L’alfabeto di Oslo, linguaggio della colonizzazione

Professor Kamel Hawwash –Middle East Monitor

Sabato 23 gennaio 2016

Le prime tre lettere dell’alfabeto, A, B e C, sono diventate il marchio dell’occupazione e della strisciante colonizzazione della Palestina da parte di Israele. Le linee che delimitano queste aree sono state tracciate negli accordi di Oslo II firmati a Taba nel 1995. Dividono la Cisgiordania in tre zone, con Israele e la Palestina che beneficiano di differenti livelli di diritti amministrativi e relativi alla sicurezza in ognuna di queste.

L’area che copre tutte le città della Cisgiordania e la maggior parte della popolazione palestinese è stata etichettata come A, con l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) che gode del controllo “integrale”, sia amministrativo che per quanto riguarda la sicurezza. L’area B include vaste zone rurali con l’ANP che ha diritto solo al controllo amministrativo. Il rimanente 60% è stato denominato area C e ricade sotto il totale controllo israeliano, tranne per quello che riguarda i servizi educativi e quelli medici. Significativamente, Israele controlla tutte le questioni relative alla terra, comprese l’assegnazione e le pratiche per la costruzione sia di strutture private che di infrastrutture.

Per completare il quadro del controllo coloniale che Israele esercita sulla Cisgiordania, bisogna aggiungere l’impatto del Muro o Barriera, che Israele ha costruito dopo gli accordi di Oslo e le strade che servono alle colonie, molte delle quali possono solo essere utilizzate dai coloni, nella versione israeliana dell’apartheid.

E’ importante capire che le aree A, B e C non sono tre zone geografiche separate che sono facilmente identificabili, ma piuttosto una divisione amministrativa definita in pratica da Israele per perseguire i propri progetti espansionistici e coloniali. Basta fare un passo fuori dalle città palestinesi e ci si trova quasi sicuramente nell’area C e quindi sotto il totale controllo israeliano. L’area C è abitata da un numero stimato di 300.000 palestinesi, che vivono per lo più in piccoli villaggi e comunità, e di 350.000 coloni israeliani, che vivono in 135 insediamenti e 100 avamposti. Una parte delle terre palestinesi più fertili si trova nella valle del Giordano, che rientra nell’area C.

I 22 anni da Oslo e gli inutili negoziati per raggiungere un accordo finale sono passati con Israele che non ha rispettato neppure questa vergognosa divisione della Cisgiordania. Ogni pretesa di una zona palestinese libera dalle ingerenze israeliane è un mito.

Questa è la terza Intifada?

Le crescenti tensioni nei Territori Occupati hanno portato a dozzine di morti e a centinaia di scontri. Stiamo assistendo ad una terza Intifada?

Prendiamo l’area A, che include tutte le città palestinesi. L’ANP è responsabile della sicurezza e pertanto si potrebbe presumere che le forze di occupazione israeliane non possano entrarvi in nessun caso. Tuttavia si tratta di un mito. Le forze [di sicurezza] israeliane entrano regolarmente a Ramallah, Nablus, Hebron e Jenin per arrestare, ferire e mutilare. Hanno rapito membri del parlamento [palestinese], compreso la sua presidentessa e deputata del FPLP [Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, gruppo politico palestinese di sinistra. Ndtr.] Khalida Jarrar. Più di recente, il primo ministro israeliano Netanyahu ha detto di aver chiamato il presidente dell’ANP Abbas per scusarsi perché le forze di occupazione israeliane hanno condotto attività nei pressi della sua casa e si sono scontrate con la sua guardia presidenziale. Al tempo stesso, le forze di sicurezza palestinesi non possono arrestare nessun colono israeliano che abbia commesso violenze in qualunque parte della Cisgiordania e ogni colono che si sia casualmente avventurato nell’area A è stato rapidamente messo al sicuro e consegnato alle forze di occupazione.

Nell’area C le attività di colonizzazione di Israele abbondano, in quanto gode del controllo sia amministrativo che per la sicurezza. Qui la messa in pratica di alcune norme per i palestinesi e di altre per le colonie illegali è più evidente. I palestinesi non possono costruire, ampliare o migliorare le proprie case o le proprie attività senza l’interferenza da parte di Israele, che è spesso violenta. Il rifiuto praticamente certo da parte di Israele della concessione di autorizzazioni per la costruzione di case, scuole, strutture commerciali e agricole non lascia ai palestinesi altra possibilità che costruire senza permessi. Il risultato quasi inevitabile è la demolizione. L’ufficio dell’ONU per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA) ha descritto come 5.000 palestinesi dell’area C vivono nelle denominate “zone di fuoco” e si prevede che lascino le loro case per ore o giorni durante le esercitazioni militari israeliane. L’OCHA inoltre descrive la terribile situazione dei beduini, continuamente soggetti alla minaccia di deportazione dalle loro terre contro la loro volontà.

Anche altre comunità, oltre ai beduini, hanno ripetutamente subito la minaccia di ricollocamento. Un esempio particolarmente chiaro è stato quello della comunità di Susyia, sulle colline di Hebron, i cui membri hanno affrontato tre deportazioni in tre decenni per permettere che una colonia, che ha praticamente lo stesso nome, si installasse e poi che si espandesse.

In anni recenti, un certo numero di politici israeliani che si oppongono radicalmente all’esistenza di uno Stato palestinese hanno invocato l’annessione di ampie zone, se non di tutta l’area C. L’attuale ministro dell’Educazione, Naftali Bennet, ha persino chiesto che ai 300.000 palestinesi che vi vivono venga concessa la nazionalità israeliana. Pensa che il fatto che i rimanenti palestinesi della Cisgiordania potrebbero gestire i propri affari e una piena indipendenza sarebbe impossibile. Altri politici israeliani non sono magari stati altrettanto espliciti come Bennet nel chiedere l’annessione di aree della Cisgiordania, tuttavia è ora difficile trovarne uno che sostenga una onesta soluzione dei due Stati che porti ai palestinesi una qualche speranza della fine dell’occupazione.

Più di recente, il Coordinatore Israeliano delle Attività di Governo nei Territori (COGAT) ha annunciato che intende confiscare 370 acri [149 ettari. Ndtr.] di terra nel distretto di Gerico, dichiarandoli “terra dello Stato”. Questo tipo di iniziative rende la designazione di un lotto di terreno come A, B o C totalmente insensato. Israele agisce con totale impunità. Se decide di dichiarare la sede dell’Autorità Nazionale Palestinese a Ramallah zona militare chiusa o zona di fuoco, chi lo più impedire?

A Oslo i negoziatori palestinesi non solo hanno accettato di riconoscere Israele senza un concomitante riconoscimento della Palestina, hanno anche concordato l’ulteriore spartizione in queste tre aree del 22% di quella che hanno accettato come “Palestina”. La realtà è stata che palestinesi e coloni hanno vissuto in tutte e tre le aree e che Israele ha utilizzato questa designazione perché si adattasse ai propri piani. Gli accordi di Oslo sono stati pensati come temporanei, dovevano portare a un accordo negoziale entro cinque anni. A fronte di ciò, i negoziatori palestinesi devono aver pensato che tutte e tre le aree sarebbero state restituite alla fine dei cinque anni, libere di coloni, per far parte dello Stato funzionante e con continuità territoriale che loro avevano sognato. Tuttavia, 22 anni dopo, non è stato raggiunto nessun accordo e in pratica Israele ha quotidianamente violato l’accordo provvisorio indistintamente nelle aree A, B e C. Questa denominazione è diventata un ulteriore ostacolo per la pace e non cambierà rapidamente senza una pressione esterna. Perché si ottenga la pace in terra santa, devono essere esercitate su Israele chiare e non ambigue pressioni per porre fine all’occupazione, spedendo l’alfabeto della colonizzazione nella pattumiera della storia.

Il professor Kamel Hawwash è un docente universitario anglo-palestinese in ingegneria presso l’università di Birmingham. E’ un commentatore di questioni mediorientali e vice presidente della campagna di solidarietà con la Palestina. Qui ha scritto a titolo personale.

(Traduzione di Amedeo Rossi)




La rivolta dei giovani palestinesi – Quale ruolo per i partiti politici?

Parte 8

di Alaa Tartir

Al-Shabaka Maannews

Al-Shabaka è un’organizzazione indipendente no profit che ha come obiettivo informare e stimolare il dibattito pubblico sui diritti umani e sull’autodeterminazione dei palestinesi nel contesto delle leggi internazionali.

Questa è l’ottava parte di una pubblicazione divisa in otto segmenti sull’attuale assenza di un’autentica dirigenza nazionale palestinese e sulla rivolta dei giovani contro la prolungata occupazione militare da parte di Israele e la negazione dei diritti umani nei Territori Palestinesi Occupati (TPO).

La parte è stata scritta da Alaa Tartir, il direttore di Al-Shabaka e anche ricercatore post dottorato al Graduate Institute of International and Development Studies di Ginevra

Chi proteggerà e amplierà l’ondata palestinese di collera attualmente in corso nei territori occupati e come? Dovremmo tutti essere interessati a rispondere in modo approfondito a questa domanda. Il continuo sacrificio del popolo palestinese non deve essere sfruttato, ancora una volta, dalla tradizionale elite politica palestinese come carta [da giocare] in qualche nuova tornata di negoziati destinati a fallire. Non deve nemmeno diventare semplicemente un modo per le autorità di far sfogare la rabbia dei giovani.

L’incapacità prolungata della dirigenza tradizionale palestinese di realizzare le aspirazioni dei palestinesi ha fornito un’opportunità alle nuove avanguardie, quali gli attivisti della società civile palestinese e gli oppositori dell’ANP. Peraltro costoro devono ancora sfruttare appieno quest’occasione. C’è bisogno di un completo cambiamento della classe dirigente palestinese. Ci vorranno tempo, risorse e una determinazione politica nonché una mobilitazione di massa nei momenti cruciali. Gli obiettivi politici e le forme di lotta sono le questioni fondamentali a cui dare una risposta. L’alternativa sta prendendo forma, ma è ancora giovane come i ragazzi che si stanno ribellando. È importante occuparsi di tali questioni subito: senza il sostegno necessario e gli strumenti per coordinare i tentativi e le iniziative , il movimento rapidamente morirà.

Le nuove avanguardie palestinesi devono agire ora per mettere insieme i loro sforzi per creare una strategia di lotta che faccia crescere piuttosto che prosciugare le potenzialità e le energie dell’ondata [di collera]. È un compito arduo, ma è l’unico modo per evitare un’altra delusione che aumenterebbe l’attuale frustrazione e il disorientamento. I momenti di trasformazione storica non sono mai facili.

Quest’impostazione coinvolgerà su diversi fronti momenti di scontro. In altre parole, ciò non dovrebbe essere limitato a una presenza fisica davanti ai checkpoint, ma [occorre] estenderlo all’ambito politico, economico, a quello dei media e ad altri. Indubbiamente lo scontro in una situazione di colonizzazione è l’unico modo per cambiare lo squilibrio di potere, affrontando la situazione sul terreno e costruendo un percorso per il futuro.

Gli attuali movimenti [organizzati] dai giovani e dalle nuove avanguardie della società civile incarnano le politiche dello scontro: stanno agendo collettivamente per sfidare le autorità e la loro pretesa di essere rappresentativi [della volontà del popolo palestinese]. Tuttavia abbiamo bisogno di passare da una situazione odierna di rabbia a un movimento che rappresenti la società palestinese nella sua interezza, trasformandola in una società fondata sui movimenti sociali e sulle reti trasversali che si occupano di questioni politiche, economiche e sociali. Ciò può essere fatto basandosi sulle reti sociali esistenti e su altre per proporre obiettivi di interesse generale, lavorando per la liberazione dalla colonizzazione e sfidando le autorità repressive e le elite. Ciò può trasformare l’attuale ondata di collera in una situazione permanente di scontro con il colonizzatore così come in un movimento sociale che avvicini il colonizzato alla libertà e all’autodeterminazione.

Questo pezzo è parte della pubblicazione di una tavola rotonda di Al-Shabaka. La versione completa è stata originariamente pubblicata sul sito di Al-Shabaka il 23 novembre 2015.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono agli autori e non riflettono necessariamente la politica editoriale dell’Agenzia Ma’an News.

(Traduzione di Carlo Tagliacozzo)




La rivolta dei giovani palestinesi – Quale ruolo per i partiti politici?

Parte 5

da Al-Shabaka Ma’an News

di Jabel Suleiman

Al-Shabaka è un’organizzazione indipendente no profit che ha come obiettivo informare e stimolare il dibattito pubblico sui diritti umani e sull’autodeterminazione dei palestinesi nel contesto delle leggi internazionali.

Questa è la quinta parte di una pubblicazione divisa in otto segmenti sull’attuale assenza di un’autentica dirigenza nazionale palestinese e sulla rivolta dei giovani contro la prolungata occupazione militare da parte di Israele e la negazione dei diritti umani nei Territori Palestinesi Occupati (TPO).

Questa parte è stata scritta da Jabel Suleiman, un ricercatore ed esperto palestinese indipendente, attualmente consulente del programma palestinese dell’UNICEF nei campi di rifugiati palestinesi in Libano.

l movimento dei giovani in atto in Palestina solleva una serie di domande relative ai suoi motivi, alle sue cause ed alla sua natura. Si tratta dell’espressione di disperazione e frustrazione o di un rinnovato spirito nazionale? E’ stato scatenato dalla divisione tra i palestinesi, la penosa condizione dell’ANP, il fallimento del processo di Oslo e della soluzione dei due Stati, l’espansione aggressiva delle colonie israeliane, la profanazione dei luoghi santi o dal declino dell’interesse dei Paesi arabi e dall’indifferenza della comunità internazionale per la causa palestinese? Si trasformerà in una rivolta popolare come la prima Intifada o rimarrà un’espressione di collera che presto svanirà? Quali condizioni si devono verificare perché questo movimento si trasformi in una ribellione guidata da una dirigenza nazionale unificata e da un programma complessivo? Quale ruolo dovrebbero giocare le fazioni dell’OLP e la più vasta leadership palestinese per consolidare e proteggere la rivolta e sviluppare una leadership nazionale unificata, data l’istituzionalizzazione delle divisioni palestinesi? E come?

Questo movimento di giovani senza precedenti, che è portato avanti da palestinesi nati nel periodo della firma degli accordi di Oslo, è diretto contro l’occupazione. Ma include anche la collera e la protesta contro l’ANP e i suoi risultati politici, responsabile dell’attuale situazione della causa palestinese in generale e in particolare delle condizioni nei TPO [Territori Palestinesi Occupati]. Questo è il paradosso a cui ci troviamo davanti: come possono le fazioni palestinesi, dentro e fuori dall’OLP, che hanno contribuito a creare l’attuale stato di cose, aiutare a sviluppare un movimento e formare una dirigenza unificata? Di fatto, le fazioni non possono essere escluse né esentate dalle responsabilità, soprattutto a causa della mancanza di un movimento nazionale alternativo o di un blocco popolare e non di fazione (un blocco storico in senso gramsciano) in grado di elaborare una struttura nazionale complessiva che comprenda tutti i palestinesi.

L’importanza del coordinamento quotidiano tra i dirigenti politici e i giovani che stanno affrontando l’occupazione non può essere sopravvalutata. Ciò non significa che le fazioni siano libere di sviare e sfruttare il movimento per ottenere risultati diversi, non in linea con la lotta contro l’occupazione, ponendo fine alle divisioni e trovando un’uscita dall’attuale situazione palestinese di stallo, specialmente mentre il popolo palestinese continua a pagare il prezzo del modo in cui la prima Intifada è stata sfruttata per firmare gli accordi di Oslo.

Ci sono urgenti compiti nazionali da svolgere per tutti. Le fazioni non dovrebbero pesare sul movimento dei giovani o spingerlo alla militarizzazione o all’ottenimento di risultati in breve tempo come un’ immediata fine dell’occupazione, che nessuna di loro è stata in grado di ottenere. Di conseguenza, è necessario un accordo su obiettivi modesti e tattici. Le fazioni dovrebbero trattare questa ondata di proteste come un passo sul lungo e spinoso cammino della lotta, e devono contribuirvi e appoggiarlo su quelle basi. Le fazioni dovrebbero ascoltare le giovani generazioni e includerle nella leadership della lotta e nei comitati locali che dovrebbero essere creati.

I partiti dovrebbero concentrarsi nel formare una dirigenza politica unificata che rappresenti tutte le fazioni, anche prima di porre fine alle divisioni, in modo da appoggiare la tenacia del popolo palestinese e prepararsi per una lunga battaglia contro l’occupazione. Ciò è indispensabile l’evoluzione dell’attuale movimento dei giovani in una rivolta popolare e in un’ampia disobbedienza civile sul modello dello sciopero del 1936 [contro il Mandato inglese e i sionisti. Ndtr.], insieme a una battaglia diplomatica e legale sul fronte internazionale contro l’occupazione israeliana. Per ottenere risultati da questi sforzi il coordinamento sulla sicurezza con Israele deve cessare immediatamente, come passo fondamentale verso lo smantellamento della struttura amministrativa e legale di Oslo. Le funzioni dell’ANP devono essere riconsiderate e la divisione tra Hamas e Fatah dovrebbe essere superata in modo che l’OLP possa essere ricostruita su fondamenta nazionali inclusive.

Le forze contro l’occupazione, che includono le istituzioni della società civile, organizzazioni di base, sindacati, associazioni professionali, università e la campagna BDS, si devono impegnare in modo più attivo nel movimento dei giovani. Devono utilizzare i loro legami internazionali con i gruppi di solidarietà, contrari alla discriminazione e all’occupazione in tutto il mondo per appoggiare i giovani e la loro spinta volta a porre fine all’occupazione.

Questo pezzo è parte della pubblicazione di una tavola rotonda di Al-Shabaka. La versione completa è stata originariamente pubblicata sul sito di Al-Shabaka il 23 novembre 2015.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono agli autori e non riflettono necessariamente la politica editoriale dell’Agenzia Ma’an News.

(Traduzione di Amedeo Rossi)




La rivolta dei giovani palestinesi – Quale ruolo per i partiti politici?

Parte 4

di Khalil Shaheen

da Al-Shabaka, Maannews

Al-Shabaka è un’organizzazione indipendente no profit che ha come obiettivo informare e stimolare la discussione pubblica sui diritti umani e sull’autodeterminazione dei palestinesi nel contesto delle leggi internazionali.

Questa è la quarta parte di una pubblicazione in otto parti sull’attuale assenza di un’autentica dirigenza nazionale palestinese e sulla rivolta dei giovani contro la prolungata occupazione militare da parte di Israele e la negazione dei diritti umani nei Territori Palestinesi Occupati (TPO).

Questa parte è stata scritta da Khalil Shaheen, giornalista palestinese, esperto di media, ricercatore e noto analista politico e dei media. È attualmente direttore di ricerca e politiche e membro del consiglio di amministrazione di Masarat – The Palestine Center for Policy Research and Strategic studies (Il centro palestinese per la ricerca di politiche e studi strategici, un istituto indipendente specializzato nell’individuazione di politiche strategiche. Ndtr.) a Ramallah.

Il sistema politico palestinese è vicino al collasso dopo che ha abbandonato la propria identità di movimento di liberazione nazionale con il riconoscimento, negli Accordi di Oslo, della legittimità di un sistema razzista di insediamenti coloniali. L’attuale ondata di collera è una ribellione contro questa relazione e l’ideologia su cui si basa. Quest’ondata è anche una prosecuzione in forma più ampia di forme di espressione e di azione politica che sono andate oltre il tradizionale sistema politico e organizzativo stabilito negli anni 1960, che ha subito a sua volta un lento e inesorabile declino.

Tuttavia bisogna prendere atto della “coesistenza” tra la tradizionale politica dell’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina), dell’ANP (Autorità Nazionale Palestinese) e delle fazioni palestinesi da un lato, e le nuove forme di azione politica dall’altro, dovuta al carattere di transizione dell’attuale fase. In particolare, il movimento nazionale tradizionale continua ad avere un ruolo politico nonostante la sua incapacità di raggiungere il suo storico obbiettivo di ottenere i diritti nazionali del popolo palestinese.

La realizzazione di questo obbiettivo dovrebbe spingere i palestinesi a porsi domande strategiche riguardo alle ripercussioni di un’ideologia e di una serie di prassi fallimentari e a cosa sia necessario per rinnovare il progetto nazionale palestinese ed un’istituzione nazionale in grado di raggiungere i propri obbiettivi.

Negli ultimi anni, alcuni hanno sostenuto che non ci sia bisogno di ricostruire il movimento nazionale come prerequisito per adottare una strategia d’azione. Ritengono semmai che il reclutamento di un gran numero di soggetti in programmi di azione partecipativi sia la via giusta per ricostruire il movimento nazionale. Questo approccio è incentrato sulla creazione di un nuovo percorso basato sull’unificazione dei palestinesi in patria e nella diaspora. Il movimento globale BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni), il movimento per il diritto al ritorno e i comitati di resistenza popolare contro il muro di separazione sono tutte espressioni di nuove forme d’azione al di fuori dello schema tradizionale dell’azione politica di partito.

Analogamente, l’attuale ondata di rabbia è una nuova forma di azione popolare condotta dai giovani. Il tradizionale sistema dei partiti politici non ha previsto le conseguenze di questa azione in un periodo di forti divisioni e conflitti interni su potere ed influenza. Questa ondata può indebolirsi o intensificarsi, ma sembra essere parte di una serie di ondate che continueranno a verificarsi fino a quando diventeranno uno tsunami che esprimerà il riconoscimento unanime della causa palestinese come liberazione nazionale e la necessità di ricostruire le strutture nazionali ed istituzionali in grado di creare un nuovo percorso di lotta.

L’attuale ondata di collera dimostra che c’è una nuova generazione che ridefinisce il rapporto del popolo con l’occupazione israeliana come basato sul conflitto e non sulla “comprensione”. Lo fa sfidando il monopolio della politica condotta all’interno dei bantustans dall’ANP, che l’occupazione israeliana sta trasformando in un agente amministrativo, economico e di sicurezza interno di un sistema di dominazione coloniale.

Tuttavia questo non significa la fine del ruolo politico delle fazioni, nonostante la loro condizione di divisione interna e di mancanza di legittimazione popolare. Le fazioni dirigono ancora le prassi politiche e le forme di resistenza armata, soprattutto nella Striscia di Gaza. Dominano l’OLP, l’ANP, i sindacati, le associazioni professionali e le organizzazioni studentesche.

Gli attuali segnali di nascita di nuove forme di azione politica e di lotta possono sembrare simili a quelli degli ultimi anni ’50 e primi anni ’60, quando una giovane generazione ha sfruttato le favorevoli condizioni nei paesi arabi e a livello internazionale per impostare un nuovo percorso di lotta che ha rovesciato in breve tempo la leadership precedente e successiva alla Nakba (l’espulsione dei palestinesi dai territori del neonato Stato di Israele nel 1948, ndt.). Quella generazione ha sviluppato strutture politiche e gruppi armati che derivavano la propria legittimazione dal popolo, che proclamò la propria fedeltà alla nuova leadership senza una legittimazione elettorale.

Tuttavia oggi le condizioni sono diverse ed ancora mancano gli elementi chiave di questo processo. C’è ancora spazio per i soggetti tradizionali per giocare un ruolo. Non sarà possibile reimpostare una politica e un’attività organizzata con un ampio coinvolgimento popolare se non cambieranno gli obbiettivi, i metodi e le regole. Ad un certo punto, i partiti tradizionali devono confrontarsi con le nuove forme di attivismo politico che va ridisegnando il rapporto con il colonizzatore.

Questo comporterà lavorare con la generazione più giovane per stabilire gli obbiettivi e le richieste dell’attuale rivolta, invece di cercare di monopolizzarla o frenarla. Ciò aiuterebbe a trasformare le forme di azione politica dei partiti tradizionali in una lotta attiva guidata dalla generazione dei giovani e ad accelerare lo sviluppo di una vasta rivolta, capace di creare un percorso nuovo nella lotta di liberazione.

Questo pezzo è parte della pubblicazione di una tavola rotonda di Al-Shabaka. L’intera versione è stata originariamente pubblicata sul sito di Al-Shabaka il 23 novembre 2015.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono agli autori e non riflettono necessariamente la politica editoriale dell’Agenzia Ma’an News.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




La rivolta dei giovani palestinesi – Quale ruolo per i partiti politici?

Parte 1

Maannews

di Jamal Juma

Al-Shabaka è un’organizzazione indipendente no profit che ha come obiettivo informare e stimolare il dibattito pubblico sui diritti umani e sull’autodeterminazione dei palestinesi nel contesto delle leggi internazionali.

Questa è la prima parte di una pubblicazione divisa in otto segmenti sull’attuale assenza di un’autentica dirigenza nazionale palestinese e sulla rivolta dei giovani contro la prolungata occupazione militare da parte di Israele e la negazione dei diritti umani nei Territori Palestinesi Occupati (TPO).

Questa parte è stata scritta da Jamal Juma’, un membro fondatore dei Comitati di Soccorso Agricolo Palestinese, dell’Associazione Palestinese per gli Scambi Culturali e della Rete delle ONG Ambientaliste Palestinesi.

Per circa due mesi, i palestinesi hanno atteso che i partiti politici si facessero carico del loro ruolo di direzione e guida della rivolta. Evidentemente, costoro non sono in grado né vogliono farlo. Ci sono una serie di ragioni della loro inazione. Per un verso, i leader dei partiti sono riluttanti a pagare il prezzo di dirigere e strutturare la resistenza popolare, se questo prezzo è fatto pagare da Israele nella forma di arresti, persecuzioni e prendendo di mira le organizzazioni, soprattutto in quanto i partiti agiscono alla luce del sole e le loro strutture organizzative sono deboli. E non vogliono neppure perdere i privilegi di cui godono in quanto membri dell’OLP, sia in termini di vantaggi economici che di status politico.

Oltretutto i vari partiti non possono agire senza il consenso dell’apparato di sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) e di quello della sua fazione maggioritaria, Fatah: sono al momento troppo deboli per cambiare lo status quo. Il presidente Mahmoud Abbas, che detiene tutto il potere, crede che la rivolta abbia il compito di attirare l’attenzione sulla causa palestinese e di risvegliare la comunità internazionale, e sta scommettendo su nuove iniziative per riprendere i negoziati con Israele. Di conseguenza Abbas ha dichiarato in termini inequivocabili che non vuole una rivolta.

A causa della debolezza della loro attuale composizione e delle loro strutture organizzative, i partiti politici non possono fornire una cornice politica, organizzativa ed economica in grado di dirigere una rivolta di lungo termine che sia in grado di prosciugare le risorse e le energie dell’occupazione israeliana. Una ribellione vittoriosa richiederebbe una visione complessiva per raggiungere obiettivi chiari e perseguibili mobilitando opportunità e relazioni locali, regionali e internazionali.

Riguardo alle forze islamiche, Hamas e Jihad Islamica, hanno preso anche loro la stessa posizione di inattività. Neanche loro vogliono pagare il prezzo e fornire a Israele un’opportunità di lanciare un’offensiva contro la Striscia di Gaza. Essi temono anche che la ribellione possa essere sfruttata per migliorare i termini dei negoziati per l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) e l’ANP.

Ci sono una serie di fattori a favore della creazione di uno spazio per una nuova dirigenza nazionale o locale. Anche se si dovesse placare, l’attuale rivolta ha sollevato la questione dell’idoneità dell’attuale leadership e ha legittimato la ricerca di alternative. Ha inoltre unito il popolo palestinese all’interno della Linea Verde [in Israele. Ndtr.], in Cisgiordania, a Gerusalemme e a Gaza.

Ironicamente, sono le forze politiche a rimanere divise. Pur se in modo limitato, anche i palestinesi della Diaspora si sono mossi e hanno aiutato ad organizzare manifestazioni. Le azioni sul terreno stanno gettando i semi di una dirigenza emergente che può essere coltivata, anche se è dispersa e circoscritta in ambito locale.

Dal punto di vista negativo, tuttavia, è chiaro che l’ANP non permetterà che emerga una nuova leadership e non risparmierà gli sforzi per contrastarla, anche se ciò dovesse richiedere il coordinamento con l’occupazione israeliana, con cui in ogni caso collabora. Oltretutto gli attuali movimenti di base sono deboli, in quanto gli intellettuali giocano uno scarso ruolo nella vita politica palestinese e sono incapaci di appoggiare le forze popolari. Come per la Diaspora palestinese, hanno una ridotta influenza nei processi decisionali.

La sfida consiste nel costruire sui fattori positivi e minimizzare quelli negativi: da notare che per creare una dirigenza alternativa qualunque serio movimento dovrebbe lavorare in certa misura clandestinamente.

Per cominciare, è importante crearsi uno spazio protetto dalla dominazione politica, nel quale sia possibile appoggiare quelle forze popolari che hanno una visione politica e una capacità di mobilitazione, come i sindacati, le organizzazioni degli agricoltori, le federazioni delle donne e naturalmente i gruppi giovanili, in modo che possano agire a fianco della rivolta.

E’ anche importante sfruttare il potenziale della Diaspora palestinese, soprattutto tra i giovani, e organizzare gruppi di lavoro che possano comunicare e coordinarsi con figure nazionali di rilievo che credano nel ruolo importante che la Diaspora deve giocare sia nel processo decisionale che nell’appoggio alla resistenza del popolo palestinese.

Quindi è vitale investire nell’importante coordinamento tra la madre patria e la Diaspora. Dobbiamo ricostruire la fiducia tra noi e rinnovare la sicurezza in noi stessi e nella nostra capacità di provocare dei cambiamenti. In ultima analisi, dobbiamo avere una fede assoluta nel nostro popolo e nella sua capacità di sacrificio e di sviluppo [della lotta] e credere, al di là di ogni dubbio, che vinceremo.

Questo pezzo è parte della pubblicazione di una tavola rotonda di Al-Shabaka. La versione completa è stata originariamente pubblicata sul sito di Al-Shabaka il 23 novembre 2015.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono agli autori e non riflettono necessariamente la politica editoriale dell’Agenzia Ma’an News.

(Traduzione di Amedeo Rossi)




La Lista Unitaria nelle elezioni israeliane: i palestinesi sono di nuovo in gioco?

Di Diana ButtuAs’ad GhanemNijmeh AliAl-Shabaka

11 marzo 2015

Sintesi

La Lista Unitaria lanciata il 14 febbraio 2015 da quattro partiti politici largamente rappresentativi dei cittadini palestinesi di Israele dovrebbe ottenere un numero di seggi sufficiente a rappresentare il terzo maggiore partito della Knesset [il parlamento israeliano]. Ma ciò potrà mettere in discussione lo status di cittadini di serie B dei palestinesi- israeliani?

Potrà impedire la rapida erosione dei diritti che ancora gli rimangono, se il razzismo apertamente dichiarato dall’attuale coalizione di destra al potere continuerà ad essere stabilito per legge? Ciò rappresenta la rinascita di un senso collettivo d’identità e d’azione? E’ tutto da valutare. Gli analisti di Al-Shabaka Diana Buttu, As’ad Ghanem e Nijmeh Ali, essi stessi cittadini palestinesi di Israele, sostengono diverse prospettive analizzando le sottostanti linee di faglia così come i problemi e le potenzialità della Lista Unitaria, indipendentemente da quelli che saranno i suoi risultati.

Diana Buttu: i partiti palestinesi si disintegreranno?

I palestinesi in Israele hanno a lungo parlato della necessità di una Lista Unitaria per rivendicare i loro diritti. Nonostante le differenze politiche tra i partiti socialista, nazionalista e islamico, essi non presentano divergenze riguardo ai diritti dei palestinesi in Israele: vogliono porre fine alle leggi razziste e all’occupazione militare dei territori palestinesi, e storicamente hanno votato allo stesso modo alla Knesset.

Tuttavia la coalizione non è stata formata per rispondere a una visione condivisa riguardo ai problemi che i palestinesi devono affrontare o alle richieste dell’opinione pubblica [palestinese]. Al contrario, la Lista Unitaria è stata creata come risposta ad altri due fattori. In primo luogo, la Knesset, con una mossa in seguito approvata dalla corte di giustizia, ha alzato la soglia di sbarramento dal 2% al 3,25%. Posti di fronte alla prospettiva di scomparire, era interesse di ogni partito formare una lista unica. In secondo luogo, c’è stato un calo nell’appoggio ai partiti politici palestinesi, non solo nell’affluenza alle urne per le elezioni nazionali: nemmeno uno dei partiti politici palestinesi è riuscito ad ottenere una vittoria nelle elezioni municipali benché a livello locale il tasso di votanti sia ancora alto.

Il calo nell’appoggio alla rappresentanza al parlamento israeliano è probabilmente il risultato della crescente convinzione che la presenza di partiti politici palestinesi legittimi le azioni della Knesset. Oltretutto si avanza la critica secondo cui i partiti politici non stanno promuovendo i diritti dei palestinesi in Israele né lottando contro il crescente razzismo nel Paese.

Anche se la Lista Unitaria dovesse imporsi come terzo o quarto partito alla Knesset, in base ai sondaggi, l’efficacia della lista rimarrebbe in dubbio. E’ opinione diffusa che avere più seggi alla Knesset implichi un maggior potere politico, sia partecipando ad una coalizione di governo che facendo parte di un’opposizione efficace. Tuttavia né il Campo Sionista [alleanza tra il Partito Laburista ed il partito centrista di Tzipi Livni, ex ministro di Netanyahu. N.d.tr.] – che ha appoggiato la revoca dei privilegi parlamentari [ Libertà di spostamento dal paese, passaporto diplomatico, sostegno finanziario per spese giudiziarie.  N.d.tr.] della dirigente politica palestinese Haneen Zoabi [parlamentare arabo-israeliana che ha partecipato alla Freeedom Flottilla. N.d.tr.]- né il Likud hanno alcun interesse nel formare una coalizione con la Lista Unitaria.

Allo stesso tempo non è nell’interesse della Lista Unitaria entrare a far parte di una coalizione con qualunque partito sionista, in quanto sostenitore della supremazia del sionismo e dei diritti degli ebrei al di là della nozione di uguaglianza e democrazia. Certo sarebbe impossibile per la lista far parte di una coalizione con partiti che appoggino leggi razziste, la colonizzazione della Cisgiordania, l’assedio e gli attacchi a Gaza, mentre dovrebbero supportare queste politiche come ministri di un governo o come alleati in una coalizione. Quindi i partiti che hanno formato la Lista Unitaria rischiano di rimanere quello che sono stati prima di unirsi: piccoli partiti che lottano contro il razzismo nel ventre della balena.

Inoltre i partiti politici palestinesi dovranno continuare a respingere l’ondata di disillusione nei confronti del sistema politico israeliano e la sensazione che esso serva semplicemente a legittimare il razzismo di Israele. Anche se la Lista Unitaria riuscisse ad portare ad un aumento dell’affluenza [dei cittadini arabo-israeliani] al voto in queste elezioni, dovrebbe anche lottare contro l’eventuale disintegrazione dei partiti che la compongono, se non potessero soddisfare le aspettative dei loro elettori nello sfidare le politiche dell’apartheid israeliano nei confronti dei palestinesi che vivono in Israele e sotto l’occupazione militare [in Cisgiordania].

As’ad Ghanem: un’uscita dalla marginalità?

L’attivismo politico dei cittadini palestinesi in Israele è sempre stato inteso come sinonimo di soluzione del conflitto israelo-palestinese, di fine dell’occupazione dei territori palestinesi e di risoluzione della questione dei rifugiati. Questa convinzione è stata rafforzata dopo che sono stati firmati gli accordi di Oslo nel 1993 e l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) è stata fondata come nucleo politico per la transizione dall’occupazione alla creazione di uno Stato palestinese indipendente.

Da allora gli sviluppi – compresa la frattura all’interno del movimento nazionale palestinese, la fine di fatto della soluzione dei due Stati e il crescere dell’estremismo israeliano – sono stati accolti passivamente dagli gruppi politici palestinesi in Israele, che rimangono legati all’illusione di una soluzione politica per alleviare le loro difficoltà in quanto vittime del conflitto. In breve, accettano lo status subordinato di “giocatori di riserva” – nella migliore delle ipotesi – nel movimento nazionale palestinese.

Infatti la maggioranza dei dirigenti politici crede che le loro questioni interne [in Israele] siano secondarie nel contesto di una più ampia lotta palestinese. Accettano le palesi interferenze dei leader del movimento nazionale palestinese – persino su come utilizzare i loro voti in quanto cittadini israeliani per influire sui governanti israeliani. Un altro esempio della loro subordinazione riguarda l’accettazione dei finanziamenti dagli Stati arabi del Golfo. Cosa ancora più importante, accogliendo la soluzione dei due Stati – uno ebreo e l’altro arabo – come stabilito nel 1947 dal piano di ripartizione delle Nazioni Unite, hanno accettato di essere cittadini di serie B nello Stato ebraico.

L’accettazione della loro condizione di marginalità ha trovato la sua espressione nel programma elettorale della Lista Unitaria. Invece di fare uno sforzo per stilare un vero programma d’azione per lottare contro le attuali sfide che la comunità palestinese in Israele deve affrontare, la lista ha semplicemente fatto un copia-e- incolla delle posizioni dei partiti che ne fanno parte nelle scorse elezioni. In particolare il programma della Lista Unitaria appoggia la fine dell’occupazione e la formazione di uno Stato palestinese. Il preambolo dichiara che la lista “è stata formata per consolidare l’unità contro il razzismo e per potenziare il peso e l’influenza delle masse arabe e di tutte le forze contrarie all’occupazione ed al razzismo.” Non c’è una sola parola a proposito del ruolo dei palestinesi in Israele in quanto palestinesi. Al contrario, ci si focalizza sul loro ruolo in quanto israeliani. Ciò dimostra chiaramente che i partiti politici palestinesi accettano di essere i giocatori di riserva nel movimento nazionale palestinese.

Invece i successivi governi israeliani, soprattutto i due governi del primo ministro Benjamin Netanyahu, hanno aiutato a spingere verso l’unità palestinese ponendo fine all’illusione della soluzione dei due Stati e promovendo l’ebraicità dello Stato. Infatti le posizioni di Netanyahu hanno fatto in modo di ricordarci che la nostra causa è radicata nelle conseguenze della guerra del 1948 che ha creato Israele sulla Palestina e non nell’occupazione iniziata nel 1967 come i dirigenti e l’elite palestinesi hanno voluto farci credere. Infatti il programma colonialista e fondamentalista dei vari governi israeliani evidenzia la necessità di trasformare l’azione nazionale palestinese in modo da affrontare le radici del problema piuttosto che le sue conseguenze, come viene fatto nel programma della Lista Unitaria.

Abbiamo bisogno di un cambiamento reale sia nella nostra comprensione del conflitto che nel ruolo dei palestinesi in Israele nel dare forma alla futura soluzione del conflitto. Un miglioramento delle condizioni dei palestinesi in Israele non sarà ottenuto dall’illusoria soluzione dei due Stati. La soluzione della questione palestinese dipende piuttosto dall’abilità dei palestinesi in Israele nell’articolare il loro progetto come hanno fatto una volta nel 2007 con il Future Vision document [documento della “Visione del Futuro”, un rapporto pubblicato dal Comitato dei Sindaci Arabi in Israele, a cui hanno partecipato 40 noti studiosi ed attivisti e che chiedeva ad Israele di riconoscere i cittadini arabi come gruppo nativo con diritti collettivi, sostenendo che invece Israele discrimina i non ebrei in vario modo. N.d.tr.].

Questo documento ha riscosso un ampio consenso nazionale tra i palestinesi in Israele riguardo ai principali problemi politici che essi stessi devono affrontare, così come il loro ruolo nel forgiare una soluzione complessiva della questione palestinese. Solo facendo così i palestinesi in Israele possono passare da un ruolo politico marginale a uno centrale. Un tale ruolo potrebbe aiutare a portare Israele e il movimento nazionale palestinese ad un giusto accordo che affronti le conseguenze della Nakba (catastrofe) del 1948 invece di quelle dell’occupazione del 1967, senza lasciare eternamente i palestinesi in Israele ai margini dello “Stato ebraico”.

La Lista Unitaria avrebbe potuto essere coinvolta in questo progetto se [i suoi dirigenti] avessero lavorato seriamente come leader piuttosto che come politicanti che competono per un seggio alla Knesset. Ancora una volta abbiamo perso un’occasione per fare la nostra parte non solo come palestinesi, ma come punto di riferimento del popolo palestinese, confliggendo, senza questa assunzione di responsabilità, con il nostro ruolo nelle elezioni israeliane. Forse potremo cogliere questa opportunità nel futuro se saremo in grado di produrre leader che ci vedano come attori principali piuttosto che subordinati a Israele, all’ANP o a qualche altro regime arabo che ci fornisce denaro o avvalla slogan nazionalistici.

 

Nijmeh Ali: gli inizi di una svolta storica

I palestinesi in Israele discutono ancora animatamente sull’utilità di partecipare alle elezioni israeliane. Alcuni chiedono ancora il boicottaggio perché credono che partecipare [alle elezioni] legittimi e rafforzi la colonizzazione e l’occupazione israeliane. Altri hanno semplicemente perso la fiducia nella capacità del sistema politico di portare avanti un qualunque cambiamento: nel 2013 solo circa il 56% dei palestinesi in Israele ha partecipato alle elezioni.

Inoltre, il fatto che i palestinesi in Israele abbiano il diritto di partecipare alle elezioni non significa che riescano ad incidere sulle decisioni politiche israeliane. Il sistema politico israeliano esclude i partiti arabi. In altre parole, sono all’interno del gioco politico ma ancora fuori dal processo politico.

Quelli che sostengono la partecipazione sottolineano l’importanza di difendere i diritti dei palestinesi anche se comprendono la difficoltà di creare un reale cambiamento. Considerano la Knesset un mezzo non solo per ottenere diritti individuali ma anche per cercare il riconoscimento dei diritti collettivi dei palestinesi in quanto minoranza nazionale e popolo indigeno. Oltretutto vogliono sfidare la tendenza israeliana dominante “agitando le acque”.

Allo stesso tempo, molti palestinesi in Israele sono frustrati dalle lotte interne del passato. Sanno che, indipendentemente dalle loro convinzioni ideologiche – socialiste, nazionaliste o religiose – sono discriminati per il fatto di essere palestinesi. Questa sensazione è aumentata durante gli attacchi israeliani contro Gaza dell’estate 2014, quando i cittadini palestinesi di Israele si sono sentiti più minacciati che in qualunque altro momento, persino per strade, sugli autobus, all’università o sul posto di lavoro.

Contro questo contesto la Lista Unitaria è una diretta risposta alla destra israeliana, che intendeva spingere i partiti [palestinesi] fuori dell’arena politica alzanzo il quorum elettorale. Questa manovra può essere vista come un attacco contro un “trasferimento politico”, come effettivamente era, forse come preludio a un’espulsione fisica dei palestinesi. Sostituendo i partiti esistenti con “Arabi Buoni”, che siano membri dei partiti sionisti, la destra israeliana sarebbe stata in grado di presentare la “democrazia” di Israele senza sfidare l’egemonia sionista.

Avendo fallito in questo tentativo, la Destra israeliana sta ora cercando di screditare la Lista Unitaria mettendo in guardia contro la “minaccia araba” in Israele e insistendo nel definirla come una Lista Unitaria “araba”, come fa la maggior parte dei media, presentandola quindi come arabi contro ebrei. E’ importante sottolineare continuamente che la lista è ufficialmente unitaria e non araba e include ebrei non sionisti. Anche se la maggioranza dei votanti per questa lista saranno palestinesi in Israele, la lista vuole anche attirare elettori ebrei: ha lanciato la propria campagna sia in arabo che in ebraico.

La Lista Unitaria non cancellerà le differenze tra i partiti che la compongono né metterà fine all’aspro e incandescente dibattito tra i palestinesi in Israele su come la società palestinese si debba posizionare e presentare. Tuttavia evidenzia la lotta comune contro la discriminazione come contro l’occupazione, comune tra gli arabi palestinesi e le forze democratiche ebraiche. Insieme costituiscono un’alternativa democratica al campo ultranazionalista guidato da Netanyahu e al Campo Sionista di Isaac Herzog e Tzipi Livni.

La fiducia in una lotta collettiva è evidente nel programma politico della lista, che è basata su otto principi: contro l’occupazione e per una pace giusta; per l’uguaglianza nazionale e civile; contro il razzismo e il fascismo e per la democrazia; per la giustizia sociale ed ecologica e per i diritti dei lavoratori; contro l’oppressione delle donne e per il loro diritto a partecipare; per lo sviluppo della cultura, del linguaggio, dell’identità e dell’appartenenza a una nazione; contro il colonialismo; per l’eliminazione delle armi nucleari dal Medio Oriente.

La lista affronta due grandi sfide: l’incremento della percentuale di arabi che votano e avere successo nell’attrarre votanti ebrei. L’imperativo di lavorare insieme implica molti compromessi, ma è una potente tattica politica che ridefinirà il comportamento politico dei palestinesi in Israele, non solo durante queste elezioni ma anche in futuro.

La Lista Unitaria fornirà l’esperienza necessaria per la collaborazione in un ampio spettro di questioni a livello sia interno che esterno alla Knesset. Riporta il termine “collettivo” nel lessico politico dei palestinesi in Israele, una cosa contro cui i governi israeliani, sia di destra che di sinistra, hanno lottato fin dalla Nakba del 1948. In breve, è un avvenimento storico che ha la possibilità di realizzare cambiamenti sia nella politica interna dei palestinesi in Israele che in Israele stesso.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Guerre per l’energia in Medio Oriente

Michael SchwartzMEE

Giovedì 26 febbraio 2015

In termini energetici, Israele è sempre più disperato. Abbiamo di fronte la possibilità di guerre più vaste per il gas, con le distruzioni che probabilmente comporteranno.

 

Come il gas naturale di Gaza è diventato l’epicentro di una lotta internazionale per le risorse energetiche

Indovinate un po’? Praticamente tutte le guerre, insurrezioni e altri conflitti in Medio Oriente sono legati da un unico filo, che è anche una minaccia: questi conflitti sono parte di una sempre più frenetica competizione per trovare, estrarre e commercializzare combustibili fossili il cui successivo consumo sicuramente porterà ad una serie di catastrofiche crisi ambientali.

Tra i vari conflitti legati alle fonti energetiche fossili nella regione uno di questi, pieno di minacce, piccole o grandi, è stato largamente trascurato, e Israele ne è l’epicentro. Le sue origini si possono far risalire ai primi anni ’90, quando i leader israeliani e palestinesi hanno iniziato ad confrontarsi su supposti depositi di gas naturale nel Mediterraneo lungo le coste di Gaza. Nei decenni successivi questo è diventato un conflitto su più fronti che ha coinvolto vari eserciti e tre flotte. Nel frattempo ha già inflitto incredibili sofferenze a decine di migliaia di palestinesi e minaccia di aggiungere nuovi livelli di miseria alle vite di persone in Siria, Libano e Cipro. Forse potrebbe impoverire persino gli israeliani.

Le guerre per le risorse, ovviamente, non sono niente di nuovo. Di fatto tutta la storia del colonialismo occidentale e della globalizzazione successiva alla Seconda guerra mondiale è stata animata dallo sforzo di trovare e commercializzare le materie prime necessarie a costruire o conservare il capitalismo industriale. Ciò comprende anche l’espansione di Israele nei territori palestinesi, e la loro appropriazione. Ma le risorse energetiche sono diventate centrali nelle relazioni israelo-palestinesi solo negli anni ’90, e questo conflitto, inizialmente circoscritto, solo dopo il 2010 si è esteso, includendo la Siria, il Libano, Cipro, la Turchia e la Russia.

 

La storia avvelenata del gas naturale di Gaza

Nel lontano1993, quando Israele e l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) firmarono gli accordi di Oslo che si pensava avrebbero posto fine all’occupazione israeliana di Gaza e della Cisgiordania e creato uno Stato sovrano, nessuno aveva prestato molta attenzione alla linea costiera di Gaza. Di conseguenza Israele accettò che la neonata ANP controllasse totalmente le sue acque territoriali, anche se la flotta israeliana stava ancora pattugliando la zona. Le voci di depositi di gas naturale su quella costa non interessavano molto a nessuno, perché allora i prezzi erano molto bassi e le riserve molto abbondanti. Non c’è dunque da stupirsi che i palestinesi se la siano presa comoda per reclutare la società British Gas (BG) – una delle principali attori globali nella ricerca di gas naturale – perché scoprisse cosa ci fosse davvero lì. Solo nel 2000 le due parti siglarono un modesto contratto per sfruttare quei giacimenti, che a quel punto erano stati effettivamente trovati.

BG promise di finanziare e gestire il loro sfruttamento, sostenere tutti i costi e di far funzionare i relativi impianti in cambio del 90% dei profitti, un accordo “di condivisione dei proventi”, esoso ma usuale. Avendo un’industria del gas naturale già in funzione, l’Egitto accettò di diventare il punto di smistamento e di transito del gas sulla terraferma. I palestinesi avrebbero ricevuto il 10% dei profitti (stimati in circa un miliardo di dollari in totale) e avrebbero avuto l’accesso garantito al gas sufficiente a coprire le loro necessità.

Se questo processo fosse stato un poco più rapido, il contratto sarebbe stato messo in pratica come descritto. Tuttavia nel 2000, con un’economia in rapida espansione, con carenza di combustibili fossili e in pessime relazioni con i suoi vicini ricchi di petrolio, Israele si trovò a dover affrontare la mancanza cronica di energia. Invece di cercare di rispondere a questo problema con un aggressivo ma fattibile sforzo di sviluppare fonti di energie rinnovabili, il primo ministro Ehud Barak diede inizio all’era dei conflitti per i combustibili fossili del Mediterraneo orientale. Egli portò al controllo navale di Israele sulle acque territoriali di Gaza per opporsi e bloccare l’accordo con BG. Chiese invece che Israele, e non l’Egitto, ricevesse il gas di Gaza e che controllasse tutti i proventi destinati ai palestinesi – per evitare che i soldi fossero usati per “finanziare il terrorismo.”

Con questo, gli accordi di Oslo erano ufficialmente destinati al fallimento. Dichiarando inaccettabile il controllo sui profitti del gas da parte di palestinesi, il governo israeliano si impegnò a non consentire la benché minima forma di autonomia finanziaria dei palestinesi, per non parlare della piena sovranità. Poiché nessun governo o organizzazione palestinese lo avrebbe potuto accettare, un futuro pieno di conflitti armati era assicurato.

Il veto israeliano portò all’intervento del primo ministro inglese Tony Blair, che cercò di fare da mediatore per un accordo che soddisfacesse sia il governo israeliano che l’Autorità Nazionale Palestinese. Risultato: una proposta del 2007 che avrebbe portato il gas in Israele, e non in Egitto, a prezzi inferiori a quelli di mercato, con un taglio dello stesso 10% dei proventi eventualmente destinato all’ANP. Comunque questi fondi sarebbero stati prima versati alla banca della Federal Reserve a New York per una futura devoluzione, garantendo che non sarebbero stati utilizzati per attacchi contro Israele.

Questo accordo non aveva ancora soddisfatto gli israeliani, che denunciarono la recente vittoria di Hamas, un partito di miliziani, nelle elezioni a Gaza come una rottura dei patti. Benché Hamas avesse accettato la supervisione della Federal reserve sull’uso di quei soldi, il governo israeliano, ora guidato da Ehud Olmert, insistette affinché “nessun diritto di estrazione venisse pagato ai palestinesi.” Invece gli israeliani avrebbero fornito l’equivalente di quei proventi “in beni e servizi.”

Ciò venne rifiutato dal governo palestinese. Poco dopo Olmert impose un blocco totale a Gaza, che il ministro della Difesa israeliano definì una forma di “guerra economica che potrebbe determinare una crisi politica, portando a un’insurrezione popolare contro Hamas.” Con la collaborazione dell’Egitto, a quel punto Israele prese il controllo di tutti i traffici commerciali dentro e fuori Gaza, limitando gravemente persino l’importazione di alimenti e distruggendo la sua industria della pesca. Come ha sintetizzato il consigliere di Olmert Dov Weisglass, il governo israeliano stava “mettendo a dieta” i palestinesi (cosa che, secondo la Croce Rossa, provocò rapidamente “malnutrizione cronica”, soprattutto tra i bambini di Gaza).

Quando i palestinesi rifiutarono di nuovo le condizioni di Israele, il governo Olmert decise di estrarre il gas in modo unilaterale, una cosa che, credevano, sarebbe stata possibile solo una volta che Hamas fosse stato rimosso dal potere o disarmato. Come ha spiegato l’ex comandante in capo dell’esercito israeliano e attuale ministro degli Esteri Moshe Ya’alon, “Hamas… ha dimostrato la sua capacità di bombardare le installazioni strategiche di gas ed elettricità di Israele…E’ chiaro che, senza un’operazione militare complessiva per estirpare il controllo di Hamas su Gaza, nessuna attività di perforazione può essere effettuata senza il consenso del partito radicale islamista.”

In base a questa logica, nell’inverno del 2008 venne lanciata l’operazione “Piombo fuso”. Secondo il deputato del ministero della Difesa Matan Vilnai, si intendeva sottoporre Gaza a una “shoah” (la parola ebraica per olocausto o disastro). Yoav Galant, il comandante in capo dell’operazione, affermò che era destinata a “far tornare indietro Gaza di decenni.” Come ha spiegato il parlamentare israeliano Tzachi Hanegbi, lo specifico obiettivo militare era “rovesciare il regime terroristico di Hamas e occupare tutte le zone da cui vengono sparati razzi contro Israele.”

L’operazione “Piombo fuso” ha effettivamente “fatto tornare indietro Gaza di decenni.” Amnesty International ha riferito che durante i 22 giorni dell’offensiva 1.400 palestinesi sono stati uccisi “compresi circa 300 bambini e centinaia di altri civili disarmati, e vaste aree di Gaza sono state rase al suolo, lasciando molte migliaia di senzatetto e la già disastrosa economia [di Gaza] in rovina.” L’unico problema è stato che l’operazione “Piombo fuso” non ha raggiunto il suo obiettivo di “trasferire la sovranità sui giacimenti di gas a Israele.”

 

Più fonti di gas uguale più fonti di guerra

Nel 2009 il neoeletto governo del primo ministro Benjamin Netanyahu ha ereditato la situazione di stallo riguardo ai depositi di gas di Gaza e una crisi energetica israeliana che è diventata ancora più seria quando la Primavera Araba in Egitto ha interrotto e poi cancellato del tutto il 40% delle forniture di gas al Paese. L’aumento del prezzo dell’energia ha presto contribuito a determinare le più vaste proteste da parte di ebrei israeliani da decenni.

Quando ciò è accaduto, tuttavia, il regime di Netanyahu aveva ereditato anche una soluzione potenzialmente permanente del problema. Un immenso campo di gas naturale estraibile è stato scoperto nel Bacino Levantino, una grande formazione sottomarina nella parte orientale del Mediterraneo. Fonti ufficiali israeliane hanno immediatamente affermato che la “maggior parte” delle nuove riserve di gas scoperte si trovano “all’interno del territorio israeliano”. Così facendo hanno ignorato le asserzioni contrarie da parte di Libano, Siria, Cipro e dei palestinesi.

In altre parole, questo immenso giacimento di gas avrebbe potuto essere effettivamente sfruttato insieme dai cinque contendenti e un piano di produzione avrebbe potuto essere messo in atto per migliorare l’impatto ambientale del rilascio nel futuro di oltre 3 miliardi di metri cubi di gas nell’atmosfera del pianeta. Tuttavia, come ha osservato Pierre Terzian, direttore del giornale industriale Petrostrategie, “tutti i fattori di rischio sono presenti…Questa è una regione in cui è frequente fare ricorso ad azioni violente.”

Nei tre anni che hanno fatto seguito alla scoperta, l’avvertimento di Terzian è sembrato ancora più preveggente. Il Libano è diventato il primo punto caldo. All’inizio del 2011 il governo israeliano ha annunciato lo sfruttamento unilaterale di due campi, circa il 10% del Bacino Levantino di gas, che si trova nelle acque territoriali contese vicino al confine tra Israele e Libano. Il ministro dell’Energia libanese Gebran Bassil ha immediatamente minacciato uno scontro militare, affermando che il suo Paese non avrebbe “permesso a Israele o a qualunque compagnia che lavori per gli interessi israeliani di prendere una qualunque quantità del nostro gas che si trova nella nostra zona.” Hezbollah, la più agguerrita fazione politica in Libano, ha promesso attacchi con i razzi se “un solo metro” di gas naturale fosse stato estratto dai campi contesi.

Il ministro israeliano delle Risorse ha accettato la sfida, sostenendo che “queste aree sono all’interno delle acque commerciali di Israele…Non esiteremo ad usare la nostra forza e la nostra potenza per proteggere non solo il principio di legalità, ma anche il diritto marittimo internazionale.”

Terzian, giornalista esperto nel settore petrolifero, ha proposto questa analisi della realtà dello scontro:

In concreto….nessuno è disposto ad investire con il Libano in acque contese. Non ci sono compagnie petrolifere libanesi in grado di fare le trivellazioni e non c’è una forza militare in grado di proteggerle. Ma dall’altra parte le cose sono diverse. Ci sono compagnie israeliane in grado di operare in mare, e potrebbero assumersi il rischio sotto la protezione dell’esercito israeliano.”

Sufficientemente sicuro, Israele ha continuato ad esplorare i fondali e a trivellare nei due campi contesi, schierando droni per controllare gli impianti. Nel frattempo il governo Netanyahu ha investito ingenti risorse per prepararsi ad un possibile conflitto futuro nella zona. Ad esempio, con un generoso finanziamento americano, ha sviluppato il sistema di difesa antimissilistico “Iron Dome”, destinato anche ad intercettare i razzi di Hezbollah ed Hamas diretti contro gli impianti energetici israeliani. Infine, a partire dal 2011 ha lanciato attacchi aerei in Siria con lo scopo, secondo fonti ufficiali USA, “di prevenire ogni spostamento di sistemi antiaerei avanzati, missili terra-terra e terra-mare “ ad Hezbollah.

Tuttavia Hezbollah ha continuato ad accumulare razzi in grado di demolire gli impianti israeliani, e nel 2013 il Libano ha fatto un passo autonomo. Ha iniziato a negoziare con la Russia. L’obiettivo era di avere a disposizione le compagnie del gas di quel Paese per sostenere le rivendicazioni libanesi sulle acque territoriali, mentre la potente marina militare russa avrebbe potuto dare una mano nella “disputa territoriale di lunga durata con Israele.”

Dall’inizio del 2015 è sembrato che si sia stabilita una situazione di deterrenza mutua. Benché Israele sia riuscito a far funzionare il più piccolo dei due campi che ha iniziato a sfruttare, la perforazione nel più grande è bloccata a tempo indefinito “alla luce della situazione della sicurezza”. I contrattisti americani di Noble Energy, incaricati da Israele, non hanno intenzione di investire i 6 miliardi di dollari necessari in infrastrutture che potrebbero essere sottoposte ad attacchi da parte di Hezbollah e potenzialmente nel mirino della flotta russa. Da parte libanese, nonostante la crescente presenza navale russa nella regione, nessuna attività è iniziata.

Nel frattempo in Siria, dove la violenza si è estesa ed il Paese si trova uno stato di collasso armato, si è concretizzata un’altra situazione di stallo. Il regime di Bashar al Assad, di fronte alla feroce minaccia da parte di vari gruppi jihadisti, è sopravvissuto in parte grazie al massiccio aiuto militare della Russia, concordato in cambio di un contratto di 25 anni per lo sfruttamento del giacimento di gas Levantino rivendicato dalla Siria. Nell’accordo è compresa una notevole espansione della base militare russa nella città portuale di Tartus, che garantirebbe una presenza navale russa molto maggiore nel Bacino Levantino.

Mentre la presenza russa ha apparentemente dissuaso gli israeliani dal tentativo di sfruttare qualunque giacimento di gas reclamato dalla Siria, non c’è una presenza russa nella Siria vera e propria. Così Israele ha contrattato la Genie Energy Corporation statunitense perché individuasse e sfruttasse giacimenti di petrolio nelle Alture del Golan, territorio siriano occupato dagli israeliani dal 1967. Per far fronte alla possibile violazione delle leggi internazionali, il governo Netanyahu ha invocato, come giustificazione dei suoi atti, una sentenza della corte israeliana in base alla quale lo sfruttamento di risorse naturali nei territori occupati è legale. Allo stesso tempo, per prepararsi all’inevitabile conflitto con qualunque fazione o insieme di fazioni esca vittoriosa dalla guerra civile siriana, ha iniziato a incrementare la presenza militare israeliana sulle Alture del Golan.

E poi c’è Cipro, l’unico Paese che rivendica diritti sul Levantino che non sia in guerra con Israele. I greco-ciprioti sono stati per molto tempo in conflitto permanente con i turco-ciprioti, per cui non è sorprendente che la scoperta del gas naturale Levantino abbia scatenato sull’isola tre anni di negoziati su cosa fare, arrivati ad un punto morto. Nel 2014 i greco-ciprioti hanno firmato un contratto di sfruttamento con Noble Energy, il principale contrattista di Israele. I turco-ciprioti hanno fatto un’altra mossa, firmando un contratto con la Turchia per lo sfruttamento di tutti i campi reclamati dai ciprioti “fino alle acque territoriali egiziane.” Imitando Israele e la Russia, il governo turco ha subito spostato tre navi da guerra nella zona per bloccare fisicamente qualunque intervento da parte di altri pretendenti.

Di conseguenza, quattro anni di manovre riguardo ai nuovi giacimenti scoperti nel Bacino Levantino hanno prodotto poca energia, ma hanno coinvolto nuovi e potenti pretendenti nella mischia, lanciando una significativa escalation militare nella regione e hanno incrementato in modo incommensurabile le tensioni.

 

Gaza, ancora e ancora

Ricordate il sistema “Iron Dome”, sviluppato anche per bloccare i razzi di Hezbollah diretti contro i campi di gas di Israele al nord? Nel corso del tempo è stato installato sul confine con Gaza per bloccare i razzi di Hamas ed è stato testato durante l’operazione “Eco di ritorno”, il quarto tentativo militare israeliano di riportare all’ordine Hamas ed eliminare qualunque “capacità palestinese di bombardare le installazioni strategiche di gas ed elettricità di Israele.”

L’operazione, lanciata nel marzo 2012, ha replicato su scala ridotta le devastazioni dell’operazione “Piombo fuso”, mentre “Iron Dome” ha raggiunto la percentuale del 90% di razzi di Hamas eliminati. Neppure questo, tuttavia, pur essendosi dimostrato un’utile appendice all’esteso sistema di sicurezza per i civili israeliani, è stato sufficiente a garantire la protezione degli impianti estrattivi del Paese esposti agli attacchi. Anche un solo colpo diretto lì potrebbe danneggiare o demolire strutture così fragili e infiammabili.

Il fallimento dell’operazione “Eco di ritorno” per mettere tutto posto ha dato il via a un’altra serie di negoziati, che ancora una volta si sono arenati sul rifiuto palestinese della richiesta israeliana di controllare tutto il combustibile e gli introiti destinati a Gaza e alla Cisgiordania. Allora il nuovo governo di unità palestinese ha seguito l’esempio di libanesi, siriani e turco-ciprioti e alla fine del 2013 ha firmato una “concessione di sfruttamento” con Gazprom, l’enorme compagnia russa di gas naturale. Come con il Libano e la Siria, la flotta russa si è profilata sull’orizzonte come un potenziale deterrente contro l’intromissione di Israele.

Nel frattempo, nel 2013, una nuova serie di blackout energetici ha provocato “caos” in Israele, scatenando un drastico aumento del 47% nel prezzo dell’elettricità. In risposta il governo di Netanyahu ha preso in considerazione la proposta di iniziare l’estrazione sul proprio territorio di petrolio dallo scisto argilloso [shale oil], ma il rischio di inquinamento delle falde acquifere ha provocato un movimento di rifiuto violento che ha frustrato questo tentativo. In un Paese pieno di nuove imprese nel campo delle tecnologie avanzate lo sfruttamento di fonti di energia rinnovabile non ha ancora avuto una seria attenzione. Al contrario, ancora una volta il governo si è rivolto contro Gaza.

Avendo sullo sfondo la mossa di Gazprom di sfruttare i depositi di gas rivendicati dai palestinesi, gli israeliani hanno lanciato il loro quinto tentativo militare per obbligare i palestinesi a cedere, l’operazione “Margine protettivo”, con due obiettivi principali legati agli idrocarburi: scoraggiare i piani russo-palestinesi ed eliminare il sistema missilistico di Gaza. Il primo obiettivo è stato apparentemente raggiunto quando Gazprom ha rinviato (forse per sempre) il suo accordo di sfruttamento. Il secondo, tuttavia, è fallito quando i due attacchi sia da terra che dal cielo – nonostante le devastazioni senza precedenti a Gaza – non sono riusciti a distruggere le riserve di razzi di Hamas o il suo sistema sotterraneo di assemblaggio; né ”Iron Dome” è riuscito a raggiungere la percentuale di intercettazioni quasi totale necessaria a proteggere le strutture energetiche previste.

 

Senza fine

Dopo 25 anni e cinque tentativi militari israeliani falliti, il gas naturale di Gaza è ancora sotto la superficie del mare e, dopo quattro anni, lo stesso si può dire di quasi tutto il gas del Levantino. Ma le cose non sono rimaste le stesse. In termini energetici, Israele è sempre più disperato, proprio mentre ha ingrandito il proprio esercito, compresa la Marina, in modo significativo. Gli altri pretendenti hanno, a turno, trovato partner più grandi e potenti che li possono aiutare a rafforzare le proprie richieste economiche e militari. Indubbiamente tutto ciò significa che il primo quarto di secolo di crisi del gas naturale nel Mediterraneo orientale non è stato altro che un preludio. Ci troviamo davanti alla possibilità di più estese guerre per il gas, con tutte le devastazioni che probabilmente porteranno.

-Michael Schwartz, un eminente docente emerito di sociologia alla Stony Brook University, è l’autore di libri pluripremiati come “Protesta radicale e struttura sociale” e “ La struttura del potere nel mondo degli affari americano” (con Beth Mintz). Il suo libro sul sito TomDispatch [sito alternativo nordamericano], “Guerra senza fine”, è centrato su come la geopolitica militarizzata del petrolio ha portato gli USA a invadere e occupare l’Iraq.

Il suo indirizzo mail è Michael.Schwartz@stonybrook.edu.

(traduzione di Amedeo Rossi)