Casa dolce casa: il mio amaro ritorno in Palestina

Fida Jiryis

27 settembre 2022 – The Guardian

Per tutta la mia vita i miei genitori esuli mi avevano parlato della tragedia della Palestina. Poi, quando avevo circa 20 anni, la mia famiglia ci è ritornata e l’ho vista con i miei occhi

Misi piede nel mio paese per la prima volta a 22 anni. I miei genitori erano palestinesi, ma, nel 1970, andarono in esilio. Dopo esser fuggiti dalla guerra in Libano vivemmo a Cipro.

Ora una nuova era di riconciliazione era arrivata. Circa un anno dopo la firma degli accordi di Oslo nel 1993 fra Israele e l’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) ci fu finalmente permesso di ritornare. Fu emozionante ritornare dopo tanti anni alla nostra casa avita. La nostra grande famiglia in Galilea fu felicissima, specialmente i miei nonni, e fummo sommersi da un’ondata di amore. Ero elettrizzata perché finalmente stavo ritornando. Volevo una patria. Non volevo più sentirmi come una straniera. Era il sogno che si avverava. Gli anni senza una patria erano alle nostre spalle. Ma tornare a casa per tutti noi fu molto più arduo di quanto avessi immaginato.

Per mio padre fu difficile trovare il proprio posto in Israele che era cambiato così drasticamente negli anni in cui era stato via. Era cresciuto in un villaggio rurale in Galilea, ma era andato in esilio per il suo impegno politico e la sua collaborazione in un movimento di resistenza palestinese. Aveva anche pubblicato un libro, Gli arabi in Israele, descrivendo il duro destino dei palestinesi che erano rimasti dopo l’occupazione. A Beirut e poi a Cipro aveva lavorato per l’OLP per diventare uno stretto collaboratore del suo leader, Yasser Arafat. Al nostro ritorno Arafat insistette perché accettasse una carica nell’Autorità Palestinese di nuova fondazione.

Ma mio padre non voleva un incarico burocratico perché sentiva che lo avrebbe condizionato dopo anni di ricerca e produzione saggistica indipendente. Rimase un consulente di Arafat, incontrandosi con lui nel suo ufficio, in hotel o con amici. Il quartier generale dell’OLP era stato spostato dalla Tunisia in Cisgiordania. I palestinesi in Israele erano in gran parte liberi dalla persecuzione che mio padre aveva subito prima di partire quando era stato ripetutamente vessato e arrestato, le case della famiglia saccheggiate e distrutte. Ora però avevano a che fare con un sistema più generalizzato di discriminazione.

Poche settimane dopo il nostro arrivo al villaggio di nostro padre lui portò me e il mio fratello minore a fare un giretto in macchina. Non andammo lontano: dopo poco più di un chilometro entrammo in un paesino. “Questo è Deir el-Qasi,” disse. Sul cartello c’era scritto: “Elqosh”. Nel 1948, dopo la distruzione della Palestina, che noi chiamiamo Nakba o catastrofe, Deir aveva subito la pulizia etnica e il cambio di nome.

Attraversammo stradine tranquille fiancheggiate da case e alberi flessuosi. C’erano dei pollai. Papà fermò la macchina e uscimmo. “Vedete questa?” indicò un’antica struttura in pietra. “Questa è una delle case originarie del villaggio.”

Fissandola fui colpita dalla realtà. Per tutta la mia vita avevo letto e sentito della tragedia della Palestina. Adesso la vedevo.

Non buttarono giù tutte le case,” stava dicendo papà. “Alcune furono risparmiate perché i nuovi arrivati venivano dallo Yemen e a loro piacevano le case arabe. Ce n’è un’altra … ”

La gente di Elqosh allevava le galline, pascolava le mucche e coltivava verdura e frutta. Venivano al nostro villaggio, Fassouta, per piccoli commerci e per andare dal dottore o dal dentista. Dopo essermi stabilita nel villaggio, passavo da quel posto ogni giorno. A loro volta le case di Deir el-Qasi che mio padre ci aveva mostrato mi fissavano. Cosa era peggio, mi chiedevo, avere la propria casa distrutta o che fosse rimasta intatta, ma abitata da altri?

Dall’arrivo dei bulldozer israeliani del villaggio di Suhmata erano rimasti pochi ulivi e alcune pietre sporgenti. La maggior parte dei suoi abitanti era in Libano, ma qualcuno era riuscito a restare e viveva nei paesi vicini. Ho incontrato parecchie famiglie a Fassouta. Di nuovo mi chiesi cosa fosse più penoso: essere stati totalmente tolti di mezzo e lontano o dover attraversare il posto del loro villaggio e vederne le rovine?

In realtà io e la mia famiglia fummo fortunati, una rara “eccezione”. Sebbene gli accordi di pace permetessero il ritorno nel territorio palestinese di parecchie migliaia di appartenenti all’OLP, solo a un numero molto ristretto fu permesso di ritornare alle proprie cittadine o ai villaggi di origine in Israele, e solo se avevano la cittadinanza israeliana prima di andarsene. Mentre riprendeva la tensione tra OLP e Israele solo circa dieci [rifugiati] erano riusciti a ritornare e alcuni portarono con sé le proprie famiglie. Noi non avevamo punti di riferimento, nessuno con cui parlare che avesse vissuto la nostra stessa esperienza.

I palestinesi erano al fondo della scala sociale. La vecchia generazione ricordava gli anni di regime militare [lo stato d’assedio imposto fino al 1966 ai palestinesi rimasti in Israele, ndt.] e oppressione. Erano vissuti sotto una pesante cappa di intimidazioni. Per decenni loro stessi non si erano neppure chiamati palestinesi. Anzi per definirci avevamo un fantastico ossimoro: “arabi israeliani”. Quando menzionavo la Palestina, la gente di Fassouta reagiva con un silenzio sconcertato o con profondo disagio. Anche quando parlavamo della nostra posizione di inferiorità in Israele, loro la vedevano solo dalla prospettiva del lavoro e dei loro problemi più pressanti. Per sopravvivere avevano dovuto far parte del sistema israeliano. Per le generazioni più giovani, nate dopo la creazione di Israele, questo sistema era tutto quello che conoscevano.

Nel villaggio c’era poco lavoro. Fu chiaro che dovevo lasciare la mia famiglia per trovarne uno. Il fratello più giovane di mio padre, George, lavorava per le Pagine Gialle e viveva ad Haifa. Mi trovò un posto da uno dei suoi clienti, una ditta che vendeva software didattici. Lo stipendio era basso, ma dovevo pur cominciare da qualche parte. Haifa era a un’ora e mezza di macchina, ma non potevo permettermene una. Dovevo trasferirmi e trovai una stanza in un appartamento con delle studentesse universitarie di Fassouta che frequentavano il primo anno di studi.

La casa era vecchia e squallida, ma era tutto quello che potevamo permetterci. Dividevo la stanza con una delle ragazze e le altre due occupavano l’altra. Era difficile avere un po’ di privacy ed io ero l’intrusa perché erano tutte cugine e sembravano incerte su come rapportarsi con me. La nostra prima sera là le ho aiutate a pulire l’appartamento e poi abbiamo cenato. Non riuscii a dormire fino a tardi, mi giravo e rigiravo nel letto e non ero sicura che anche la mia compagna di stanza dormisse. Ma mi imbarazzava cercare di parlarle.

Il mattino dopo riuscimmo appena a mangiare qualche fetta di pane tostato prima di uscire. Avevamo i nervi a fior di pelle: per loro era il primo giorno di università e per me di lavoro. Non avevo idea di dove andare, ma loro lessero i cartelli del bus e mi aiutarono. La loro fermata era prima della mia, loro scesero e si girarono sorridendomi e facendomi ciao con la mano. Risposi con un cenno, combattendo il senso di panico.

Guardai davanti e vidi salire sull’autobus due soldati. Strabuzzai gli occhi. Portavano delle armi. Camminarono lungo il corridoio e si sedettero nei due posti vuoti davanti a me. Fissai i fucili che portavano a tracolla sulle spalle. Era la prima volta che vedevo il freddo metallo così da vicino. Deglutivo con fatica. Nessuno girava armato a Cipro. Perché c’erano armi per le strade? Era normale? E se fosse partito un colpo?

Volevo cambiare posto. Guardandomi intorno vidi che tutti i sedili erano occupati. Ce n’era uno proprio al fondo, ma là c’erano ancora più soldati. Tutti chiacchieravano normalmente mentre l’autobus continuava per la sua strada. Io ero l’unica a sudar freddo.

Sembrava anche che io fossi l’unica palestinese. Mi dissi di restare calma. Ero probabilmente non troppo lontana dalla mia fermata. Per quanto cercassi, non riuscivo a scacciare il terrificante pensiero che impazzava nella mia mente: “Sono su un autobus con dei soldati israeliani!”

Dopo dieci minuti riconobbi la zona, suonai velocemente la richiesta di fermata e mi precipitai fuori. In strada respirai profondamente e mi diressi verso il mio ufficio. Ero frastornata, avevo una sensazione surreale, quasi come se fossi in un incubo.

Il primo giorno di lavoro fu complicato. Ero sola, un piccolo sottotetto senza finestre con il soffitto basso e mi avevano incaricata di testare i software. Fu un gran sollievo quando arrivarono le 5, ora di andarmene, ma di nuovo la paura mi attanagliò lo stomaco.

Sull’autobus per casa guardavo fuori dai finestrini mentre avanzavamo lentamente attraverso il traffico dell’ora di punta. Le insegne e i cartelli stradali erano tutti in ebraico. C’erano solo alcuni ristoranti con insegne in arabo. Le conversazioni intorno a me erano in ebraico. Altri soldati salirono, sgomitando per farsi posto nell’autobus affollato. Fu in quel momento che una sensazione di gelo attanagliò il mio cuore. Non ero neIla Palestina dei miei sogni.

Il 14 maggio sperimentai il mio primo anniversario dell’Indipendenza d’Israele. Gli israeliani sventolavano bandiere, facevano feste e barbecue su quella che era la terra palestinese. Il Paese rimase tappezzato di bandiere per settimane, prima e dopo, anche più del solito. C’era veramente bisogno di una bandiera nella piscina di Nahariya, nello sporco caffeuccio vicino alla stazione degli autobus, al terminal degli autobus e ancora, ogni poche centinaia di metri, sul lungomare?

Quel giorno ero così depressa che decisi semplicemente di restare a casa.

Al villaggio la situazione era ancora più deprimente. Oltre la metà dei palestinesi in Israele viveva sotto la soglia di povertà. La maggior parte del budget dello Stato per le infrastrutture e lo sviluppo economico andava alle comunità ebraiche. Noi non avevamo iniziative imprenditoriali, nessuna industria o fabbrica. Molte delle nostre amministrazioni locali erano insolventi e la maggior parte doveva raccogliere fondi per conto proprio per installare infrastrutture essenziali come reti idrauliche e fognarie.

La maggior parte delle famiglie del mio villaggio guadagnava circa la metà di una famiglia ebrea media. Le nostre comunità avevano un’aspettativa di vita più bassa e un numero maggiore di persone soffriva di malattie collegate allo stress, come diabete e ipertensione. E per aggiungere al danno la beffa, il termine ebraico avoda aravit, o “lavoro arabo”, si usava comunemente per definire un lavoro di qualità scadente o fatto alla carlona, nonostante la triste ironia che quasi tutto Israele fosse stato costruito da mani palestinesi.

Non era più facile per chi aveva un’istruzione, il villaggio era pieno di laureati frustrati in attesa di colloqui di lavoro che non arrivavano mai. Uno dei miei cugini si era laureato al Technion, l’Istituto israeliano di tecnologia. Scoprii che c’erano parecchie materie che i palestinesi non potevano studiare con il pretesto della “sicurezza”, come, per esempio, certi campi della fisica, della scienza nucleare e dell’addestramento piloti. Sul lavoro erano completamente esclusi, fra le altre, dalle industrie della difesa e dell’aviazione. Per evitare di non trovare lavoro molti studenti si rivolgevano alle libere professioni, come legge, architettura del paesaggio, odontoiatria e altre professioni mediche in cui potevano aprire i propri studi.

Un weekend andai a Ramallah a trovare Raja e Sawsan, vecchie amiche dell’università. Eravamo strafelici di rincontrarci. “L’unica cosa buona di Oslo,” risero, “è che siamo riuscite a rivederti.”

Le mie amiche erano bloccate in Cisgiordania. Prima degli accordi potevano viaggiare liberamente nel Paese. “Semplicemente ci mettevamo in macchina e partivamo,” mi dissero. “Per Haifa, Gerusalemme, per le spiagge di Giaffa.” Ora c’erano checkpoint israeliani a tutti i varchi per Israele e i palestinesi avevano bisogno di permessi per attraversarli. Inoltre non si poteva usare l’aeroporto di Tel Aviv, a soli trenta minuti. Per viaggiare all’estero si doveva andare in Giordania e partire da Amman, perdendo altro tempo e soldi.

La sovranità palestinese stabilita dagli accordi era una mera facciata. I documenti di identità e i passaporti rilasciati dall’autorità avevano bisogno dell’approvazione israeliana, come se rilasciati dalle forze di occupazione israeliane. Tutti i valichi di frontiera erano controllati da Israele. Peggio, la nuova forza di polizia palestinese era diventata uno strumento per il coordinamento con Israele per la sicurezza, inseguendo e consegnando chi era impegnato nella resistenza. Nessuno avrebbe potuto immaginare uno scenario simile.

Gli oppositori alle nuove disposizioni finivano esclusi dagli impieghi e dai privilegi di far parte dell’Autorità [palestinese] o imprigionati. “Stiamo vivendo in un incubo peggiore di prima,” mi diceva Raja. Gli accordi avevano asservito economicamente, politicamente e in ogni aspetto della vita i palestinesi a Israele. Quando furono firmati gli accordi di Oslo si presupponeva che l’attività di colonizzazione da parte di Israele nel territorio palestinese sarebbero cessate immediatamente e che, tre anni dopo, sarebbero iniziati i negoziati su temi significativi, tra cui rifugiati, colonie e confini, mirando a un totale ritiro di Israele entro cinque anni. Ma Israele aveva già buttato i suoi impegni alle ortiche.

Benjamin Netanyahu, neo eletto primo ministro con il partito di destra Likud, si oppose allo Stato palestinese e al ritiro di Israele dai territori occupati. Il suo governo continuò a occupare terre per espandere illegalmente le colonie ebraiche e costruire strade di collegamento riservate solo agli israeliani. Invece di fermarsi, le attività coloniali israeliane si moltiplicarono.

Gli accordi di Oslo furono presto visti dai palestinesi come forieri né di pace né di libertà e le tensioni sobbollivano tra l’Autorità Palestinese, che era dominata da una fazione politica, Fatah, e dalla sua rivale, Hamas. Israele faceva pressioni su Arafat per tenere a freno il terrorismo, come loro definivano ogni atto di resistenza, ed egli, sebbene con riluttanza, spesso obbediva. Nella nuova situazione le mie amiche erano arrabbiate e insicure. Sapevano come fosse diversa la vita in Israele. I decenni di occupazione avevano danneggiato la loro società, impossibilitata a raggiungere gli stessi livelli di vita.

Mentre i palestinesi ritornavano e cercavano di ricostruire le proprie vite in Cisgiordania e a Gaza, io avevo lo stesso arduo compito di provare a trovare il mio posto in Israele. Fino a quel momento non avevo quasi avuto rapporti con israeliani.

Non parlavo ebraico. Mi dividevo tra il mio villaggio e un appartamento con delle ragazze palestinesi ad Haifa e lavoravo in una ditta palestinese. Quando scendevo a pranzo tutti i negozi di falafel e shawarma erano di palestinesi. Quando salivo sull’autobus o compravo qualcosa al supermarket, e c’erano un autista o una cassiera israeliani, pescavo dei soldi e Ii porgevo senza capire l’ammontare che mi avevano chiesto, guardavo il registratore di cassa per vederlo. Loro mi davano il resto e tutto finiva lì. Vedevo israeliani ovunque, ma avevo un’esistenza completamente separata e parallela rispetto a loro, ero colpita da una sensazione penosa, che da allora non mi ha più abbandonata: ero una straniera nel mio Paese.

Per fortuna, mia cugina Rania abitava ad Haifa, andava all’università e lavorava part-time. Mi chiamava spesso per incontrarci. Qualche volta andavamo fuori, passeggiavamo nel quartiere Hadar [quartiere commerciale della città, ndt.] e compravamo gli abiti o i cosmetici economici che potevamo permetterci con i nostri pochi soldi. La città mi opprimeva. Dopo la Nakba, solo 3.000 dei 70.000 palestinesi erano rimasti ad Haifa. Furono ricacciati in alcuni quartieri dove vivevano in condizioni difficili.

Il governo israeliano decise di cambiare completamente il carattere della città, distruggendo molte delle proprietà palestinesi, impossessandosi di altre per darle agli ebrei, sostituendo i nomi arabi delle strade con quelli ebraici e cancellando il patrimonio culturale palestinese che era stato cosi ricco e vibrante prima della rovina di Haifa. Ovunque andassimo le case sopravvissute mi osservavano come fantasmi di un’altra era.

Il mio unico sollievo era quando andavamo nei centri commerciali, che erano scollegati dalla realtà esterna. Ma anche là tutto era in ebraico. Non c’era nessun cartello in arabo, anche se era la seconda lingua ufficiale dello Stato e molti dei clienti erano palestinesi. I cartelli stradali in arabo nel Paese erano pieni di marchiani errori di ortografia e i nomi ebraici delle città erano trascritti in arabo invece di usare i nomi arabi originali.

All’ingresso di ogni centro commerciale, ufficio governativo o edificio pubblico guardie e metal detector erano la norma. Se si dimenticava una borsa su un autobus o in una stazione ferroviaria o se qualcuno abbandonava il proprio bagaglio per un minuto e si allontanava per andare a prendere qualcosa, diventava un’emergenza. La gente si guardava intorno in preda al panico e, se non si trovava il proprietario, le cose potevano rapidamente precipitare. Alla stazione centrale assistei proprio a una scena simile: suonarono le sirene di allarme, la zona fu evacuata e una squadra di artificeri fu chiamata a disinnescare un oggetto sospetto che si rivelò una borsa con dei vestiti. La sensazione di costante allarme era palpabile, eppure considerata normale.

Dopo aver cambiato 3 lavori in meno di due anni, avevo bisogno di un vero cambiamento. Per tre mesi mi chiusi in casa a studiare ebraico, con un atteggiamento impersonale e ignorando i miei sentimenti. Alla fine di quel periodo sapevo parlare, leggere e scrivere in un ebraico elementare. Cominciai a far domande in ditte di software. Passarono settimane senza una risposta. Poi arrivò una chiama da una grande impresa ad Haifa. La signora mi parlò in ebraico e io ero molto nervosa, ma riuscii a organizzare l’appuntamento per il mio colloquio.

Quel giorno quando trovai il palazzo, passata la sicurezza, mi irrigidii. Fino ad allora non avevo quasi avuto interazioni con israeliani. Quando un cordiale giovanotto mi venne incontro alla porta e mi strinse la mano cominciai a sudare leggermente.

C’erano altre due persone nella stanza. Mi fecero molte domande e per fortuna risposi ad alcune in inglese. Sfogliando il mio CV, mi chiesero, in ulteriori dettagli, del mio lavoro a Cipro. Ero felice e lo presi come un segno di interesse.

Bene, grazie,” il gentile giovane finalmente mi sorrise. “Oh, e un’ultima cosa. Possiamo avere il suo numero dell’esercito?”

Mi sentii sprofondare. “Ehm, non ce l’ho …”

OK,” il sorriso rimase, fisso. “Grazie. Ci metteremo in contatto con lei.”

Terminate le scuole, ogni giovane israeliano/a deve finire il servizio militare. Poi si aprono le porte di prestiti per studiare, lavori e mutui generosi. I palestinesi in Israele sono esonerati e pochi si arruolano. Ma completarlo è un requisito indispensabile per molti lavori e sussidi sociali.

Uscii sconfitta. Avevo fatto ricerche sulla compagnia, mi ero preparata per il colloquio e avevo comprato un vestito nuovo. Mi ero entusiasmata per l’opportunità. Ma nessuno mi chiamò, e neanche altre tre aziende che mi avevano offerto un colloquio. Lottando contro il panico, cominciai a chiedermi cosa fare. Che farmene della laurea che avevo ottenuto con lode in scienze informatiche, i soldi spesi da mio padre per una delle migliori università britanniche? Perché qui era così difficile?

Finalmente riuscii a trovare un buon lavoro come tester in un’azienda di software. Gli uffici erano in un parco tecnologico a Tefen, una zona industriale a circa 20 minuti dal mio villaggio in Galilea. Era perfetto. Finalmente l’insicurezza e lo stress degli ultimi due anni erano alle mie spalle. Mi ci vollero pochi giorni per rendermi contro che, su un personale di 30 persone, io ero l’unica palestinese.

C’era un muro tra me e i miei colleghi che avevano le loro case, i loro lavori, le loro vite: pochi si soffermavano a pensare da dove fosse venuta la terra dove vivevano o lavoravano. Fu questa sensazione frastornante di essere in un enorme cimitero dove tutti gli altri ignoravano le lapidi, che cominciò a divorarmi e che avrebbe finito per spezzare il mio infelice tentativo di integrarmi.

Diventai amica di Lisa, funzionaria alle risorse umane. Era un’amicizia curiosa. Lei era sui 50, io avevo 24 anni, ero più giovane di sua figlia. Ma ci piaceva chiacchierare in inglese. Lisa era ebrea ed era emigrata dalla Gran Bretagna da ragazzina e aveva sposato un israeliano del posto. Spesso si presentava sulla porta del mio ufficio per fare due parole dopo aver preparato il tè nella vicina cucina.

Un giorno Lisa apparve per la nostra solita chiacchierata. Grata, sollevai gli occhi dallo schermo. Ma lei era agitata. “Sono un po’ preoccupata di tornare a casa in macchina in questi giorni,” esclamò.

Perché?” Lisa viveva ad Atzmon, una comunità ebraica in Galilea.

A causa dei recenti disordini. Alcuni arabi gettano pietre lungo la strada.”

Arabi, notai, non palestinesi. Lo Stato aveva faticato a negare la nostra identità e non aveva usato la parola ‘palestinesi’ fino a dopo gli accordi di Oslo e, anche successivamente, solo per riferirsi ai palestinesi in Cisgiordania e a Gaza, non ai suoi cittadini.

Era la prima volta che Lisa parlava di noi. “Disordini?” ripetei.

Alcuni ragazzi arabi hanno lavorato per un po’ ad Atzmon, ma delle persone si sono arrabbiate e li hanno costretti ad andarsene. Ora da alcuni giorni tirano pietre alle nostre auto mentre passiamo. È veramente stressante!”

Perché sono stati licenziati?” chiesi.

Oh, sai … ” sembrava a disagio, agitando una mano. “Alcuni proprio non vogliono che gli arabi lavorino nel kibbutz.”

Oh.” deglutii. Molte comunità ebraiche non permettevano ai palestinesi di lavorarci e la maggior parte nemmeno di viverci. Uno dei miei cugini faceva il tuttofare in un kibbutz, ma erano pochi quelli come lui. La maggior parte di queste comunità aveva una procedura per vagliare le domande tramite una “commissione di ammissione”, la cui decisione era inappellabile. Alcune cominciarono persino a chiedere a chi si presentava di giurare lealtà ai principi sionisti. Alcuni palestinesi erano andati in tribunale a protestare, ma raramente avevano vinto.

Allo stesso modo era impensabile per un ebreo vivere in un villaggio palestinese. Quelli che lo facevano, per mandare un messaggio, di solito non erano benvenuti nelle comunità palestinesi e per lo più evitati dalle loro. Ma di nuovo, erano molto pochi.

Guardai Lisa chiedendomi quale fosse la sua posizione sull’argomento. Ma era così agitata che sembrava ignara dei miei pensieri. “Telefono a mio marito per dirgli di star pronto in caso avessi bisogno di aiuto.”

Annuii. Mi salutò in fretta e se ne andò.

Tornando a casa pensai alle sue parole mentre oltrepassavo una colonia ebraica con le sue file di villette curate, giardini lussureggianti, fontane e ampi marciapiedi.

La differenza tra comunità palestinesi ed israeliane, spesso l’una accanto all’altra, erano così marcate che chiunque poteva distinguerle. Fondi statali per le comunità israeliane garantivano che avrebbero offerto un livello di vita tale da attrarre immigranti. Centinaia di località ebraiche erano state costruite da Israele dalla sua fondazione, ma non fu creato neppure un nuovo villaggio o paesino palestinese e quelli esistenti furono soffocati. In ogni villaggio palestinese che avevo visitato, vidi ghetti trascurati e sovraffollati, strade strette piene di buche, mancanza di spazi attrezzati, nessun parco o spazi pubblici e un’atmosfera pesante, depressa.

I villaggi palestinesi si sono sviluppati per centinaia di anni, prima dell’attuale zonizzazione e dei piani comunali. Le nuove comunità ebraiche sono state costruite in modo pianificato e metodico, le loro case copie esatte una dell’altra, come i quartieri in Occidente. Sembravano cadute dal cielo al posto dei villaggi distruttti. In tutta quella bellezza e ordine io vedevo solo bruttezza perché con la mente ripensavo a come erano state costruite.

Questo è un estratto editato da Stranger in My Own Land: Palestine, Israel and One Family’s Story of Home di Fida Jiryis, pubblicato da Hurst e disponibile dal guardianbookshop.co.uk

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




I disordini di Nablus mettono in questione il futuro dell’ANP

Ramzi Baroud

26 settembre 2022 – Arab News

L’arresto la scorsa settimana da parte della polizia dell’Autorità Nazionale Palestinese di due attivisti palestinesi, tra cui un importante militante, Musab Shtayyeh, non ha rappresentato la prima volta in cui il noto Servizio di Sicurezza Preventiva ha arrestato un palestinese ricercato da Israele.

Questo servizio è strettamente legato a continui arresti e torture di attivisti contrari all’occupazione israeliana. In passato molti palestinesi, il più recente dei quali è stato Nizar Banat, torturato a morte lo scorso giugno, sono morti in conseguenza della violenza del Servizio di Sicurezza Preventiva. L’uccisione di Banat ha provocato una rivolta popolare contro l’ANP in tutta la Palestina.

Per anni varie associazioni palestinesi e internazionali per i diritti umani hanno criticato, molto spesso all’interno degli stessi rapporti sui diritti umani critici contro l’occupazione militare israeliana della Palestina, le pratiche violente dell’ANP contro i palestinesi dissenzienti. Anche il governo di Hamas a Gaza ha ricevuto una giusta dose di critiche.

Nel suo “Rapporto sul mondo 2022”, pubblicato in gennaio, Human Rights Watch ha affermato che “l’Autorità Nazionale Palestinese…arresta e tortura sistematicamente e arbitrariamente i dissidenti.” Questa non è la prima volta né sarà l’ultima in cui un’associazione per i diritti umani solleva una simile accusa. Il rapporto tra la violenza israeliana e quella palestinese contro i dissidenti politici e gli attivisti è chiaro alla maggioranza dei palestinesi.

A un certo punto alcuni palestinesi possono aver creduto che il ruolo dell’ANP fosse di fungere da transizione tra il loro progetto di liberazione nazionale e la piena indipendenza e sovranità sul terreno. Tuttavia circa 30 anni dopo la formazione dell’ANP questa idea si è dimostrata una pia illusione. Non solo l’ANP non è riuscita a ottenere il desiderato Stato palestinese, ma si è trasformata in un apparato totalmente corrotto la cui esistenza è funzionale principalmente a una piccola classe di politici e uomini d’affari palestinesi – e, nel caso della Palestina, si tratta sempre dello stesso gruppo.

Oltre alla corruzione dell’ANP e alla conseguente violenza, ciò che continua a irritare molti palestinesi è che col tempo l’autorità è diventata un’altra incarnazione dell’occupazione israeliana, che riduce la libertà di espressione dei palestinesi e procede ad arresti per conto dell’esercito israeliano. Tristemente molti di quanti vengono arrestati dall’esercito israeliano in Cisgiordania sono stati arrestati anche dagli scagnozzi dell’ANP.

Le scene di violenti disordini a Nablus in seguito all’arresto di Shtayyeh hanno ricordato rivolte contro le forze di occupazione israeliane nella città del nord della Cisgiordania e altrove nella Palestina occupata. A differenza di precedenti scontri tra palestinesi e polizia dell’ANP – ad esempio in seguito all’uccisione di Banat -, questa volta la violenza è stata generalizzata ed ha coinvolto manifestanti delle organizzazioni politiche palestinesi, compresa la fazione di Fatah, che è al governo.

Il governo dell’ANP, forse inconsapevole del massiccio cambiamento psicologico collettivo avvenuto in Palestina negli ultimi anni, ha cercato disperatamente di contenere la violenza. Conseguentemente il comitato che rappresenta l’unità delle fazioni palestinesi a Nablus ha dichiarato di aver raggiunto una “tregua” con le forze di sicurezza dell’ANP in città. Il comitato, che include importanti personalità palestinesi, ha detto all’Associated Press e ad altri media che l’accordo esclude ogni futuro arresto di palestinesi a Nablus, a meno che siano implicati nella violazione delle leggi palestinesi, non di quelle israeliane. Questa clausola di per sé implica la tacita ammissione da parte dell’ANP che gli arresti di Shtayyeh e Ameed Tbaileh siano stati motivati dalle priorità israeliane e non da quelle palestinesi.

Ma perché l’ANP dovrebbe cedere così in fretta alle pressioni provenienti dalla piazza palestinese? La risposta riguarda il cambiamento del clima politico in Palestina.

In primo luogo, per anni il risentimento nei confronti dell’ANP è andato aumentando. Un sondaggio dopo l’altro ha indicato la scarsa considerazione che la maggior parte dei palestinesi ha nei confronti dei propri dirigenti, del presidente dell’ANP Mahmoud Abbas e in particolare del “coordinamento per la sicurezza” con Israele.

In secondo luogo, la tortura e la morte del dissidente politico Banat lo scorso anno hanno tolto di mezzo qualunque forma di sopportazione dei palestinesi nei confronti della loro dirigenza, in quanto hanno dimostrato loro che l’ANP non è un alleato ma una minaccia.

Terzo, la cosiddetta Intifada dell’Unità del maggio 2021 ha rinfrancato molti segmenti della società palestinese nei Territori Occupati. Per la prima volta da anni ora i palestinesi si sentono uniti intorno a un unico slogan e non sono più ostaggio della conformazione della politica e delle fazioni. Una nuova generazione di giovani palestinesi ha avviato un dialogo ben al di là di Abbas, dell’ANP e della loro sconfinata e inefficace retorica politica.

Quarto, la lotta armata in Cisgiordania è cresciuta in modo talmente rapido che questo mese [settembre, ndt.] il capo di stato maggiore dell’esercito israeliano Aviv Kochavi ha affermato che da marzo circa 1.500 palestinesi sono stati arrestati in Cisgiordania e che sarebbero stati sventati centinaia di attacchi contro l’esercito israeliano.

Di fatto stanno crescendo le prove di un’Intifada armata nelle regioni di Jenin e Nablus. Ciò che è particolarmente interessante e preoccupante dal punto di vista di Israele e dell’ANP riguardo alla natura del fenomeno della nascente lotta armata è che essa è in buona parte guidata dall’ala militare del partito Fatah al governo, in collaborazione diretta con Hamas e altre fazioni armate islamiste e nazionaliste.

Per esempio, lo scorso mese l’esercito israeliano ha assassinato, insieme ad altri due, Ibrahim Al-Nabulsi, un importante comandante militare di Fatah. Come reazione, non solo l’ANP ha fatto molto poco per impedire alla macchina militare israeliana di condurre ulteriori assassinii di questo tipo, ma sei mesi dopo ha arrestato Shtayyeh, un compagno di lotta molto vicino ad Al-Nabulsi. Cosa interessante, Shtayyeh non è un membro di Fatah, ma un comandante di Al-Qassam, l’ala militare di Hamas. Benché Fatah e Hamas siano considerati rivali politici accaniti, in Cisgiordania le loro divergenze politiche non sembrano essere rilevanti per i gruppi armati.

Sfortunatamente è probabile che ne segua un’ulteriore violenza, per varie ragioni: la determinazione israeliana a stroncare ogni Intifada armata in Cisgiordania prima che si diffonda in tutti i Territori Occupati, l’imminente transizione al comando dell’ANP a causa dell’età avanzata di Abbas e la crescente unità tra i palestinesi riguardo alla questione della resistenza.

Mentre la risposta israeliana a tutto ciò può facilmente essere dedotta dal suo retaggio di violenza, la futura linea di azione dell’ANP probabilmente determinerà i suoi rapporti da una parte con Israele e i suoi sostenitori occidentali e dall’altra con il popolo palestinese. Da quale parte si schiererà l’ANP?

Ramzy Baroud scrive di Medio Oriente da più di 20 anni. È un editorialista di fama internazionale, consulente dei media, autore di vari libri e fondatore del sito PalestineChronicle.com.

Avvertenza: gli autori di questa sezione sono responsabili delle opinioni da loro espresse, che non riflettono necessariamente il punto di vista di Arab News.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Nel discorso di Lapid all’ONU l’unica notizia è che non c’è niente di nuovo

Editoriale

23 settembre 2022 – Haaretz

Il discorso del primo ministro Yair Lapid giovedì all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite non contiene nessuna novità. La sua affermazione più impegnativa è stata che un “accordo con i palestinesi basato sui due Stati per due popoli è la cosa giusta per la sicurezza di Israele, per la sua economia e per il futuro dei nostri figli.” Ciò è vero, e importante da ricordare. Ma non è la prima volta che è stato detto dal podio dell’ONU. Anche l’ex-primo ministro Benjamin Netanyahu l’ha detto, benché egli non abbia mosso un dito per raggiungere tale risultato.

Lapid è il primo ministro ad interim di un Paese di destra, che parla nel mezzo della quinta campagna elettorale in tre anni, nel contesto di una grave crisi politica e l’ascesa del kahanismo [suprematismo ebraico ispirato al pensiero del rabbino Meir Kahane, ndt.]. Di conseguenza non c’era alcuna ragione per aspettarsi niente di più che generiche dichiarazioni di intenti. Tuttavia, persino nelle circostanze che verosimilmente non gli hanno lasciato la possibilità di accompagnare le sue parole con un appello per avviare negoziati diplomatici, vale la pena soffermarsi sul fatto che il suo discorso non era rivolto a nessuno in particolare. Chi si aspettava di sentire Lapid tendere la mano al presidente palestinese Mahmoud Abbas è rimasto deluso.

Deponete le vostre armi e non ci saranno limiti,” ha affermato, come se l’Autorità Nazionale Palestinese non avesse mai abbandonato la lotta armata. “Deponete le armi, lasciate che i nostri figli che sono prigionieri – Hadar e Oron [due soldati israeliani uccisi durante l’operazione militare contro Gaza del 2014, ndt.], che la loro memoria sia benedetta; Avera e Hisham [due cittadini israeliani detenuti da Hamas a Gaza, ndt.], che sono ancora vivi – tornino a casa e costruiremo la vostra economia insieme. Possiamo costruire insieme il vostro futuro, sia a Gaza che in Cisgiordania.” Chiunque non sia esperto del conflitto potrebbe aver concluso da questi riferimenti che il conflitto sia incentrato solo sulla Striscia di Gaza – che non ci sia nessuna Autorità Nazionale Palestinese, che non ci sia nessun coordinamento per la sicurezza con essa e che i rappresentanti del popolo palestinese siano Hamas e la Jihad islamica.

Lapid non ha offerto qualcosa di diverso da Netanyahu neppure riguardo alla minaccia iraniana. “L’unico modo per evitare che l’Iran abbia un’arma nucleare è mettere sul tavolo una credibile minaccia militare,” ha affermato. “E dopo, solo dopo, negoziare un accordo più lungo e più forte con loro.” Oltretutto, ha aggiunto, “deve essere messo in chiaro all’Iran che, se prosegue con il suo programma nucleare, il mondo non risponderà con le parole, ma con la forza militare.”

Il primo ministro in alternanza [con Lapid, ndt.] Naftali Bennett ha rotto il suo lungo silenzio mercoledì per attaccare la presunta intenzione di Lapid di annunciare il proprio appoggio a portare avanti la soluzione a due Stati. Ma Bennett può stare tranquillo: Lapid non ha fatto niente per minacciare l’impegno del cosiddetto governo del cambiamento a non cambiare assolutamente niente.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Cisgiordania: l’arresto di palestinesi ricercati da Israele scatena scontri con un morto

Shatha Hammad

20 settembre 2022 – Middle East Eye

Ucciso un palestinese durante un conflitto armato tra forze di sicurezza dell’Autorità Palestinese e manifestanti

All’alba di martedì sono scoppiati scontri armati tra forze di sicurezza palestinesi e manifestanti dopo che, la sera prima, l’Autorità Palestinese (AP) aveva arrestato in un’imboscata a Nablus, nella Cisgiordania occupata, un importante dirigente di Hamas ricercato da Israele. 

Gli scontri sono continuati per tutta la mattinata e si sono conclusi con un morto, il palestinese Firas Yaish, 53 anni, e un ferito grave.

Poco prima della mezzanotte in un’imboscata in Faisal Street, a Nablus est, le forze dell’AP hanno arrestato Musab Shtayyeh che era stato il bersaglio di parecchi tentativi di assassinio da parte di Israele. Nello stesso attacco hanno anche arrestato Ameed Tabileh, un combattente palestinese vicino al Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina [storico gruppo marxista della resistenza armata palestinese, N.d.T.], anch’egli ricercato da Israele.

Shtayyeh aveva avuto stretti rapporti con Ibrahim Nabulsi, leader delle Brigate dei Martiri al-Aqsa, ala militare di Fatah, che era stato ucciso dalle forze israeliane ad agosto.

La famiglia di Shtayyeh ha chiesto il suo immediato rilascio e respinto le informazioni dell’AP secondo cui sarebbe stato consegnato alle forze di sicurezza. 

In un comunicato la famiglia ha detto: “Noi riteniamo le forze di sicurezza pienamente responsabili della vita del nostro figlio ed eroe, Musab Shtayyeh, degli eventi successivi e degli attacchi contro il nostro popolo,” e ha chiesto di vedere Shtayyeh per controllare le sue condizioni dopo le percosse ricevute durante l’arresto.

Hamas, da lungo tempo rivale di Fatah, primo partito dell’AP, ha condannato l’arresto di Shtayyeh definendolo un “rapimento… un delitto nazionale ” e una “macchia” sull’immagine dell’AP. 

A vantaggio di Israele

Centinaia di palestinesi radunatesi in cortei provenienti dai campi profughi della città, tra cui quelli di Balata, al-Ain e Askar, hanno chiesto il rilascio immediato dei detenuti. I manifestanti hanno bloccato le strade incendiando pneumatici e tirando pietre contro i veicoli blindati dell’AP. 

Nel frattempo palestinesi armati hanno partecipato a scontri contro le forze di sicurezza durati tutta la mattina durante i quali è stato ucciso Yaish.

Uomini armati hanno anche sparato verso il quartier generale distrettuale dell’AP in protesta contro le politiche dell’Autorità.

Talal Dweikat, portavoce dei servizi di sicurezza dell’Autorità Palestinese, ha confermato con un comunicato la morte di Yaish aggiungendo che “si sta attendendo il referto medico” sulle circostanze del decesso.

Dweikat ha dichiarato che Yaish è stato ucciso “in una zona dove non era presente il personale della sicurezza”.

In informazioni non confermate alcuni testimoni oculari hanno detto che Yaish è stato ucciso dalla polizia dell’AP. 

Sono stati feriti anche quattro manifestanti palestinesi, tra cui Anas Abdel-Fattah, studente presso l’università al-Najah ed ex detenuto nelle carceri israeliane che, colpito allo stomaco, è in condizioni critiche. 

Khaled Mansour, leader dei Comitati di Resistenza Popolare [organizzazione armata che riunisce miliziani di varie formazioni palestinesi, N.d.T.], ha dichiarato a Middle East Eye: “Noi speravamo che la rabbia popolare si sarebbe scatenata contro l’occupazione israeliana, e ci eravamo impegnati affinché avvenisse, ma quello che le azioni dell’AP hanno fatto ha distrutto tutti i nostri sforzi.”.

Non ci saremmo mai aspettati gli eventi di cui siamo stati testimoni a Nablus dalla scorsa notte. Sono il risultato degli errori e delle prevaricazioni dell’AP e devono essere revocate,” ha aggiunto Mansour.

La calma non ritornerà fino a che l’Autorità non smetterà di incarcerare e perseguitare le persone ricercate da Israele.”

Mansour ritiene l’AP responsabile anche delle vittime.

“L’Autorità arresta i palestinesi e li insegue adempiendo ai suoi obblighi con Israele. Ma Israele viola tutti i trattati con i palestinesi e non ne rispetta nessuno,” ha detto. 

L’unico a trarre beneficio dagli eventi di oggi a Nablus è Israele e siamo noi, il popolo palestinese e la nostra resistenza, a perdere in seguito a questi sventurati eventi.”

Le ragioni’ dell’AP

L’AP non ha dato un resoconto chiaro dei disordini, ma nella sua dichiarazione Dweikat ha detto che Shtayyeh e Tabileh sono in carcere “per le ragioni della sicurezza dell’establishment che verranno rivelate successivamente”.

I detenuti “non correranno alcun pericolo” e “alle organizzazioni per i diritti umani sarà permesso di far loro visita immediatamente”, ha aggiunto.

La dichiarazione tenta di avere un tono tranquillizzante, ma definisce le proteste contro l’AP manipolate da “interessi stranieri”.

“In questo momento dovremmo serrare i ranghi e non farci trascinare in progetti dannosi,” ha detto Dweikat.

Il gruppo armato di Nablus Fossa del leone [gruppo armato palestinese da poco creato e la cui connotazione politica è ancora ignota, N.d.T.], fondato dopo l’assassinio di Nabulsi [combattente diciannovenne ucciso il 7 agosto], in varie dichiarazioni ha invocato l’escalation contro l’AP per l’arresto di Shtayyeh e la persecuzione da parte dell’Autorità di palestinesi sulla lista dei ricercati da Israele.

Il gruppo ha minacciato che alle forze di sicurezza dell’AP non verrà permesso di entrare a Nablus se Shtayyeh non verrà rilasciato.

Noi abbiamo mandato un messaggio urgente ai servizi di sicurezza: i figli della ‘Fossa del leone’, e tutte le altre fazioni politiche palestinesi a Nablus, non accetteranno che il più importante ricercato dell’occupazione (israeliana) sia detenuto nelle carceri dell’AP,” precisa il gruppo.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Il capo di stato maggiore delle IDF afferma che sono stati arrestati 1.500 palestinesi

Redazione di MEMO

6 settembre 2022 – Middle Est Monitor

Media locali hanno riferito che il capo di stato maggiore delle forze armate israeliane Aviv Kohavi ha dichiarato che circa 1500 ricercati palestinesi sono stati arrestati nella Cisgiordania occupata e centinaia di attacchi sono stati sventati finora come parte dell’operazione ‘Rompere l’onda’, che è stata iniziata alla fine di marzo.

Durante una riunione militare Kohavi ha aggiunto che l’incremento delle operazioni ha origine nella inefficacia dei meccanismi di sicurezza della Autorità Nazionale Palestinese (ANP) che causa la mancanza di controllo in certe aree della Cisgiordania.

Come sempre, anche di fronte a questo cambiamento della situazione, il nostro compito è proteggere i cittadini di Israele e la nostra missione è di contrastare il terrorismo. Raggiungeremo ogni città, quartiere, vicolo, casa o scantinato per quello scopo. La nostra attività continuerà e siamo preparati ad intensificarla secondo le necessità”, è stato citato dal Times of Israel.

La nostra attività continuerà e siamo preparati ad incremementarla in base alle necessità” ha aggiunto.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Le mutevoli narrazioni di Israele riguardo all’uccisione di Shireen Abu Akleh

Redazione di Al Jazeera

6 settembre 2022 – Al Jazeera

Dopo aver cambiato varie volte la sua versione, Israele ora ha concluso che è “molto probabile” che uno dei suoi soldati abbia ucciso Shireen Abu Akleh.

La versione del governo e dell’esercito israeliani sull’uccisione l’11 maggio scorso di Shireen Abu Akleh, la nota giornalista palestinese di Al Jazeera, è cambiata varie volte nei mesi scorsi.

Testimoni, tra cui giornalisti di Al Jazeera, hanno subito detto che le forze israeliane erano responsabili della sparatoria a Jenin, un’affermazione confermata da numerose indagini da parte di mezzi di comunicazione, organizzazioni per i diritti umani e delle Nazioni Unite.

Eppure Israele ha cercato di eludere ogni responsabilità, finché lunedì ha annunciato che un’indagine militare ha definito “molto probabile” che uno dei suoi soldati abbia sparato il proiettile che ha ucciso Abu Akleh. Tuttavia l’esercito ha escluso ulteriori indagini, affermando di non aver riscontrato alcun sospetto di un reato penalmente perseguibile.

Questa posizione segna un cambiamento rispetto alle precedenti narrazioni israeliane riguardo all’omicidio, come dicono le molte e diverse versioni date su quanto avvenuto.

Ecco la cronologia della mutevole narrazione di Israele.

Sono stati i palestinesi”

Subito dopo l’uccisione di Abu Akleh il ministero degli Esteri israeliano e il primo ministro Naftali Bennett hanno puntato il dito contro i combattenti palestinesi come i “probabili” responsabili.

“Secondo le informazioni che abbiamo raccolto sembra probabile che palestinesi armati che in quel momento stavano sparando all’impazzata siano stati responsabili della sfortunata morte della giornalista,” ha twittato Bennett.

Per sostenere queste affermazioni l’ufficio del primo ministro ha persino twittato un video di palestinesi armati che sparavano nel campo profughi. Il video è stato smentito dopo poche ore dall’associazione israeliana per i diritti umani B’Tselem che ha affermato che gli uomini armati si trovavano in tutt’altro posto del campo e che nessun combattente palestinese si trovava nei pressi del luogo in cui Abu Akleh e i suoi colleghi si erano riuniti.

Poi Israele ha offerto di condurre un’indagine congiunta sull’omicidio con l’Autorità Nazionale Palestinese, che quest’ultima ha nettamente rifiutato.

Basta accusare Israele”

Il giorno seguente, il 12 maggio, il governo ha reso pubblico un comunicato in cui denunciava “affrettate” accuse secondo cui un suo soldato sarebbe stato responsabile dell’uccisione come “menzognere e irresponsabili”.

Potrebbe essere stato Israele”

Il 13 maggio Israele ha affermato che, dopo le sue prime indagini sulla sparatoria, era possibile che il proiettile che ha ucciso Abu Akleh fosse stato sparato da un soldato israeliano che aveva aperto il fuoco contro un palestinese armato che si trovava vicino a lei.

“Il palestinese armato ha sparato molteplici raffiche di arma da fuoco contro il soldato delle IDF [Forzedi Difesa Israeliane, l’esercito israeliano, ndt.] e c’è la possibilità che Abu Akleh, che si trovava vicino al palestinese armato alle sue spalle, sia stata colpita dal fuoco sparato dal soldato verso il palestinese armato,” ha sostenuto un comunicato dell’esercito.

I colleghi di Abu Akleh che si trovavano con lei, così come molteplici indagini, hanno ripetutamente sottolineato che al momento della sua uccisione non c’erano nei pressi combattenti palestinesi.

Abbiamo l’arma che potrebbe aver ucciso Abu Akleh”

Il 19 maggio l’esercito israeliano ha affermato di aver identificato il fucile di un soldato che “potrebbe aver ucciso” Abu Akleh, ma ha detto di non esserne sicuro finché i palestinesi non avessero consegnato il proiettile perché venisse analizzato.

Una fonte ufficiale israeliana ha affermato: “Abbiamo in nostro possesso l’arma (dell’esercito israeliano) che potrebbe essere coinvolta nello scambio a fuoco vicino a Shireen”, ma ha sottolineato che non era chiaro da dove sia provenuto lo sparo.

È molto probabile” che sia stato Israele

Il 5 settembre Israele ha annunciato i risultati della sua inchiesta militare e ha affermato che è “molto probabile” che Abu Akleh sia stata “colpita accidentalmente” dal fuoco dell’esercito israeliano. Tuttavia non verrà avviata alcuna indagine penale.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




La Cisgiordania sta per esplodere e Israele fa poco per impedirlo

Amos Harel

4 settembre 2022 – Haaretz

L’accordo nucleare iraniano e la disputa marittima con il Libano proseguono, ma i funzionari della difesa israeliana sono più preoccupati per quello che sta succedendo in Cisgiordania

Quasi tutte le frequenti riunioni sulla sicurezza di Israele si concentrano sul nuovo accordo nucleare fra le potenze mondiali e l’Iran. La disputa sul confine marittimo tra Israele e Libano sta ancora infuriando, accompagnata da minacce violente da parte di Hezbollah. Ma, nelle ultime settimane, in tutti i colloqui con i funzionari della difesa in cima alla lista delle potenziali zone di escalation c’è il contesto palestinese, e in particolare la Cisgiordania.

Questa estate, agli inizi di agosto, nella Striscia di Gaza ci sono stati scontri durati tre giorni. La miccia che li ha accesi è stata l’arresto in Cisgiordania da parte israeliana del comandante del Jihad islamico palestinese. Come le precedenti, l’operazione a Gaza ha evidenziato la limitata capacità delle organizzazioni palestinesi nella Striscia di danneggiare Israele. Il muro costruito da Israele intorno al territorio ne limita notevolmente la penetrazione attraverso i tunnel e lo scudo antimissile Iron Dome [Cupola di Ferro] intercetta la maggior parte dei missili lanciati da Gaza. Hamas ha rivendicato il suo principale successo l’anno scorso durante l’operazione israeliana Guardiano delle Mura quando l’organizzazione ha incoraggiato le violenze sul Monte del Tempio a Gerusalemme e nelle città entro i confini israeliani antecedenti il 1967 dove la popolazione è mista, arabo-ebraica.

Maggiore è il rischio potenziale in Cisgiordania, come si è visto nella seconda intifada e, successivamente, in periodi più brevi, con attacchi di “lupi solitari” per circa sei mesi dall’autunno 2014 e, più recentemente, per circa due mesi questa primavera. La sfida principale, come anche dimostrato quest’anno, è l’impossibilità di impedire completamente ai potenziali terroristi di entrare in Israele dalla Cisgiordania attraverso brecce in alcuni punti nel muro o nella recinzione di separazione. Il risultato: sparatorie e accoltellamenti in Israele e la conseguente maggiore tensione con combattenti palestinesi quando le Forze di Difesa Israeliane [IDF, l’esercito israeliano, ndt.] rispondono con arresti in Cisgiordania.

La più recente ondata di attacchi terroristi è stata fermata a maggio, ma rimpiazzata da aspri e frequenti scontri nel nord della Cisgiordania, nelle zone di Jenin e Nablus. Gli scontri a fuoco durante le operazioni di arresto sono aumentati di dozzine di punti percentuali, come anche i tentativi di attacchi in zone remote contro campi militari e zone civili in Cisgiordania.

Qui abbiamo elencato più di una volta le ragioni: un declino della capacità dell’Autorità Palestinese (ANP) di controllare gli eventi, l’ingresso di organizzazioni locali nel vuoto creatosi, l’esitazione dei meccanismi di sicurezza palestinesi nell’affrontarli e la passività israeliana, espressa anche nella totale paralisi del processo diplomatico (e nella taccagneria quando si tratta di gesti economici). Il timore che questa miscela esplosiva diventi ancora più infiammabile, invischiando Israele e i palestinesi in un altro lungo periodo di escalation, una terza intifada o una versione leggermente più contenuta, emerge in conversazioni con alti funzionari nella sicurezza: il servizio di sicurezza Shin Bet, l’intelligence militare, il Comando Centrale dell’ IDF e l’ufficio del coordinatore delle attività governative nei Territori.

In tutti questi dialoghi si descrive un lento ma quasi certo sprofondare verso il conflitto. L’ANP raramente manda le sue forze di sicurezza nei campi profughi, nei centri delle città e in certi villaggi della Cisgiordania settentrionale. Hamas infiamma la tensione, ma non la controlla. In assenza di attività del meccanismo di sicurezza dell’ANP, l’IDF incrementa le proprie. Nel passato questo metodo è stato descritto come un’efficace “falciatura”: numerosi arresti multipli portano a indagini che a loro volta producono intelligence e altri arresti e gradualmente riducono la portata del terrorismo.

Ma ora si teme che si sia creato un circolo vizioso: la maggior parte degli arresti prende di mira non i veterani fra gli attivisti, ma giovani militanti che hanno sparato contro le forze israeliane. E ogni altra morte di palestinesi durante le azioni dell’IDF intensifica il desiderio di vendetta e trascina altri giovani nel circolo vizioso delle tensioni. L’esercito stima che circa 200 combattenti palestinesi siano stati coinvolti negli scontri recenti, solo a Nablus. Questi sono numeri mai visti in Cisgiordania da anni, probabilmente fin dall’operazione Scudo Difensivo nel 2002, il punto di svolta della seconda intifada. 

Un’altra profonda differenza è la grande quantità di armi presenti oggi in Cisgiordania. Al culmine dell’intifada anche le forze di sicurezza dell’ANP avevano preso parte agli scontri. Fino ad ora questo non è successo, ma le armi automatiche sono molto più comuni nelle strade palestinesi, disponibili a ogni cellula locale. Questo è il risultato di anni di contrabbando dalla Giordania e di furti nel territorio israeliano e dalle basi dell’IDF. In qualche modo il fenomeno è simile a quello che è successo nelle comunità arabe in Israele, dove le pistole sono usate principalmente a scopi criminali, non ideologici. Un funzionario della difesa ha detto ad Haaretz: “Nel corso degli anni la crescita del numero delle armi ricorda quella dei telefonini”.

Le agenzie israeliane di intelligence non possono prevedere se e quando il punto di non ritorno trascinerà la Cisgiordania verso una drammatica escalation. Un allarme strategico lanciato dall’intelligence militare circa sei anni fa è finito nel nulla, ma in questo periodo c’è stato un significativo aumento della frustrazione in Cisgiordania e delle critiche nei confronti del presidente palestinese Mahmoud Abbas, sulla cui successione è in atto uno scontro aperto.

In questo contesto si deve anche citare il Monte del Tempio. L’operazione Guardiano delle Mura è stata scatenata quando i leader di Hamas a Gaza hanno lanciato razzi in risposta agli scontri all’interno del complesso [la Spianata delle Moschee, ndt.] durante il mese di Ramadan, quando i sentimenti religiosi si accendono e ogni divergenza locale sulla moschea Al-Aqsa è vista come una questione di vita o morte. Passato un anno le dispute intorno al sito hanno minacciato di innescare un’altra serie di violenze che poi sono scoppiate ad agosto, ma per altre ragioni.

Il Ramadan arriverà anche il prossimo anno, ma quello che sta succedendo nel frattempo è l’erosione continua dello status quo nel complesso [della Spianata delle Moschee, ndt.] a favore della parte ebraica, in un modo che irrita i musulmani. Ha a che fare con l’erosione della proibizione religiosa ebraica sulle loro visite al sito, accompagnata dalla volontà del governo e della polizia di permettere troppi visitatori. I cambiamenti richiedono un aumento della coordinazione fra Israele, Giordania e il Waqf, l’istituzione religiosa che gestisce il complesso di Al-Aqsa, per rivedere i vecchi accordi la cui storia e le esatte disposizioni sono note a pochi. Abdullah, il re di Giordania, esprime regolarmente la sua collera per la condotta israeliana, ma successivi governi israeliani hanno fatto ben poco a questo proposito. Hanno invece lasciato che i rabbini e le organizzazioni di ebrei che frequentemente visitano il luogo dettino nuove regole inaccettabili per la Giordania e i palestinesi. Come nel passato ciò potrebbe avere risultati drammatici per l’area.

Più sicurezza

Tutto quello qui descritto è ben noto ai leader politici di Israele. Ma guardare sempre alla destra, a quello che dirà il capo dell’opposizione Benjamin Netanyahu, rende difficile per il governo a interim di muoversi per sostenere l’ANP e ancor più riprendere i negoziati di pace.

Sembra che influiscano sulla situazione anche la gara e le rivalità tra il primo ministro Yair Lapid e il ministro della Difesa Benny Gantz (l’unico politico che mantiene ancor contatti diretti e regolari con i leader dell’ANP). Il timore di essere visti come troppo di sinistra paralizza i membri del cosiddetto governo del cambiamento. E bisogna ammettere che persino gli esperti nei vari ministeri del governo, che espongono le loro preoccupazioni in discussioni riservate, non fanno molto per lanciare l’allarme pubblicamente. La luce rossa è accesa: è probabile che a un certo punto ci sarà un’esplosione.

C’è un’altra cosa da tener presente: quando scoppiò la seconda intifada nel settembre 2000, in Cisgiordania vivevano circa 200.000 israeliani. Oggi (secondo l’ufficio centrale di statistica) sono circa 450.000 escludendo i circa 300.000 che stanno nei quartieri di Gerusalemme al di là della Linea Verde [il confine tra Israele e Cisgiordania prima dell’occupazione nel 1967, ndt.]. Come per i palestinesi, una larga parte di loro non ha vissuto di persona la seconda intifada. Il maggiore rischio per la sicurezza a cui sono abituati sono le pietre tirate contro le macchine in autostrada, non gli scontri a fuoco. Nel corso degli anni le colonie in Cisgiordania si sono allargate e in pratica hanno annesso enormi estensioni di terreno come avamposti delle colonie. Un nuovo conflitto in Cisgiordania dovrà garantire la protezione di aree popolate più ampie e la sicurezza costante a molti più israeliani.

Uno strano consenso

Cinquant’anni fa proprio in questo mese il giornalista americano David Halberstam pubblicò “The Best and the Brightest,” [I migliori e i più intelligenti], un classico che documentava il ruolo degli USA nella guerra del Vietnam. Halberstam ha descritto come l’America fosse sprofondata in un conflitto sanguinoso e futile proprio con due presidenti, John Kennedy e Lyndon Johnson, che apparentemente erano circondati dai migliori consulenti.

Potrebbe benissimo essere che il conflitto israelo-palestinese sia più complesso. Inoltre si svolge non a 13.000 chilometri di distanza da casa, ma anzi nel quartiere dall’altra parte della strada. Eppure non è difficile notare alcune somiglianze, a cominciare dall’insistenza con cui si ignora tutto quello che i palestinesi comunicano e segnalano, come se Israele agisse in un vuoto. Questa è l’origine dello strano consenso che è prevalso qui in anni recenti, per cui in Israele, in assenza di un accordo politico sulla soluzione auspicata, sarebbe possibile continuare a gestire il conflitto per sempre, senza subire alcune conseguenze. Questa sembra un’illusione che, alla fine, svanirà davanti alla realtà.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)

 




Pur migliorate, le restrizioni israeliane sui viaggi in Cisgiordania impongono ancora ai visitatori di segnalare relazioni con i palestinesi

Yumna Patel

5 settembre 2022 – Mondoweiss

Sottoposto a pressioni, Israele ha rivisto un elenco di restrizioni draconiane nei confronti degli stranieri in Cisgiordania, ma sempre con la stessa finalità: l’isolamento della società palestinese.

In seguito a pressioni da parte delle autorità politiche statunitensi e europee il governo israeliano ha sottoposto a revisione un elenco di restrizioni draconiane all’ingresso di stranieri nella Cisgiordania occupata, sebbene le organizzazioni per i diritti umani affermino che i regolamenti continuano ad avere la stessa finalità: ingegneria demografica e isolamento nei riguardi della società palestinese

Le restrizioni emendate sono state rese pubbliche domenica sera dal COGAT – l’organismo militare israeliano responsabile dell’attuazione della legge israeliana nei Territori palestinesi occupati – con un documento di 90 pagine dal titolo “Procedure per l’ingresso e il soggiorno degli stranieri nell’area di Giudea e Samaria”, riferendosi al nome biblico usato da Israele per la Cisgiordania.

Le nuove “procedure” del COGAT erano state pubblicate all’inizio di quest’anno, dando luogo ad un’estesa condanna, e inizialmente avrebbero dovuto entrare in vigore a maggio, ma sono state rinviate più volte a causa del ricorso legale dell’organizzazione israeliana per i diritti umani Hamoked.

Le restrizioni emendate pubblicate domenica hanno fatto retromarcia su alcune delle norme più ampiamente criticate, come una precedente disposizione in base alla quale gli stranieri che intrattengano rapporti sentimentali con palestinesi debbano informare le autorità israeliane entro 30 giorni dall’inizio di tale relazione.

Nel nuovo documento è stata anche rimossa una clausola iniziale secondo cui i coniugi stranieri di palestinesi sposati da 27 mesi devono lasciare la Cisgiordania, abbandonando il coniuge e i figli, e trascorrere sei mesi fuori dal territorio per unafase di riflessione”.

È stato inoltre eliminato un limite precedentemente stabilito al numero di studenti e insegnanti stranieri che possono iscriversi alle istituzioni accademiche palestinesi, sebbene siano rimaste le pesanti restrizioni all’ingresso in Cisgiordania nei confronti di studenti e insegnanti stranieri, nonché uomini d’affari stranieri e palestinesi con doppia cittadinanza provenienti dall’estero e in visita nel territorio.

Le nuove regole entreranno in vigore il 20 ottobre e, pare in seguito a pressioni da parte di funzionari statunitensi, saranno sottoposte ad un “periodo di prova” di due anni durante il quale sarà ancora possibile apportare modifiche al regolamento.

Hamoked, l’organizzazione israeliana che ha presentato un ricorso in tribunale contro la normativa, ha affermato che le attuali modifiche costituiscono per lo più dei “cambiamenti estetici”.

“Sono state rimossi dal regolamento alcuni degli aspetti più scandalosi, ma il problema di fondo rimane”, ha sostenuto Hamoked su Twitter.

Israele impedirà a migliaia di famiglie di vivere insieme per ragioni palesemente politiche; l‘esercito israeliano si prende il diritto di gestire anche nei dettagli la società palestinese, interferendo anche con la libertà accademica delle università palestinesi”, afferma l’organizzazione, aggiungendo che continuerà la sua sfida giudiziaria contro il regolamento.

Il significato della revision

Sebbene dal nuovo documento siano state eliminate alcune clausole, come il termine di 30 giorni per notificare al governo una relazione intima con un palestinese, molte delle restrizioni sono rimaste in vigore.

Nella sua nuova versione la normativa ribadisce che se uno straniero inizia una relazione con un palestinese, “il funzionario del COGAT incaricato deve ottenere tale informazione nell’ambito della richiesta di rinnovo o prolungamento del permesso di soggiorno preesistente“.

Inoltre i coniugi dei palestinesi hanno ancora diritto solo a permessi di breve durata che vengono rinnovati – o negati – a discrezione del funzionario COGAT incaricato. Il COGAT si riserva inoltre il diritto di richiedere un deposito fino a 70.000 shekel (~20.000 euro) per garantire che il coniuge straniero lasci il territorio nel caso o nel momento in cui il permesso venga a scadere o venga negato.

In linea con la prassi preesistente, le nuove regole stabiliscono che anche i coniugi stranieri di palestinesi titolari di un documento d’identità della Cisgiordania saranno relegati in Cisgiordania, saranno tenuti a viaggiare attraverso il ponte King Hussein (Allenby) attraverso la Giordania e non potranno viaggiare utilizzando l’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv, a meno che non ricevano un permesso speciale.

Le stesse regole si applicano ai titolari di passaporto straniero che desiderano visitare la famiglia in Cisgiordania.

Come in base alle disposizioni iniziali, i palestinesi-americani e gli altri palestinesi di nazionalità straniera che desiderino recarsi nella Cisgiordania occupata per visitare la famiglia dovranno comunque richiedere al COGAT un’autorizzazione anticipata e saranno tenuti a rivelare le informazioni personali sui parenti che hanno in programma di visitare, insieme ai dati su qualsiasi terreno di cui siano in possesso o che stiano per ereditare all’interno della regione.

Le nuove normative sembrano offrire una misura positiva per i coniugi stranieri, a cui sarebbe concesso di richiedere permessi a lungo termine rinnovabili (27 mesi), che includono più visite dentro e fuori il territorio, cosa attualmente proibita.

Ma anche queste nuove opzioni richiederanno lunghe procedure per le richieste che, coinvolgendo l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), saranno comunque soggette all’approvazione finale da parte di Israele.

Nel complesso, le norme conferiscono ancora al COGAT il potere discrezionale di determinare chi sarà autorizzato a entrare e soggiornare in Cisgiordania, inclusi lavoratori stranieri, volontari, uomini d’affari, amici e familiari di palestinesi, studenti e insegnanti.

Nessuno dei regolamenti COGAT si applica agli stranieri che visitano gli insediamenti illegali ebraico-israeliani in Cisgiordania per motivi di viaggio, studio, lavoro o per avere una relazione intima con un ebreo israeliano.

A giugno Ahmed Abofoul, un avvocato dell’organizzazione palestinese per i diritti umani Al-Haq, ha discusso con Mondoweiss della normativa, descrivendola come “apartheid in atto”.

È una forma di dominazione molto pericolosa e palese“, afferma Abofoul, aggiungendo che “Israele si rende conto che le visite di stranieri nei territori occupati mettono in evidenza [davanti al mondo] le politiche di apartheid di Israele, questa solidarietà con i palestinesi sta danneggiando Israele sul palcoscenico internazionale, e gli israeliani non vogliono che ciò accada”.

L’ambasciatore degli Stati Uniti esprime “preoccupazione”

Dopo mesi di relativo silenzio da parte dell’amministrazione Biden sulla nuova normativa, domenica l’ambasciatore degli Stati Uniti in Israele Tom Nides ha rilasciato una dichiarazione in cui ha espresso alcune sue “preoccupazioni” sui protocolli resi pubblici.

“Da febbraio l’ambasciata degli Stati Uniti a Gerusalemme, l’Ufficio per gli affari palestinesi degli Stati Uniti e io ci siamo decisamente confrontati con il governo di Israele su questi progetti normativi – e continueremo a farlo nei 45 giorni precedenti l’attuazione e durante il periodo di due anni di prova”, ha dichiarato Nides.

Continuo a nutrire preoccupazioni per i protocolli resi pubblici, in particolare per quanto riguarda il ruolo del COGAT nel determinare se le persone invitate dalle istituzioni accademiche palestinesi siano qualificate per entrare in Cisgiordania e il potenziale impatto negativo sull’unità familiare.

È importante garantire che tutta questa normativa sia progettata in coordinamento con le principali parti interessate, inclusa l’Autorità Nazionale Palestinese. Mi aspetto che durante il periodo di prova il governo di Israele apporti gli adeguamenti necessari per garantire la trasparenza e il trattamento giusto ed equo di tutti i cittadini statunitensi e degli altri cittadini stranieri che viaggiano in Cisgiordania”, afferma Nides.

Nides non ha rilevato che Israele non ha potere sovrano sulla Cisgiordania e sui suoi abitanti, poiché il territorio è sotto l’occupazione militare israeliana, un’occupazione ampiamente considerata illegale dalla comunità internazionale.

Il governo israeliano ha perseguito per lungo tempo un programma di esenzione dal visto con gli Stati Uniti, che consentirebbe ai cittadini israeliani di recarsi negli Stati Uniti per soggiorni di breve durata senza dover richiedere un visto in ingresso.

Nell’ambito di un programma di esenzione dal visto Israele dovrebbe garantire che i cittadini americani, compresi i palestinesi-americani, ricevano ai confini israeliani un trattamento giusto e paritario, regola che le autorità israeliane sono state a lungo accusate di violare apertamente.

Il Times of Israel [quotidiano israeliano online in lingua inglese, ndt.] ha citato in forma anonima un alto funzionario dell’ambasciata statunitense che avrebbe affermato che i colloqui in corso con Israele su un programma di esenzione dal visto sono due “percorsi paralleli ma separati” rispetto alle restrizioni COGAT.

Queste norme che il COGAT si accinge a promulgare avranno un effetto sui cittadini americani, così come di altri Paesi. Li esamineremo da vicino e continueremo il confronto con il COGAT e altri settori del governo israeliano mentre ci muoviamo lungo il sentiero verso la reciprocità dei visti”, afferma il funzionario.

Il Times of Israel continua citando le parole del funzionario: “I requisiti di reciprocità dell’esenzione dal visto, quando arriveremo a quel punto, sostituiranno alcune di queste norme COGAT che abbiamo qui elencato”, mentre i funzionari statunitensi sarebbero [impegnati] “in una discussione complessa e delicata” con il governo israeliano, anche sulla questione dell'”estensione dei privilegi reciproci a tutti i cittadini statunitensi, compresi i palestinesi-americani”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Prigionieri palestinesi interrompono lo sciopero della fame di massa dopo che Israele “mette fine alle misure punitive”

Shatha Hammad

1 settembre 2022 – Middle East Eye

Almeno 1.000 prigionieri hanno sospeso il loro sciopero ore dopo aver avviato la loro iniziativa contro le dure condizioni nelle carceri israeliane

Almeno 1.000 prigionieri palestinesi hanno sospeso lo sciopero della fame giovedì dopo che le autorità carcerarie israeliane hanno acconsentito alle loro richieste di revocare le dure misure imposte da mesi nelle carceri.

Il Comitato Supremo Nazionale di Emergenza, che gestisce le proteste dei prigionieri, ha affermato in una dichiarazione che Israele “si è reso conto che i prigionieri sono pronti a pagare ogni prezzo per la loro dignità e i loro diritti.

E che dietro di loro c’è un popolo e una resistenza che sono disposti a pagare qualsiasi prezzo pur di sostenere i loro combattenti nelle carceri dell’occupazione.

Ecco perché il nemico ha deciso di fermare le sue decisioni ingiuste e le sue misure arbitrarie… e rispondere alle loro richieste”.

L’annuncio è arrivato poche ore dopo che i prigionieri hanno lanciato lo sciopero come parte di una serie di iniziative di crescente intensità da loro adottate da febbraio a causa della continua mancanza di risposte dell’Israel Prison Service (IPS) alle loro richieste di revocare le misure messe in atto nei loro confronti in seguito alla fuga di sei prigionieri dalla prigione di Gilboa nel settembre 2021.

Le misure punitive includevano la limitazione del tempo di aria, l’aumento delle restrizioni sui prigionieri che scontano pene lunghe – in particolare l’isolamento inflitto a quelli che scontano l’ergastolo – e il costante trasferimento dei prigionieri tra le strutture carcerarie, che porta a uno stato di instabilità all’interno delle carceri.

L’intensificarsi delle lotte

I prigionieri in sciopero avevano formato il Comitato Supremo Nazionale di Emergenza, composto da tutte le fazioni palestinesi nelle carceri, per approvare e gestire le proteste.

“Stiamo entrando in una nuova fase di confronto con il carceriere, anche con l’annuncio ufficiale dello scioglimento delle strutture delle varie organizzazioni in ​​tutte le carceri in un intento di ribellione contro le decisioni [dell’Israel Prison Service] come ultima passaggio prima di iniziare uno sciopero della fame a tempo indeterminato”, ha affermato il comitato in un comunicato di sabato.

Lo scioglimento delle strutture organizzative mira a costringere le autorità israeliane a trattare i prigionieri come individui e non attraverso le organizzazioni che li rappresentavano.

Secondo il Palestine Prisoners Club ci sono attualmente 4.550 palestinesi detenuti nelle carceri israeliane – inclusi 175 minori, 32 donne, 730 detenuti amministrativi e 551 che stanno scontando l’ergastolo.

I prigionieri hanno iniziato la loro azione contro l’IPS il 22 agosto in varie carceri israeliane, con iniziative che includevano il rifiuto dei pasti e delle code per i controlli di sicurezza. Il 29 agosto i detenuti si sono impegnati a indossare l’uniforme dell’IPS in ogni momento all’interno delle celle e nei cortili, manifestando la loro disponibilità a un confronto con le autorità carcerarie.

Sciopero per richieste di base

Qadri Abu Bakr, capo della commissione per i prigionieri dell’Autorità Nazionale Palestinese, ha detto a Middle East Eye che la maggior parte delle richieste sono legate a bisogni umani quotidiani negati ai prigionieri dallo scorso settembre, inclusi dispositivi elettrici, alcuni prodotti alimentari e prodotti per la pulizia.

Le richieste riguardano anche l’isolamento di un gran numero di prigionieri, il trasferimento frequente e improvviso di detenuti tra le carceri, le restrizioni alle visite dei familiari e un trattamento appropriato per i prigionieri malati.

Abu Bakr ha affermato che l’Autorità Nazionale Palestinese stava lavorando per fare luce sulla questione a livello internazionale, mentre le istituzioni dei prigionieri avevano anche preparato attività di solidarietà che sarebbero state organizzate nella maggior parte delle città palestinesi.

L’IPS aveva informato i prigionieri che le misure adottate erano state decise a livello politico e lì sarebbero state risolte. Tuttavia, nonostante le continue richieste dei prigionieri, l’Autorità Nazionale Palestinese non ha messo in opera serie iniziative né per fare pressione su Israele né per spingere la questione a livello internazionale.

Amani Sarahneh, una portavoce del Palestine Prisoners Club, ha detto a MEE che lo sciopero della fame collettivo è la continuazione delle precedenti proteste dei prigionieri dal settembre 2021, in seguito alla formazione da parte dell’IPS di un comitato per punire i prigionieri, principalmente quelli che scontano lunghe condanne.

Da allora i prigionieri hanno intrapreso una serie di azioni per ribellarsi e disobbedire ai nuovi regolamenti imposti dall’IPS.

“Ultimamente l’IPS ha intensificato le sue operazioni di trasferimento di prigionieri tra le celle e tra le carceri e li ha informati dell’intenzione di continuare con queste misure”, afferma Sarahneh.

All’inizio di quest’anno, l’IPS ha falsamente promesso la fine di queste misure, portando allo sciopero della fame.

Sarahneh afferma che l’obiettivo dell’IPS di spostare i prigionieri in varie celle e tra le carceri è rompere la loro struttura organizzativa, limitare la loro stabilità all’interno della prigione e rendere difficile la visita delle loro famiglie.

“I prigionieri del movimento della Jihad islamica sono tra i prigionieri che affrontano le maggiori difficoltà all’interno del carcere, soprattutto dopo la fuga dei sei prigionieri nel settembre 2021”, dice Sarahneh.

‘Un minimo di dignità’

La maggior parte dei fuggitivi da Gilboa erano membri della Jihad islamica, il che ha portato l’IPS a vendicarsi imponendo dure restrizioni ai prigionieri del gruppo, incluso l’isolamento dagli altri detenuti e il trasferimento di figure di spicco in altre carceri.

“Negli ultimi due anni abbiamo assistito a violente irruzioni nelle carceri e a un aumento della violenza usata per reprimere i prigionieri… e abbiamo un fondato timore che la repressione si intensifichi nei prossimi giorni”, dice Sarahneh.

Dirgham al-Araj, un ex prigioniero che ha trascorso 20 anni nelle carceri israeliane, ha detto a MEE: “L’obiettivo dello sciopero della fame è chiedere il ripristino di un minimo di dignità migliorando le condizioni di vita”.

Araj è stato rilasciato dal carcere nel 2019 e ha partecipato a diversi scioperi della fame collettivi nelle carceri nel 2004, 2011, 2012 e 2017.

Araj afferma che le difficili condizioni di vita nelle carceri sono state la motivazione principale che ha portato i prigionieri ad avviare uno sciopero della fame, un’azione strategica intrapresa dai detenuti solo dopo aver esaurito tutti i loro tentativi di negoziare con l’IPS.

Araj aggiunge che dopo la Seconda Intifada, durata tra il 2000 e il 2005, i prigionieri hanno iniziato a chiedere condizioni migliori, con il numero di palestinesi nelle carceri israeliane che a un certo punto ha raggiunto i 10.000.

Araj, professore del corso sul movimento dei prigionieri all’Università Al-Quds, ha affermato che gli scioperi della fame hanno avuto successo in passato quando hanno ottenuto il sostegno popolare. Ha detto che lo sciopero della fame del 1992 è stato il più riuscito, poiché si è svolto in tutte le carceri insieme a manifestazioni e marce diffuse nella maggior parte delle città occupate della Cisgiordania, che hanno esercitato pressioni su Israele.

“Mobilitare le piazze significa un grande costo economico e di sicurezza per Israele e quindi esercita pressione su di esso in molti modi”, afferma.

“Quindi solo le piazze palestinesi sono in grado di far sì che gli scioperi dei prigionieri abbiano successo”.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Cancelliere Olaf Scholz, ecco quello che è veramente ripugnante

Amira Hass

21 agosto 2022 – Haaretz

Evidentemente Europa e Stati Uniti credono talmente ai libelli antisemiti da pensare che Israele, una moderna entità totalmente ebraica, sia una piovra onnipotente multitentacolare che non si deve far arrabbiare

Al di sopra delle leggi internazionali e senza confini: questo è lo spazio infinito di Israele dove conduce la sua guerra infinita contro il popolo palestinese.

Il “nostro” Olocausto è durato 12 anni e il sionismo ne ha beneficiato fin d’allora. Il non-Olocausto palestinese dura ormai da 75 anni. E il mondo, in altre parole Stati Uniti ed Europa, guidati dalla Germania, non sta semplicemente a guardare.

Gli autoproclamatisi Paesi illuminati danno ripetutamente a Israele il via libera per continuare il non-Olocausto che si è perpetuato così a lungo. Le loro occasionali e deboli condanne, la mancanza di allarmi e sanzioni da parte delle diplomazie, servono solo a segnalare a Israele che può continuare a prevaricare, umiliare, schiacciare e torturare, bombardare, uccidere, imprigionare ed espellere, impossessarsi di terre e acqua. E tutto ciò sfruttando vergognosamente e cinicamente le nostre famiglie assassinate dalla Germania nazista e dai suoi alleati. Onorevole cancelliere Olaf Scholz, lei è disgustato? Ecco quello che è veramente disgustoso.

Il ministro della Difesa Benny Gantz avrebbe bloccato il processo per mettere fuori legge sette organizzazioni civili palestinesi se avesse saputo che i Paesi europei avrebbero imposto anche una sola sanzione contro Israele. Giovedì scorso gli scassinatori israeliani armati non avrebbero fatto irruzione negli uffici di quelle organizzazioni saccheggiandone quanto vi si trovava se funzionari di alto livello nell’amministrazione USA del Democratico presidente Joe Biden avessero ordinato in anticipo a Gantz di evitarlo.

Ma l’Europa e gli Stati Uniti sono forti, capaci ed efficaci nell’imporre varie sanzioni su quella Nazione che è occupata, spossessata, espulsa. Come se credessero che i libelli antisemiti che Israele (quale moderna organizzazione ombrello di tutti gli ebrei) fosse una piovra onnipotente multitentacolare che si deve far attenzione a non irritare.

Israele apre continuamente nuovi fronti nella sua lunga guerra contro il popolo palestinese e sceglie quanti più bersagli possibile. A questo scopo dispone di inestinguibili risorse: denaro, soldati, esperti legali, yes-men, cittadini che se ne fregano e falsità che avvolge in mantra a base di sicurezza e documenti classificati.

Non c’è bisogno di aspettare 50 o 60 anni fino all’apertura degli archivi perché i documenti rivelino qualche altro segreto piano governativo dietro a un atto orrendo presumibilmente perpetrato da individui (come il massacro di Kafr Qasem [villaggio in cui, il 29 ottobre 1956, soldati israeliani massacrarono 49 palestinesi n.d.t.]) o svelino le intenzioni che differirebbero da quelle dichiarate (come la Legge Militare imposta ai cittadini arabi di Israele dal 1948 al 1966 allo scopo di impedire a loro il ritorno alle terre e completarne invece la nostra occupazione).

Anche senza documenti noi sappiamo perché Israele proibisce l’esistenza di sette associazioni civili palestinesi, tra cui importanti organizzazioni per i diritti umani:

1. L’attività delle organizzazioni rafforza la determinazione, o sumud, palestinese contro l’occupazione e la sua invasività.

2. Informazioni, testimonianze, documenti e analisi fornite da queste organizzazioni sono un’importante banca dati per qualsiasi denuncia palestinese contro l’occupazione israeliana in forum legali internazionali ora e in futuro.

3. Le organizzazioni e i loro attivisti hanno anche mosso critiche contro l’Autorità Palestinese, le sue pratiche oppressive, i suoi fallimenti nel campo della giustizia sociale e le sue politiche neoliberali. La persecuzione israeliana contro di loro intensifica i sospetti e gli interrogativi sui motivi per cui anche l’ANP le vuole chiudere. Seminare sospetti e accuse reciproche fra i palestinesi è una pratica comune delle agenzie israeliane di intelligence.

4. Le organizzazioni conservano e promuovono lo spirito di unità palestinese che prevale sulla hamula, o famiglia allargata, contrastando così le intenzioni e attività israeliane per dividere ed erodere la società palestinese in modo tale che ogni persona, o al massimo ogni famiglia, sia sola nello scontro contro l’intrinseca crudeltà del dominio imposto da Israele.

I Paesi europei anche se pubblicamente aderiscono alla “soluzione dei due Stati,” non hanno sospeso le relazioni diplomatiche con Israele in risposta all’azione divoratrice della rimanente terra palestinese in Cisgiordania, in violazione delle risoluzioni dell’ONU e del diritto internazionale. Non hanno richiamato i loro ambasciatori per costringere Israele ad interrompere l’imprigionamento di oltre 2 milioni di persone in quel carcere chiamato Striscia di Gaza. Non hanno sospeso gli accordi commerciali con Israele, anche se dal primo giorno degli Accordi di Oslo Israele ha violato il principio base su cui poggiano gli accordi: la Striscia di Gaza e la Cisgiordania sono una sola unità territoriale.

Questi Paesi non cancellano gli accordi commerciali relativi ad armi e sistemi di spionaggio, perché Israele ha schiacciato e continua a schiacciare Gaza con le sue armi e usando metodi fantascientifici per spiare ogni palestinese dalla culla alla tomba. Non limitano l’ingresso degli israeliani nel loro territorio in risposta alle continue restrizioni sui movimenti che Israele impone ai palestinesi e alle loro mogli.

Israele continua a distruggere e confiscare attrezzature umanitarie (pannelli solari, condutture idriche e strutture mobili) pagate da Paesi europei ed è ben conscia che non ci sarà nulla di più di una inefficace condanna verbale. Israele assegna anche terre e acqua che ha sottratto ai palestinesi a cittadini ebrei di Gran Bretagna, Francia, Stati Uniti, Canada e Argentina, sicura che quegli Stati non puniranno nessuno per questa rapacità.

Dopo la chiusura delle sette organizzazioni, Israele e i suoi obbedienti cittadini ebrei, che traggono vantaggio da questo furto ufficiale, continuerà così e valicherà altre linee rosse, perseguiterà altri gruppi della società civile e zittirà altri attivisti, con l’autorizzazione di Europa e Stati Uniti.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)