare che non partecipino armati alle proteste di massa contro l’annessione.

Se il coordinamento per la sicurezza da parte dei palestinesi cessasse di essere efficace, e con Hamas ben organizzato e pronto a sfruttare il conseguente vuoto nella sicurezza, Israele non avrà altra scelta che rioccupare l’intera Cisgiordania, compresi tutti i centri abitati dalla popolazione palestinese attualmente sotto l’amministrazione dell’ANP. Se questo scenario si materializzasse in Cisgiordania, si può presumere che sia improbabile che Hamas rispetti le sue intese sul cessate il fuoco con Israele a Gaza. Se Hamas dovesse entrare nello scontro, Israele potrebbe non avere altra scelta se non quella di rioccupare anche la Striscia di Gaza.

Di conseguenza, ciò che inizierebbe il 1° luglio con una votazione della Knesset per l’annessione parziale potrebbe presto sfuggire al controllo e portare a una completa acquisizione israeliana della Cisgiordania e di Gaza, il che significa che l’esercito israeliano sarebbe l’unica entità che controlla milioni di palestinesi – senza una strategia per risolvere il problema.

In una situazione del genere svanirebbe ogni speranza che il team di Trump potrebbe aver avuto che il suo ” accordo del secolo” unisse israeliani e palestinesi. Allo stesso modo, nessun altro sforzo diplomatico potrebbe riesumare la prospettiva di un accordo a due Stati. Salvare Israele dall’impossibile dilemma, tra rinunciare alla sua identità ebraica garantendo ai palestinesi annessi pari diritti o rinunciare alla sua democrazia privandoli di quei diritti, potrebbe rivelarsi una missione impossibile.

La presa di coscienza di molti qui in Israele e di alcuni negli Stati Uniti dell’imminenza di questo pericolo offre qualche speranza che nelle prossime 10 settimane si possano prendere provvedimenti in tempo per prevenire questo terribile risultato.

L’abbandono dell’annessione unilaterale è sia urgente che essenziale. Coloro che hanno a cuore il futuro di Israele come democrazia ebraica sicura, che sostiene i valori sanciti nella sua dichiarazione di indipendenza, devono agire ora.

Ami Ayalon, ammiraglio in pensione, è un ex direttore della Shin Bet, ex comandante in capo della Marina israeliana e autore del libro di prossima uscita Friendly Fire [Fuoco Amirco]. È membro del CIS.

Tamir Pardo è un ex direttore del Mossad. È membro del CIS.

Gadi Shamni, generale maggiore in pensione, è un ex comandante del comando centrale delle Forze di Difesa Israeliane [l’esercito israeliano, ndtr.], segretario militare dell’ex primo ministro Ariel Sharon e ex addetto militare [di Israele] negli Stati Uniti. È membro del CIS.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Paradosso nell’era del corona virus: il muro israeliano “protetto” dai palestinesi!

Suha Arraf

16 aprile 2020 +972 Magazine

Palestina Cultura è Libertà

È una storia che persino uno sceneggiatore avrebbe difficoltà a inventare: temendo che i palestinesi che lavorano all’interno della Linea Verde possano portare il nuovo coronavirus in Cisgiordania, i palestinesi stanno segnalando le rotture della barriera di separazione che divide Israele dai territori occupati. I membri dei Comitati popolari, che negli ultimi due decenni hanno promosso manifestazioni non violente contro il muro di cemento e le recinzioni metalliche che compongono la barriera, stanno cercando di ripararne i buchi.

Funzionari palestinesi affermano che il governo israeliano non riesce a mantenere adeguatamente la barriera, permettendo così ai lavoratori palestinesi di entrare liberamente Israele attraverso varchi aperti nella recinzione metallica e nei canali di drenaggio, e di tornare senza alcun tipo di controllo medico. Secondo i media israeliani, quasi i due terzi di tutti i casi confermati di COVID-19 nei Territori Occupati possono essere fatti risalire ai lavoratori palestinesi di ritorno da Israele.
Con una strana giravolta, alcuni hanno persino iniziato a vedere la barriera come una misura protettiva, sostenendo che ha contribuito a prevenire la più ampia diffusione di COVID-19 in Cisgiordania e ha permesso all’Autorità Palestinese di tenere sotto controllo il numero di casi .

Rafaa Rawajbeh, il governatore di Qalqilya nella Cisgiordania settentrionale, accusa Israele di aver intenzionalmente cercato di diffondere il coronavirus nei territori occupati. “È una cospirazione deliberata da parte di Israele”, afferma. “Perché adesso, per la prima volta, stanno aprendo cancelli e canali di drenaggio senza schierare soldati? È un chiaro tentativo di danneggiare noi e i nostri sforzi [per fermare la diffusione] in modo che ci sia un focolaio di malattia.

Rawajbeh non è l’unico a fare questa affermazione, che Israele ha negato con forza, definendolo “incitamento razzista”. Un funzionario della difesa israeliano ha minacciato di ridurre la libertà di movimento per il personale di sicurezza palestinese se la “campagna di incitamento” dovesse continuare – gli stessi ufficiali palestinesi che hanno stazionato ai posti di blocco in Cisgiordania per settimane per cercare di prevenire un’ulteriore diffusione della malattia. In altre parole, se l’Autorità Palestinese non smette di accusare Israele di consentire la diffusione del virus, Israele interverrà sulla capacità dell’AP di combattere quel virus.

Il governatore di Jenin Akram Rajoub rifiuta l’ affermazione di una cospirazione israeliana volta a peggiorare l’epidemia di coronavirus. “Se il virus si diffonde nei territori occupati”, dice, “anche Israele ne risentirà”.
Tuttavia, ritiene che Israele “voglia mettere in imbarazzo” l’AP. “Non possono tollerare l’idea che siamo riusciti a far acquisire credito all’Autorità palestinese”, afferma Rajoub. “Vogliono che sembriamo deboli di fronte alla nostra gente, perché incapaci di adempiere ai nostri obblighi”.

Oltre a indebolire l’AP, che finora ha avuto un relativo successo nel prevenire la diffusione del virus (al momento in cui scrivo, ci sono 308 casi confermati di COVID-19 e due decessi in aree controllate dall’AP, rispetto a 11.868 casi e 117 morti in Israele), Rajoub ritiene che l’altro obiettivo principale di Israele sia quello di risparmiare danni alla propria economia. Questo, dice, è il motivo per cui il governo sta prendendo “ogni misura possibile” per garantire che i lavoratori palestinesi siano in grado di raggiungere il loro posto di lavoro all’interno della Linea Verde.

Rajoub afferma di aver visto personalmente soldati israeliani in piedi pigramente mentre i lavoratori palestinesi entravano in Israele attraverso le rotture nel recinto di separazione. Questa settimana, dice che ha visitato Anin, un villaggio palestinese nella Cisgiordania settentrionale, insieme a membri del Comitato di emergenza, istituito per servire i villaggi e le comunità lungo la barriera. Lì, gli è stato detto da un membro del Coordinamento Palestinese e del Quartier Generale di collegamento che le Autorità israeliane hanno avvertito che avrebbero sparato a chiunque si fosse avvicinato alla recinzione. Eppure ha visto tre palestinesi attraversare la barriera pienamente visibili a una jeep dell’esercito israeliano, mentre i soldati osservavano senza reagire.

“Vogliono che i lavoratori si infiltrino in Israele e stanno impedendo al Comitato di Emergenza e ai funzionari della sicurezza palestinese di raggiungere [la barriera] per fermarli”, afferma Rajoub.
La recinzione metallica nell’area di Jenin in Cisgiordania è “piena di brecce”, continua Rajoub. “Questo stava già accadendo prima del corona [virus], ma non ci preoccupavamo delle violazioni perché era nel nostro interesse che i lavoratori entrassero in Israele. Ma dal momento in cui è scoppiato il coronavirus, fa paura” aggiunge.

Israele sapeva esattamente dove era stata aperta la barriera anche prima della crisi del coronavirus, secondo Rajoub. Tuttavia, funzionari israeliani gli hanno detto che non hanno il budget per riparare il danno o forze di sicurezza sufficienti per proteggere la barriera. “Potrebbero fare qualcosa, ma non vogliono”, dice.

L’AP ha inviato le sue forze a Jenin e attraverso la Cisgiordania per impedire ai lavoratori palestinesi di avvicinarsi alla barriera per entrare in Israele, in coordinamento con i volontari del Comitato di emergenza. Le forze dell’AP hanno anche istituito posti di blocco all’interno della Cisgiordania per far rispettare le istruzioni del Ministero della Sanità palestinese e anche per monitorare il movimento dei lavoratori. Il primo ministro Mohammed Shtayyeh, conoscendo la sensibilità dei palestinesi nei confronti dei checkpoint, ha proposto di chiamarli “Love Checkpoint” o “Compassion Checkpoint”.

Il governatore di Qalqilya Rawajbeh dipinge un quadro simile a Rajoub. “Nella sola area di Qalqilya, ci sono più di 50 aperture in 54 chilometri [di recinzione]”, afferma. Analogamente a quanto testimoniato da Rajoub, Rawajbeh descrive come i canali di drenaggio di solito sigillati da griglie di ferro – messi in atto per impedire ai palestinesi di attraversare la Linea Verde – siano stati aperti giovedì scorso dai soldati israeliani, che hanno poi lasciato i canali incustoditi.

“I lavoratori sono passati [in Israele] attraverso questi canali e non c’erano soldati israeliani dall’altra parte”, dice Rawajbeh. Una troupe televisiva palestinese che filmava in quel sito giovedì ha usato uno di questi canali per andare in Israele; nel loro filmato, il reporter è visto in piedi sul lato israeliano della recinzione, senza nessun altro in giro.
“La loro scusa è che pioveva, motivo per cui hanno aperto le griglie”, dice. “Ma pioveva ben poco, mentono. “

Secondo Rawajbeh, le precedenti richieste dei palestinesi di aprire i canali al fine di prevenire le inondazioni, erano state accolte solo dopo colloqui formali e coordinamento con l’amministrazione civile, il governo militare israeliano in Cisgiordania. Ma anche allora, la griglia è stata aperta per 2-3 ore al massimo, sotto la costante sorveglianza dei soldati israeliani dall’altra parte.
Giovedì, dice Rawajbeh, Israele ha ritardato la richiesta dei palestinesi di chiudere la griglia, il che significa che i lavoratori palestinesi sono stati in grado di attraversare liberamente dentro e fuori Israele, senza alcun tipo di controllo medico o di sicurezza al loro ritorno. Domenica, tuttavia, le griglie sono state chiuse nuovamente.

Riad Abu Hamdeh, 55 anni, residente nel villaggio di Hableh a sud di Qalqilya e direttore di una società per la sicurezza, si è offerto volontario durante la notte, con i Comitati popolari, per cercare di impedire ai lavoratori palestinesi di entrare in Israele. “Mi prendo cura del mio villaggio e della mia gente”, dice. “I paesi grandi e potenti stanno crollando a causa del coronavirus; l’Autorità [palestinese] ha poche risorse e Dio vieta che il virus si diffonda qui. “

Ci sono quattro brecce nel recinto attorno al suo villaggio e il cancello è aperto, dice Abu Hamdeh. I volontari lavorano in tre turni vicino alla recinzione, pattugliandone la lunghezza a una distanza di 50 metri da ogni breccia. Se si avvicinano, dice, i soldati apriranno il fuoco contro di loro.

“Non appena vediamo i lavoratori, proviamo a convincerli a tornare a casa”, spiega Abu Hamdeh. “Alcuni di loro si convincono; altri iniziano a discutere con noi, dicendo che non andranno in Israele solo se pagheremo loro il salario.
“Ci coordiniamo pienamente con le forze di sicurezza palestinesi”, continua. “Quando un lavoratore entra da Israele, arriva un’ambulanza e [l’equipaggio] effettua un controllo. Se cerca di andare in Israele, lo portano a casa. Durante il mio turno, siamo riusciti a rimandare indietro circa 20 lavoratori che stavano cercando di entrare in Israele. “

Abu Hamdeh afferma di aver visto come i soldati hanno aperto le cosiddette “porte agricole” nella recinzione. Queste porte consentono agli agricoltori palestinesi di raggiungere rapidamente la loro terra che è stata lasciata sul lato “israeliano” del muro, dopo l’ esame dei loro permessi di ingresso.
“Ho visto con i miei occhi come i soldati aprono le porte e se ne tengono alla larga”, dice. “Una volta abbiamo persino chiuso il cancello noi stessi. I soldati ci hanno visto e ci hanno urlato di tornare indietro. Non abbiamo le chiavi del cancello o alcun modo per chiuderlo, quindi lo chiudiamo con un filo di ferro, una corda o qualsiasi cosa abbiamo a disposizione. “

Poi Abu Hamdeh racconta di aver visto i soldati israeliani guardare mentre i lavoratori palestinesi attraversavano. “Hanno posto loro una domanda e non li hanno controllati”, afferma. “Questo è un nuovo fenomeno. Solo ai tempi del coronavirus. Prima del coronavirus chi avrebbe osato avvicinarsi alla recinzione? Gli avrebbero immediatamente sparato. “
“Prima del coronavirus, c’erano sempre due tre jeep militari che pattugliavano il recinto”, continua. “Oggi ce n’è solo una.”

Ma al di là dello strano comportamento dei soldati e del fatto che i palestinesi sono ora diventati i protettori della barriera, rimane la questione dell’Autorità Palestinese. “Onestamente si può dire che l’AP ha affrontato la crisi del coronavirus meglio degli israeliani”, afferma Rajoub, governatore di Jenin. Con le mani legate e con scarse risorse, l’AP ha fatto un lavoro migliore di Israele, che si considera una superpotenza in materia di scienza e medicina e l’unica democrazia in Medio Oriente, dice. “Abbiamo imbarazzato Israele. Abbiamo ottenuto risultati che Israele non ha ottenuto. Questo è ciò che ha causato la tensione e i problemi “.

Non si tratta affatto di gelosia, dice il sindaco. “Il loro interesse è politico. Il loro obiettivo è presentarci come deboli, sottomessi e sotto il controllo israeliano, il nostro custode. Stanno cercando di dirci: “Siamo i vostri benefattori, siamo quelli istruiti, siamo quelli con i mezzi e le capacità e voi non siete niente”.

Dato che la reputazione dell’AP sembra migliorare tra i palestinesi della Cisgiordania, afferma Rajoub, Israele è più determinato a indebolirla. “La crisi del coronavirus ha notevolmente rafforzato la posizione dell’Autorità tra il popolo palestinese”, afferma. “Questa è la prima volta da Oslo che io, in quanto membro del governo, sento che il popolo palestinese sta lodando le forze di sicurezza e il governo palestinese. [Israele] vuole indebolire l’AP e minare il morale e la fiducia del popolo palestinese nella sua leadership politica e di sicurezza “.

In risposta alle accuse secondo cui ha aperto i canali di drenaggio, il Coordinamento delle attività governative nei territori (COGAT), che sovrintende alla politica israeliana in Cisgiordania, ha espresso rammarico per il fatto che “mentre lo Stato di Israele sta aiutando l’Autorità palestinese a gestire meglio la lotta globale contro lo scoppio del coronavirus, il governatore di Qalqilya sceglie di parlare contro Israele. “

COGAT ha inoltre affermato che, in previsione della pioggia, le autorità hanno aperto i canali di drenaggio nell’area di Qalqilya per prevenire inondazioni “per il benessere dei palestinesi che vivono nell’area”. L’affermazione secondo cui i canali erano stati aperti per l’ingresso dei lavoratori senza controlli, è “falsa e sganciata dalla realtà”, ha aggiunto, questo tipo di procedura è comune durante il tempo piovoso e nota alle autorità palestinesi.

COGAT non ha risposto alla richiesta di riparare le aperture nella recinzione.
Per quanto riguarda le accuse secondo cui l’esercito israeliano non controlla i canali aperti e le aperture nella recinzione, consentendo così ai lavoratori di passare, il portavoce dell’IDF ha dichiarato che “contrariamente alle accuse, l’impegno difensivo continua come al solito”.

Una versione di questo articolo è stata pubblicata per la prima volta in ebraico su Local Call.

Traduzione di Alessandra Mecozzi