L’“accordo del secolo” di Trump non porterà la pace, e quello era previsto

Jonathan Cook

29 gennaio 2020 – Palestine Chronicle

Buona parte dell’“accordo del secolo” di Trump a lungo rinviato non è stata una sorpresa. Nel corso degli ultimi 18 mesi fonti ufficiali israeliane hanno fatto filtrare molti dei suoi dettagli..

La cosiddetta “visione per la pace” svelata martedì ha semplicemente confermato che il governo USA ha pubblicamente adottato ciò che da molto tempo è accettato da tutti in Israele: che quest’ultimo ha il diritto di tenersi per sempre le aree di territorio che ha illegalmente sottratto nel corso degli ultimi 50 anni negando ai palestinesi una qualunque speranza di avere uno Stato.

La Casa Bianca ha scartato la tradizionale posizione USA come “mediatore neutrale” tra Israele e i palestinesi. I dirigenti palestinesi non sono stati invitati alla cerimonia e non ci sarebbero andati se lo fossero stati. Questo è un accordo concepito più a Tel Aviv che a Washington – e il suo obiettivo era di garantire che non ci sarebbe stata nessuna controparte palestinese.

Cosa più importante per Israele, esso avrà il permesso di Washington per annettersi tutte le colonie illegali, ora disseminate in tutta la Cisgiordania, così come la vasta area agricola della Valle del Giordano. Israele continuerà ad avere il controllo militare su tutta la Cisgiordania. Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha annunciato la sua intenzione di portare il prima possibile davanti al suo governo un simile piano di annessione. Ciò rappresenterà senza dubbio l’asse centrale del suo tentativo di vincere le elezioni politiche molto incerte previste per il 2 marzo.

L’accordo di Trump approva anche la già esistente annessione di Gerusalemme est a Israele. Prevede che i palestinesi facciano finta che la loro capitale sia un villaggio della Cisgiordania fuori città, chiamando “Al Quds” [Gerusalemme in arabo, ndtr.] la loro capitale. Ci sono indicazioni con effetti fortemente provocatori che ad Israele sarà consentito di dividere il complesso della moschea di Al Aqsa per creare una zona di preghiera per ebrei estremisti, come è avvenuto ad Hebron.

Oltretutto sembra che l’amministrazione Trump stia prendendo in considerazione l’approvazione delle speranze di lunga data della destra israeliana di ridefinire gli attuali confini in modo tale da trasferire potenzialmente in Cisgiordania centinaia di migliaia di palestinesi che attualmente sono cittadini di Israele. Ciò rappresenterebbe quasi sicuramente un crimine di guerra.

Il piano non prevede nessun diritto al ritorno e sembra che il mondo arabo dovrebbe pagare il conto per indennizzare milioni di rifugiati palestinesi.

Una mappa USA distribuita martedì mostra enclave palestinesi collegate da un labirinto di ponti e tunnel, compreso uno tra la Cisgiordania e Gaza. L’unico incentivo concesso ai palestinesi sono le promesse USA di rafforzare la loro economia. Date le difficili condizioni finanziarie dei palestinesi dopo decenni di furto di risorse da parte di Israele, questa non è molto più di una promessa.

Tutto ciò è stato mascherato da “realistica soluzione dei due Stati”, che offre ai palestinesi circa il 70% dei territori occupati, che a loro volta rappresentano il 22% della loro patria originaria. Detto in altro modo, ai palestinesi viene richiesto di accettare uno Stato sul 15% della Palestina storica, dopo che Israele si è impossessato di tutte le migliori terre agricole e risorse idriche.

Come tutti gli accordi prendere o lasciare, questo “Stato” rappezzato, senza un esercito e in cui Israele controllerebbe la sicurezza, i confini, le acque territoriali e lo spazio aereo, ha una scadenza. Deve essere accettato entro quattro anni. In caso contrario Israele avrà la mano libera per iniziare a depredare ancora più territorio. Ma la verità è che né Israele né gli USA si aspettano o vogliono che i palestinesi collaborino.

Per questo il piano include, oltre all’annessione delle colonie, una miriade di precondizioni irrealizzabili prima che ciò che rimane della Palestina venga riconosciuto: le fazioni palestinesi devono deporre le armi, ed Hamas si deve sciogliere; l’Autorità Nazionale Palestinese, guidata da Mahmoud Abbas, deve elimnare i sussidi alle famiglie dei prigionieri politici; i territori palestinesi devono essere reinventati come una Svizzera del Medio Oriente, una fiorente democrazia e una società aperta, tutto ciò sotto il dominio israeliano.

Al contrario il piano Trump pone fine alla farsa per cui il processo di Oslo, durato 26 anni, ha avuto come obiettivo nient’altro che la resa dei palestinesi. Gli Usa si allineano totalmente con i tentativi di Israele, perseguiti per molti decenni da tutti i suoi principali partiti, di porre le basi per un’apartheid permanente nei territori occupati.

Trump ha invitato per la presentazione sia Netanyahu, il primo ministro israeliano ad interim, che il suo principale avversario politico, l’ex-generale Benny Gantz. Entrambi erano ansiosi di esprimere il proprio appoggio incondizionato.

Tutti e due insieme rappresentano i 4/5 del parlamento israeliano. Il principale campo di scontro delle elezioni di marzo sarà chi dei due potrà sostenere di essere più in grado di mettere in atto il piano e quindi sferrare un colpo mortale ai sogni palestinesi di avere uno Stato.

Nella destra israeliana ci sono state manifestazioni di dissenso. Gruppi di coloni hanno descritto il piano come “lungi dall’essere perfetto”, un’opinione quasi sicuramente condivisa in privato da Netanyahu. L’estrema destra israeliana è contraria a qualunque discorso riguardo alla costituzione di uno Stato palestinese, per quanto illusorio.

Ciononostante Netanyahu e la sua coalizione di destra sarà ben contenta di cogliere i benefici offerti dall’amministrazione Trump. Nel contempo l’inevitabile rifiuto del piano da parte della dirigenza palestinese servirà d’ora in avanti come giustificazione per il furto da parte di Israele di altra terra. Ci sono altri, più immediati vantaggi dell’“accordo del secolo”.

Consentendo a Israele di raccogliere illeciti vantaggi dalla conquista nel 1967 dei territori palestinesi, Washington ha ufficialmente appoggiato una delle più grandi aggressioni coloniali dell’epoca contemporanea. L’amministrazione USA ha di conseguenza dichiarato una guerra aperta ai già deboli limiti imposti dalle leggi internazionali.

Anche Trump ne beneficia di persona. Ciò fornirà un diversivo dalle udienze per il suo impeachment così come una consistente offerta per corrompere, durante la corsa alle elezioni presidenziali, la sua base evangelica ossessionata da Israele e importanti finanziatori, come il magnate USA dei casinò Sheldon Adelson.

E il presidente USA è corso in aiuto a un utile alleato politico. Netanyahu spera che questo sostegno da parte della Casa Bianca possa promuovere la sua coalizione ultra-nazionalista al potere in marzo e intimidire i tribunali israeliani quando prenderanno in considerazione le accuse penali contro di lui.

Martedì è risultato evidente quanto egli preveda di ricavare un vantaggio personale dal piano di Trump. Ha rimproverato la procura generale di Israele per aver presentato le accuse di corruzione, sostenendo che è stato messo a repentaglio un “momento storico” per lo Stato di Israele.

Nel contempo Abbas ha accolto il piano con “un migliaio di no”. Trump lo ha messo totalmente in pericolo. O l’ANP abbandona il suo ruolo di subappaltante della sicurezza a favore di Israele e si scioglie, o continua come prima ma privato ora esplicitamente dell’illusione che si possa perseguire la sua trasformazione in uno Stato.

Abbas cercherà di resistere con le unghie e con i denti, sperando che Trump in questo anno di elezioni venga spodestato e che una nuova amministrazione USA ritorni alla finzione di far avanzare il processo di pace di Oslo ormai da molto tempo arrivato a scadenza. Ma se Trump vince le difficoltà aumenteranno rapidamente.

Nessuno, ancora meno l’amministrazione Trump, crede che questo piano porterà alla pace. Una preoccupazione più realistica è con quale rapidità preparerà la strada per uno spargimento di sangue ancora più grande.

– Jonathan Cook ha vinto il premio speciale di giornalismo “Martha Gellhorn”. Tra i suoi libri “Israel and the Clash of Civilisations: Iraq, Iran and the Plan to Remake the Middle East” [Israele e lo scontro di civiltà: Iraq, Iran e il piano per ridisegnare il Medio Oriente] (Pluto Press) e “Disappearing Palestine: Israel’s Experiments in Human Despair” [Palestina che sparisce: gli esperimenti israeliani sulla disperazione umana] (Zed Books). Ha contribuito con questo articolo a The Palestine Chronicle.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Avanti, annettiamo la Cisgiordania

Meron Rapoport 

23 gennaio 2020 – + 972

L’annessione della Valle del Giordano renderebbe ufficialmente Israele uno Stato di apartheid dal fiume al mare. Ma potrebbe essere meno terribile di come pensiamo.

Si è saputo che anche Benny Gantz, rivale di centro del Primo Ministro Netanyahu, persegue l’obiettivo che Israele annetta la Valle del Giordano. Martedì, durante una visita in quella zona della Cisgiordania occupata, Gantz ha affermato che la Valle del Giordano è “lo scudo difensivo di Israele verso est in qualsiasi futuro conflitto. Consideriamo questa terra come parte inseparabile dello Stato di Israele.” Dopo le elezioni, ha continuato Gantz, avrebbe esteso la sovranità sulla valle con una “mossa concordata a livello nazionale” e coordinata con la comunità internazionale.

Non è una posizione nuova tra i falchi del centro israeliano. Un piano strategico pubblicato nell’ottobre 2018 dal National Security Research Institute, il luogo di formazione ideologica di ex generali dell’IDF come Gantz, afferma che Israele avrebbe già dovuto dichiarare la Valle del Giordano area strategica, da mantenere sotto controllo israeliano fino a quando Israele non arriverà ad un sufficiente accordo per la sicurezza.

È peraltro vero che le recenti condizioni poste da Gantz – che l’annessione della Valle del Giordano abbia il consenso nazionale e sia coordinato a livello internazionale – potrebbero far sì che la dichiarazione resti priva di fondamento. A parte il presidente degli Stati Uniti Donald Trump (e anche questo non è del tutto certo), è improbabile che la “comunità internazionale” accetti la mossa.

Eppure, anche se non ha alcuna reale intenzione di annettere la Valle, Gantz ha deliberatamente scelto di schierarsi con la retorica della destra israeliana, per la quale l'”annessione” è diventata una questione di buone maniere, cartina di tornasole per qualsiasi personaggio politico.

Le affermazioni di Gantz ricordano in qualche modo lo slogan della campagna elettorale di Netanyahu del 1996: “Fare una pace sicura”. Netanyahu all’epoca non aveva intenzione di fare la pace, così come oggi sembra che Gantz non abbia alcuna intenzione di procedere all’annessione. Tuttavia, tre anni dopo gli Accordi di Oslo, Netanyahu fu costretto ad includere il centro-sinistra israeliano dell’epoca, per cui la parola “pace” era una categoria a parte. Questo vale per gli ultimi 25 anni della politica israeliana: la pace è out, l’annessione è in.

Potrebbe non essere terribile come si pensa. Per alcuni aspetti, è veramente deplorevole che la coalizione di destra, secondo recenti sondaggi, non sarà in grado di assicurarsi 61 seggi della Knesset nelle prossime elezioni di marzo. Se dovesse vincere Netanyahu, è difficile immaginare come se la caverà con le sue chiare promesse di annettere immediatamente la Valle del Giordano. Nell’attuale situazione politica, l’annessione è il miglior regalo che possano sperare gli avversari dell’occupazione.

Questo non significa che le cose debbano peggiorare prima di migliorare. L’annessione scuoterà lo status quo di espansione infinita fatta di occupazione e insediamento, diventata molto comoda per Israele. Costringerà la società israeliana e parti della comunità internazionale a tornare a discutere una soluzione politica del conflitto, un obiettivo quasi scomparso. E costringerà i sostenitori della soluzione a due Stati, e persino i sostenitori di un singolo Stato, a uscire dalla loro zona protetta e ricalibrare i loro desideri con la realtà concreta.

Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, l’impatto dell’annessione sui confini definitivi di Israele o la fattibilità dell’idea dei due Stati non creerebbero necessariamente un discrimine. Israele ha annesso Gerusalemme Est più di 52 anni fa, pochi giorni dopo la fine della guerra del 1967; ciò non ha impedito a rappresentanti israeliani, ufficiali e non, di discutere dell’annessione in vari negoziati con i palestinesi e concordare che il futuro Stato palestinese avrebbe controllato i quartieri palestinesi della città.

Ciò vale anche per l’ex primo ministro Ehud Olmert, che ha fatto carriera politica nel partito Likud promettendo di tenere Gerusalemme “per l’eternità” (Olmert è stato anche protagonista della campagna elettorale del 1996 di Netanyahu, accusando i laburisti di Shimon Peres di “dividere Gerusalemme”). Un decennio dopo, durante i colloqui di pace con il presidente palestinese Mahmoud Abbas, fu Olmert a proporre di dividere la città. E l’annessione delle Alture del Golan nel 1981 non ha impedito a Ehud Barak – e secondo i documenti, allo stesso Netanyahu – di discutere della possibilità di restituire il Golan alla Siria di Hafez al-Assad.

L’annessione non migliorerà particolarmente la situazione dei pochi coloni israeliani che vivono nella Valle del Giordano. Oggi, e specialmente dopo un decennio di governo di Netanyahu, la Linea Verde [confine tra Israele e Gerusalemme est, Cisgiordania e Gaza prima dell’occupazione del 1967, ndtr.] è quasi del tutto irrilevante e i coloni che vivono in Cisgiordania godono di diritti quasi identici ai cittadini israeliani all’interno dei confini del 1948.

L’annessione può rimuovere alcune delle barriere attualmente imposte ai coloni, ma può anche rendere loro la vita difficile. Nel momento in cui la Valle del Giordano diventasse soggetta ufficialmente alla legge israeliana – piuttosto che agli ordini militari – potrebbe essere molto più difficile confiscare terre, sfrattare palestinesi e stabilire colonie di soli ebrei.

Anche se Israele decidesse di concedere ai palestinesi che annette lo status di residenti invece della piena cittadinanza (come a Gerusalemme est), tale status consentirebbe loro di muoversi liberamente e lavorare all’interno di Israele, il che sicuramente migliorerebbe la loro attuale situazione. Eppure ci sono poche ragioni per credere che i palestinesi annessi rinuncerebbero alle loro aspirazioni nazionali: non è accaduto a Gerusalemme est dopo 52 anni di occupazione, non è accaduto con i palestinesi cittadini di Israele.

Ma c’è la possibilità che l’annessione possa dare impulso non solo ai palestinesi che si trovano sotto la sovranità israeliana, ma alla lotta palestinese in generale. L’annessione costringerebbe l’Autorità Nazionale Palestinese a emergere dal suo coma; renderebbe più facile smantellarla, costringerebbe Israele a riprendere il diretto controllo sulla Cisgiordania, e il ritorno a una lotta per i diritti civili in uno Stato democratico tra il fiume [Giordano] e il mare [Mediterraneo], simile al programma politico originario dell’OLP.

Se Israele, in effetti, rifiutasse di concedere pieni diritti civili ai palestinesi, sarà ancora più facile dimostrare che il regime in Cisgiordania non è un problema temporaneo di “territorio conteso”, come ama sostenere Israele. L’apartheid diventerebbe la politica ufficiale dello Stato.

Inoltre, l’annessione porterebbe la questione palestinese al centro dell’attenzione del mondo arabo. Il governo giordano sta già affrontando una forte opposizione al suo accordo di pace con Israele. Recenti manifestazioni nel Regno hascemita contro l’accordo con Israele per il gas sono ulteriori prove di dissenso. Se l’annessione dovesse avvenire, è difficile pensare che re Abdullah si atterrebbe all’accordo con Israele, volendo mantenere il potere.

La Giordania potrebbe trasformarsi in Palestina, come sperava Netanyahu nel suo libro del 1993 A Place Among the Nations [Un posto fra le Nazioni, ndtr.] – ma questa “Palestina” avrebbe un esercito che potrebbe puntare le sue armi su Israele per solidarietà con i fratelli dall’altra parte del fiume Giordano.

Netanyahu, che conosce la scena internazionale meglio di qualsiasi altro leader a destra – e forse in Israele – è ben consapevole di tutto ciò. Questo è il motivo per cui, durante il suo decennio al potere, ha evitato di compiere passi drastici, perfezionando allo stesso tempo lo status quo. Le sue politiche hanno assicurato l’annessione strisciante di sempre più colonie, la cancellazione della Linea Verde dalla coscienza israeliana e la completa normalizzazione dell’occupazione.

Netanyahu sperava che l’opinione pubblica israeliana, la comunità internazionale, i regimi arabi filo-occidentali e forse gli stessi palestinesi avrebbero alla fine accettato il dominio israeliano sull’intera terra e avrebbero tolto l’opzione di uno Stato palestinese dal tavolo. Ha funzionato brillantemente; persino Gantz, il maggior rivale di Netanyahu, non parla di due Stati.

Ma per il primo ministro potrebbe aver funzionato troppo bene. Proprio perché uno Stato palestinese non sembra più essere preso in considerazione, la destra nazionalista-religiosa ha trasformato l’annessione in richiesta politica – qualcosa che non ha fatto in 40 anni di permanenza al governo, da quando la destra ha preso il potere nel 1977. Se gli insediamenti sono riusciti a impedire l’istituzione di uno Stato palestinese, dicono, perché non passare alla fase successiva e realizzare l’ideale del Grande Israele?

Finché Netanyahu è stato politicamente forte, poteva evitare di parlare di annessione a gente come Naftali Bennett [politico israeliano dell’estrema destra dei coloni ed attuale ministro della Difesa, ndtr.] Ma non appena i problemi legali hanno cominciato a premergli addosso, lo spazio di manovra di Netanyahu è diminuito. Non ha altra scelta che abbracciare il linguaggio del sovranismo, che solo pochi anni fa giaceva in qualche posto nelle plaghe dormienti della destra.

Non che Netanyahu non creda nell’esclusiva sovranità ebraica tra il fiume e il mare: semplicemente non credeva che dovesse realizzarsi attraverso l’annessione formale. Oggi non si tratta più di buttare sul tavolo l’annessione in cambio dell’immunità politica. È annessione o prigione.

Non vi è dubbio che l’annessione sia una violazione del diritto internazionale, che sarebbe imposta ai palestinesi con la forza e trasformerebbe ufficialmente Israele in uno Stato di apartheid. Bisogna opporsi. Ma dopo tanti anni sotto il dominio della fazione del Grande Israele, potrebbe essere il momento di mettere alla prova la proposta della destra. L’annessione chiarirà il vero dibattito Israele-Palestina: uguaglianza e autodeterminazione per ogni Nazione che vive tra la Giordania e il mare o supremazia ebraica.

Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta in ebraico su Local Call [versione in ebraico di +972, ndtr.].

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




I palestinesi mettono in guardia Israele e gli USA mentre Trump sta discutendo il nuovo ‘piano per la pace’

24 gennaio 2020 – Al Jazeera

I palestinesi respingono l’incontro tra gli USA e Netanyahu affermando di non riconoscere il piano di pace che si prevede favorisca Israele.

L’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) ha messo in guardia Israele e gli Stati Uniti dal “valicare le linee rosse” promettendo che non riconoscerà il piano di pace per il Medio Oriente che aveva già respinto in precedenza mentre il Presidente USA Donald Trump si prepara a presentare il piano nei prossimi giorni.

Giovedì Trump ha detto che probabilmente rivelerà il tanto atteso progetto prima della visita a Washington, DC, di Benjamin Netanyahu, il primo ministro israeliano, la prossima settimana.

“Probabilmente lo renderò noto un po’ prima” ha detto il leader degli USA ai reporter che andavano con lui in Florida a bordo dell’Air Force One, riferendosi all’incontro di martedì alla Casa Bianca.

“È un ottimo piano. È un piano che funzionerà davvero” ha aggiunto.

I palestinesi, che non sono stati invitati alla Casa Bianca per l’incontro con Netanyahu, hanno immediatamente respinto le trattative che si svolgono negli USA, in quanto respingono il piano in sé che è stato elaborato dal 2017. La sua presentazione è stata più volte rimandata.

La parte economica del piano è stata rivelata a giugno e prevede 50 miliardi di dollari di investimenti internazionali nei territori palestinesi e nei Paesi arabi vicini per 10 anni.

I palestinesi hanno respinto i tentativi di pace di Trump dopo il suo controverso riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele e lo spostamento dell’ambasciata USA a maggio 2018.

Come ha riferito la WAFA, l’agenzia stampa ufficiale palestinese, Nabil Abu Rudeineh, un portavoce del presidente palestinese, ha dichiarato che i leader palestinesi respingeranno ogni atto USA che infranga le leggi internazionali. 

“Se questo accordo viene presentato con quelle premesse che sono state già respinte, i leader annunceranno una serie di misure volte a garantire i nostri legittimi diritti e pretenderemo che Israele si assuma tutte le responsabilità quale potenza occupante” ha detto Abu Rudeineh.

Sembrava fare riferimento alle minacce, spesso reiterate, di sciogliere l’Autorità Nazionale Palestinese, che ha un’autonomia limitata in alcune parti della Cisgiordania occupata da Israele. Ciò costringerebbe Israele ad assumersi la responsabilità di fornire servizi essenziali a milioni di palestinesi.

“Noi vogliamo mettere in guardia Israele e l’amministrazione USA dal valicare le linee rosse” ha detto Abu Rudeineh che ha ripetuto la richiesta di porre fine all’occupazione israeliana dei territori palestinesi e detto che dovrebbe essere costituito uno Stato palestinese indipendente con capitale Gerusalemme.

‘Si parla solo di Israele’

In aereo, giovedì, Trump si è detto contento che Netanyahu e il suo principale rivale alle elezioni, Benny Gantz, capo del partito di centro Blu Bianco, avrebbero fatto visita alla Casa Bianca nel mezzo della campagna per le elezioni in Israele del 2 marzo.

“Verranno entrambi i candidati, una cosa mai successa!” ha detto Trump.

Alla domanda se avesse contattato i palestinesi, Trump ha detto: “Abbiamo parlato brevemente con loro, ma lo faremo fra poco.

E loro hanno molti incentivi a farlo. Sono sicuro che forse all’inizio reagiranno negativamente, ma per loro è davvero molto positivo.”

Husam Zomlot, il capo della missione palestinese nel Regno Unito, ha detto all’agenzia di stampa AFP [agenzia di stampa francese, N.d.T] che il fatto che Trump abbia invitato i due leader israeliani e nessun palestinese dimostra che il meeting intende influire sulla politica interna israeliana più che essere un vero tentativo di pace. 

“Questa è la conferma di quella che è stata dall’inizio la loro politica fin dall’inizio – si parla solo di Israele.”

Si prevede che il progetto sia fortemente a favore di Israele e che gli offra il controllo di vaste zone della Cisgiordania.

I palestinesi vorrebbero invece che l’intero territorio, conquistato da Israele nel 1967, diventasse il cuore di un futuro Stato indipendente, parte della soluzione dei due Stati sostenuta dalla maggior parte della comunità internazionale.

Netanyahu ha detto che intende annettere sia la Valle del Giordano occupata che gli insediamenti illegali israeliani in Cisgiordania, ponendo così fine a ogni possibilità di creare uno Stato palestinese sostenibile.

Netanyahu ha tentato di fare di questa promessa la chiave di volta della sua campagna per la rielezione in seguito al testa a testa senza precedenti dopo le ultime elezioni dell’anno scorso che lo ha lasciato in virtuale pareggio con Gantz, ma senza che nessuno dei due fosse in grado di formare una coalizione di governo.

‘L’accordo del secolo’ di Trump

Trump, la cui squadra sta da tempo lavorando sul progetto di un piano di pace segreto, si è ripetutamente vantato di essere il presidente USA più pro-israeliano della storia.

Abbas ha tagliato ogni rapporto con gli USA dal dicembre 2017, dopo il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele con cui Trump ha rotto decenni di consenso internazionale.

I palestinesi considerano la parte orientale della città la capitale del loro futuro Stato e le potenze mondiali concordano da tempo che il destino di Gerusalemme dovrebbe essere deciso con una soluzione negoziata.

Trump è salito al potere nel 2017 promettendo di mediare la pace tra israeliani e palestinesi, che aveva chiamato “l’accordo del secolo “.

Ma da allora ha preso una serie di decisioni che hanno indignato i palestinesi, incluso il taglio di centinaia di milioni di dollari di aiuti e la dichiarazione che gli USA non considerano più illegali le colonie israeliane in Cisgiordania.

Si ritiene che il suo piano per porre fine al conflitto israelo-palestinese ruoti attorno alla promozione di enormi investimenti economici.

Dopo molti rinvii, l’iniziativa di pace era prevista parecchi mesi fa, ma è stata rimandata dopo che le elezioni in Israele a settembre si sono dimostrate inconcludenti e non si pensava che sarebbe stata resa nota fino a dopo il voto del 2 marzo.

I media israeliani hanno discusso quella che dicono siano le linee generali dell’accordo trapelate giovedì, sostenendo che gli USA sono d’accordo su molte delle principali richieste israeliane.

L’incontro a Washington, DC, si terrà circa un mese prima delle nuove elezioni, con i sondaggi che mostrano un testa a testa fra la destra del Likud di Netanyahu e il partito di Gantz, il Blu e Bianco.

Il meeting di martedì coincide con una seduta del parlamento [israeliano] prevista per discutere la possibile immunità di Netanyahu per l’imputazione in una serie di casi di corruzione.    

I media israeliani sospettano che Trump abbia scelto di annunciare l’evento per sostenere il tentativo di rielezione di Netanyahu, il terzo in un anno.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




La Cisgiordania era ed è ancora il principale campo di battaglia di Israele

Adnan Abu Amer

24 gennaio 2020 – Middle East Monitor

Circoli israeliani hanno accusato Hamas di continuare ad aggravare il conflitto contro l’esercito e i coloni in Cisgiordania al fine di destabilizzare la sicurezza interna. Questo si è trasformato in crescenti tensioni da parte di Israele, soprattutto in quanto uno dei motivi degli accresciuti timori israeliani è quello di una lotta per la successione di Mahmoud Abbas alla presidenza dell’Autorità Nazionale Palestinese.

Alla luce di tali timori il servizio di sicurezza [interno] Shin Bet ha annunciato di aver sventato nel 2019 560 importanti operazioni, compresi sei attentati kamikaze, quattro rapimenti di soldati e coloni e oltre 300 uccisioni. L’esercito ha neutralizzato circa 12 cellule armate palestinesi, che avevano programmato di condurre operazioni violente usando esplosivi.

Questi dati israeliani confermano che col passare del tempo le tensioni in Cisgiordania stanno aumentando e che l’opinione prevalente è che un’operazione armata, simile a quella di agosto nella colonia Dolev vicino a Ramallah, in cui è stata uccisa una colona israeliana con un ordigno esplosivo, può avere un buon esito dopo che la cellula che ha condotto l’operazione è riuscita a eludere il sistema di controllo israeliano. Comunque l’identificazione da parte dello Shin Bet della cellula che ha eseguito l’operazione ha svelato una vasta infrastruttura militare.

L’esercito israeliano e i suoi servizi segreti si concentrano su ciò che definiscono l’importante ruolo ricoperto all’interno di Hamas dalla sua struttura in Cisgiordania, che è responsabile della direzione delle operazioni in Cisgiordania. Sta operando su più vasta scala e con maggiore intensità per destabilizzare la sicurezza e per prendere di mira soldati e coloni. Vale la pena sottolineare che alcune delle recenti decisioni prese a livello politico israeliano relativamente ai palestinesi non fanno che gettare benzina sul fuoco, scatenando ulteriori tensioni.

Quindi lo stato di allerta dell’esercito israeliano in Cisgiordania è recentemente aumentato in previsione della possibilità di un improvviso allontanamento di Abbas dalla scena politica. La ragione è che la lotta per la successione potrebbe portare ad una resistenza popolare che sconfini in resistenza armata, dato che la maggioranza dei candidati alla successione ha iniziato ad accumulare armi, sollevando gravi preoccupazioni in Israele.

Il principale fattore che influirà sulla situazione della sicurezza in Cisgiordania restano le elezioni israeliane e la parallela diffusione di messaggi provocatori da parte dei politici israeliani riguardo al futuro della Cisgiordania. Questi includono l’annessione della Valle del Giordano, di importanti blocchi di colonie, il divieto di costruzione per i palestinesi in area C ed altre decisioni arbitrarie.

Tutti questi orientamenti politici e comportamenti israeliani sul campo non faranno che esacerbare le tensioni per la sicurezza in Cisgiordania, suscitando reazioni negative tra i palestinesi, ed hanno un effetto dannoso sul coordinamento per la sicurezza con l’Autorità Nazionale Palestinese, che contribuisce ampiamente alla stabilità dell’esercito e dei coloni. Questo richiede che Israele sia preparato ad ogni sorpresa che possa verificarsi in Cisgiordania.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Isolate e dimenticate: cosa bisogna sapere sulle “zone di tiro” di Israele in Cisgiordania

 Ramzy Baroud

14 gennaio 2020  palestinechronicle

Una notizia apparentemente ordinaria, pubblicata sul giornale israeliano Haaretz il 7 gennaio, ha fatto luce su un argomento da tempo dimenticato ma cruciale: le cosiddette “zone di tiro” di Israele in Cisgiordania.

Secondo Haaretz “Israele ha sequestrato l’unico veicolo disponibile di una equipe medica che fornisce assistenza a 1.500 palestinesi residenti all’interno di una zona di tiro militare israeliana in Cisgiordania”.

La comunità palestinese a cui è stato negato l’unico servizio medico disponibile è Masafer Yatta, un piccolo villaggio palestinese sulle colline a sud di Hebron.

Masafer Yatta, in completo e assoluto isolamento dal resto della Cisgiordania occupata, si trova nell’”Area C”, la più grande zona territoriale, circa il 60%, della Cisgiordania. Ciò significa che il villaggio, insieme a molte città, villaggi e piccole comunità isolate palestinesi, è sotto il totale controllo militare israeliano.

Non fatevi ingannare dalla fumosa logica degli Accordi di Oslo; tutti i palestinesi, in tutte le zone della Cisgiordania occupata, a Gerusalemme est e nella Striscia di Gaza assediata, sono sotto il controllo militare israeliano.

Tuttavia, sfortunatamente per Masafer Yatta e per gli abitanti dell'”Area C”, il grado di controllo vi è così soffocante che ogni aspetto della vita palestinese – libertà di movimento, istruzione, accesso all’acqua potabile e così via – è controllato da un complesso sistema di ordinanze militari israeliane che non hanno alcun riguardo per il benessere delle comunità assediate.

Non sorprende quindi che l’unico veicolo di Masafer Yatta, il disperato tentativo di realizzare un ambulatorio mobile, sia stato già confiscato in passato, e recuperato solo dopo che gli abitanti impoveriti sono stati costretti a pagare una multa ai soldati israeliani.

Non esiste una logica militare al mondo che possa giustificare razionalmente il blocco dell’accesso alle cure mediche per una comunità isolata, specialmente quando una potenza occupante come Israele è legalmente obbligata, ai sensi della Quarta Convenzione di Ginevra, a garantire l’accesso all’assistenza medica ai civili che vivono in un territorio occupato.

È naturale che la comunità di Masafer Yatta, come tutti i palestinesi nell'”Area C” e nell’intera Cisgiordania, si senta trascurata – e apertamente tradita – dalla comunità internazionale e dalla propria leadership collaborazionista.

Ma c’è qualcosa di più che rende il villaggio di Masafer Yatta veramente unico, guadagnandogli la sfortunata definizione di bantustan [territori formalmente autogovernati dalla popolazione di colore nel Sudafrica dell’apartheid, ndtr.] all’interno di un bantustan, poiché sopravvive sottoposto ad un sistema di controllo molto più complesso rispetto a quello imposto al Sud Africa nero durante il regime dell’apartheid.

Poco dopo aver occupato la Cisgiordania, Gerusalemme est e Gaza, Israele ideò uno stratagemma a lungo termine per mantenere il controllo sui territori appena occupati. Ha destinato alcune aree alla futura ricollocazione dei propri cittadini – che ora costituiscono la popolazione di coloni ebrei illegali ed estremisti in Cisgiordania – e si è anche riservato ampie parti dei territori occupati come zone di sicurezza e aree cuscinetto.

Ciò che è molto meno noto è che, durante gli anni ’70, l’esercito israeliano ha dichiarato circa il 18% della Cisgiordania “zona di tiro”.

Queste “zone di tiro” erano presumibilmente destinate ad essere campi di addestramento per i soldati dell’esercito israeliano di occupazione – sebbene i palestinesi intrappolati in quelle regioni riferiscano spesso che all’interno delle cosiddette “zone di tiro” non si svolge quasi alcun addestramento militare.

Secondo l’Ufficio di Coordinamento delle Nazioni Unite per gli Affari Umanitari (OCHA) in Palestina, ci sono ancora circa 5.000 palestinesi, divisi in 38 comunità, che vivono in circostanze veramente terribili all’interno delle cosiddette “zone di tiro”.

L’occupazione del 1967 portò a una massiccia ondata di pulizia etnica che vide l’espulsione forzata di circa 300.000 palestinesi dai territori appena conquistati. Fra le molte vulnerabili comunità ripulite etnicamente c’erano anche i beduini palestinesi, che continuano a pagare il prezzo dei progetti coloniali israeliani nella Valle del Giordano, nelle colline a sud di Hebron e in altre parti della Palestina occupata.

La loro vulnerabilità è aggravata dal fatto che l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) agisce con poco riguardo per i palestinesi che vivono nell'”Area C”, lasciati da soli a sopportare e resistere alle pressioni israeliane, ricorrendo spesso all’ingiusto sistema giudiziario di Israele per riconquistare alcuni dei propri diritti fondamentali.

Gli Accordi di Oslo, firmati nel 1993 tra la leadership palestinese e il governo israeliano, dividevano la Cisgiordania in tre regioni: “Area A”, teoricamente sotto controllo palestinese autonomo e costituita dal 17,7% della dimensione complessiva della Cisgiordania; “Area B”, 21% e sotto il controllo condiviso di Israele-ANP; “Area C”, il resto della Cisgiordania sotto il totale controllo di Israele.

L’accordo avrebbe dovuto essere temporaneo, e terminare nel 1999 una volta conclusi i “negoziati sullo status finale” e firmato un accordo di pace complessivo. Invece, è diventato a priori lo status quo.

Per quanto sfortunati siano i palestinesi che vivono nell'”Area C”, quelli che vivono nella “zona di tiro” all’interno dell'”Area C” affrontano difficoltà ancora maggiori. Secondo le Nazioni Unite, le loro traversie includono “la confisca delle proprietà, la violenza dei coloni, i maltrattamenti da parte dei soldati, le restrizioni di accesso e movimento e/o la scarsità d’acqua”.

Come ci si poteva aspettare, nel corso degli anni molti insediamenti ebraici illegali sono sorti in queste “zone di tiro”, un chiaro segno del fatto che queste aree non hanno mai avuto uno scopo militare, ma erano destinate a fornire una giustificazione legale a Israele per confiscare quasi un quinto della Cisgiordania per una futura espansione coloniale.

Nel corso degli anni, Israele ha messo in atto la pulizia etnica di tutti i palestinesi che rimanevano in queste “zone di tiro”, lasciandone solo 5.000, che probabilmente subiranno lo stesso destino se l’occupazione israeliana dovesse continuare lungo la stessa direttrice di violenza.

Questo rende la storia di Masafer Yatta un microcosmo della più ampia e tragica storia di tutti i palestinesi. È anche un riflesso della maligna natura del colonialismo israeliano e dell’occupazione militare, per cui i palestinesi sotto occupazione perdono la loro terra, la loro acqua, la loro libertà di movimento e, infine, persino le cure mediche di base.

Secondo le Nazioni Unite, queste dure “condizioni creano un ambiente coercitivo che fa pressione sulle comunità palestinesi affinché abbandonino quelle aree”. In altre parole, pulizia etnica, da sempre l’obiettivo strategico di Israele.

Ramzy Baroud è giornalista ed editore di The Palestine Chronicle. È autore di cinque libri. Il suo ultimo è These Chains Will Be Broken: Palestinian Stories of Struggle and Defiance in Israeli Prisons [Queste catene saranno spezzate: storie palestinesi di lotta e sfida nelle carceri israeliane], (Clarity Press, Atlanta). Baroud è ricercatore senior non residente presso il Center for Islam and Global Affairs (CIGA), dell’Università Zaim di Istanbul (IZU).

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




I laureati si arrabattano per avere uno stipendio migliore

Jaclynn Ashly e Alaa Daraghmeh

9 gennaio 2020 – The Electronic Intifada

Neppure avere una laurea ha aiutato Fathi Taradi.

Taradi, 34 anni, ha cercato per un decennio di trovare lavoro come giornalista nella Cisgiordania occupata. Alla fine ha dovuto accontentarsi di un lavoro nell’edilizia a Gerusalemme. “I primi giorni di lavoro in Israele avevo il cuore a pezzi perché avevo rinunciato a tutti i miei sogni di diventare giornalista,” dice Taradi a The Electronic Intifada nella sua casa di Taffuh, a ovest di Hebron.

Taradi è uno dei molti laureati palestinesi obbligati a cercare un lavoro umile in Israele o nelle colonie della Cisgiordania e a Gerusalemme est dopo aver perso la speranza di trovare un lavoro nel proprio campo [di studi].

Ha passato molti anni nel tentativo di lavorare sottopagato in stazioni radio locali della Cisgiordania, finché, cinque anni fa, ha ricevuto un permesso di lavoro israeliano.

Non avrei mai pensato di lavorare in Israele,” dice. “Ho molte competenze. Pensavo che a questo punto sarei diventato un cameraman di successo.”

All’inizio Taradi ha dovuto alzarsi ogni giorno alle 3 del mattino per viaggiare fino al checkpoint 300, a nord di Betlemme, rimanendo a volte in piedi per ore con centinaia di altri palestinesi imprigionato tra pareti di cemento e sbarre di ferro in attesa che i soldati israeliani aprissero i tornelli e controllassero i permessi rilasciati da Israele che consentono loro di entrare a Gerusalemme. Vedeva raramente i suoi quattro figli.

All’inizio di quest’anno Israele ha “migliorato” il checkpoint 300, insieme a quello di Qalandiya, nei pressi di Ramallah, creando più corsie e installando porte automatiche a cui i palestinesi avvicinano i permessi di ingresso biometrici per passare.

Questo miglioramento ha consentito di attraversare il posto di controllo militare più rapidamente e con maggiore efficienza, riducendo a qualche minuto quello che portava via ore. Ma non ha fatto niente per modificare i fondamenti di un’occupazione militare che obbliga palestinesi con titoli di studio come Taradi a lottare per trovare delle opportunità di lavoro.

Non ho mai perso la mia passione per i media,” dice Taradi. “Se avessi una possibilità di tornare nei media lo farei. Amavo il mio lavoro di giornalista.”

É stato inutile”

Per Sabri Saidam, ministro dell’Istruzione dell’Autorità Nazionale Palestinese, l’economia palestinese non è in grado di assorbire i laureati perché Israele non consente “un serio sviluppo ed investimenti in Palestina.” La pluridecennale occupazione ha soffocato l’economia locale, dice al telefono Saidam a The Electronic Intifada.

Lo fa in molti modi, e l’annientamento dell’economia palestinese in conseguenza dell’occupazione israeliana è ben documentato.

Ovviamente l’occupazione israeliana e la sua colonizzazione della Cisgiordania hanno confiscato vaste aree di terreno, compreso più del 60% della Cisgiordania, nota come Area C, in cui lo sviluppo palestinese è in larga parte vietato ma le colonie israeliane si espandono in modo quasi incontrollato.

I circa 600.000 coloni israeliani in Cisgiordania usano sei volte più acqua dei 2,86 milioni di palestinesi che vi vivono. Secondo il gruppo di ricerca palestinese Al-Shabaka, i costi indiretti delle restrizioni israeliane all’accesso dei palestinesi all’acqua nella Valle del Giordano, che impediscono ai palestinesi di coltivare in modo corretto la propria terra, sono stati di 663 milioni di dollari, l’equivalente dell’8,2% del PIL palestinese nel 2010.

Nel contempo per molti gli stipendi in Cisgiordania sono troppo bassi per poter sopravvivere. Secondo il ministero dell’Istruzione, in Cisgiordania il salario minimo è di 420 dollari al mese. Ma nel settore privato molti ricevono ancora meno.

Anche se Taradi potesse ottenere un lavoro a tempo pieno in una stazione televisiva locale in Cisgiordania, spesso questa potrebbe offrirgli solo circa 650 dollari al mese, mentre il suo lavoro nell’edilizia a Gerusalemme gliene frutta circa 2.000.

Essere diventato un lavoratore nell’edilizia ha consentito a Taradi di sposarsi e di costruire una casa con tre camere da letto per la sua famiglia – una cosa che sarebbe stata difficile fare con uno stipendio in Cisgiordania. “Mi sento come se avessi perso tempo a studiare. Tutto è stato inutile,” afferma.

L’esperienza di Taradi è condivisa da molti palestinesi che pensano di aver ricavato poco dagli titoli universitari. Alcuni hanno ottenuto lauree all’estero solo per tornare in Cisgiordania e non riuscire a trovare un lavoro.

Suhair, la moglie di Taradi, è rimasta disoccupata per otto anni. La trentunenne ha ottenuto la sua laurea in chimica all’università di Hebron nel 2010 ed ha tentato di trovare un lavoro presso il ministero dell’Istruzione dell’ANP.

Non attribuisce il fatto di essere disoccupata solo alla mancanza di opportunità in Cisgiordania, ma anche alla mancanza di wasta – una parola araba che fa riferimento al nepotismo o ai rapporti clientelari che agevolano il cammino alle persone per garantirsi un lavoro o altre possibilità.

Amir, un abitante di Betlemme che parla a patto di rimanere anonimo, ha ottenuto la sua laurea in educazione sportiva all’università Al-Quds nel 2008. Dopo anni di difficoltà con uno stipendio basso in Cisgiordania, questo padre di quattro figli ha riconosciuto la sua sconfitta ed ha cercato lavoro nell’edilizia in Israele.

Anche Amir, 32 anni, ogni giorno attraversa il checkpoint 300.

É veramente penoso immaginare di passare anni della propria vita (per avere una formazione), solo per rimanere fermo a un checkpoint ogni mattina per andare al lavoro,” dice a The Electronic Intifada. “Ma queste sono le condizioni della nostra vita qui,” afferma. “Dobbiamo lavorare per dar da mangiare ai nostri figli.” Secondo l’Ufficio Centrale di Statistica Palestinese, nel 2018 127.000 palestinesi hanno lavorato in Israele e nelle colonie – 5.000 in più rispetto al 2017.

Più di metà –il 58% – dei palestinesi tra i 18 e i 29 anni che hanno ottenuto un “diploma di scuola secondaria e oltre” nel 2018 era disoccupato, rispetto al 41% di un decennio prima.

Secondo il ministero dell’Istruzione dell’ANP questi numeri sono ancora maggiori tra le donne laureate, il 73% delle quali era disoccupata, nonostante l’aumento del numero di donne laureate nell’ultimo decennio,

In seguito alla firma degli accordi di Oslo nel 1993 il numero di laureati palestinesi è costantemente aumentato. Le statistiche del ministero dell’Istruzione mostrano che nel 2017-18 circa il 94% dei maschi e il 71% delle femmine tra i 20 e i 24 anni si è iscritto [all’università] o ha ottenuto almeno un diploma. Un diploma significa una qualifica ottenuta dopo una scuola superiore ma non a livello universitario.

Nonostante questo incremento nel numero di laureati palestinesi, l’economia palestinese continua ad essere ostacolata dall’occupazione israeliana, lasciando i laureati senza opportunità di lavoro nel proprio campo. La mancanza di possibilità, insieme ai bassi salari in Cisgiordania, incentiva molti laureati palestinesi a cercare lavoro all’estero o in Israele e nelle sue colonie, una fuga di cervelli che secondo il ministro Saidam priva l’economia palestinese dei suoi cittadini più qualificati.

Vogliono che odiamo noi stessi”

Bahaa Salah, 30 anni, ha ottenuto la propria laurea in Giordania ed ha continuato gli studi in Malaysia, conseguendo un master in comunicazioni e pubbliche relazioni. Quando nel 2013 è tornato nella città natale di al-Eizariya, fuori da Gerusalemme, non ha trovato lavoro nel suo campo. Invece ha lavorato come commesso da Sbitany – un negozio di elettronica in Cisgiordania – e poi in una fabbrica di alluminio.

Poi Salah ha passato senza successo oltre un mese a Dubai alla ricerca di un lavoro, prima di trovare una possibilità di impiego come contabile in una fabbrica di spezie in Cisgiordania. Tuttavia lo stipendio, che afferma essere stato di 555 dollari al mese, era troppo basso per avere una vita decente.

Salah ha deciso di cercare lavoro nella zona industriale di Mishor Adumim, che fa parte di Maaleh Adumim, una grande colonia israeliana, dove lavorava già suo cugino. Nel 2014 ha trovato un impiego come addetto alle pulizie in un supermercato.

Quando Salah confronta la sua vita in Malaysia a quella in Cisgiordania, la sua reazione è viscerale: “Immagina di sperimentare la libertà per anni, e poi torni in patria e improvvisamente sei chiuso in gabbia,” afferma.

Le cose per Salah sono ulteriormente peggiorate a partire dall’ondata di violenze del 2015, nota anche come l’Intifada dei lupi solitari o dei coltelli. Prima, dice Salah, nella colonia le guardie di sicurezza israeliane “non erano così violente o cattive.”

Eravamo soliti attraversare il posto di controllo fuori da Mishor Adumim in macchina. Nessuno ci avrebbe fermati. Se hai un permesso di lavoro israeliano devi solo mostrarlo ed entrare in auto,” dice. Ora invece i palestinesi devono ottenere un permesso speciale per far entrare i loro veicoli nella colonia, sostiene.

Tutti devono scendere dall’auto, mettersi in fila e le guardie di sicurezza perquisiscono ogni persona, una alla volta,” dice Salah.

Penso che scelgano le persone più razziste per lavorare in (questo) posto di controllo,” sostiene. “Ti trattano in modo molto violento. Quindi immagina se qualcuno è di malumore ed è già razzista. Ovviamente non ti tratterà bene.”

Salah è diventato sempre più insicuro sul posto di lavoro quando ha notato un numero crescente di clienti israeliani con fucili a tracolla. Parecchi palestinesi sono stati uccisi da israeliani armati dopo veri o presunti attacchi in cui sarebbero rimasti coinvolti. Raramente questi israeliani hanno dovuto subire conseguenze legali.

Ero solito portarmi un cacciavite sul lavoro, ma ho iniziato a temere persino di prenderlo in mano perché loro (gli israeliani) erano spaventati. Quando ti guardavano, era come se stessero vedendo un fantasma o qualcosa del genere,” dice Salah.

Benché il suo permesso gli consenta di entrare sia nelle aree industriali che nella zona residenziale di Maaleh Adumim, le poche volte che il padrone lo manda alla colonia a prendere prodotti per il supermercato Salah si sente confuso e spaventato, perché le due zone hanno norme diverse per i palestinesi.

Secondo Salah ai palestinesi è consentito camminare nelle strade di Mishor Adumim, ma non a Maaleh Adumim. Possono solo entrare come passeggeri di un’auto israeliana.

Ciò significa che se la polizia mi trova a camminare, possono togliermi il permesso e mettermi in carcere – o almeno sulla lista nera e non potrò più ottenere un permesso,” afferma. “Vogliono che tu odi te stesso per il fatto di essere palestinese,” continua Salaha. “Devi attraversare questa linea, non quella. Devi camminare su questa strada, non su quell’altra. Ti fa sentire come uno straniero. Ti fa pensare: ‘Cosa c’è di sbagliato in me?’ Mi fa star male.”

Quindi perché lo sopporta? “Per i soldi.”

Salah dice che nella colonia a volte guadagna più del doppio di quello che potrebbe ottenere nell’economia palestinese. “Lavoro meno ore, meno giorni e sono pagato meglio,” afferma. Nonostante la mancanza di opportunità, tuttavia, Salah rifiuta di credere che i suoi studi siano stati una perdita di tempo.

Per me l’istruzione non riguarda solo avere un lavoro. È lo sviluppo di me stesso e il fatto di imparare di più,” dice. “Sono pur sempre un essere umano, per cui non posso fare a meno di confrontare la mia situazione con quella degli altri.” Per esempio, afferma, è più qualificato a gestire il negozio in cui lavora del suo padrone israeliano, ma sa che, in quanto palestinese con un documento d’identità della Cisgiordania, non potrà mai avere quella posizione.

Persino alcuni israeliani con cui lavoro che sentono la mia storia e sanno del mio livello di studi mi dicono: ‘Se solo tu avessi una carta d’identità diversa la tua vita qui sarebbe veramente buona.’ Ma questo è il mio destino,” sostiene Salah. “Non posso fare niente per cambiarlo.”

Jaclynn Ashly è una giornalista freelance che si occupa di problemi politici e di diritti umani nei territori palestinesi occupati e in Israele.

Alaa Daraghmeh è un giornalista che risiede in Cisgiordania.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




“Arrestati in qualsiasi momento”: studenti palestinesi nel mirino di Israele

Qassam Muaddi a Ramallah, Cisgiordania occupata

9 gennaio 2020 – Middle East Eye

La recente impennata nelle detenzioni di studenti universitari palestinesi ha riportato alla ribalta un problema di vecchia data

Per la maggior parte degli studenti, voti, esami e coinvolgimento sociale sono le maggiori preoccupazioni della vita universitaria.

Non così per Hadi Tarshah. A 24 anni, il giovane palestinese ha trascorso il semestre scorso in una prigione israeliana, e la sua preoccupazione principale è l’udienza in tribunale a marzo.

Analogamente, Mays Abu Ghosh, a un solo semestre dalla laurea, si sta riprendendo dalle brutali torture subite durante la detenzione israeliana. E un suo compagno di studi, Azmi Nafaa, ha lottato tre anni per ottenere il diploma da dietro le sbarre.

Negli ultimi mesi del 2019, l’occupazione israeliana ha lanciato una delle più aggressive campagne di arresto degli ultimi anni contro gli studenti palestinesi.

Le statistiche dell’organizzazione per i diritti dei prigionieri palestinesi Addameer dicono che circa 250 studenti universitari palestinesi sono attualmente incarcerati in Israele. Secondo la Campagna per il Diritto all’Educazione della Birzeit University, le forze israeliane hanno detenuto per quattro mesi 30 studenti solamente di quella importante istituzione palestinese.

Dal 2015, quando è nata una violenta ondata di proteste nei territori palestinesi occupati, Israele ha aumentato le politiche repressive contro i palestinesi.

Tuttavia i giovani palestinesi hanno riferito a Middle East Eye che il recente aumento è solo la continuazione di una più vasta politica di repressione israeliana, che criminalizza gli studenti palestinesi che si sono organizzati sin dall’inizio dell’occupazione.

Spezzare il morale

Abdel Munim Masoud, studente di economia di 23 anni, ricorda l’ultima volta che ha visto il suo amico Tarshah in ottobre.

” La sera prima stavamo parlando e ridendo insieme”, ha detto a MEE. “La mattina dopo, ho ricevuto un messaggio sul mio cellulare che diceva che gli occupanti avevano arrestato Hadi all’alba.”

Tarshah ha preso parte al movimento studentesco della Birzeit University da quando vi ha iniziato gli studi. Ad aprile, ha partecipato al dibattito annuale per le elezioni del consiglio studentesco, diventando un protagonista nel movimento studentesco.

“Ci aspettavamo che prima o poi sarebbe stato arrestato”, ha detto Layan Kayed, 25 anni, studente di sociologia e amico di Tarshah. “Ma siamo rimasti sorpresi perché il suo arresto è arrivato in un momento in cui gli arresti erano cessati.”

Il padre di Tarshah ha detto a MEE che le forze israeliane hanno fatto irruzione nella casa di famiglia alle 5 del mattino.

“Sono entrati nel palazzo in cui viviamo, sfondando cinque porte prima di entrare brutalmente nel nostro appartamento, con i fucili puntati”, ha detto l’uomo. “Hanno preso Hadi dal suo letto e non gli hanno dato il tempo di vestirsi e nemmeno di mettersi le scarpe. Lo hanno messo su una jeep militare e se ne sono andati.

Ci sono voluti due giorni per la famiglia di Tarshah per scoprire dove si trovasse e sapere che era stato interrogato in un centro di detenzione israeliano noto come il quartiere russo, a Gerusalemme.

“L’occupazione cerca di spezzare il morale dei giovani palestinesi, in particolare di quelli che stanno studiando all’università, al fine di spingerli a lasciare il loro Paese – specialmente quelli che sono politicamente consapevoli e attivi”, ha aggiunto il padre di Tarshah. “Ma Hadi è molto più forte e molto più consapevole”.

Tarshah ha già perso un intero semestre di lezioni, che dovrà recuperare – ma deve anche affrontare la reale possibilità di altre detenzioni, che potrebbero bloccare ulteriormente la sua istruzione.

“Socialmente, è difficile vedere tutti i tuoi amici laurearsi mentre tu resti indietro”, ha spiegato Masoud.

“Alcuni studenti potrebbero avere dei problemi a tornare allo stesso livello di attivismo dopo il rilascio, perché non vogliono perdere un altro semestre” aggiunge Kayed. “Ma ciò non significa che non verranno nuovamente arrestati. Una volta che sei stato arrestato, ti può succedere ancora in qualsiasi momento.”

Non c’è un posto sicuro”

L’arresto più drammatico è avvenuto nel marzo del 2018, quando le forze israeliane in incognito – note anche come mustarabin perché mascherate da palestinesi – sono entrate nel campus di Birzeit per rapire il presidente del consiglio studentesco Omar Kiswani.

“All’inizio ho pensato che fosse una rissa”, ha detto Masoud, che ha assistito al fatto. “Poi hanno estratto le armi e ho capito che erano soldati israeliani, non studenti.”

“La nostra prima reazione è stata quella di precipitarci verso tutti gli ingressi del campus e bloccarli per impedire l’ingresso di altri soldati”, ha detto un compagno testimone oculare, Hazem Aweidat. “Alla fine hanno raggiunto l’ingresso principale, minacciando gli studenti con le armi, sono saliti su un’auto e se ne sono andati con Omar.”

L’arresto di Kiswani in pieno giorno ha attirato molta attenzione sul caso da parte dei media, e Aweidat ha sottolineato che i campus universitari sono da tempo esposti ai raid delle forze di sicurezza israeliane.

“Il campus non è diverso dalle nostre case”, ha detto. “Quando fanno irruzione, proviamo rabbia, ma considerarla un’aberrazione vorrebbe dire dimenticare che ci troviamo in un Paese occupato, dove nessun posto è sicuro.”

La minaccia per gli studenti va oltre le incursioni di soldati in incognito. L’Università Al-Quds nella città di Abu Dis, in Cisgiordania vicino a Gerusalemme, ha subito numerose incursioni delle forze armate israeliane nel campus apertamente in pieno giorno.

Secondo il centro legale dell’università, solo nell’ultimo semestre 25 studenti sono stati arrestati da Israele.

La posizione del campus vicino al muro di separazione israeliano lo rende più esposto alle incursioni, ha detto a MEE un ex membro del consiglio studentesco dell’Università Al Quds, Mohammad Abu Shbak.

“Quando gli studenti manifestano per l’arresto di un compagno, in genere marciano verso il muro”, ha spiegato. “I soldati israeliani allora reprimono la manifestazione, fanno irruzione nel campus sfondando porte e sparando gas lacrimogeni e proiettili rivestiti di gomma”.

Secondo Abu Shbak, entra in gioco un altro fattore: “L’occupazione prende di mira questa università perché è l’unica palestinese nella regione di Gerusalemme. Non vogliono attività studentesche palestinesi in giro per Gerusalemme “.

Abu Shbak ricorda la prima incursione a cui ha assistito:

“Ero nell’ufficio del consiglio studentesco quando ho sentito l’odore di gas lacrimogeni e gente correre presa dal panico. Ci siamo divisi in gruppi; alcuni sono andati a bloccare gli ingressi, altri a evacuare studenti e insegnanti, altri hanno cercato di proteggere auto e autobus per aiutare le persone a tornare a casa,” ha detto. “È durato quasi un’ora prima che i soldati se ne andassero, lasciandosi dietro il caos.”

Ma solo dopo che i soldati israeliani se ne sono andati Abu Shbak ha scoperto che uno dei suoi amici, lo studente del secondo anno Bahjat Radaidah, era stato arrestato.

Di conseguenza, “molte famiglie esitano a mandare i propri figli all’Università Al Quds a causa della sua vicinanza al muro e delle incursioni nel campus da parte degli occupanti”, ha detto Abu Shbak.

Futuro distrutto

Fortunatamente l’amico di Abu Shbak, Radaidah, ha trascorso solo una settimana in prigione. Ma non tutti gli studenti palestinesi che vengono arrestati sono così fortunati.

Azmi Nafaa era uno studente di giurisprudenza di 25 anni presso l’Università Al-Najah, nella città di Nablus, nella Cisgiordania settentrionale, e gli restava un semestre prima della laurea quando nel novembre del 2015 fu colpito, ferito e arrestato dalle forze israeliane a un posto di blocco nelle vicinanze.

Il tribunale militare israeliano ha prolungato cinque volte senza accusa la sua detenzione – usando la pratica largamente denunciata detta detenzione amministrativa – prima di accusarlo di un presunto attacco ai soldati e condannarlo a 28 anni di prigione.

Azmi ha deciso che avrebbe finito i suoi studi in prigione. Sua madre ha esitato, ma io ho insistito sul fatto che l’occupazione non può fermare la nostra vita “, ha detto a MEE suo padre, Sahel Nafaa.

Per mesi, Sahel ha lottato con le autorità israeliane per mettere suo figlio in condizione di studiare.

“Ho cercato su Facebook notizie di un qualche prigioniero che avesse una laurea in giurisprudenza e che potesse aiutare Azmi a studiare”, ha spiegato.

Quando finalmente ne ho trovato uno nella stessa prigione in cui era trattenuto mio figlio, è iniziata la lotta per inviargli i libri di cui aveva bisogno. L’amministrazione penitenziaria non permetteva l’ingresso di libri e poi si sono rifiutati di farmi visitare Azmi in prigione. Volevano costringermi a smettere di provarci, ma io non l’ho fatto.”

Alla fine dopo tre anni Azmi si è laureato durante la detenzione in Israele.

“Noi, i giovani politicamente impegnati delle università, siamo più avanti e guidiamo la piazza “, ha detto. “Ecco perché l’occupazione ci prende di mira.”

Per Sahel, Israele “mira a distruggere il futuro del popolo palestinese, per questo prende di mira i giovani istruiti, intimidisce le loro famiglie, ci allontana dallo studio.”

Anche Kayed ritiene che la repressione israeliana degli studenti abbia un motivo politico:

“L’occupazione sa che gli studenti sono il settore più attivo e dinamico della società, soprattutto in un momento in cui i partiti politici sono sempre meno efficaci”.

Dal momento che l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) – guidata dal partito Fatah del Presidente Mahmoud Abbas – non ha indetto elezioni presidenziali dal 2005, le elezioni del Consiglio studentesco sono state a lungo un barometro complessivo della politica palestinese, specialmente tra la popolazione più giovane.

Sebbene le fazioni politiche studentesche in Palestina siano state storicamente estensioni dei partiti politici, Aweidat pensa che i tempi siano cambiati:

Oggi, in realtà sono i partiti politici ad essere un’estensione del movimento studentesco. Noi giovani universitari politicamente impegnati siamo più avanti e guidiamo la piazza”, ha detto. “Ecco perché l’occupazione ci prende di mira.”

Gli altri studenti che ascoltano Aweidat sono d’accordo e annuiscono, come Kayed, che infine conclude: “Fa tutto parte dell’essere uno studente in Palestina”.

(traduzione di Luciana Galliano)




La Corte Penale internazionale (CPI) avvierà un’indagine approfondita sui crimini di guerra israeliani.

Redazione di MEE

20 dicembre Middle East Eye

Le associazioni palestinesi e israeliane per i diritti umani salutano la decisione della procuratrice della Corte Penale Internazionale di aprire un’indagine ufficiale

La procuratrice capo della Corte Penale Internazionale ha dichiarato che aprirà un’indagine approfondita su presunti crimini di guerra nella Cisgiordania occupata, compresa Gerusalemme est, e nella Striscia di Gaza, un annuncio che è stato accolto favorevolmente dai palestinesi ma che ha suscitato una forte critica da Israele.

“Sono persuasa che ci sia una base ragionevole per procedere a un’indagine sulla situazione in Palestina”, ha detto venerdì Fatou Bensouda in un comunicato.

“In breve, sono convinta del fatto che i crimini di guerra siano stati commessi o si stiano commettendo in Cisgiordania, tra cui Gerusalemme est e nella Striscia di Gaza”.

Bensouda ha aggiunto che prima di aprire l’ indagine avrebbe chiesto al tribunale dell’Aja di pronunciarsi sui territori sui quali è competente, poiché Israele non è membro della Corte.

La questione della giurisdizione del tribunale deve essere risolta prima che la CPI possa procedere alle indagini.

Un’indagine approfondita da parte della CPI può comportare accuse contro singoli. Gli Stati non possono essere processati.

Questa fondamentale questione dovrebbe essere decisa ora e il più rapidamente possibile nell’interesse delle vittime e delle comunità colpite “, ha detto Bensouda.

Ha aggiunto che “non ci sono ragioni sostanziali per credere che un’indagine non servirebbe a fare giustizia”.

Il 5 dicembre, dopo cinque anni di indagini preliminari ed esame di prove di violenti azioni israeliane contro i palestinesi, la CPI ha pubblicato un rapporto.

La CPI ha esaminato le prove relative al conflitto tra Israele e Gaza del 2014,in cui sono morti 2.251 palestinesi, di cui la maggior parte erano civili e 74 israeliani, la maggior parte dei quali soldati.

L’annuncio è stato accolto con favore dalla leadership palestinese come un “passo atteso da tempo”.

“La Palestina si compiace di questo … come passo atteso da tempo per far avanzare il processo verso un’indagine, dopo quasi cinque lunghi e difficili anni di esame preliminare”, si afferma in una dichiarazione del ministero degli Esteri

Anche Hanan Ashrawi funzionara palestinese di alto livello, ha accolto con favore l’annuncio, affermando che i palestinesi “hanno fatto affidamento sulla Corte Penale Internazionale”.

“Israele deve essere ritenuto responsabile”

Mohammed Bassem, un attivista della Cisgiordania occupata, ha dichiarato a Middle East Eye di sostenere la decisione della CPI.

“Penso che sarà una buona opportunità per discutere della colonizzazione della Palestina e di come Israele ha portato avanti la sua occupazione”, ha detto Bassem.

Tuttavia ha affermato che alcuni palestinesi sono scettici sul fatto che l’inchiesta porti a risultati concreti.

“Siamo anche preoccupati di cosa si occuperà effettivamente l’indagine “, ha detto Bassem. “Per esempio l’inchiesta non seguirà le questioni dei rifugiati e il loro diritto al ritorno e questo è preoccupante, perché è una delle maggiori questioni al centro di ciò che riguarda il conflitto, e sappiamo che, a tal proposito, la Corte non farà nulla “.

In seguito all’annuncio di Bensouda, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu si è scagliato contro quello che ha definito “un giorno oscuro per la verità e per la giustizia”.

“La Corte non ha giurisdizione in questo caso. La CPI ha giurisdizione solo sulle petizioni presentate da Stati sovrani. Ma non c’è mai stato uno Stato palestinese”, ha detto Netanyahu in un comunicato.

Nel contempo anche il procuratore generale israeliano Avichai Mandelblit si è opposto alla decisione della CPI, affermando che la Corte non ha la giurisdizione per processare [cittadini] israeliani per crimini di guerra.

“Solo gli Stati sovrani possono delegare alla Corte la giurisdizione penale. Ai sensi del diritto internazionale e dello statuto istitutivo della Corte l’Autorità Nazionale Palestinese chiaramente non soddisfa i criteri di statualità”, ha affermato Mandelblit.

L’Autorità Nazionale Palestinese è riconosciuta come uno Stato non membro dalle Nazioni Unite, il che le consente di firmare trattati e godere della maggior parte delle prerogative, in modo simile agli Stati membri a pieno titolo.

Nel 2015 l’ANP ha firmato lo Statuto di Roma che governa la CPI. Alcuni Paesi, tra cui gli Stati Uniti e Israele, non sono firmatari e pertanto sono protetti dall’accusa all’Aja per crimini di guerra.

Il centro legale per i diritti delle minoranze arabe [palestinesi ndt] in Israele “Adalah” ha accolto con favore la decisione della CPI, affermando di ritenere che la Corte “abbia la piena giurisdizione per decidere sui casi penali in questione”

“Sulla base dei numerosi rapporti delle organizzazioni per i diritti umani e delle commissioni d’inchiesta delle Nazioni Unite nel corso degli anni, il procuratore della CPI, alla luce dei fatti, ha preso la giusta decisione”, ha scritto Adalah in un comunicato venerdì. Ha aggiunto che “nessun’ altra decisione avrebbe potuto essere possibile”.

Anche B’Tselem, un’associazione israeliana per i diritti umani, ha affermato che la decisione di aprire un’indagine “è stato l’unico possibile risultato derivante dai fatti”.

In una dichiarazione dell’associazione si afferma che “alle acrobazie legali di Israele nel tentativo di nascondere i propri crimini non deve essere consentito di bloccare i tentativi giudiziari internazionali, che finalmente se ne stanno occupando”.

(Traduzione dall’inglese di Carlo Tagliacozzo)

 




Dalla benedizione alla maledizione: come la Risoluzione dell’ONU 2334 ha accelerato la colonizzazione della Cisgiordania

Ramzy Baroud

17 dicembre 2019Middle East Monitor

Tre anni fa il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato la Risoluzione 2334. Con 14 voti a favore ed un’astensione, la risoluzione è stata come un terremoto politico. Certamente è stata la prima volta in molti anni che l’istituzione internazionale ha condannato esplicitamente Israele per le sue politiche di colonizzazione illegale nei Territori Palestinesi Occupati. A differenza dei precedenti tentativi di imputare ad Israele le sue responsabilità, questa volta gli americani non hanno fatto nulla per proteggere il loro più stretto alleato.

Tuttavia ciò che è accaduto da allora ha testimoniato il fallimento dell’ONU nel mettere in campo significativi meccanismi che possano costringere chi viola il diritto internazionale, come Israele, a rispettare il consenso internazionale. In qualche modo la 2334, pur sostenendo apparentemente i diritti dei palestinesi, si è trasformata in una delle più dannose decisioni mai adottate dall’istituzione internazionale.

Immediatamente dopo l’adozione della 2334 il 23 dicembre 2016, Israele si è fatto beffe del mondo intero annunciando per due volte nel mese di gennaio progetti di costruzione di migliaia di nuove case nelle colonie ebraiche illegali della Cisgiordania occupata.

All’epoca il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu e l’allora Ministro della Difesa Avigdor Lieberman hanno motivato la provocatoria iniziativa come “una risposta alle necessità abitative” all’interno delle colonie. Niente poteva essere più lontano dalla verità, come hanno dimostrato i successivi tre anni.

Ora è risultato evidente che l’espansione delle colonie faceva parte di una più ampia strategia volta ad eliminare ogni possibilità di creare uno Stato palestinese contiguo e praticabile e a sbarrare la strada alla cosiddetta “formula terra in cambio di pace”, anch’essa tracciata in anni di mediazione americana e di “processo di pace”.

La strategia israeliana è stata un totale successo. Grazie alla mano libera concessa dall’amministrazione Trump alla coalizione di governo di destra in Israele, i politici israeliani adesso stanno apertamente progettando ciò che un tempo era quasi impensabile: l’annessione unilaterale di importanti blocchi di colonie ebraiche in Cisgiordania insieme a vaste aree della Valle del Giordano.

Negli ultimi tre anni Washington ha chiuso un occhio sui sinistri piani di Israele. Peggio ancora, ha abbracciato in pieno e avallato il discorso politico israeliano, prendendo al contempo tutte le misure necessarie a fornire una copertura alle azioni israeliane. La dichiarazione del Segretario di Stato USA Mike Pompeo del 18 novembre, secondo cui le colonie ebraiche “non violano il diritto internazionale” è solo una di tante posizioni analoghe adottate da Washington per spianare la strada alla sfrontatezza e alla violazione del diritto internazionale da parte di Israele.

Retrospettivamente, il Presidente Obama ha avuto l’opportunità di fare di più che non semplicemente astenersi dal votare contro una Risoluzione ONU – che comunque mancava di qualunque meccanismo di applicazione – usando il generoso aiuto finanziario USA ad Israele come carta di scambio. In quel modo avrebbe potuto potenzialmente costringere Netanyahu a congelare del tutto l’espansione delle colonie. Purtroppo Obama ha fatto l’esatto contrario, finanziando l’esercito israeliano e ogni guerra israeliana contro Gaza. Invece la sua mossa tardiva ha aperto la porta all’amministrazione Trump per scatenare una guerra crudele contro i palestinesi e anche contro il diritto internazionale.

Sembra che l’incarico biennale dell’ambasciatrice USA all’ONU, Nikky Hailey, sia stato prevalentemente dedicato a rettificare il presunto “tradimento” dell’amministrazione Obama verso Israele. In nome della difesa di Israele contro un immaginario “antisemitismo” globale, gli Stati Uniti hanno rotto i loro rapporti con diverse organizzazioni dell’ONU, isolando alla fine la stessa Washington dal resto del mondo.

Con l’ONU considerata il nemico comune sia da Washington che da Tel Aviv, il diritto internazionale è stato reso irrilevante. Gradualmente il governo USA ha rafforzato il proprio scudo protettivo intorno a Israele, rendendo così insignificanti la Risoluzione 2334 e molte altre risoluzioni ONU. In altri termini, gli Stati Uniti sono riusciti a trasformare il consenso internazionale sull’illegalità dell’occupazione israeliana della Palestina in un’opportunità per Tel Aviv di disconoscere ogni impegno non solo nei confronti dell’ONU, ma anche della cosiddetta soluzione dei due Stati e del “processo di pace”.

Mentre Israele accelerava senza impedimenti i suoi progetti di colonizzazione, gli USA assicuravano che la leadership palestinese non avesse la possibilità di contrastarli, neanche simbolicamente, attraverso le varie istituzioni internazionali e le piattaforme politiche e legali disponibili. Questo è stato architettato attraverso sistematiche guerre economiche, che hanno visto il taglio di tutti gli aiuti all’Autorità Nazionale Palestinese nell’agosto 2018, seguito una settimana dopo dall’interruzione di tutti i finanziamenti all’agenzia dell’ONU responsabile dell’assistenza ai rifugiati palestinesi, l’UNRWA.

La guerra di USA e Israele ai palestinesi è stata organizzata su due fronti. Uno si concentrava sull’accaparramento di ulteriore terra palestinese, sulla costruzione di nuove colonie e l’espansione di quelle esistenti, come premessa agli imminenti passi verso l’annessione della maggior parte della Cisgiordania. L’altro fronte riguardava l’incessante pressione dell’amministrazione USA sui palestinesi con mezzi politici e finanziari.

Tre anni dopo la Risoluzione 2334 ci troviamo con un nuovo status quo. Sono finiti i tempi del tradizionale “piano di pace” americano e del suo complementare elaborato discorso centrato sulla soluzione di due Stati ed altre fantasie. Adesso Israele sta formulando in proprio la sua “visione” per un futuro che è destinato a soddisfare le aspettative dell’instabile, e sempre più di destra, elettorato del Paese. Quanto agli USA, il loro ruolo è stato ridimensionato a quello di sostenitori, indifferenti a questioni così irrilevanti come il diritto internazionale, i diritti umani, la giustizia, la pace o persino la stabilità della regione.

Poco dopo essere stato nominato nuovo Ministro della Difesa israeliano il 9 novembre, Naftali Bennett ha preso la pericolosa e conseguente decisione di costruire una nuova colonia ebraica nella città palestinese occupata di Al-Khalil (Hebron). Naturalmente i coloni ebrei hanno esultato perché vedranno finalmente la demolizione del vecchio mercato di Hebron, che è più antico dello stesso Israele, e la possibilità di una nuova espansione coloniale e di ulteriori annessioni nella città.

Al tempo stesso i palestinesi rabbrividiscono, perché un’iniziativa contro Hebron è la prova finale che Israele ormai sta agendo in Palestina senza alcun timore di ripercussioni politiche o giuridiche. Non solo la Risoluzione 2334 non è riuscita a rendere Israele responsabile, ma in qualche modo ha facilitato una maggiore espansione israeliana in Cisgiordania, spianando la strada all’annessione che sicuramente ne seguirà.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Gaza 2020: com’è facile per il mondo cancellare la sofferenza dei palestinesi

David Hearst

13 dicembre 2019 – Middle East Eye

Nel 2012 le Nazioni Unite hanno dichiarato che Gaza sarebbe divenuta invivibile entro il 2020. Israele ha contribuito volontariamente a ciò.

Vorrei che voi faceste una verifica. Cercate su Google le parole “uccisa famiglia di otto persone” e vi verranno fornite diverse alternative: una a Sonora, in Messico, un’altra a Pike, nell’Ohio, un’altra nella Contea di Mendocino, in California.

Ma la sconfinata memoria di Google sembra essere stata colpita da amnesia riguardo a quanto è successo solo un mese fa a Deir al-Baba, a Gaza.

Ricapitolando, perché anche voi potreste aver dimenticato: il 14 novembre un pilota israeliano ha lanciato una bomba JDAM [Joint Direct Attact Munition [bombe munite di un sistema di guida sull’obiettivo, ndtr.] da una tonnellata su un edificio in cui dormivano otto membri di una famiglia. Cinque di loro erano minori, due dei quali neonati.

Inizialmente, l’esercito israeliano ha cercato con la menzogna di liberarsi della responsabilità per l’uccisione della famiglia di al-Sawarka (un altro membro della famiglia è morto in seguito a causa delle ferite, portando il totale a nove). Il suo portavoce in lingua araba ha sostenuto che l’edificio era una postazione di comando nel centro della Striscia di Gaza per un’unità di lancio di missili della Jihad islamica.

Tuttavia, come ha rivelato Haaretz [quotidiano israeliano di centro sinistra, ndtr.], il bersaglio era stato considerato tale almeno un anno fa. Le informazioni erano fondate su delle voci e nessuno si era preso la briga di verificare chi vivesse all’interno di quell’edificio: ma hanno lanciato lo stesso la bomba.

L’intelligence militare in grado di identificare e colpire obiettivi in movimento come Bahaa Abu al-Atta, il comandante della Jihad islamica nella Striscia di Gaza settentrionale – o di attentare alla vita di Akram al-Ajouri, un membro del suo ufficio politico a Damasco – è contemporaneamente incapace di aggiornare la banca dati dei suoi obiettivi, risalente ad un anno fa.

L’esercito israeliano non aveva necessità di mentire. Nessuno ci ha fatto caso. Né lo scambio di lanci di razzi né l’uccisione della famiglia Sawarka hanno riempito le prime pagine del Guardian [quotidiano inglese di centro sinistra, ndtr.], del New York Times o del Washington Post.

Piano dietetico israeliano per Gaza

Questo è Gaza ora: un brutale assedio di una popolazione dimenticata che sopravvive in condizioni che le Nazioni Unite hanno previsto come invivibili entro il 2020, un anno che è solo a poche settimane di distanza.

È inesatto affermare che le morti della famiglia Sawarka abbiano riscontrato indifferenza in Israele.

L’unico rivale di Benjamin Netanyahu per la leadership è Benny Gantz. Chiunque nelle capitali occidentali scambi Gantz per un pacifista, semplicemente perché sta sfidando Netanyahu, dovrebbe guardare una serie di video della campagna elettorale che l’ex capo dell’esercito israeliano ha recentemente diffuso riguardo a Gaza.

Uno di questi inizia con una sorta di sequenze che avrebbe potuto realizzare un drone russo dopo il bombardamento di Aleppo Est. La devastazione è come [quella di] Dresda o Nagasaki. Ci vogliono alcuni secondi inquietanti per rendersi conto che queste orribili riprese da parte di un drone non sono una denuncia ma una esaltazione della distruzione.

Il suo messaggio in ebraico è chiaramente ciò che nel diritto internazionale è considerato un crimine di guerra. “Parti di Gaza sono state riportate all’età della pietra … 6.231 bersagli distrutti … 1.364 terroristi uccisi … 3.5 anni di quiete … Solo i forti vincono”.

Indifferenza non è la parola giusta. Assomiglia di più ad un’esultanza.

Il soffocamento di Gaza da parte di Israele precede l’assedio iniziato quando Hamas prese il potere nel 2007. Come ha detto lo scrittore israeliano Meron Rapoport, i leader israeliani hanno a lungo nutrito pensieri genocidi su cosa fare con l’enclave in cui hanno cacciato tutti quei rifugiati dopo il 1948.

Nel 1967, l’ex primo ministro israeliano Levi Eshkol istituì un’unità operativa rivolta a incoraggiare i palestinesi ad emigrare.

“Proprio perché si trovano là soffocati e imprigionati, forse gli arabi si sposteranno dalla Striscia di Gaza … Forse se non diamo loro abbastanza acqua non avranno scelta, perché gli orti ingialliranno e appassiranno”, egli ipotizzava, secondo i verbali declassificati delle riunioni del governo declassificati nel 2017.

Nel 2006, Dov Weisglass, consigliere del governo, dichiarò: “L’idea è di mettere i palestinesi a dieta, ma non di farli morire di fame”.

Il valico di Rafah come valvola di sicurezza

Il passare del tempo non ha intaccato né modificato queste intenzioni.

La differenza oggi è che i leader israeliani non sentono più il bisogno di mascherare le proprie opinioni su Gaza. Come ha fatto Gantz, dicono ad alta voce ciò che in precedenza avevano detto o pensato in privato.

In privato, i primi ministri israeliani non hanno mai smesso di comunicare con Hamas attraverso intermediari, principalmente riguardo agli scambi di prigionieri.

Tony Blair, ex inviato del Medio Oriente per il Quartetto [gruppo composto da ONU, USA, UE e Russia, costituitosi a Madrid nel 2002 al fine di mediare sul processo di pace tra Israele e Palestina, ndtr.] si impegnò sul piano diplomatico offrendo ad Hamas un porto marittimo e un aeroporto in cambio della fine del conflitto con Israele. Non ottenne niente.

Hamas ha offerto autonomamente una hudna [tregua in arabo, ndtr.] o un cessate il fuoco a lungo termine ed ha modificato il proprio statuto per rispecchiare un accordo basato sui confini palestinesi del giugno 1967 [cioè prima della guerra dei Sei Giorni e l’occupazione di Cisgiordania e Gaza, ndtr.]. Ma ha rifiutato di smantellare o trasferire le sue forze militari. Fatah e l’OLP hanno intrapreso un percorso di declino e di perdita di rilevanza politica nel momento in cui hanno riconosciuto l’esistenza di Israele. Ciò non costituisce un grande incentivo per Hamas e gli altri gruppi della resistenza armata a Gaza.

Nel frattempo, sono emerse anche le oscillazioni tra colloqui e guerra, e gli interessi di altre parti nell’assedio di Gaza. A volte, queste parti sono state più realiste del re riguardo al desiderio di vedere Gaza e Hamas sottomesse.

Uno di questi è l’Egitto sotto il governo guidato da Abdel Fattah al-Sisi.

Nel 2012, sotto il governo del presidente Mohamed Morsi, una media di 34.000 persone attraversava ogni mese il valico di Rafah. Nel 2014, dopo l’arrivo al potere di al-Sisi, il confine con l’Egitto è rimasto chiuso per 241 giorni. Nel 2015 è stato chiuso per 346 giorni – e aperto solo per 19 giorni. Al-Sisi ha gestito il valico di frontiera di Rafah esattamente come Israele.

Il valico è un [come] un rubinetto. Lo chiudi e fai pressione politica su Hamas negando l’accesso dei malati terminali a cure mediche adeguate. Lo apri e alleggerisci la pressione sui detenuti di questa gigantesca prigione.

Un terzo complice dell’assedio è la stessa Autorità Palestinese. Secondo Hamas, dall’aprile 2007 l’ANP ha ridotto gli stipendi dei suoi dipendenti a Gaza, costretto alla pensione anticipata 30.000 dipendenti pubblici, ridotto il numero di permessi medici per ricevere cure all’estero, tagliato medicine e forniture mediche. I tagli agli stipendi sono in gran parte indiscutibili.

Un esperimento disumano

L’effetto a lungo termine dell’assedio sull’enclave è devastante, come riportato da MEE questa settimana.

Immaginate come reagirebbe la comunità internazionale se a Hong Kong o a New York, altri due territori altrettanto densamente abitati, la disoccupazione fosse del 47%, il tasso di povertà del 53%, il numero medio [degli alunni] in una classe fosse di 39 e il tasso di mortalità infantile al 10,5 per 1.000 nati.

La comunità internazionale si è assuefatta ad assolvere Israele da ogni responsabilità per le punizioni collettive e le gravi violazioni dei diritti umani.

Ma sicuramente il punto ora è che Gaza deve essere considerata una vergogna umana sulla coscienza del mondo.

Per negligenza o per omissione, tutti i governi occidentali hanno contribuito attivamente alla sua sofferenza. Tutti sono profondamente complici di un esperimento disumano: come mantenere oltre 2 milioni di persone a un livello di sussistenza considerato intollerabile e invivibile dalle Nazioni Unite, senza spingerle verso un’estinzione di massa.

Cosa deve succedere perché questo cambi? Per quanto ancora cancelleremo, come sembra fare Google, Gaza, i suoi rifugiati, la sua sofferenza quotidiana dalla coscienza collettiva del mondo?

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

David Hearst

David Hearst è caporedattore del Middle East Eye. Ha lasciato l’incarico di caporedattore esteri di The Guardian. In 29 anni di carriera di ha scritto sulla bomba di Brighton [il 12 ottobre 1984 una bomba dell’IRA esplode al Grand Hotel di Brighton, dove si sta svolgendo il congresso del partito Conservatore alla presenza di Margaret Thatcher, causando la morte di 5 persone (tra cui un parlamentare), ndtr.], sullo sciopero dei minatori, sulla reazione dei lealisti in seguito all’accordo anglo-irlandese nell’Irlanda del Nord, sui primi conflitti dopo la separazione dalla ex-Jugoslavia di Slovenia e Croazia, sulla fine dell’Unione Sovietica, sulla Cecenia e i sui conflitti connessi. Ha descritto il declino morale e fisico di Boris Eltsin e le condizioni che hanno creato l’ascesa di Putin. Dopo l’Irlanda, è stato nominato corrispondente dell’Europa per The Guardian Europe, poi è entrato a far parte della redazione di Mosca nel 1992, prima di diventare capo redattore nel 1994. Ha lasciato la Russia nel 1997 per unirsi alla redazione esteri [in GB, ndtr.], è diventato caporedattore per l’Europa e quindi caporedattore associato per gli esteri. È giunto a The Guardian da The Scotsman, dove ha lavorato come corrispondente sulle questioni educative.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)