Senza la prospettiva di uno Stato, i palestinesi si adattano ad un limitato autogoverno

di Amira Hass,

Haaretz, 9 ottobre 2016

 

Gaza è alle prese con la prima condanna a morte inflitta ad una donna. In Cisgiordania la gente è sempre più convinta che l’ANP (Autorità Nazionale Palestinese) sia un’istituzione permanente, nonostante tutte le previsioni in senso opposto.

Oltre ai timori sul nuovo conflitto tra israeliani e palestinesi a Gaza, gli arresti dell’esercito in Cisgiordania, le notizie sull’avamposto di Amona ed i nuovi espropri di terre, i palestinesi sono alle prese con alcune questioni interne, o almeno parzialmente interne.

Mercoledì 5 ottobre c’è stato un precedente a Gaza. Per la prima volta un tribunale palestinese ha comminato la pena di morte ad una donna, a Khan Yunis. Una corte distrettuale l’ha incolpata di omicidio premeditato di suo marito.

Il nome della vittima è stato reso noto a gennaio dopo che è stato trovato il suo corpo: si tratta di Riad Abu Anza, di 36 anni. La stampa ha pubblicato solamente le iniziali dell’imputata, anche se era a tutti noto chi fosse e da quale famiglia provenisse.

Subito dopo che i sospetti erano caduti su di lei, una delegazione di Hamas si è recata in visita alla casa dell’ucciso e, in una conferenza stampa, ha chiesto che la famiglia e gli altri mostrassero moderazione e lasciassero lavorare gli inquirenti. Queste espressioni erano un chiaro avvertimento che sarebbe stato difficile arginare una sanguinosa faida.

Il corpo di Abu Anza, che mostrava i segni di numerose ferrite da coltello, è stato trovato sabato 30 gennaio, dove c’era in passato l’insediamento israeliano di Atzmona (l’area degli ex insediamenti di Gush Katif è ora conosciuta come “i territori liberati”). La famiglia aveva informato della sua scomparsa tre giorni prima.

Nel giro di sei ore la polizia di Gaza ha raggiunto sua moglie, che inizialmente ha negato ogni coinvolgimento. Ma di fronte a prove evidenti, ha confessato. Una videocamera di sicurezza nella zona (che è stata trasformata in fiorenti progetti agricoli sotto Hamas o gente legata al gruppo e alle basi militari) ha filmato Abu Anza insieme ad una donna coperta fino agli occhi da un niqab (indumento islamico femminile che copre tutto il corpo e il capo, ndtr.). In seguito, un’impronta rilevata sul luogo è stata trovata perfettamente corrispondente alle scarpe della donna, e sui suoi vestiti è stato trovato del sangue.

All’inizio del processo le è stato attribuito un difensore d’ufficio. Delle attiviste femministe hanno detto ad Haaretz che poiché lei aveva confessato non aveva richiesto un avvocato di fiducia. Attivisti palestinesi per i diritti umani l’hanno visitata in prigione; lei ha raccontato loro che quando era una studentessa universitaria la sua famiglia l’aveva fatta sposare con Abu Anza, più vecchio di lei, contro la sua volontà.

Lui aveva problemi di salute mentale. I media palestinesi riferivano che era “un balordo”, i vicini dicevano che era “un disgraziato”. Aveva divorziato dalla prima moglie perché non gli aveva dato dei figli. La seconda moglie aveva dato alla luce un maschietto.

Le attiviste femministe hanno riferito che probabilmente lui la picchiava e la violentava sistematicamente, e quando lei era scappata dalla sua famiglia quest’ultima aveva preso le parti del marito e la aveva costretta a tornare da lui. Hanno detto che si aspettavano che il giudice prendesse in considerazione queste circostanze.

Se è stato davvero questo a portare all’omicidio, è anche una sconfitta dei gruppi per i diritti delle donne e del ministero palestinese per gli affari sociali. Lei non ha ritenuto di poter rivolgersi a loro; forse non sapeva che ci fosse qualcuno a cui rivolgersi. Adesso ha il diritto di appellarsi contro la sentenza di morte per impiccagione; le attiviste sperano che questa volta si convincerà ad assumere un avvocato di fiducia.

In base alla legge palestinese, l’esecuzione di una sentenza di morte (prevista dalla legislazione della Giordania, dell’Egitto e da quella rivoluzionaria dell’OLP) è possibile solo se è confermata dal presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese. Ma il regime di Hamas a Gaza non riconosce più come valida la presidenza di Mahmoud Abbas. A partire dalla separazione dei due governi palestinesi nel 2007 e la creazione di un sistema giudiziario separato a Gaza, la gran maggioranza delle sentenze di morte è stata emessa là e solo a Gaza esse sono state eseguite.

Dal 2005 Abbas non ha firmato sentenze di morte; probabilmente le critiche dei gruppi palestinesi ed internazionali per i diritti umani hanno avuto effetto. Dal 1994, sono state pronunciate 72 sentenze di morte dai tribunali palestinesi. Dal 2010, solo due sono state emesse in Cisgiordania.

Secondo il sito web di B’Tselem, ufficialmente sono state eseguite 13 sentenze. Ma alcuni prigionieri condannati a morte sono stati assassinati mentre si trovavano nelle prigioni dell’ANP ed alcuni sono stati uccisi da uomini armati dopo che erano fuggiti dalla prigione durante i bombardamenti israeliani nell’inverno 2008-2009.

Dalla creazione del sistema giudiziario separato di Hamas nel 2007, sono state emesse altre 68 condanne a morte nella Striscia di Gaza, 33 delle quali sono state eseguite. Queste cifre non includono i prigionieri uccisi da Hamas durante la guerra di Gaza nell’estate del 2014.

Un alto funzionario di Hamas ha detto ad un ospite europeo che, in assenza della pena capitale, le famiglie sarebbero precipitate in sanguinose faide. Ma un attivista per i diritti umani di Gaza sostiene che alcune persone continuano ad agire lo stesso per ottenere vendetta. “Purtroppo la maggioranza della popolazione della Striscia di Gaza è tuttora favorevole alla pena di morte”, ha detto.

Gli scagnozzi di Abbas

Nel pomeriggio di martedì 4 ottobre parecchie decine di uomini e donne hanno risposto all’appello del Movimento Giovanile Palestinese a prendere parte a Ramallah ad una manifestazione contro la partecipazione di Mahmoud Abbas al funerale di Shimon Peres. Circa 15 minuti dopo, altri giovani sono arrivati portando bandiere di Fatah; gridavano il loro appoggio ad Abbas e ai leaders di Fatah per gli anni a venire. “Siamo convinti che (la leadership) sappia che cosa è bene per la patria e per il popolo”, ha dichiarato ai giornalisti un manifestante.

Questa scena si è ripetuta tantissime volte negli ultimi anni. Soprattutto in occasione di manifestazioni il cui principale bersaglio è Abbas, si svolgono contromanifestazioni in cui almeno alcuni dei partecipanti sono persone pagate dai servizi di sicurezza dell’ANP. Queste persone danno inizio agli scontri. Martedì pomeriggio alcuni manifestanti, sia uomini che donne, sono stati picchiati.

Alcune manifestanti donne hanno denunciato che i loro aggressori le hanno anche molestate sessualmente. Muhammad Karaja, un avvocato impegnato nel sostegno dei prigionieri di Addameer (associazione di difesa dei prigionieri palestinesi, ndtr.) ed in gruppi per i diritti, era presente nel suo ruolo di monitorare la condotta delle autorità negli eventi pubblici. E’ stato colpito alla faccia ed alla testa ed ha avuto bisogno di cure mediche.

Ha identificato i suoi aggressori come membri dei servizi di sicurezza. Altri si trovavano lì vicino e non sono intervenuti in suo aiuto, pur essendo lui conosciuto come avvocato.

L’aggressione nei suoi confronti e la dispersione violenta della manifestazione hanno portato ad una serie di condanne. Mercoledì l’ordine forense ha organizzato proteste in diverse città della Cisgiordania. Gruppi per i diritti umani hanno chiesto che gli aggressori vengano perseguiti. Il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina ha incolpato dell’aggressione direttamente Abbas.

Intanto il sito di informazioni Amad (legato a Fatah ed oppositore di Abbas) è venuto a conoscenza che il servizio di sicurezza preventivo ha compiuto degli arresti per interrogare dei membri di Shabiba, il movimento giovanile di Fatah, a Bir Zeit. Questo è successo subito dopo che il gruppo ha distribuito volantini in cui si chiedevano le dimissioni di Abbas per aver partecipato al funerale di Peres.

Secondo il reportage, l’agenzia per la sicurezza dell’ANP sospettava che il deposto dirigente di Fatah Mohammed Dahlan fosse la persona che stava dietro all’appello di Shabiba. Tra l’altro, già mercoledì Amad ha riferito che Abbas aveva tenuto un basso profilo per due giorni; questo, prima dell’informazione ufficiale che Abbas era stato in ospedale per esami cardiaci.

Insegnanti indipendenti fastidiosi

Il Ministero dell’Educazione dell’ANP ha messo in guardia a chiare lettere gli insegnanti che intendessero riprendere il loro sciopero. Nel migliore dei casi, i loro salari verranno ridotti. Nel caso peggiore, saranno licenziati. E’ stato detto loro in duri termini, in un comunicato stampa, che “il ministro non starà con le braccia incrociate di fronte al tentativo organizzato palese di sovversione, e alla insistenza di alcuni nel partecipare alla distruzione dell’insegnamento in Palestina rinnovando lo sciopero nelle nostre scuole.”

Il comunicato stampa del Ministero dell’Educazione, riportato dall’agenzia di notizie Wafa, è pieno di altre pesanti affermazioni, come ad esempio: “l’istigazione (da parte di alcuni insegnanti) si salda all’attacco israeliano contro il Ministero dell’Educazione palestinese. Non lasciatevi fuorviare, qui ci sono di mezzo considerazioni personali ed interessi privati.”

A marzo gli insegnanti delle scuole pubbliche avevano accettato di interrompere lo sciopero, che la gente aveva appoggiato, dopo che Abbas aveva promesso di intervenire per applicare le condizioni dell’accordo sui salari del 2013. Ma le promesse – soprattutto quella di adeguare i salari al costo della vita – devono ancora essere mantenute.

Intanto è stato creato un sindacato indipendente degli insegnanti – al di fuori del sindacato tradizionale che fa integralmente parte dell’OLP e dipende da Fatah e dal suo capo. Chiaramente è questa attività indipendente che irrita particolarmente le autorità palestinesi.

Legge sulla previdenza sociale migliorata

E adesso le buone notizie. La legge sulla previdenza sociale per i lavoratori del settore privato, approvata da Abbas in febbraio, è stata emendata e migliorata dopo una valanga di critiche. Queste si sono esplicitate in manifestazioni, seminari con la partecipazione di attivisti sociali e docenti universitari, denunce sui media e assemblee pubbliche.

Da quando il Consiglio Legislativo Palestinese è stato privato dei suoi poteri legislativi nel 2007, la legiferazione è stata trasferita ai ministri e ad Abbas. Ovviamente ciò ha rafforzato il carattere autoritario dell’Autorità Palestinese.

Però a volte i membri eletti del Consiglio Legislativo riescono ad intervenire nel processo legislativo, discutere le bozze e sollevare obiezioni, come hanno fatto nel caso della legge sulla previdenza sociale. I piccoli partiti di sinistra vi hanno giocato un ruolo importante.

La legge migliorata, positivamente recepita, è stata annunciata mercoledì 28 settembre e comprende i seguenti risultati: una garanzia governativa (statale, nella formulazione della legge) per il fondo pensioni dei lavoratori, una modifica del rapporto tra i contributi del lavoratore e quelli del datore di lavoro dal 7,5% e 8% del salario rispettivamente al 7% e 9%, ed una riduzione del periodo lavorativo a fini pensionistici da 360 mesi a 300 per gli uomini e da 300 a 240 per le donne.

Inoltre la pensione minima sarà il 75% del salario minimo mensile (attualmente 1.450 shekels, cioè 382 dollari)[341,32 euro, ndtr] le donne avranno diritto al congedo per maternità dopo tre mesi di lavoro anziché sei, vi sarà esenzione dalle tasse per un prelievo una tantum dei risparmi sul fondo pensioni e il numero di lavoratori rappresentanti nel consiglio sociale per la sicurezza passerà da quattro a sei.

Infine ci sarà un intervento positivo per i disabili, che potranno godere di una pensione dopo 10 anni di lavoro ed il pagamento ai figli disabili nel caso di morte di un genitore assicurato, anche se i figli hanno più di 21 anni; un intervento positivo per i lavoratori che svolgono mansioni pericolose; il trasferimento della pensione al marito nel caso di morte della moglie assicurata.

Oltre alle conquiste ottenute dalla protesta sociale palestinese, l’approvazione di una legge sulla previdenza sociale – che fa riferimento a situazioni di pagamenti e rimborsi che avverranno tra decenni e la cui formulazione ha creato preoccupazione a molti palestinesi per mesi – indica qualcosa di più. Nonostante tutte le previsioni di un imminente tracollo – o perché Abbas non ha successori, o per via dell’instabilità di Fatah, o ancora perché le restrizioni israeliane impongono un’economia debole – i difficili rapporti tra la popolazione e le istituzioni di un limitato autogoverno si stanno adeguando alla situazione presente.

La situazione attuale non dipende quindi da una sola persona. Nonostante le dure critiche interne all’ANP, ai suoi fallimenti politici e nazionali, la percezione di essa come un’istituzione permanente ed esistente sta iniziando a radicarsi.

La trasformazione dell’ANP in uno Stato appare molto lontana. Ma sembra che proprio la speranza che essa assolva al suo ruolo e sia al servizio della società possa essere un’altra strada per sostenerla.

Traduzione di Cristiana Cavagna




La “S” di BDS: Lezioni da trarre dalla campagna contro la Elbit Systems (III parte)

Da: Al-Shabaka

09 Settembre 2016

In questo editoriale politico di Al-Shbaka Maren Mantovani e Jamal Juma analizzano alcuni sviluppi che il complesso militare industriale di Israele deve affrontare, con una particolare attenzione alla campagna contro Elbit Systems. L’editoriale analizza i momenti difficili che l’industria si trova di fronte, il mito della superiorità tecnologica di Israele, i cambiamenti locali e globali dell’industria e le alleanze emerse per opporsi alla militarizzazione ed alle tendenze sicuritarie nelle varie società. In base a questa analisi delineano indicazioni preziose ed identificano percorsi da seguire per il movimento globale di solidarietà con la Palestina.

Fare causa comune contro la militarizzazione

L’appello per un totale embargo militare verso Israele non si basa soltanto sulla richiesta palestinese di porre termine all’impunità di Israele e alla complicità di tutto il mondo con il suo regime di apartheid. Fa anche parte di una lotta globale contro le guerre e la repressione e contro la militarizzazione e gestione sicuritaria della società. C’è una crescente consapevolezza delle modalità attraverso cui le esportazioni israeliane militari e “per la sicurezza interna” contribuiscono a queste prassi con nuove tecnologie e metodologie sviluppate nel processo di occupazione militare, apartheid e pulizia etnica del popolo palestinese. A loro volta, la militarizzazione e la gestione sicuritaria contribuiscono a sostenere l’industria militare israeliana e le politiche contro i palestinesi.

Parallelamente al crescente ruolo di Israele in questa militarizzazione, i movimenti in tutto il mondo stanno facendo causa comune con il movimento BDS contro la repressione e la discriminazione da parte delle forze militari e di polizia. La campagna contro la compagnia israeliana “di sicurezza interna” International Security and Defense Systems (ISDS) ne è un importante esempio. La ISDS è stata fondata nel 1982 da ex-agenti del Mossad. Giornalisti di inchiesta e ex-membri di giunte militari riferiscono che ISDS ha addestrato gli squadroni della morte in Guatemala, El Salvador, Honduras e Nicaragua ed ha preso parte a golpe e a tentativi di colpo di stato in Honduras e Venezuela.

Attualmente ISDS addestra la famigerata forza di polizia militare BOPE a Rio de Janeiro, ammettendo con orgoglio che la polizia nelle favelas utilizza le stesse tecniche che Israele usa a Gaza. ISDS ha anche ottenuto un contratto che le ha fatto molta pubblicità con i Giochi Olimpici di Rio del 2016. Movimenti palestinesi come Stop the Wall (Fermare il Muro, ndt) e il Comitato Nazionale del BDS (BNC) hanno unito le loro forze a quelle dei movimenti popolari di Rio che lavorano per i diritti umani nelle favelas, in una campagna denominata “Giochi Olimpici senza apartheid”, per ottenere la cancellazione del contratto.

Analoghi rapporti sono stati instaurati tra il movimento di solidarietà palestinese e gli attivisti neri negli USA, che nel 2015 hanno emesso una dichiarazione di solidarietà sostenuta da oltre 1000 attivisti ed intellettuali neri, che afferma che “l’uso massiccio da parte di Israele della detenzione e dell’arresto dei palestinesi evoca l’incarcerazione di massa del popolo nero negli USA, inclusa la detenzione politica dei nostri rivoluzionari” e fa appello alla lotta comune contro la compagnia di sicurezza G4S. Inoltre nell’agosto 2016 il movimento “Black Lives Matter” (la vita dei neri è importante, ndt) ha appoggiato il movimento BDS.

Il muro al confine tra USA e Messico è un altro luogo che vede la lotta comune tra attivisti della solidarietà palestinesi e il popolo indigeno colpito dalla messa in pratica delle metodologie e tecnologie israeliane nella loro terra, in cui la Elbit Systems ricopre un ruolo centrale.

La campagna nell’UE per sospendere i finanziamenti alla Elbit Systems e ad altre compagnie militari israeliane riguarda un maggiore coinvolgimento per ogni cittadino europeo. Con un budget di 80 miliardi di euro (circa 88 miliardi di dollari al tasso di cambio di fine 2015), l’attuale programma di finanziamento dell’UE per la ricerca e lo sviluppo Horizon 2020 è tra i maggiori progetti di finanziamento al mondo. Ridistribuisce il denaro dei contribuenti soprattutto a istituzioni aziendali ed accademiche che sviluppano ricerche al servizio di grandi business, compresa la cooperazione con le imprese militari israeliane. I progetti di ricerca con le imprese militari israeliane spesso sviluppano tecnologie a doppio uso (sia militare che civile) in aperta violazione delle norme dell’UE e contribuiscono alla militarizzazione ed alla deriva sicuritaria delle società europee. La maggioranza degli europei, se sapesse come è stato usato il suo denaro, probabilmente concorderebbe sul fatto che l’UE nuoce non solo ai palestinesi, ma anche ai suoi stessi cittadini spendendo denaro in guerre che creano nuovi rifugiati ed in tecnologie che controllano, discriminano per razza ed opprimono gli europei invece di andare incontro alle loro necessità.

Prendere di mira i punti deboli delle forze armate israeliane

La nota informativa ha cercato di fornire una panoramica del complesso militare industriale di Israele e di identificare delle possibilità d’azione che permettano di ridurre i profitti industriali e poi portino ad un embargo delle armi finché non vengano ottenuti i diritti dei palestinesi. Si tratta indubbiamente di un impegno importante: il complesso industriale militare comprende imprese potenti, propaganda e sistemi di promozione e vendita spudorati, impianti di difesa globale che spesso sono lontani dal discorso e dalla portata degli attivisti della solidarietà. Eppure non è solo un’esigenza etica per i paesi quella di interrompere le relazioni militari con Israele finché esso non rispetti il diritto internazionale; è anche una campagna che può essere vinta. Sicuramente, sulla base dell’esperienza fino ad ora e alla luce della precedente analisi, ci sono diverse possibilità da prendere in considerazione per gli attivisti.

Al livello più basilare, sono indispensabili l’educazione dell’opinione pubblica e la mobilitazione. La maggior parte delle persone comprende intuitivamente che i rispettivi governi non dovrebbero mantenere relazioni militari con una potenza di occupazione che sferra sistematici attacchi militari contro la Striscia di Gaza sotto assedio ed altri paesi vicini, così come compie incursioni, raid, demolizioni di case ed altre violazioni di diritti umani contro la Cisgiordania e Gerusalemme est occupate – soprattutto poiché questi atti non soltanto infrangono il loro codice morale, ma anche le leggi dei loro paesi e le leggi internazionali. Il numero dei difensori dei diritti umani che si impegnano nel boicottaggio e disinvestimento è in aumento; è solo questione di tempo perché il numero di coloro che spingono per le sanzioni, e soprattutto per le sanzioni militari, cresca fino a raggiungere una massa critica.

La solidarietà con la Palestina da parte di comunità anch’esse colpite dalla militarizzazione e messa in sicurezza ha una lunga storia, soprattutto in America Latina, dove Israele ed i suoi agenti privati per decenni hanno appoggiato ed addestrato gli squadroni della morte e le dittature. La consolidata collaborazione tra i neri americani, i latini e i popoli indigeni negli USA, a fronte della militarizzazione esponenziale delle metropoli europee, significa che una vasta ed organizzata rete di attivisti ha il potenziale per svilupparsi anche in occidente. Nel caso della UE, una pressione dell’opinione pubblica potrebbe essere utilizzata per sostenere le argomentazioni tecniche per contestare il finanziamento di Horizon 2020 alle forze armate israeliane – e ad altri enti – complici dell’occupazione.

Nelle loro campagne gli attivisti dovrebbero anche evidenziare che la tecnologia militare israeliana non è né così efficace né così scevra da problemi come pretende la propaganda. I gravi problemi con la produzione di droni israeliani e le questioni relative a Iron Dome (sistema di difesa antimissile, ndt) sono solo due esempi. Ancor più convincente è il fatto che Israele sta minando la capacità dei paesi di gestire la propria difesa, sottraendo loro la capacità industriale a favore di Israele ed usando i suoi sistemi di sicurezza per fare spionaggio nei confronti dei paesi clienti, con l’effettivo risultato della perdita della loro sovranità ed indipendenza nazionale.

La Elbit Systems, grande com’è, è particolarmente vulnerabile alle azioni degli attivisti.

E’ l’unica impresa militare privata israeliana di queste dimensioni ed è perciò più vulnerabile alle crisi, ai rischi di speculazione finanziaria e alla ristrutturazione economica. La Elbit Systems è gravemente indebitata ed ha bisogno di garantirsi un continuo flusso di liquidità per onorare il debito. La sua presenza sempre più globale rende più facile agli attivisti in diversi paesi attaccare la Elbit o le sue filiali. Inoltre anche la crescente dipendenza dell’industria militare dagli aiuti del bilancio statale israeliano la rende vulnerabile, accrescendo anche la vulnerabilità dello stato.

Gli attivisti dovrebbero anche trarre lezione dall’esperienza: Israele si mette sempre in grado di trarre vantaggio quando arrivano al potere nuovi governi o si implementano nuove politiche nazionali. Anche gli attivisti dovrebbero mettersi in grado di sviluppare programmi adeguati alla situazione del momento per affrontare i cambiamenti di governo. E’ la chiave per garantirsi, dove possibile, impegni o leggi da parte di governi amici contro il commercio militare con Israele o per trarre vantaggio da circostanze in cui governi ostili applicano politiche contrarie agli interessi di Israele. Fare leva sulle dinamiche interne in tali circostanze è un fattore essenziale di successo.

Se si vogliono attuare sanzioni militari contro Israele, la società civile palestinese e gli attivisti dovranno lavorare sodo per fare pressione sull’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) e sull’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) perché usino i loro contatti diplomatici e qualunque potere di persuasione di cui dispongano sia nei confronti di singoli stati che delle Nazioni Unite. In particolare, dovrebbero assicurarsi che OLP/ANP usino ogni mezzo possibile per impedire e contrastare il commercio di armi tra gli stati del Golfo ed Israele.

Non c’è modo di prevedere quando il vento cambierà. Ma le lotte popolari contro la repressione, la guerra e l’apartheid, rafforzate da una crescente percezione negativa del complesso industriale militare israeliano, potrebbero colpire al cuore un’industria che da un lato sostiene l’aggressione israeliana e dall’altro prospera grazie ad essa. Il mito della tecnologia militare israeliana si sta lentamente sgretolando e un’industria militare israeliana più privatizzata è altrettanto esposta ai rischi del mercato globale quanto lo sono altre imprese. L’appello per sanzioni militari può iniziare a far presa anche prima che i governi siano pronti ad attuare un embargo a pieno titolo.

Fonte: Ma’an News Agency

Al- Shabaka è un’organizzazione no profit indipendente la cui finalità è educare e rafforzare la discussione pubblica sui diritti umani e l’autodeterminazione dei palestinesi nel quadro delle leggi internazionali.

Traduzione di Cristiana Cavagna per BDS Italia




In Cisgiordania le discriminazioni non scarseggiano quando si tratta di acqua

Haaretz

di Amira Hass – 2 luglio 2016

Israele sta chiedendo il rinnovo del Comitato Congiunto per l’Acqua, ma i palestinesi hanno sperimentato che la commissione si limita a rafforzare le colonie e a perpetuare il controllo israeliano sulle risorse idriche

“Convocare il Comitato Congiunto per l’Acqua.” Questo è il mantra israeliano tirato fuori in risposta alle vicende relative alla scarsità d’acqua in Cisgiordania. Da quando i palestinesi hanno iniziato a boicottare per parecchi anni il lavoro del Comitato, si continua a sostenere che non si è potuto ammodernare e riparare le infrastrutture idriche.

Questa è stata anche la replica che Haaretz ha ricevuto la scorsa settimana dall’Autorità Israeliana per l’Acqua e dall’ufficio di coordinamento delle attività governative nei territori, in risposta a un quesito sul perché dall’inizio di giugno la compagnia israeliana delle acque (Mekorot) ha ridotto la quantità di acqua che vende ai palestinesi nel distretto di Salfit e a Nablus.

Mekorot ha dato una risposta simile al settimanale Makor Rishon [giornale di destra e vicino al movimento dei coloni. Ndtr.], che una settimana fa ha dato notizia di una riduzione nell’erogazione dell’acqua in numerose colonie, quartieri e avamposti illegali in Cisgiordania.

Effettivamente dalla fine del 2010 i palestinesi hanno smesso di approvare le richieste di progetti per l’acqua e le fognature presentati dalla controparte israeliana al Comitato Congiunto per l’Acqua (JWC). Inizialmente hanno rifiutato di firmare i verbali delle riunioni. Poi hanno smesso di parteciparvi. Il primo ministro palestinese del tempo era Salam Fayyad, mentre il capo dell’Autorità Palestinese per l’Acqua era il ministro Shaddad Attili. I palestinesi erano arrivati alla conclusione – qualcuno dice con troppo ritardo – che, con il pretesto della condivisione e della reciprocità, Israele stava estorcendo loro un consenso scritto e una manifesta approvazione che consentiva lo sviluppo delle infrastrutture idriche nelle colonie e persino di incrementarne la fornitura d’acqua. Allo stesso tempo stava limitando lo sviluppo e l’espansione delle infrastrutture idriche palestinesi e perpetuando l’ineguale divisione dell’acqua tra israeliani e palestinesi.

Nel 2014, dopo che Rami Hamdallah è diventato primo ministro dell’Autorità Nazionale Palestinese, Attili – che gli israeliani consideravano un guastafeste e la causa del problema – è stato sollevato dall’incarico; Mazen Ghoneim è stato nominato al suo posto. Tuttavia, nonostante qualcuno abbia interpretato questo come un cedimento alle pressioni israeliane per riprendere il lavoro del Comitato, la posizione dei palestinesi non è cambiata.

“Il Comitato si riunisce” – cioè è richiesta l’approvazione dell’altra parte – “solo quando si tratta di progetti per i palestinesi,” ha detto la scorsa settimana ad Haaretz il ministro Ghoneim. “Gli israeliani fanno tutto quello che vogliono nelle colonie, quando vogliono. Non chiedono il nostro permesso di costruire ed espandere insediamenti e avamposti, perciò perché dovrebbero ottenere la nostra approvazione per gli acquedotti?”

Un chiara prova è arrivata la scorsa settimana: il 20 giugno il sito web dell’amministrazione per gli appalti del governo israeliano ha pubblicato un bando per un condotto fognario congiunto israelo-palestinese, che sarà posto di fianco al percorso della rete fognaria già esistente tra Givat Ze’ev, Bir Naballah e Al Jib [la prima è una colonia, gli altri due sono villaggi palestinesi. Ndtr.]. L’Autorità Palestinese per l’Acqua ha detto ad Haaretz che ciò viene fatto a sua insaputa.

Secondo COGAT [il Coordinamento per le Attività Governative nei Territori, ente del ministero della Difesa israeliano che si occupa delle attività civili nei Territori Occupati. Ndtr.], si tratta solo di una risistemazione e di un lavoro di manutenzione di una conduttura già esistente, e di conseguenza non richiede il consenso del Comitato. Tuttavia, secondo fonti palestinesi, quando il JWC era operativo i palestinesi dovevano chiedere l’approvazione israeliana per la ristrutturazione (sostituzione e manutenzione) di ogni tubatura esistente – persino nelle aree A e B, che sono sotto il controllo dell’ autorità civile palestinese. Senza tale approvazione, anche per le aree A e B, i Paesi donatori, e soprattutto gli Stati Uniti, non avrebbero finanziato i progetti.

L’articolo 40 degli accordi interinali del 1995 tra Israele e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, che tratta di questioni relative ad acqua e sistema fognario, stabiliva che i palestinesi sarebbero stati nelle condizioni di estrarre circa 118 milioni di m³ annui dall’Acquifero Montano in Cisgiordania. In più l’accordo stabiliva che Israele avrebbe venduto ai palestinesi altri 30 milioni di m³ e che durante il periodo dell’accordo (fino al 1999) avrebbero potuto incrementare la quota di altri 80 milioni di m³ annui dai loro pozzi di perforazione nel bacino orientale o “da altra fonte”.

Secondo i calcoli della Banca Mondiale, la quantità destinata ai palestinesi in Cisgiordania era circa il 20% delle estrazioni dall’Acquifero Montano. Il resto dell’acqua – cioè la maggior parte del totale – era destinata ad Israele per il consumo delle colonie e all’interno di Israele. Il ruolo del JWC era quello di mettere in pratica gli impegni delle parti in base all’articolo 40 e di gestire i sistemi idrici e fognari in Cisgiordania.

All’inizio i palestinesi videro questa norma come una base per estendere la propria indipendenza nel settore idrico. Oggi, 17 anni dopo che l’accordo avrebbe dovuto terminare, secondo i calcoli dell’Autorità Palestinese delle Acque i palestinesi stanno ricevendo solo 103 m³ all’anno dall’Acquifero Montano.

In confronto, secondo uno studio di B’Tselem [organizzazione israeliana per i diritti umani. Ndtr.], i cui dati sono stati aggiornati nel 2013, 28 siti di perforazione di Mekorot nella Valle del Giordano (il Bacino Orientale) producono circa 32 milioni di m³ all’anno, cioè poco meno di un terzo del totale dell’acqua che i palestinesi stanno estraendo da tutto l’Acquifero Montano. La grande maggioranza di quei 32 milioni di m³ è destinata a circa 10.000 coloni ebrei nella Valle del Giordano, per usi domestici ed agricoli, rispetto ai 103 milioni di m³ destinati a tutti i 2,7 milioni di palestinesi della Cisgiordania.

La popolazione palestinese in Cisgiordania è cresciuta di circa un milione dal 1995. In seguito a ciò ora i palestinesi non hanno altra alternativa che comprare una maggiore quantità di acqua da Israele rispetto a quella stabilita originariamente.

Uno studio inglese pubblicato nel 2013 ha rilevato che la discriminazione contro i palestinesi è stata applicata anche dal JWC. Il ricercatore, Jan Selby dell’università del Sussex, ha scoperto che tra il 1995 e il 2008 la proporzione tra i progetti palestinesi approvati dal Comitato (cioè, approvata anche dalla parte israeliana) è stata minore dei progetti che sono stati approvati nelle colonie: è stato approvato non più del 66% delle domande palestinesi di perforare pozzi rispetto al 100% delle richieste israeliane; tra il 50% e l’80% delle richieste per reti di fornitura idrica per la popolazione palestinese è stato approvato, rispetto al 100% per i coloni; e il 58% delle domande di impianti per la purificazione di acque di scolo dei palestinesi rispetto al 96% per i coloni.

Selby ha anche scoperto che la portata degli impianti approvati di stoccaggio dell’acqua degli israeliani è circa cinque volte maggiore di quella delle loro controparti palestinesi – 4.723 cm³ per gli israeliani rispetto ai 965 cm³ per i palestinesi. E il diametro più frequente delle tubature per i palestinesi è di 2 pollici, rispetto agli 8 e 12 pollici per gli israeliani.

Durante lo stesso periodo, i 174 progetti di cisterne/riserve di stoccaggio per i palestinesi avevano una capienza totale di 167.950 cm³ rispetto ai 28 impianti simili per gli israeliani con una capienza totale di 132.250 cm³.

Selby conclude che l’espansione delle infrastrutture nelle colonie è stata portata avanti con l’approvazione dell’Autorità Nazionale Palestinese, perché è apparso chiaro che altrimenti Israele non avrebbe consentito la ristrutturazione e lo sviluppo delle infrastrutture idriche palestinesi.

Fonti dell’Autorità Palestinese per le Acque preferiscono dire oggi che nei primi anni “abbiamo firmato progetti di interesse comune (cioè condutture comuni per le colonie e le comunità palestinesi). Progressivamente ci si è preteso da noi che approvassimo progetti solo per le colonie in cambio dell’approvazione dei nostri progetti.”

Queste fonti hanno aggiunto che i progetti più grandi, che avrebbero potuto essere messi in atto solo nell’area C [sotto totale controllo israeliano e dove si trovano le riserve idriche. Ndtr.] sono anche passati per la complicata burocrazia dell’Amministrazione Civile [il governo militare israeliano in Cisgiordania. Ndtr.], che a volte ha ritardato o bloccato la loro messa in opera. E Selby ha scoperto anche che, prima ancora che un progetto venisse sottoposto al processo di approvazione dell’Amministrazione Civile, un progetto israeliano è stato approvato dal Comitato Congiunto delle Acque mediamente entro due mesi, mentre per un progetto palestinese ce ne sono voluti 11.

La ricerca di Selby riassume la crescente frustrazione palestinese e spiega la decisione di lasciare il Comitato Congiunto.

Una portavoce del COGAT ha affermato che “il miglioramento delle condizioni delle infrastrutture idriche in Cisgiordania richiede la progettazione di nuove condutture, in quanto quelle esistenti hanno raggiunto la portata massima e quindi è necessario convocare il Comitato Congiunto per le Acque.”

Ha aggiunto: “Notiamo che alla luce delle difficoltà che l’Autorità Nazionale Palestinese sta continuando a porre al comitato, i progetti idrici e fognari sono stati approvati unilateralmente per dare una prima risposta al problema dell’acqua per entrambe le popolazioni della regione.”

Uri Schor, un portavoce dell’Autorità Israeliana per le Acque, ha detto ad Haaretz: “Nel novembre 2011 il direttore dell’Autorità per le Acque, nel quadro del Comitato Congiunto, ha dato la sua approvazione ai palestinesi per 43 progetti per la ristrutturazione di punti di perforazione esistenti, per la sostituzione e per nuovi punti di perforazione. “Nell’ottobre 2012,” ha scritto, “c’è stato un accordo tra le due parti per fissare il prezzo dell’acqua in più per la Cisgiordania e la Striscia di Gaza.” Una fonte palestinese ha detto ad Haaretz che le richieste di perforazione approvate dall’autorità erano state presentate molto tempo prima e che l’accordo sui prezzi era stato stabilito solo per un anno.”

Dall’ottobre 2012, ha aggiunto Schor, “il governo palestinese ha preso la decisione politica di non approvare nessun altro progetto israeliano (contravvenendo all’accordo sull’acqua) silurando in tal modo un contesto di collaborazione che ha reso possibile rifornire entrambe le popolazioni della Cisgiordania.”

Invece i palestinesi affermano che il recente taglio massiccio nella fornitura di acqua alle loro comunità ha lo scopo di ricattarli per farli tornare al Comitato Congiunto per le Acque e per “far loro approvare i progetti esclusivamente destinati alle colonie illegali, in modo da renderli apparentemente legali.”

All’Autorità Palestinese per le Acque fanno notare che, proprio come lo status dell’area C e le relazioni economiche (il Protocollo di Parigi), destinate ad essere provvisorie, anche l’articolo 40 e le quote di acqua imposte ai palestinesi dovevano essere temporanei.

Ma quello che doveva essere provvisorio è diventato permanente. I palestinesi dicono che le loro richieste di emendare l’articolo 40 non hanno ricevuto risposta. Oggi l’unica soluzione realistica, affermano, è permettere loro di cominciare subito a perforare nel più ricco Bacino occidentale dell’Acquifero Montano.

Da parte sua, il ministro Ghoneim riassume la posizione israeliana: “Israele ci tratta come clienti di un’impresa e non come un popolo che ha un diritto legale sulle fonti idriche del nostro Paese.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




I social media e la terza intifada: la scomoda verità

Maanews 15 aprile 2016

di Albana Dwonch

Albana Dwonch è una candidata al dottorato di ricerca presso l’Università di Washington, attualmente ricercatrice a Gerusalemme.

Sei mesi dopo il suo inizio, sono state poste più domande che fornite risposte relativamente alla violenta rivolta dei giovani nei territori palestinesi occupati.

E’o non è una terza intifada?” è stata la questione più dibattuta da molti media ed analisi. La seconda, “I social media vi hanno contribuito?”, ha provocato un analogo disorientamento sul loro ruolo nell’ultima rivolta dei giovani.

La confusione è stata soprattutto evidente nella difficoltà dei media nel definire questi nuovi soggetti senza leadership e le loro inconsuete modalità di mobilitazione. I giornalisti hanno dovuto modificare la propria terminologia e creare nuove espressioni, come “lupo solitario” e “ istigatore informatico”.

Anche questi termini erano comunque problematici. “Lupi solitari” – gli utilizzatori degli strumenti più arcaici della strada – erano difficili da distinguersi dagli “istigatori informatici” – utilizzatori delle tecnologie dei social, che producevano, postavano e diffondevano video di eventi attraverso le loro reti.

Nonostante la difficoltà di definire e spiegare questi nuovi soggetti ed i loro metodi organizzativi decentrati, la conclusione finale è che i social media sono stati un vettore per la diffusione della violenza e per la radicalizzazione della gioventù palestinese negli ultimi sei mesi.

Comunque questa conclusione non tiene conto di uno sviluppo più profondo e persistente. Al di là del ruolo specifico dei social media in questa rivolta giovanile, le più vaste implicazioni del drastico cambiamento dell’ambito sociale e mediatico stanno incominciando a modificare i sistemi politici palestinese ed israeliano e le loro basi di potere interne ed internazionali.

L’uso dei social media ha evidenziato che, mentre l’ANP (Autorità Nazionale Palestinese, ndt.) ed Israele possono ancora essere in grado di contenere i disordini, di certo l’ANP non può controllare il coinvolgimento dei giovani in essi, né può Israele fermarlo definitivamente.

Perché sono arrabbiati ma senza guida?

Il grado di influenza dei social media sulla dinamica delle violenze in questa rivolta dei giovani è strettamente correlato alla più vasta implicazione del palesamento della crisi di legittimità delle strutture politiche palestinesi.

La scelta dei giovani di non avere leadership e di mobilitarsi in modo decentrato rivela un profondo distacco e perdita di fiducia nei loro partiti e leaders.

L’accusa che la diffusione virale di video violenti attraverso i social media ha amplificato la rabbia ed incitato ad ulteriore violenza è stata ora superata da un altro involontario effetto mediatico di quest’ultimo ciclo di violenza.

Il video del 24 marzo prodotto da un attivista dei diritti dei cittadini ad Hebron ha rivelato il sottile confine tra “istigare” e “mostrare” la violenza.

L’immagine di un soldato israeliano che uccide un palestinese già ferito steso a terra ha rivelato al vasto pubblico il lato meno conosciuto della stessa brutta storia: l’eccessivo uso da parte di Israele della violenza di stato nei territori palestinesi occupati.

Analogamente al sottile confine tra “lupo solitario” e “istigatore informatico”, i video che mostrano “gli attacchi palestinesi col coltello” vengono ora affiancati ai video che mostrano le esecuzioni extragiudiziali israeliane.

L’esposizione della violenza di stato come involontario effetto di attrazione di “lupi solitari” ha portato ad un altro problema: la maggiore sorveglianza e censura per individuare gli “istigatori informatici”.

Israele, con la sua potente infrastruttura informatica e tassi di diffusione di internet tra i più alti al mondo, da ottobre 2015 ha aumentato il controllo su internet ed ha arrestato centinaia di giovani palestinesi per “istigazione online” sulle loro pagine Facebook.

Inoltre il governo israeliano ha chiuso organi di stampa palestinesi in Cisgiordania e determinate Ong israeliane che pubblicizzano video e materiali per la difesa dei diritti umani dei palestinesi sono attualmente sotto indagine dello stato, che le considera sospette di essere agenti stranieri.

Gli apparati di potere reagiscono

La cooptazione di soggetti non statali, un’accresciuta sorveglianza e l’uso eccessivo della forza militare sono la consueta risposta dello stato a queste proteste dei giovani.

Di fatto, con la sua reazione a questi disordini, il governo israeliano agisce in modo perfettamente simile a quello con cui l’Autorità Palestinese in Cisgiordania e Hamas a Gaza hanno represso e poi schiacciato il movimento giovanile non violento del 15 marzo 2011.

Ispirato alle immagini indimenticabili della primavera araba, il movimento del 15 marzo era iniziato su Facebook sottoforma di un infiammato manifesto, che ha innescato una risposta emotiva in una vasta area di giovani che condividevano le stesse frustrazioni ed hanno occupato le piazze in Cisgiordania e a Gaza.

Queste proteste si rivolgevano contro la divisione tra le fazioni palestinesi ed altre strutture di potere. Poco dopo, le autorità palestinesi hanno significativamente aumentato il controllo su internet, hanno chiuso o cooptato le Ong locali, hanno sciolto i gruppi giovanili online ed hanno incarcerato e minacciato i giovani leaders carismatici.

Quindi, mentre la caccia da parte di Israele ai lupi solitari e agli istigatori informatici è lungi dall’essere finita, si sta sviluppando qualcosa di molto più importante: se da un lato la risposta dello stato alle proteste dei giovani sta diventando relativamente facile da prevedere, dall’altro lato la prossima ondata di protesta giovanile e ciò che comporterà è estremamente imprevedibile.

Abbiamo assistito almeno due volte in questo decennio a proteste diffuse attraverso i social media che hanno cercato di colpire le strutture di potere palestinesi ed israeliane. Entrambe sono state accese da un sentimento di rabbia largamente condiviso ed entrambe hanno sorpreso il sistema al potere. Entrambe sono state momentaneamente arginate.

Però, individuando i social media come la causa del fallimento di questo tipo di mobilitazioni o del loro divenire violente, si svia l’attenzione dal comprendere l’evolversi delle condizioni che permettono la trasformazione del sentimento emotivo di speranza o disperazione nel prossimo movimento per il cambiamento contro i poteri in carica.

Questa comprensione potrebbe drasticamente modificare i rapporti di potere nel conflitto israelo-palestinese.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale dell’Agenzia Ma’an News.

( Traduzione di Cristiana Cavagna)




Pensa alla Striscia di Gaza la prossima volta che bevi acqua del rubinetto.

Il modo più facile, rapido e logico di prevenire un disastro umanitario ed ecologico sarebbe fornire acqua molto più a buon mercato da Israele nella Striscia.

di Amira Hass- 22 marzo 2016

Haaretz

Oggi, quando apri il tuo rubinetto, pensa alla Striscia di Gaza, dove centinaia di migliaia di bambini e ragazzi non sono abituati ad una cosa magnifica come bere acqua del rubinetto. Gli adulti hanno ormai scordato com’è facile dargli un giro, vedere l’acqua scorrere e sentire il suono che si riduce mano a mano che il bicchiere si riempie.

Ora devono andare giù in strada, aspettare che arrivi un camion con una cisterna di acqua potabilizzata, riempire qualche bottiglione e portarlo in casa, sperando che ci sia l’elettricità e che l’ascensore stia funzionando. Ogni metro cubo di acqua desalinizzata costa da 25 a 30 shekel (da 5,8 a 6,9 €), rispetto a 1 o 3 shekel (0,23 o 0,7 centesimi di €) del servizio idrico.

Oggi, quando ti lavi la faccia, pensa all’acqua che esce dai rubinetti di Gaza. E’ oleosa e ti lascia una patina salmastra. I vestiti lavati sembrano rigidi a causa del fatto che l’acqua è mescolata con quella di mare, con liquami e pesticidi.

A Gaza il 95% circa dell’acqua del rubinetto non è potabile. Questa è la ragione per cui c’è una notevole dipendenza delle 145 infrastrutture pubbliche e private dall’acqua desalinizzata e potabilizzata. Ora il gruppo di “Emergenza per la Purificazione dell’acqua e per l’igiene” (EWASH), un consorzio di organizzazioni locali ed internazionali che affronta i problemi dell’acqua e dell’igienizzazione in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, sta avvertendo che circa il 68% di quest’acqua purificata è esposta a contaminazioni biologiche.

Circa 200 milioni di metri cubi sono estratti ogni anno dalle falde acquifere di Gaza, che sono rinnovate solo con 55-60 milioni di metri cubi, la stessa quantità di 80 anni fa, quando ci vivevano solo 80.000 persone, rispetto alle attuali 1 milione 800 mila. Israele vende solo una quantità minima di acqua a Gaza, tra i 5 e gli 8 milioni di metri cubi all’anno. Le Nazioni Unite hanno avvertito che nel 2020 il danno alle falde acquifere sarà irreversibile.

Il modo più facile, rapido e logico per bloccare questo disastro umanitario ed ecologico sarebbe pompare acqua molto più economica da Israele alla Striscia. La nazione dell’ high-tech e dell’irrigazione a goccia può sicuramente organizzare tutto ciò.

Ma l’Autorità Nazionale Palestinese e i Paesi donatori stanno progettando grandi impianti di desalinizzazione dell’acqua di mare, la cui produzione è stata rimandata a causa delle restrizioni imposte da Israele all’introduzione di materiali e della irregolare fornitura di elettricità. L’ANP spiega il proprio impegno per questa soluzione costosa e anti-ecologica con il suo desiderio di minimizzare la dipendenza nei confronti di Israele. Però non si fa nessun problema a comprare più acqua da Israele per la Cisgiordania, 50 milioni di metri cubi all’anno, il doppio di quanto prevedessero gli accordi di Oslo.

Dunque le ragioni della sua opposizione risiedono altrove. Teme che il governo di Hamas non si preoccuperebbe di pagare le bollette dell’acqua, come è successo con quelle dell’elettricità. Israele dedurrebbe dunque quanto dovuto direttamente dai diritti doganali che riscuote per l’ANP e trasferisce a Ramallah [sede dell’ANP. Ndtr]. Ancora una volta il popolo palestinese è intrappolato nella faida tra Fatah e Hamas.

Ma il problema è iniziato molto prima che a Gaza si instaurasse il regime di Hamas. Gli accordi di Oslo hanno definito Gaza come autosufficiente per quanto riguarda la produzione ed il consumo di acqua. Si tratta di una delle più chiare prove possibili che fin da allora Israele aveva intenzione di separare Gaza dalla Cisgiordania, a differenza di quanto c’era scritto [negli accordi]. Lo stesso accordo ha imposto una distribuzione vergognosamente discriminatoria dell’acqua dalle sorgenti montane della Cisgiordania, con l’80% destinato agli israeliani (all’interno di Israele e nelle colonie) e il 20% per i palestinesi. L’attuale proporzione da allora è solo peggiorata, perché i pozzi palestinesi sono vecchi e le nuove perforazioni permesse da Israele si sono dimostrate meno fruttuose del previsto.

Il grandioso progetto di desalinizzazione dell’acqua marina a Gaza nasconde il peccato originale ecologico e politico: trattare Gaza come un’isola separata dal resto del Paese.

Molti residenti di Gaza e consumatori di acqua che non hanno sono originari di città e villaggi che sono oggi in territorio israeliano. A livello simbolico, ottenere il diritto all’acqua prodotta dagli israeliani è quasi come un riconoscimento del diritto al ritorno. A livello politico, può e ci deve essere un notevole incremento nella quantità di acqua fornita da Israele in compensazione dell’acqua che Israele ha rubato e continua a rubare ai palestinesi. Sarebbe un riconoscimento del nostro dovere di condividere equamente le sorgenti d’acqua tra arabi ed ebrei, un principio che non siamo pronti ad accettare.

(traduzione di Amedeo Rossi)




La disgregazione politica, la cultura e l’identità nazionale palestinese

16 marzo 2016

Al-Shabaka

di Jamil Hilal

Al-Shabaka è un’organizzazione indipendente no-profit il cui obiettivo è di stimolare e far progredire il dibattito pubblico sui diritti umani e l’autodeterminazione dei palestinesi nel quadro delle leggi internazionali.

Il commentatore politico di Al-Shabaka Jamil Hilal è un sociologo indipendente e scrittore palestinese ed ha pubblicato molti libri e numerosi articoli sulla società palestinese, il conflitto arabo-israeliano e sui problemi del Medio Oriente.

Il campo politico palestinese, dominato dall’Organizzazione della Liberazione della Palestina (OLP) fin dalla fine degli anni ’60, è stato disintegrato da quando in base agli accordi di Oslo è stata fondata l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP). Qual è stato l’impatto della supremazia dell’OLP e quali sono state le ripercussioni della sua disgregazione per la classe politica palestinese? E fino a che punto la disgregazione del campo politico ha colpito quello culturale e il suo contributo all’identità nazionale palestinese? Queste sono le questioni affrontate in questo articolo.

Il predominio dell’OLP nel contesto politico palestinese è iniziato nel 1968 dopo la battaglia di Al-Karameh [città giordana in cui avvenne uno scontro tra l’esercito israeliano, quello giordano e i guerriglieri palestinesi e fu considerato una sconfitta per gli israeliani. Ndtr.], che le ha permesso di istituire un relazione centralizzata con le comunità palestinesi nella Palestina storica, in Giordania, in Siria, in Libano, nel Golfo, in Europa e nelle Americhe. Queste comunità hanno sostanzialmente accettato l’OLP come proprio unico rappresentante legittimo, nonostante le influenze esterne su di essa, compresa la sua pesante dipendenza da aiuti esterni, gli alti e bassi dei suoi rapporti con il Paese di residenza e le sue relazioni regionali ed internazionali. In conseguenza di ciò, le condizioni e caratteristiche specifiche di ogni comunità sono state ignorate, così come le prerogative nazionali, sociali e organizzative.

Dalla sua posizione dominante, l’OLP è stata anche in grado di consolidare le pratiche delle elite politiche comuni al mondo arabo e a livello internazionale, ma che non avrebbero dovuto mettere radici all’interno del popolo palestinese a causa della sua dispersione territoriale e della lotta per la liberazione. Il fatto che l’OLP sia emersa ed abbia funzionato in un contesto regionale ed internazionale ostile alla democrazia sia in teoria che in pratica ha contribuito a questo sviluppo. La regione araba è stata dominata da regimi con un’ideologia totalitaria e nazionalistica, così come da monarchie ed emirati teocratici autoritari; la democrazia era vista come un concetto occidentale estraneo e colonialista. Allo stesso tempo, l’OLP e le sue fazioni hanno formato alleanze con i paesi socialisti e del Terzo Mondo, pochi dei quali godevano della democrazia politica. La natura parassitaria delle istituzioni e delle fazioni dell’OLP e la dipendenza dall’aiuto e dal sostegno di Paesi arabi e socialisti non democratici ha rafforzato un approccio elitario e non-democratico alla politica.

Un terzo aspetto dell’egemonia dell’OLP è stato che le sue fazioni sono state sottoposte a una militarizzazione formale fin dall’inizio, in parte a causa dei conflitti armati dell’OLP con regimi arabi ostili e in parte per il fatto di essere costantemente attaccate da Israele. Questa militarizzazione formale, opposta alle tattiche belliche della guerriglia, ha aiutato a giustificare la relazione estremamente centralizzata tra la dirigenza politica e i suoi sostenitori.

Tra gli anni ’70 e i ’90 le fazioni e le istituzioni dell’OLP hanno sofferto molti duri colpi a causa dei cambiamenti della situazione regionale e internazionale. Questi hanno incluso l’espulsione dalla Giordania in seguito agli scontri armati nel 1970-71; la guerra civile scoppiata in Libano nel 1975, l’invasione israeliana nel 1982, l’espulsione dell’OLP dal Paese e i massacri di Sabra e Shatila; la guerra contro i campi palestinesi in Libano del 1985-86. La Prima Intifada (la rivolta popolare) contro Israele in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza alla fine del 1987 è stata anche il periodo nel quale l’islam politico per la prima volta ha occupato il contesto politico palestinese (1988). Il collasso dell’Unione Sovietica alla fine del 1989, la prima guerra del Golfo nel 1990-91 e il conseguente isolamento finanziario e politico dell’OLP hanno notevolmente eroso le sue alleanze e le sue fonti di finanziamento.

Le ripercussioni della disgregazione

Durante la Prima Intifada, l’elite politica palestinese non ha capito l’importanza di riorganizzare il movimento nazionale palestinese né di ricostruire le relazioni tra la dirigenza centralizzata e le varie comunità palestinesi. Inoltre l’OLP non ha trovato un modo per affrontare l’islamismo politico quando è emerso sulla scena palestinese come una filiazione della “Fratellanza musulmana” e non ha integrato Hamas nelle istituzioni politiche palestinesi. Allo stesso tempo, Hamas non si è ridefinito come un movimento nazionale. Il movimento politico palestinese, che è stato in un primo tempo indicato come un movimento nazionale o come una rivoluzione ha iniziato a essere citato come “il movimento nazionale ed islamico.”

Infatti la Prima Intifada ha portato la dirigenza politica a centralizzare ulteriormente i processi decisionali: ha firmato gli accordi di Oslo senza consultare le forze politiche e sociali all’interno o fuori dalla Palestina. Oslo ha fornito all’OLP la razionalizzazione politica, organizzativa ed ideologica per marginalizzare le istituzioni rappresentative nazionali palestinesi che esistevano, con l’argomento che stava costruendo il nucleo di uno Stato palestinese. L’ANP è stata esclusa dall’occuparsi dei palestinesi in Israele ed ha perso interesse fin da subito verso i palestinesi in Giordania. I suoi rapporti con loro, così come con i palestinesi in Libano, in Siria, nei Paesi del Golfo, in Europa e in America sono stati largamente ridotti a formalità burocratiche attraverso le sue ambasciate e gli uffici di rappresentanza in quei Paesi.

Quando la definizione dell’ANP come un’autorità con un autogoverno limitato su alcune parti della Cisgiordania e della Striscia di Gaza non ha portato ad uno Stato palestinese, le elite politiche sono state private di un potenziale centro di sovranità statale; ciò ha accelerato la disgregazione del movimento nazionale. La vittoria di Hamas nelle elezioni legislative del 2006 ed il suo controllo sulla Striscia di Gaza nel 2007 hanno contribuito alla frammentazione dell’autorità di auto-governo in due entità sovrane, una rimasta su una parte della Cisgiordania e l’altra nella Striscia di Gaza. Entrambe queste autorità rimangono sottoposte all’occupazione ed al controllo di uno Stato coloniale d’insediamento che continua a colonizzare in modo aggressivo la terra e ad espellere palestinesi dai due lati della Linea Verde [il confine tra Israele e la Giordania precedente all’occupazione del 1967. Ndtr.]

La disgregazione del campo politico nazionale ha avuto una serie di ripercussioni. Le istituzioni rappresentative nazionali sono svanite e le elite politiche locali sono diventate dominanti. I dirigenti hanno derivato la loro “legittimazione” dalla loro posizione del passato nel partito o nell’organizzazione e dalla loro interazione diplomatica con Stati regionali ed istituzioni internazionali. Il discorso che è prevalso localmente ed internazionalmente ha ridotto la Palestina ai territori occupati nel 1967 e il popolo palestinese a quelli che vivono sotto l’occupazione israeliana, marginalizzando quindi i rifugiati e gli esiliati così come i palestinesi con cittadinanza israeliana. L’apparato di sicurezza in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza è cresciuto considerevolmente come dimensioni e come destinatario di risorse nel bilancio generale. La natura parassitaria delle autorità nelle due aree era legata alla dipendenza dagli aiuti esterni e dal trasferimento di fondi, e l’influenza dei capitali privati nelle loro economie si è accresciuta.

Ci sono stati anche significativi mutamenti fondamentali nella struttura sociale in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Questi mutamenti includono la comparsa di una classe media relativamente estesa che fornisce di personale le istituzioni e le agenzie dell’ANP in aree come l’educazione, la salute, la sicurezza, le finanze e la pubblica amministrazione, così come nei settori di nuovi servizi, in quelli bancari e nelle molte ONG che sono state fondate. Intanto la classe lavoratrice si è ridotta di dimensioni. Le disuguaglianze tra diversi segmenti della società sono aumentate e il tasso di disoccupazione è rimasto alto, soprattutto tra i giovani ed i neolaureati. La mentalità dell’ “impiego pubblico” si è diffusa, sostituendo la forma mentis del combattente per la libertà. Benché Fatah e Hamas si autodefiniscano come movimenti di liberazione, sono stati trasformati in strutture gerarchiche e burocratiche e mirano in buona misura alla propria sopravvivenza.

Le elite politiche ed economiche non si vergognano di ostentare i propri privilegi ed il proprio benessere nonostante continui l’occupazione coloniale repressiva. La classe media in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza sa molto bene che i propri standard e stili di vita sono legati all’esistenza di queste due autorità di auto-governo. Tuttavia la maggior parte della popolazione rimane sottoposta all’oppressione ed all’umiliazione da parte delle forze militari israeliane e dei coloni armati, e non patisce solo per la mancanza di una vita decente e di un futuro lavorativo, ma anche della mancanza di una qualunque soluzione nazionale in futuro. L’assedio draconiano di Israele ed Egitto contro Gaza rimane più che mai pesante, punteggiato di devastanti guerre israeliane, e la pulizia etnica dei palestinesi da Gerusalemme continua inesorabile, per mezzo di espulsioni, cancellazione di permessi e una vasta gamma di altre modalità.

Queste condizioni costituiscono la premessa per una situazione esplosiva nei territori occupati nel 1967. Però, poiché l’OLP, i partiti politici, il settore privato e la maggior parte delle organizzazioni della società civile non si sono mobilitati o non hanno potuto mobilitarsi contro l’occupazione, gli scontri con le forze di occupazione militare di Israele e con i coloni nell’”ondata di collera” in corso dall’ottobre 2015 sono rimasti per lo più atti individuali, con caratteristiche locali, senza una visione unitaria e una dirigenza nazionale.

La disgregazione del campo politico palestinese ha anche portato ad una crescente oppressione e discriminazione contro le comunità palestinesi in tutta la Palestina storica così come nella diaspora. I cittadini palestinesi nella parte di Palestina che è diventata Israele nel 1948 devono far fronte a una serie crescente di leggi discriminatorie. Anche i rifugiati palestinesi in e da Siria, Libano, Giordania ed altrove devono affrontare discriminazioni ed abusi. Soprattutto, lo status della causa palestinese ha conosciuto un passo indietro nel mondo arabo e a livello internazionale, una situazione esacerbata dalle guerre interne ed esterne in alcuni Paesi arabi.

Eppure la cultura fiorisce e alimenta l’identità nazionale

Oggi il popolo palestinese non ha né uno Stato sovrano né un efficace movimento di liberazione nazionale. Tuttavia c’è un considerevole rafforzamento dell’identità nazionale palestinese, dovuto in buona parte al ruolo del settore culturale nel mantenimento e nell’arricchimento della narrazione palestinese. Il ruolo della cultura per alimentare l’identità ed il patriottismo palestinesi ha una lunga storia. Dopo la creazione dello Stato di Israele nel 1948 e la sconfitta delle elite politiche dell’epoca e del movimento nazionale, la minoranza palestinese in Israele ha sostenuto l’identità nazionale attraverso un significativo fiorire culturale: poesia, narrativa, musica e cinema.

Lo scrittore e giornalista palestinese Ghassan Kanafani lo ha colto nel suo notevole libro sulla letteratura resistenziale palestinese (al-adab al-mukawim fi filistin al-muhtala 1948-1966 [Letteratura della resistenza nella Palestina occupata. Ndtr.]), pubblicato a Beirut nel 1968. Altre figure letterarie fondamentali comprendono i poeti Mahmoud Darwish e Samih Al Qasim, il sindaco di Nazareth e poeta Tawfik Zayyad e lo scrittore Emile Habibi, sia nelle sue opere, come il “Pessottimista”, che attraverso il giornale comunista Al-Ittihad, di cui è stato uno dei fondatori.

Negli anni ’50 e ’60, quando gli israeliani hanno mantenuto i cittadini palestinesi sotto governo militare, la letteratura, la cultura e le arti sono servite a rafforzare e proteggere la cultura e l’identità arabe e la narrazione nazionale palestinese. Questi lavori sono stati letti in tutto il mondo arabo e altrove, e hanno permesso ai rifugiati palestinesi e agli esiliati di conservare la propria identità attraverso i continui legami con la cultura e l’identità della propria patria.

I “palestinesi del 1948”, come sono spesso definiti nel discorso palestinese, hanno giocato anche un ruolo nell’informare gli altri palestinesi ed arabi sul modo in cui l’ideologia sionista modella la politica israeliana e sui meccanismi di controllo repressivo. Molti degli studiosi ed intellettuali palestinesi del ’48 sono approdati nei centri di ricerca palestinesi ed arabi a Beirut, a Damasco e altrove ed hanno aiutato a sviluppare questa comprensione.

Da allora, soprattutto in periodi di crisi politica, il settore culturale ha offerto ai palestinesi maggiori possibilità rispetto alla sfera politica per unirsi in attività che trascendessero i confini geopolitici con forme e generi culturali ed ogni sorta di produzione intellettuale. Letteratura, cinema, musica e arte continuano ad essere prodotti, ed in misura sempre maggiore, andando da scrittori, registi ed artisti noti in tutto il mondo fino ai giovani artisti e scrittori di oggi a Gaza, in Cisgiordania e tra i palestinesi all’estero. Tutto ciò viene diffuso in moltissimi modi, comprese le reti sociali, favorendo e rafforzando i legami tra palestinesi e tra arabi e l’interazione al di là dei confini.

La vitalità del patriottismo palestinese è radicata nella narrazione storica palestinese e si basa sulle esperienze quotidiane delle comunità che affrontano la spoliazione, l’occupazione, la discriminazione, l’espulsione e la guerra. E’ forse questa vitalità che porta i giovani palestinesi, molti dei quali nati dopo gli accordi di Oslo del 1993, ad affrontare i soldati israeliani ed i coloni in ogni parte della Palestina storica. Ciò spiega anche le grandi folle che partecipano ai cortei funebri dei giovani palestinesi uccisi dai soldati e dai coloni israeliani e nella raccolta di fondi per ricostruire le case demolite dai bulldozer israeliani come punizione collettiva delle famiglie di quanti sono stati uccisi nell’attuale rivolta giovanile.

Tuttavia evidenziare l’importanza e la vitalità del settore culturale non colma l’assenza di un valido movimento politico, costruito su solide basi democratiche. Dobbiamo imparare dalle lacune delle istituzioni originali del movimento e superarle, piuttosto che sprecare forze, tempo e risorse per recuperare un quadro politico disintegrato e decaduto. Dobbiamo anche andare oltre quei concetti e quelle pratiche che l’esperienza ci ha mostrato aver fallito, come l’altissimo livello di centralizzazione: le politiche devono essere affidate al popolo ed alla base. Dobbiamo anche salvaguardare la nostra cultura nazionale da concetti ed approcci che asserviscono le menti, paralizzano il pensiero e il libero arbitrio, promuovono l’intolleranza, santificano l’ignoranza e nutrono i miti. Dovremmo piuttosto favorire i valori di libertà, giustizia e uguaglianza.

Abbiamo bisogno di una visione totalmente nuova dell’azione politica. Una tale visione può essere intravista nel linguaggio che sta prendendo forma tra i gruppi di giovani e nei rapporti tra le forze politiche palestinesi all’interno della Linea Verde, che riflettono una profonda coscienza dell’impossibilità di convivere con il sionismo in quanto ideologia razzista e regime coloniale di insediamento che criminalizza la narrazione storica palestinese.

Al cuore di questa emergente coscienza politica si trova la necessità di coinvolgere le comunità palestinesi nel processo di discussione, stesura e adozione di politiche nazionali inclusive: si tratta sia di un loro diritto che di un loro dovere. E’ ugualmente importante riconoscere il diritto di ogni comunità a definire la propria strategia nell’affrontare gli specifici problemi che deve affrontare mentre partecipa all’autodeterminazione di tutto il popolo palestinese.

Costruire un nuovo movimento politico non sarà facile a causa dei crescenti interessi di fazione e il timore di principi e pratiche democratici. Quindi è necessario incoraggiare iniziative di base per creare leadership locali, con la più ampia partecipazione possibile da parte di individui e istituzioni della comunità, seguendo il promettente esempio dei palestinesi del ’48 nell’ organizzare l'”Alto Comitato di Monitoraggio per i cittadini arabi di Israele” per difendere i loro diritti ed interessi, e dei palestinesi della Cisgiordania e di Gaza nella Prima Intifada. Anche il movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) è un esempio di successo di questo nuovo tipo di consapevolezza politica e di organizzazione, che riunisce diverse fazioni politiche, organizzazioni della società civile e sindacati dietro una visione ed una strategia unitarie.

Qualcuno potrà pensare che questa discussione è utopica o idealista, ma noi abbiamo disperatamente bisogno di ideali nell’attuale caos e faziosità distruttiva. E abbiamo una ricca storia di attivismo politico e di creatività culturale a cui attingere.

(Traduzione di Amedeo Rossi)




Gli insegnanti danno lezione di democrazia e di cooperazione ai palestinesi

L’Autorità Nazionale Palestinese si rifiuta ancora di trattare con i rappresentanti eletti degli insegnanti mentre 700.000 studenti stanno perdendo le lezioni.

di Amira Hass

Haaretz

6 marzo , 2016

Hasib, di Ramallah, è stato insegnante per 27 anni. Il suo stipendio base è di 2.400 shekel [560.19 euro, ndt] che, insieme agli scatti di anzianità, arriva a 3.600 shekel al mese [837.35 euro, ndt].

Il suo fratello più giovane, che lavora nelle forze di sicurezza preventiva palestinesi, è pagato 4.700 shekel al mese [1.095 euro, ndt]. Diversamente da Hasib non possiede una laurea. Hasib, come altre migliaia di insegnanti, sfidando un divieto ufficiale, ha un secondo impiego, e lavora ogni pomeriggio in un ufficio. Altri insegnanti integrano il loro stipendio lavorando in panetterie, vendendo falafel o come tassisti.

La protesta dei docenti palestinesi la settimana scorsa ha raggiunto la quarta settimana [di lotta] e la domanda di una rappresentanza democratica sta diventando sempre più forte. L’Autorità Nazionale Palestinese si rifiuta di trattare con i delegati eletti dagli insegnanti. Circa 700.000 studenti, dei quali 87.000 si stanno preparando agli esami, sono le principali vittime dello sciopero.

Alla fine della settimana scorsa, il comitato che rappresenta gli insegnanti in sciopero ha accettato una soluzione proposta da una commissione unitaria dei vari gruppi parlamentari e da varie ONG. Secondo questa proposta, gli insegnanti dovrebbero riprendere immediatamente il lavoro, mentre il governo entro tre mesi pagherà gli arretrati e aumenterà lo stipendio base del 70% nell’arco di tre anni.

Finora l’ANP ha insistito che gli insegnanti riprendano il lavoro prima di discutere le loro rivendicazioni. Tuttavia gli insegnanti sono stanchi delle promesse del governo, delle dilazioni, delle scuse e non si sono fatti scoraggiare neppure dalle numerose morti palestinesi provocate dalle forze israeliane, dagli arresti e dalle incursioni militari nei paesi e nei villaggi.

Gli insegnanti chiedono un aumento del loro stipendio base, degli scatti di anzianità e una [possibilità di] carriera come per gli altri lavoratori del pubblico impiego, oltre che uguale trattamento per le donne ed elezioni democratiche nel sindacato degli insegnanti.

Alcuni dicono che l’annuncio di alcuni mesi fa secondo cui il governo aveva promosso 180 alti funzionari civili e aumentato gli stipendi delle scorte dei palestinesi importanti di 400-600 shekel [100-120 euro circa, ndt]] ha scatenato la nuova protesta.

A giudicare dalla reazione dell’ANP fino ad ora, sembra che lo sciopero minacci le regole del suo sistema di governo. L’assemblea legislativa è paralizzata dal 2007 e non esiste nessun controllo dell’operato dell’ esecutivo. Fatah domina in tutte le istituzioni governative (compresi i sindacati); nonostante lo sgretolamento del suo movimento, un solo uomo prende le decisioni e stabilisce la linea politica: il presidente Mahmoud Abbas.

Lo sciopero ha prodotto fermenti di democratizzazione e di collaborazione tra i gruppi politici e della società civile di opposizione e ha rinnovato la critica dell’opinione pubblica sul bilancio [dell’ANP] e sulle eccessive dimensioni delle forze di sicurezza.

Il ministro dell’Educazione Sabri Saidam ha detto questa settimana che circa il 70% degli insegnanti è tornato al lavoro. I rappresentanti degli insegnanti negano che sia vero, affermando che la maggior parte degli insegnanti sta ancora scioperando. Un sondaggio reso noto giovedì scorso evidenzia che la maggioranza dell’opinione pubblica (l’84%) pensa che lo sciopero sia giustificato.

La scorsa settimana circolavano molte voci sulle intenzioni delle forze di sicurezza di stroncare la protesta e le manifestazioni degli insegnanti. Finora la polizia palestinese non è riuscita a prevenire le manifestazioni degli insegnanti nelle varie città della Cisgiordania, neppure [quelle] non autorizzate. La gente è troppo favorevole agli insegnanti per provarci ed impedire la protesta. Tuttavia, nel campo profughi di Balata vicino a Nablus è stato recapitato un minaccioso messaggio agli insegnanti. Un gruppo di uomini mascherati che si sono autodefiniti “Shuhada al-Aqsa” e “i falchi di Fatah” hanno tenuto una conferenza stampa martedì. Hanno parlato “ di un complotto ordito dai nemici del popolo palestinese” e hanno avvertito che, come in passato hanno colpito i traditori e i collaborazionisti, attaccheranno chiunque voglia danneggiare Abbas e l’ANP. Il collegamento tra i “traditori” e gli scioperanti era evidente.

Si pensa che dietro questo minaccioso comunicato ci siano i funzionari del sistema di sicurezza, molti dei quali s’identificano con il dispotismo di Abbas

Tuttavia molti esponenti di Fatah appoggiano gli scioperanti. Due, che hanno osato manifestare apertamente il loro appoggio, sono stati convocati per essere interrogati dalla polizia. Bassam Zakarneh, membro del Consiglio rivoluzionario di Fatah, che è stato anche presidente del sindacato dei dipendenti pubblici fino al suo scioglimento, è entrato “in clandestinità” dopo che le forze di sicurezza lo hanno cercato a casa sua. E Najat Abu Baker, un’esponente di Fatah all’Assemblea legislativa, è stata convocata due settimane fa dall’ufficio del Procuratore Generale per essere interrogata dopo che in un’intervista televisiva ha affermato di avere delle prove di [episodi di] corruzione.

Ha sostenuto che un ministro ha preteso soldi dalle persone che attingevano l’acqua da un pozzo ristrutturato. “L’acqua è una risorsa nazionale” ha detto alla stampa. Il ministro ha detto che il pozzo è situato su un terreno privato della sua famiglia e l’ha accusata di diffamazione. Lei è convinta che la convocazione sia una violazione della sua immunità parlamentare. “Con la paralisi dell’assemblea legislativa non abbiamo altra scelta se non rivolgerci ai media” ha detto.

Invece di andare all’ufficio del Procuratore Generale, si è insediata nella sede dell’Assemblea Legislativa a Ramallah ed è rimasta [lì] per quasi due settimane. Una fiumana di persone è andata a solidarizzare con lei e tutte le fazioni, compresa Hamas, hanno manifestato nel cortile in sua difesa.

Abu Baker e altri sono convinti che l’ordinanza per interrogarla e arrestarla dipenda da due ragioni complementari, una il sostegno agli insegnanti l’altra il fatto di essere stata fotografata al Cairo alcuni mesi fa insieme a Mohammed Dahlan, l’ex leader di Fatah a Gaza caduto in disgrazia presso Abbas.

Lo scorso martedì, Hasib era tra le centinaia di insegnanti che protestavano vicino all’edificio dove Abu Baker è barricata. Ingenti forze anti sommossa sono state schierate su entrambi i lati di via Khalil al-Wazir, impedendo agli insegnanti di avvicinarsi al Ministero dell’Educazione o alla via degli uffici governativi. Così i dimostranti hanno marciato verso piazza Manara nel centro di Ramallah. Anziani e giovani, donne e uomini, religiosi e laici, esponenti di sinistra e conservatori, militanti di Fatah e di Hamas hanno marciato insieme rappresentando tutto lo spettro della società palestinese.

Gli studenti delle scuole superiori si sono uniti al corteo cantando il motivo di Piazza Tahrir, “Alzate la testa, siete insegnanti”.

Analoghe proteste, organizzate dal movimento Unitario degli Insegnanti, un comitato provvisorio di coordinamento degli insegnanti in sciopero, sono avvenute contemporaneamente in altre città della Cisgiordania.

Il comitato è stato eletto recentemente da tutti gli insegnanti dopo che la loro dirigenza ufficiale, affiliata all’OLP, cioé il sindacato generale degli insegnanti, si è dimessa in seguito alle critiche da parte degli insegnanti all’accordo firmato con il ministro dell’educazione.

Finora il governo si è rifiutato di incontrare i rappresentanti eletti, insistendo che il sindacato degli insegnanti è il loro legittimo rappresentante.

Sabato il ministro dell’educazione ha annunciato che gli aumenti di stipendio attesi da lungo tempo saranno gradualmente pagati agli insegnanti, ma solamente a quelli che ritorneranno al lavoro.

(Traduzione di Carlo Tagliacozzo)




Abusi e torture nel centro per gli interrogatori di Shikma

Rapporto congiunto di HaMoked e B’Tselem, dicembre 2015

Privazione del sonno, a volte per più giorni di seguito; rimanere legati mani e piedi ad una sedia con limitazione dei movimenti per ore ed ore; essere sottoposti a grida, insulti, minacce, sputi e umiliazioni; esposizione a freddo o caldo estremi; cibo scarso e di cattiva qualità; negazione della possibilità di farsi una doccia o cambiarsi i vestiti per giorni e persino per settimane; detenzione in celle piccole e puzzolenti, di solito in isolamento, per molti giorni.

Ho passato 20 giorni in isolamento totale. Psicologicamente essere solo è come vivere in un gabinetto. Se ti succede qualcosa non lo saprà nessuno. Potresti morire e lo scoprirebbero dopo qualche giorno. Potresti morire in un gabinetto e nessuno lo saprebbe. Sei gettato in un angolo e dimenticato, puoi picchiare alla porta e per quanto baccano tu possa fare non riceverai nessun aiuto. Nessuno ti parla e nessuno ti vede, salvo quando ti portano il cibo. E anche allora non ti parlano. Mettono giù il cibo e se ne vanno. A volte una guardia nerboruta arriva e picchia forte con un bastone, forse per verificare se sei ancora vivo, senza dire niente. […] Perdi persino la voglia di stare in piedi. Al lavoro ero abituato a muovermi, mi risulta difficile stare fermo. Là dentro non hai spazio per muoverti e ti passa la voglia di fare qualunque cosa.

Brano tratto dalla testimonianza di Mazen Abu ‘Arish, un geometra ventiduenne di Beit Ula.

Queste sono alcune delle caratteristiche standard degli interrogatori nel centro per gli interrogatori gestito dall’Agenzia Israeliana per la Sicurezza (ISA) presso la prigione Shikma di Ashkelon, nel sud di Israele. Questo rapporto, basato su deposizioni scritte e testimonianze fornite da 116 palestinesi arrestati per ragioni di sicurezza e interrogati a Shikma dall’agosto 2013 al marzo 2014, descrive le condizioni in cui i detenuti sono tenuti ed interrogati. Praticamente ogni detenuto è stato sottoposto a qualcuna o a tutte queste misure; circa un terzo di loro è stato picchiato o maltrattato da soldati o poliziotti nel corso dell’arresto; almeno 14 di loro sono stati torturati durante l’interrogatorio dall’Autorità Nazionale Palestinese poco prima di essere arrestati dalle forze di sicurezza israeliane.

Le condizioni nella struttura di Shikma sono parte integrante degli interrogatori che vi si svolgono: servono ad indebolire la mente ed il corpo, accompagnando l’effettivo interrogatorio nella stanza degli interrogatori. La combinazione delle condizioni sia dentro che fuori questa stanza costituiscono abusi e trattamenti inumani e degradanti, a volte rappresentano persino delle torture. Sono stati utilizzati sistematicamente contro i palestinesi interrogati a Shikma, una pratica che viola le leggi internazionali, le sentenze dell’Alta Corte di Giustizia Israeliana (HCJ) e i basilari standard morali.

La sedia è piccola e bassa, con una spalliera corta. Tre gambe sono alte uguali e la quarta è più corta. E’ difficile, perché se tu ti addormenti o ti stanchi e cadi sul lato corto, le manette che ti legano alla sedia dietro la schiena ti tirano e fanno terribilmente male alle braccia e alle mani. C’era un’altra sedia, della stessa misura ed altezza ma con le due gambe posteriori più corte. Quando ci stai seduto ti fa stare all’indietro ma chi ti interroga ti grida di stare dritto. Per farlo devi piegarti in avanti. Ti fanno male le mani e la schiena. Il dolore delle braccia e delle mani, e soprattutto del braccio sinistro, è diventato insopportabile.

Brano tratto dalla testimonianza di L.H., fiorista di vent’anni di Hebron, interrogato giorno e notte per 22 giorni.

Nel 1999 l’HCJ israeliana ha proibito l’uso della tortura, di abusi o pratiche degradanti da parte dell’ISA. Nei sedici anni da quella sentenza migliaia di palestinesi sono stati interrogati, molti dei quali con metodi assolutamente proibiti. Questo rapporto prende in esame la situazione in uno specifico centro di interrogatorio durante un ridotto periodo di tempo. Mostra che i sistemi di interrogatori violenti da parte dell’ISA persistono – appoggiati dalle autorità statali, dall’HCJ all’ufficio della Procura Generale a quella militare e al Servizio Penitenziario israeliano (IPS). Il contenuto di ogni memoria scritta, una dopo l’altra e di ogni testimonianza, una dopo l’altra dipingono un quadro estremamente sinistro di quanto succede lungo il percorso verso il centro Shikma e nel braccio destinato agli interrogatori.

Mi sono sentito completamente e assolutamente umiliato. Mi gridavano che sono un asino, una bestia. Dicevano: “Sei spazzatura, un tipo da poco, non vali niente.” Dicevano parolacce riferite alla mia sorellina, che ha una paresi cerebrale, ed hanno ferito il suo onore. Sapevano che mia sorella è paralizzata. L’hanno insultata. Dicevano che fa schifo. Questo è durato per tutti i nove giorni di interrogatorio.

Brano tratto dalla testimonianza di Imad Abu Khalaf, 21 anni, commesso in una panetteria di Hebron.

I detenuti intervistati descrivono ripetutamente il comportamento illecito delle autorità. Le descrizioni assomigliano in modo impressionante a testimonianze rese in precedenza da detenuti in altri centri per gli interrogatori. Prese insieme, sembra che questo comportamento costituisca una prassi ufficiale per gli interrogatori. Messa in atto in modo sistematico, questa politica include violenze e umiliazioni durante l’arresto e l’interrogatorio; condizioni inumane di detenzione che obbligano i detenuti a sopportare sovraffollamento e sporcizia; l’isolamento dei detenuti, sottoposti a deprivazioni sensoriali, motorie e sociali estreme; cibo scarso e di cattiva qualità; esposizione a caldo e freddo estremi; rimanere a lungo legati ad una sedia durante l’interrogatorio, a volte in posizioni eccessivamente penose; prolungate privazioni del sonno; minacce, insulti, grida e derisioni – e in qualche caso persino violenza diretta da parte di chi interrogava.

Sono stato interrogato senza sosta per tre o quattro giorni incessantemente e senza neanche essere messo in una cella. Per tutto il tempo le mie mani erano legate dietro la schiena salvo quando mangiavo o andavo al bagno. La cosa peggiore era che non potevo dormire. Appena mi assopivo, chi mi interrogava gridava forte nelle mie orecchie e mi svegliava. Quelli che mi interrogavano si davano i turni. Questo è durato a lungo. Dopo quattro giorni mi hanno lasciato riposare per due ore al giorno e mi interrogavano il resto del tempo. E’ continuato per dieci giorni. Ricordo di essere rimasto quasi incosciente durante i lunghi interrogatori. E’ stato terribile. Ero praticamente svenuto per la mancanza di sonno e loro continuavano ad interrogarmi.

Brano tratto dalla testimonianza di Husni Najar, ventiquattrenne di Hebron.

Ognuna di queste misure è crudele, inumana e degradante, un effetto aggravato quando viene messo in atto congiuntamente o per prolungati periodi di tempo. In qualche caso l’uso di questi metodi rappresenta una forma di tortura – in violazione delle leggi internazionali, delle sentenze dell’HCJ e delle leggi israeliane.

Oltre ad utilizzare direttamente metodi crudeli, inumani e degradanti, le autorità investigative israeliane partecipano indirettamente alle torture utilizzando consciamente informazioni ottenute attraverso l’uso della tortura – di solito molto grave – da parte di coloro che conducono gli interrogatori per l’Autorità Nazionale Palestinese a danno degli stessi detenuti.

Il sistema degli interrogatori basato su questi metodi, sia per l’interrogatorio in sé che per le condizioni in cui le persone arrestate sono tenute in custodia, è deciso dallo Stato e non si tratta del risultato dell’iniziativa di un singolo investigatore o guardia carceraria. Queste azioni non sono messe in atto da cosiddette “mele marce”, né si tratta di eccezioni che devono essere portate davanti alla giustizia. Il trattamento crudele, inumano e degradante dei detenuti palestinesi è insito nelle prassi di interrogatorio messe in atto dall’ISA, che sono imposte dall’alto e non da chi interroga in concreto.

Mentre il sistema è gestito dall’ISA, una vasta rete di partner collabora per facilitarlo. L’IPS crea le condizioni carcerarie adeguate al piano di interrogatorio destinato a piegare lo spirito del detenuto; i professionisti della salute fisica e psichica dell’IPS approvano l’interrogatorio dei palestinesi che arrivano alla struttura – anche nei casi di problemi di salute – e riconsegnano persino i detenuti a chi li deve interrogare dopo che li hanno curati per i danni fisici e psicologici che hanno subito durante gli interrogatori; soldati e poliziotti commettono abusi sui detenuti mentre li trasportano all’ISA, con i loro comandanti che fanno finta di niente e il procuratore generale militare o civile che non li processa né li rende responsabili delle loro azioni; i giudici militari, in modo praticamente automatico, firmano le istanze di detenzione provvisoria e di fatto avvallano i continui abusi e le condizioni inumane; l’ufficio della procura e il procuratore generale hanno quindi fornito agli interrogatori dell’ISA un’immunità totale; i giudici dell’HCJ respingono sistematicamente le richieste che intendono contrastare la negazione dei diritti dei detenuti ad incontrarsi con i loro difensori. Sono tutti parte, in un modo o nell’altro, sotto vari aspetti del trattamento crudele, inumano, degradante e violento a cui sono sottoposti i detenuti palestinesi nel centro Shikma ed altrove. Le autorità superiori israeliane che permettono l’esistenza di questo sistema illegale di interrogatori sono responsabili delle gravi violazioni dei diritti umani delle persone che vengono interrogate e dei danni fisici e mentali inflitti a questi individui.

Dobbiamo ancora una volta ripetere la richiesta di quello che dovrebbe essere scontato: Israele deve immediatamente interrompere l’uso di trattamenti crudeli, inumani e degradanti, così come gli abusi e le torture ai detenuti, sia durante gli interrogatori che a causa delle condizioni in cui sono tenuti in custodia. Inoltre Israele deve attenersi al divieto di tortura e abusi anche nell’ambito della sua collaborazione in materia di sicurezza con l’Autorità Nazionale Palestinese.

(traduzione di Amedeo Rossi)




L’ANP tratta il proprio popolo come se fosse il nemico

di Amira Hass,

Haaretz

La politica israeliana produce l’impoverimento e la disoccupazione in Cisgiordania, ma affrontarli ricade sulle spalle dell’ANP, cuscinetto tra il principale responsabile ed il popolo.

“Dove vivi? Non sai che cosa sta succedendo?”

“ Mi sto occupando delle demolizioni.”

“Lascia perdere le demolizioni; i checkpoints circondano tutte le città.”

“Vuoi dire che l’esercito pensa ancora che questo sia un deterrente?”

“ Non si tratta degli ebrei; stamattina tutti i servizi dell’Autorità Nazionale Palestinese hanno installato dei checkpoints alle uscite dalle città e all’ingresso di Ramallah/El Bireh, per impedire agli insegnanti di partecipare ad una manifestazione contro il mancato rispetto degli accordi salariali firmati con loro nel 2013. Dove siamo arrivati? Dove siamo arrivati?”

Ieri i servizi di sicurezza dell’ANP hanno installato cordoni di posti di blocco nelle enclaves dell’area A, dove Israele consente alla polizia palestinese di portare armi. Hanno fatto scendere gli insegnanti dagli autobus e li hanno minacciati di confiscare le loro carte di identità. Gli autobus affittati per il trasporto degli insegnanti sono stati fatti tornare indietro. Ai tassisti è stato detto che avrebbero perso le loro licenze se avessero trasportato i dimostranti.

Chi è riuscito a raggiungere l’enclave di Ramallah e El Bireh è incappato in ulteriori checkpoints ed è rimasto bloccato in lunghe file di auto che non si muovevano. Nella stessa Ramallah il personale di sicurezza ha bloccato le vie tra il palazzo del Consiglio Legislativo Palestinese e l’ufficio del Primo Ministro.

Alle 11 di ieri mattina circa 1000 insegnanti si erano già radunati nella piazza Mahmoud Darwish, di fronte all’ufficio del Primo Ministro. Altre centinaia stavano arrivando a piedi dalle strade vicine in un flusso senza fine. Lentamente la piazza si è riempita.

“Noi, che riusciamo a superare i checkpoints israeliani, non possiamo superare quelli dell’ANP?” hanno detto gli insegnanti che arrivavano dalla zona di Hebron. “Non li abbiamo visti mettere dei checkpoints per impedire all’occupante (l’esercito israeliano) di invadere i nostri villaggi e le nostre case,” ha detto un ascoltatore irato ad una stazione radio locale.

Le proteste e gli scioperi parziali sono ricominciati circa due settimane fa. Fin dalla metà degli anni ’90 gli insegnanti del settore pubblico hanno cercato di spiegare all’ANP che i loro salari e sussidi umilianti offendono gli studenti ed il futuro dell’intera società palestinese. Martedì scorso circa 20.000 persone hanno preso parte ad una manifestazione di insegnanti a Ramallah. I servizi di sicurezza dell’ANP hanno arrestato circa 20 insegnanti e due dirigenti e li hanno rilasciati dopo due giorni. L’accusa dell’ANP che la manifestazione fosse organizzata da Hamas è stata accolta con sdegno dagli insegnanti.

Giovedì è stato raggiunto un accordo con i rappresentanti dei sindacati degli insegnanti, che è affiliato all’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina, ndt.) e dipende da Fatah, il partito principale dell’ANP [e di Abu Mazen,ndt]. Ma gli insegnanti hanno respinto l’accordo, che non era retroattivo. Sabato e domenica gli altoparlanti della moschea hanno diffuso ordini di rientrare a scuola, ma lo sciopero è continuato.

La protesta degli insegnanti ha portato in piazza più gente di qualunque protesta contro l’occupazione israeliana negli ultimi cinque mesi, da quando è iniziata la sollevazione dei singoli individui [la cosiddetta “Intifada dei coltelli”, ndt]. Nella situazione permanentemente provvisoria instaurata dagli Accordi di Oslo, Israele continua a determinare le condizioni di non sviluppo nel territorio palestinese, attraverso il controllo dei confini, della vasta area della Cisgiordania nota come Area C e della libertà di movimento dei palestinesi. Ma la responsabilità di affrontare l’impoverimento e la mancanza di lavoro ricade sulle spalle dell’ANP, il cuscinetto tra il principale colpevole ed il popolo.

I manifestanti lo sanno bene, ma conoscono anche l’iniqua distribuzione del reddito nazionale, indipendentemente da quanto ciò sia dovuto alle restrizioni israeliane. Vedono le eccessive risorse destinate ai servizi di sicurezza, gli sprechi e la corruzione, il clientelismo e gli esorbitanti stipendi dei principali dirigenti. Non si aspettano niente dall’occupante. Ma certo hanno qualcosa da chiedere al subappaltante che si autodefinisce governo, autorità nazionale e movimento di liberazione.

“L’ANP è impazzita,” ha detto al telefono un insegnante di Nablus che non è riuscito a superare i checkpoints. “Lei ed i suoi servizi di sicurezza si comportano come se il popolo fosse il nemico.”

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Che cosa spinge i funzionari della sicurezza palestinese a ribellarsi contro gli israeliani?

La situazione in Cisgiordania ha spinto alcuni palestinesi a perpetrare un’occupazione contro il loro stesso popolo

di Edo Konrad

+972 Magazine

Domenica mattina il 34enne Amjed Sakari, membro dei servizi di sicurezza palestinesi, ha guidato la macchina fino ad un checkpoint israeliano riservato esclusivamente al personale dell’Autorità Nazionale Palestinese. Alla richiesta di esibire il suo documento di identità, è saltato fuori dalla macchina ed ha aperto il fuoco, ferendo tre soldati israeliani. Come reazione, l’esercito israeliano ha posto Ramallah, la capitale politica e finanziaria della Cisgiordania, sotto assedio quasi totale.

Sakari, guardia del corpo del procuratore capo palestinese, è solo il secondo membro delle forze di sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese ad aver compiuto un attacco da quando, lo scorso ottobre, è scoppiata l’ultima ondata di violenze. Il primo è stato Mazan Hasan Ariva, un funzionario dell’intelligence dell’ANP, che ha aperto il fuoco contro un civile israeliano ed un soldato al checkpoint di Hizma, vicino a Ramallah, nel dicembre dell’anno scorso.

Come ha sottolineato Amos Harel (uno dei più importanti commentatori israeliani in materia di difesa, ndt), è troppo presto per dire se le azioni di Sakari e Ariva preannunciano ciò che sta per accadere, e per ora l’attuale momento politico dovrebbe concedere una pausa.

Dall’inizio dell’occupazione nel 1967 fino al 1993, Israele ha costituito l’unico potere sovrano in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Gli Accordi di Oslo hanno prodotto una serie di accordi politici ed economici tra Israele e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), il più importante dei quali è stato la creazione dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) – un’entità provvisoria di autogoverno insediata per gestire le questioni di sicurezza e civili in alcune parti della Cisgiordania e della Striscia di Gaza.

L’ANP, mentre non è stata autorizzata ad avere un esercito, ha potuto creare le proprie forze di sicurezza, comprese polizia e servizi segreti. Queste forze agiscono in collaborazione con lo Shin Bet (servizi di sicurezza israeliani, ndt.) e con l’esercito israeliano per sventare attacchi contro civili e militari israeliani, ed anche per impedire rivolte contro l’ANP nelle aree A e B.

Sulla carta, Oslo ha delineato un processo di anni per garantire un’autonomia graduale ai palestinesi nei territori occupati. In realtà, i successivi governi israeliani hanno usato l’ANP per affidare i compiti di sicurezza dell’esercito israeliano alla nascente polizia palestinese, addestrata dagli americani.

Intanto, la colonizzazione israeliana ha continuato ad erodere la già minacciata contiguità territoriale in Cisgiordania. Oggi si contano più di mezzo milione di coloni israeliani oltre la Linea Verde (linea di demarcazione stabilita con l’armistizio del 1949 tra Israele e i paesi arabi, ndt.), appoggiati da uno dei governi maggiormente favorevoli alle colonie della storia di Israele.

pa-policeLa polizia dell’Autorità palestinese cerca di impedire ai giovani del campo profughi Aida di scontrarsi con le forze israeliane, Betlemme, Cisgiordania , 27 settembre 2013.(Ryan Rodrick Beiler/Activestills.org)

I palestinesi della Cisgiordania hanno incominciato a provare rancore verso il proprio governo tanto quanto verso il potere israeliano. Secondo un sondaggio pubblicato a dicembre dal Centro Palestinese per la Politica e la Ricerca, due terzi dei palestinesi chiedono che il presidente Mahmoud Abbas si dimetta. Inoltre, il sondaggio rivela che se si tenessero oggi le elezioni presidenziali, un candidato di Hamas, la fazione avversa, otterrebbe una netta vittoria su Abbas.

L’attuale compromesso è utile sia al governo israeliano che alle elite palestinesi a Ramallah: Abbas può utilizzare le sue forze di sicurezza per reprimere la violenza e il dissenso, da parte di singoli individui e di Hamas. Per Israele, Abbas è un capro espiatorio – colui che può essere biasimato per le mosse unilaterali per ottenere il riconoscimento internazionale o ogni volta che la violenza esplode in Cisgiordania. Nonostante ciò che Netanyahu possa far credere, comunque il governo di Abbas è la chiave del futuro dell’occupazione israeliana.

Allora che cosa fanno quei palestinesi che sono inseriti nell’apparato di sicurezza quando si rendono conto che la partita è truccata – che loro stessi stanno svolgendo il compito dei soldati occupanti contro il proprio popolo? Che cosa fanno quando capiscono che, di fatto, non c’è via d’uscita?

Un’occhiata alla pagina Facebook di Sakari getta una luce sul suo dilemma. Nelle prime ore di domenica mattina, Sakari ha pubblicato su Facebook una sua dichiarazione in cui afferma che non ha senso vivere “finché l’occupazione opprime le nostre anime ed uccide i nostri fratelli e sorelle.” La notte precedente, Sakari ha pubblicato un’affermazione, secondo cui “Ogni giorno abbiamo notizie di morti….Perdonatemi, forse io sarò il prossimo.”

Gli israeliani sono giustamente spaventati dalla prospettiva di ulteriori attacchi proprio da parte delle persone impegnate a proteggerli. Il collasso dell’ANP non è impossibile; un crescente numero di membri del servizio di sicurezza palestinese che si rivoltano contro i loro padroni israeliani, sostenuti da un’indomabile popolazione civile ormai sull’orlo di un’autentica rivolta popolare, potrebbe mettere fine al “coordinamento sulla sicurezza” su cui si basa Israele per mantenere lo status quo. Il problema è se la leadership israeliana possa offrire un progetto alternativo che garantisca reale potere ed autorità al popolo palestinese, non solo ai suoi subappaltatori.

 

Edo Konrad è uno scrittore, blogger e traduttore, che vive a Tel Aviv. Ha precedentemente lavorato come redattore di Haaretz, ed è attualmente vicedirettore di +972 Magazine.

( Traduzione di Cristiana Cavagna)

Riferimento Twitter: @edokonrad