Uno di quelli che hanno portato la bara di Abu Akleh arrestato giorni dopo l’attacco israeliano al funerale

Arwa Ibrahim

Mercoledì 18 maggio 2022 – Al Jazeera

Il legale di Amro Abu Khudeir ha affermato che l’interrogatorio dell’uomo chiamato “il protettore del feretro” ha riguardato il funerale

Gerusalemme Est Occupata – Uno dei palestinesi che hanno portato la bara e sono stati aggrediti dalla polizia israeliana mentre stavano trasportando il feretro lo scorso venerdì al funerale della nota giornalista di Al Jazeera Shireen Abu Akleh è stato arrestato dalle autorità israeliane.

L’avvocato che rappresenta Amro Abu Khudeir, 34 anni, ha affermato che quest’ultimo, abitante di Gerusalemme, è stato arrestato a casa sua nella zona di Shuafat lunedì mattina presto ed è stato ripetutamente interrogato riguardo agli eventi relativi al funerale.

Il legale, Khaldoun Najm, ha aggiunto che da quando è stato arrestato Abu Khudeir è stato tenuto in isolamento.

Najm ha affermato che “egli non vede la luce e quindi non ha il senso del tempo nella sua cella sotterranea di due metri per uno.”

Najm ha aggiunto che Abu Khudeir ha assistito a un’udienza lunedì e la sua detenzione è stata prolungata fino a domenica.

La polizia israeliana ha affermato che l’arresto di Abu Khudeir non è relativo alla sua partecipazione al corteo funebre.

Abu Akleh, una giornalista palestinese-americana di 51 anni, è stata uccisa dalle forze di sicurezza israeliane mentre l’11 maggio stava informando riguardo a un’incursione israeliana nel campo profughi di Jenin, nel nord della Cisgiordania.

La polizia israeliana ha attaccato quelli che portavano la bara e le persone in lutto al funerale di Abu Akleh mentre l’evento veniva trasmesso in diretta dalle televisioni di tutto il mondo, con migliaia di persone radunate per vedere il suo feretro trasferito dall’ospedale San Giuseppe all’ultima dimora sul monte Sion, appena fuori dalla città vecchia di Gerusalemme.

Abu Khudeir era particolarmente riconoscibile nelle riprese televisive del funerale che hanno mostrato quelli che portavano lottare per evitare che la bara di Abu Akleh cadesse a terra mentre la polizia israeliana attaccava le persone in lutto usando gli sfollagente. L’azione ha provocato una condanna unanime e richieste di indagini anche dalle Nazioni Unite.

Ad Abu Khudeir è stato dato il soprannome di “protettore del feretro” dopo che è stato visto tenere in alto il feretro nonostante fosse picchiato duramente dalla polizia.

Ulteriori notizie

Benché molti di quelli che portavano il feretro siano stati picchiati dalla polizia israeliana, secondo Najm Abu Khudeir è stato l’unico ad essere arrestato dalle autorità israeliane dopo il funerale.

Najm ha affermato ad Al Jazeera che “i servizi segreti israeliani asseriscono che Amro abbia collaborato con una organizzazione terroristica e che hanno un suo fascicolo segreto”.

Tuttavia Najm ha affermato che ciò sembra improbabile, perché Abu Khudeir lo ha informato che tutte le domande poste durante l’interrogatorio erano relative al funerale.

Ad Amro è stato chiesto perché insisteva nel portare la bara facendo attenzione a non farla cadere a terra”, ha detto Najm. “Il fulcro delle domande era relativo a lui come uno che ha portato la bara al funerale di Abu Akleh”.

Najm ha affermato che Abu Khudeir, che ha due figli, era un noto attivista a Gerusalemme ed in passato è stato arrestato dalla polizia israeliana.

In una dichiarazione ad Al Jazeera un portavoce della polizia israeliana ha affermato che l’arresto di Abu Khudeir non era legato al corteo funebre.

Nella dichiarazione si afferma che “il sospetto è stato arrestato come parte di una inchiesta in corso che, al contrario di quanto è stato dichiarato, non ha nulla a che vedere con la sua partecipazione al corteo funebre.”

Non intendiamo aggiungere particolari su una indagine in corso, ma constatiamo che il tribunale ha prolungato la detenzione del sospetto.”

Oltre che rompere il finestrino del carro funebre che stava trasportando il corpo di Abu Akleh e rimuovere la bandiera palestinese dallo stesso le forze di polizia israeliane hanno anche sequestrato le bandiere palestinesi alle persone in lutto.

Lo Stato di Israele ha ordinato un’inchiesta sulla condotta dei suoi agenti al funerale di Abu Akleh, mentre l’Autorità Nazionale Palestinese ha affermato che avrebbe accolto favorevolmente il sostegno internazionale nell’indagine sull’assassinio.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




L’uccisione di Shireen Abu Akleh: come i media occidentali hanno ripetuto a pappagallo la propaganda israeliana

Abir Kopty

13 maggio 2022 – Middle East Eye

Invece di confidare nelle dichiarazioni dei testimoni oculari palestinesi, i giornalisti occidentali hanno ripreso le argomentazioni di Israele

Questa settimana noi palestinesi siamo rimasti tutti scioccati nel commemorare l’uccisione della celebre giornalista di Al Jazeera Shireen Abu Akleh. Ma nel nostro cordoglio siamo obbligati a testimoniare come ancora una volta i mezzi di comunicazione occidentali ci stiano deludendo.

Quando un palestinese viene ucciso da forze israeliane il fatto è sempre descritto in termini passivi. Moriamo sempre per conto nostro, nessuno ci uccide. A volte moriamo come danni collaterali in “scontri”, senza che venga descritto il contesto, come sia scoppiato lo scontro o la sproporzione delle forze in gioco.

Poi scatta l’automatica adozione del punto di vista israeliano, che è sempre manipolatorio. La strategia israeliana è negare immediatamente ogni responsabilità, poi mettere in dubbio i testimoni palestinesi, ponendo le basi per l’affermazione che ci sono “due versioni” della vicenda. Quindi i media lo ripetono in modo acritico.

Il giorno in cui Abu Akleh è stata giustiziata ho ascoltato per un paio d’ore il BBC World Service [servizio della televisione pubblica britannica sulle notizie internazionali, ndt.]. L’inviato ha ripetuto la versione israeliana secondo cui è stata uccisa dal fuoco palestinese, poi ha notato che i palestinesi hanno detto che è stata uccisa dal fuoco israeliano. Il servizio ha anche incluso l’affermazione di Israele secondo cui ha chiesto all’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) di condurre un’inchiesta congiunta, ma che l’offerta è stata respinta. Inizialmente l’ANP ha negato di essere stata contattata dalle autorità israeliane, ma i media hanno continuato a riportare le affermazioni israeliane.

La maggior parte dei media internazionali ha adottato la stessa impostazione, quasi come se avessero scritto i loro articoli in collaborazione su un documento Google condiviso.

Tuttavia, mentre si sono assicurati di diffondere per intero la versione israeliana, i media occidentali non hanno dato la stessa importanza alla versione palestinese. Giovedì l’ANP ha spiegato perché ha rifiutato di partecipare a un’indagine insieme a Israele, cercando invece di esaminare la questione in modo indipendente. I palestinesi hanno tutte le ragioni di diffidare di Israele, che abitualmente utilizza queste inchieste per insabbiare i casi – ma i media occidentali non sembrano preoccupati di questo contesto fondamentale.

Scavare più in profondità

L’informazione distorta è continuata persino durante il funerale di Abu Akleh. Dopo che forze israeliane hanno attaccato i palestinesi in lutto, con immagini dal vivo che mostravano un’aggressione deliberata e non provocata, i principali mezzi di comunicazione hanno scritto falsamente che sono scoppiati “scontri” o che “si è scatenata la violenza”.

In effetti la maggior parte dei mezzi di informazione occidentali attinge a un copione standardizzato. Invece di scavare più in profondità per trovare la verità e per sfidare le affermazioni israeliane, gli inviati aiutano Israele ad avvolgere i fatti nell’ambiguità. E non importa quello che ne consegue: anche se l’articolo successivo include una riga sulla reazione palestinese, la prima impressione è già stata data.

Nel caso di Abu Akleh ci voleva poco per respingere la versione israeliana dei fatti. Era accompagnata da molti altri giornalisti le cui testimonianze coincidono. Dicono tutti la stessa cosa: Abu Akleh è stata presa di mira da un cecchino israeliano. Sfortunatamente sembra che le parole dei giornalisti palestinesi non siano sufficientemente credibili per i media occidentali.

Le testimonianze di giornalisti come Shatha Hanaysha, che stava vicino ad Abu Akleh quando è morta, di Ali al-Samoudi, anche lui colpito e ferito nell’incidente, e di Mujahid al-Saadi, un altro testimone dell’uccisione, non sono accettate senza ulteriori conferme da parte di gruppi israeliani per i diritti umani come B’Tselem o fonti giornalistiche come Haaretz.

Persino allora, quando i media occidentali non possono più evitare di evidenziare le menzogne israeliane, possono aggiungere ai loro articoli qualche riga qua e là, ma quando la correttezza di questi articoli è fondamentale, nelle ore immediatamente successive a questo tipo di avvenimenti, gli inviati di solito si attengono alla propaganda israeliana. A sua volta questa rimane impressa nelle menti dei loro lettori e telespettatori.

Quando si tratta della guerra tra Russia e Ucraina non vediamo le stesse esitazioni ad attribuire la responsabilità a chi le ha. Quando dei giornalisti vengono uccisi in Ucraina i servizi dei media occidentali citano immediatamente i bombardamenti russi. Le fonti e i giornalisti ucraini sono considerati di per sé sufficientemente credibili da essere citati, e una risposta russa non è necessaria, né lo sono le richieste di un’inchiesta per determinare chi ne è stato responsabile.

Questo doppio standard evidenzia la complicità dei media occidentali nel nascondere i crimini israeliani. Porvi fine non richiederebbe molto, solo che i mezzi di comunicazione internazionali trattassero i palestinesi, compresi i giornalisti, con il rispetto che si sono meritati.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Per scongiurare una grave crisi alimentare la Palestina richiede un’attenzione immediata

Ramzy Baroud

19 aprile 2022 – Middle East Monitor

Mohammed Rafik Mhawesh, un giovane giornalista di Gaza e mio amico, mi ha detto che nel territorio assediato nelle ultime settimane il costo del cibo è salito alle stelle. Le famiglie già impoverite faticano a mettere insieme il pranzo con la cena. Ha spiegato che “I prezzi dei generi alimentari hanno subito una notevole impennata, specialmente dall’inizio della guerra Russia-Ucraina.”

Il costo di alimenti essenziali come grano e carne è raddoppiato. Quello dei polli, per esempio, che comunque solo una piccola frazione degli abitanti Gaza poteva permettersi, è aumentato da 20 shekel (circa 5.70 euro) a 45 shekel (quasi 13 euro).

Tale impennata sarebbe forse gestibile in alcune parti del mondo, ma in una società già poverissima che da 15 anni subisce un assedio ermetico da parte dell’esercito israeliano si tratta di una imminente e grave crisi alimentare.

L’ong internazionale Oxfam l’ha segnalata l’11 aprile, quando ha comunicato che i prezzi dei generi alimentari nella Palestina occupata erano saliti del 25% e, cosa più allarmante, le scorte di farina nei Territori Palestinesi Occupati potrebbero “esaurirsi in tre settimane “.

L’impatto della guerra Russia-Ucraina si fa sentire in tutto il mondo, in alcuni luoghi più che in altri. I Paesi africani e mediorientali che da anni combattono contro povertà, fame e disoccupazione sono i più colpiti.

Comunque la Palestina è tutta un’altra storia. È un Paese occupato che dipende quasi interamente dai provvedimenti della potenza occupante, Israele, che si rifiuta di rispettare il diritto internazionale e quello umanitario. Il problema dei palestinesi è complesso, ma, in un modo o nell’altro, quasi ognuno dei suoi vari aspetti è collegato a Israele.

Da molti anni Gaza è soggetta al blocco economico imposto da Israele. La quantità di cibo a cui Israele permette di entrare nella Striscia è razionata e manipolata dallo Stato occupante e usata come punizione collettiva. Amnesty International nel suo rapporto sull’apartheid in Israele pubblicato a febbraio ha dettagliato le restrizioni israeliane sulle derrate palestinesi e le riserve di carburante. Secondo l’organizzazione dei diritti umani Israele usa “formule matematiche per determinare quanto cibo far entrare a Gaza”, limitando le provviste a ciò che Tel Aviv giudica “essenziale per la sopravvivenza della popolazione civile”.

A parte i molti problemi infrastrutturali derivanti dall’assedio, come la quasi totale mancanza di acqua potabile, elettricità e attrezzature agricole, Gaza ha per esempio anche perso gran parte della sua terra coltivabile, destinata ad essere una zona di esclusione militare israeliana stabilita lungo il confine nominale intorno alla Striscia.

La Cisgiordania non sta molto meglio. La maggior parte dei palestinesi nei Territori Occupati, oltre all’impatto devastante della pandemia da Covid-19 e alle debolezze strutturali nell’Autorità Palestinese, afflitta da corruzione e malgoverno, sta patendo l’oppressione crescente dell’occupazione israeliana.

Secondo Oxfam l’ANP importa il 95% del suo grano e non possiede nessuna struttura di stoccaggio. Tutte queste importazioni passano attraverso Israele, che controlla ogni accesso alla Palestina dal mondo esterno. Dato che Israele stesso importa quasi metà del suo grano e cereali dall’Ucraina, i palestinesi sono ostaggio di questo particolare meccanismo dell’occupazione.

Comunque Israele ha ammassato riserve di cibo ed è in massima parte indipendente per l’energia, mentre i palestinesi sono in difficoltà a tutti i livelli. Mentre l’ANP ha parte della colpa per aver investito nel suo elefantiaco apparato di “sicurezza” a spese della sicurezza alimentare, Israele ha in mano quasi tutte le chiavi della sopravvivenza dei palestinesi.

A causa delle centinaia di checkpoint nella Cisgiordania occupata posti dall’esercito israeliano e che separano le comunità una dall’altra e i contadini dalle proprie terre, in Palestina l’agricoltura sostenibile è quasi impossibile. Questa complessa situazione è ulteriormente aggravata da due grossi problemi: gli oltre 700 kilometri del cosiddetto “Muro di Separazione” che non “separano” per niente gli israeliani dai palestinesi, ma privano illegalmente i palestinesi di ampie aree delle loro terre, quasi tutte zone agricole, e il vero e proprio furto di acqua palestinese dalle falde acquifere della Cisgiordania. Mentre molte comunità palestinesi in estate non hanno acqua potabile, Israele non ha mai scarsità di acqua in nessun periodo dell’anno.

La cosiddetta Area C determinata dagli Accordi di Oslo costituisce quasi il 60% dell’area totale della Cisgiordania ed è sotto completo controllo militare israeliano. Sebbene sia relativamente poco popolata, contiene la maggior parte dei terreni agricoli dei Territori Palestinesi Occupati, specialmente le zone della fertilissima valle del Giordano. A causa della pressione internazionale Israele ha rimandato la sua annessione ufficiale dell’Area C, ma essa è comunque praticamente avvenuta e i palestinesi sono lentamente cacciati via e rimpiazzati da una popolazione crescente di coloni illegali ebrei-israeliani.

I prezzi dei generi alimentari in rapida crescita stanno danneggiano proprio quei contadini e allevatori che sono impegnati a riempire l’enorme voragine causata dall’insicurezza alimentare globale risultante dalla guerra. Secondo Oxfam, in Cisgiordania i costi dei mangimi sono saliti del 60%, problema che va ad aggiungersi al “presente fardello” che gli allevatori devono affrontare, come l’”inasprimento dei violenti attacchi dei coloni israeliani” e “lo sfollamento forzato”, un eufemismo usato per definire la pulizia etnica, parte delle politiche di annessione di Israele.

La fine della guerra Russia-Ucraina probabilmente porterebbe un parziale miglioramento, ma persino questo non porrebbe fine all’insicurezza alimentare della Palestina dato che il problema è provocato e prolungato da specifiche politiche israeliane. Nel caso di Gaza infatti la crisi è totalmente creata da Israele con in mente specifici obiettivi politici. L’infame commento dell’ex consigliere del governo israeliano Dov Weisglass che nel 2006 spiegava i motivi dell’assedio di Gaza resta il principio guida dell’atteggiamento di Israele verso la Striscia: “L’idea è di mettere i palestinesi a dieta, ma di non farli morire di fame.”

Perciò, per scongiurare una grave crisi alimentare, la Palestina ha bisogno di un’attenzione immediata. L’estrema e prolungata povertà e l’elevata disoccupazione a Gaza non lasciano alcun margine per altre disastrose limitazioni. Comunque qualsiasi cosa si faccia ora sarebbe solo un rimedio a breve termine. Si deve tenere un dibattito serio, che coinvolga i palestinesi, i Paesi arabi, la FAO (Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura) e altri organismi per discutere e risolvere l’insicurezza alimentare palestinese. Per la gente della Palestina occupata questa è la vera e concreta minaccia esistenziale.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Nessun diritto per i lavoratori di Gaza in Israele

Amjad Ayman Yaghi

7 aprile 2022 – The Electronic Intifada

Muhammad Abdelwahab ha subito un incidente mentre lavorava in un cantiere edile in Israele.

La lesione era grave – una ferita sanguinante alla testa – e si è recato in una clinica.

La clinica gli ha consigliato di rivolgersi in ospedale, ma Abdelwahab ha preferito aspettare e tornare a Gaza per le cure. Dal momento che non aveva l’assicurazione sanitaria, le cure sarebbero state troppo costose in Israele.

Nonostante la gravità dell’infortunio di Abdelwahab, il suo datore di lavoro non gli ha fornito alcun risarcimento finanziario o cure mediche.

Abdelwahab, 39 anni, è padre di quattro figli e vive nel campo profughi di Jabaliya, nel nord della Striscia di Gaza.

Era disoccupato da tre anni quando nel dicembre 2021 ha iniziato a lavorare nel settore edile in Israele. Il suo incidente è avvenuto nel febbraio di quest’anno.

Sebbene sia un fabbro professionista, Abdelwahab era disposto a lavorare in qualsiasi settore in Israele, non solo perché quei lavori vengono pagati relativamente bene, ma perché il blocco israeliano a Gaza imposto nel 2007 ha fortemente ridotto le opportunità di lavoro nella Striscia.

Abdelwahab è riuscito a ottenere un permesso per lavorare in Israele, ma non ha avuto al qualifica ufficiale di “lavoratore”.

Invece, ha ricevuto un permesso per “necessità economiche”, che priva il lavoratore dell’accesso a benefici come l’indennizzo di lavoro, l’assicurazione sanitaria e altri diritti lavorativi concessi in Israele ai lavoratori.

“Sto aspettando di riprendermi dall’infortunio per tornare al lavoro”, ha detto. Più sto a casa, più le cose peggiorano per me. Ho dei figli, tre di loro sono studenti e ho delle grosse spese”.

Sebbene Abdelwahab consideri importanti questioni come la salute e l’assicurazione sulla vita, ha affermato che le condizioni a Gaza sono così terribili che qualsiasi lavoro, anche senza sussidi, è “come un sogno”.

Abdelwahab valuta con attenzione anche il futuro dei suoi figli, che si troverebbe a rischio nel momento in cui a lui e ai suoi colleghi venisse a mancare la sicurezza sul lavoro.

Lavoratori senza assicurazione

Come parte di un accordo con Hamas con la mediazione dell’Egitto, Israele ha recentemente concesso ai lavoratori palestinesi della Striscia di Gaza altri 8.000 permessi per lavorare all’interno di Israele.

Tuttavia, per le caratteristiche dei permessi, questi lavoratori non godono di benefici lavorativi e sociali, sono trattati in modo diverso e spesso pagati meno dei lavoratori palestinesi della Cisgiordania occupata.

Al posto dei permessi di lavoro, ai lavoratori di Gaza vengono concessi permessi per necessità economicheche non garantiscono loro i diritti lavorativi.

I lavoratori della Cisgiordania, invece, hanno permessi regolari.

Fahmi Amin, 40 anni, che lavora in una fabbrica israeliana vicino a Gaza, ha affermato che ottenere tali permessi può costare a un palestinese di Gaza fino a 916 euro in tasse di registrazione al ministero delle finanze di Gaza, una cifra enorme per i disoccupati.

Eppure al checkpoint di Erez, l’unico valico per le persone tra Gaza e Israele, molti vengono trattenuti e subiscono un breve interrogatorio da parte delle autorità israeliane.

Amin sottolinea che i lavoratori palestinesi in Israele, a causa della loro mancanza di diritti, temono che possano essere tagliati gli aiuti umanitari dell’Autorità Nazionale Palestinese e che, da un momento all’altro, possa sorgere una controversia tra Israele e Gaza, lasciandoli disoccupati e con poche prospettive per ulteriori lavori.

Amin sostiene che lavorare in Israele può rendere cinque volte di più del salario che si riceve a Gaza.

“Ma pensare di lasciare il lavoro in Israele sarebbe un disastro” dice Amin.

Abbiamo troppa paura che gli aiuti che riceviamo dall’Autorità Nazionale Palestinese – già sospesi da diversi mesi vengano tagliati, afferma.

L’Autorità Nazionale Palestinese, dipendente dagli aiuti esteri, concede indennità assistenziali alle famiglie più povere di Gaza.

“Il lavoro in Israele non è garantito”, ha aggiunto. Riprenderemo a cercare un modo per convincere le autorità ufficiali della nostra necessità di un sostegno finanziario regolare in caso di interruzione degli aiuti. Non vogliamo che si arrivi a questo”.

Amin dice che lui e gli altri lavoratori lavorerebbero ovunque, pur di poter fornire cibo e indumenti ai loro figli.

“Ci auguriamo di ottenere in prospettiva la concessione dei nostri diritti in modo che nulla possa impedirci di lavorare”, aggiunge.

Negazione dei diritti fondamentali

Dopo l’attacco israeliano del maggio 2021 a Gaza Israele ha autorizzato altri 3.000 permessi commerciali per i palestinesi di Gaza, portando il numero totale di permessi a 10.000. Tuttavia, questi permessi per esigenze commerciali e finanziarie non comportano diritti lavorativi.

Fino allo scoppio della seconda intifada nel 2000 il numero totale di lavoratori di Gaza all’interno di Israele era di quasi 30.000.

Oggi, secondo Sami al-Amasi, capo della Federazione generale palestinese dei sindacati a Gaza, questo numero non supera i 10.000.

Al-Amasi sottolinea che gli israeliani, rifiutandosi di designare i palestinesi di Gaza come “lavoratori”, eludono qualsiasi impegno a fornire lavoro e diritti economici.

Molti lavoratori feriti o licenziati prima del 2000, dice al-Amasi, per ottenere i loro diritti si sono rivolti ad avvocati palestinesi con cittadinanza israeliana.

Alcuni di questi casi sono rimasti fermi nei tribunali per anni poiché i datori di lavoro israeliani hanno cercato di negare ai lavoratori palestinesi i loro diritti.

Al-Amasi spiega che Israele ha sostituito i permessi commerciali con permessi per esigenze economiche per evitare di fornire ai lavoratori l’assicurazione sanitaria, il risarcimento in caso di infortunio e il TFR.

Al-Amasi osserva che prima del 2000 agli abitanti di Gaza impiegati in Israele veniva concessa la qualifica di “lavoratori”.

A tutti dovrebbe essere concesso lo status di lavoratore, aggiunge, in modo che ognuno ottenga i suoi diritti”.

Il sindacato a cui è iscritto ora sta spingendo per il rilascio ad abitanti di Gaza di almeno 30.000 permessi di lavoro in Israele. Questi sforzi sono assistiti da quelli che al-Amassi chiama “intermediari”.

Secondo l’Ufficio centrale di statistica palestinese nel 2021 circa 230.000 abitanti di Gaza erano disoccupati.

Tra i palestinesi della striscia di Gaza tra i 19 e i 29 anni in possesso di diploma, il 66% delle donne e il 39% dei maschi era disoccupato.

Maher al-Tabaa, il direttore della Camera di Commercio di Gaza, ha affermato che i permessi commerciali e finanziari rilasciati ai palestinesi di Gaza non conferiscono loro alcun diritto.

Eppure, dice, i lavoratori accettano questi permessi a causa degli alti tassi di povertà e disoccupazione.

Aggiunge che Israele potrebbe in seguito usare ciò come strumento di pressione sulle fazioni palestinesi affinché accettino un armistizio a lungo termine con Israele, non preso in considerazione durante i precedenti negoziati mediati dall’Egitto.

Attualmente, afferma al-Tabaa, i lavoratori in possesso dei permessi hanno un impatto molto limitato sull’economia di Gaza rispetto agli anni precedenti. Il numero di persone in cerca di lavoro supera di gran lunga il numero di permessi disponibili.

Il salario minimo a Gaza è inferiore a 550 euro al mese, ma il salario medio mensile effettivo è di 183 euro.

“I bassi salari sono molto importanti nella Gaza assediata”, dice al-Tabaa, aggiungendo che pochissime istituzioni pubbliche e private sono in grado di pagare il salario minimo.

Tuttavia, osserva, “questo è limitato alle istituzioni principali come banche e importanti società di telecomunicazioni, mentre altri lavoratori a Gaza ricevono la metà o meno della metà del salario minimo”.

Amjad Ayman Yaghi è un giornalista che vive a Gaza.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Per i palestinesi in Cisgiordania, [gli attacchi armati]sono eventi eccezionali, non un'”ondata di terrorismo”

Amira Hass

2 aprile 2022 Haaretz

Sebbene l’opinione pubblica palestinese comprenda le motivazioni degli aggressori, la stragrande maggioranza non sceglie questa strada, che non favorisce la loro causa, e ha delle riserve sul prendere di mira i civili. Ma condannare? Che prima gli israeliani condannino la violenza che esercitano contro i palestinesi

I tre atti di omicidio-suicidio perpetrati da quattro palestinesi – da entrambi i lati della Linea Verde – in meno di due settimane evidenziano solo l’assenza di un organo politico dirigente palestinese riconosciuto, con un’unica strategia chiara e unificante. Gli attacchi riflettono divisioni interne e la dolorosa consapevolezza della debolezza e dell’incapacità palestinese di agire di fronte alla potenza di Israele. D’altra parte, il fatto che così pochi scelgano questa strada, nonostante sia disponibile, indica una più ampia comprensione politica del fatto che tali attacchi non promuovono la causa palestinese.

La stragrande maggioranza sta “votando con i piedi sa che gli attacchi dei lupi solitari spinti dalla disperazione o dalla vendetta non hanno, né costituiscono in sé, un obiettivo e non porteranno a nulla. Non cambieranno l’equilibrio di potere. Il popolo palestinese in Cisgiordania lo capisce senza bisogno di direttive dall’alto, senza un discorso pubblico aperto sull’argomento e mentre le sue organizzazioni politiche, principalmente quelle dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina e dell’Autorità Palestinese, sono al loro punto più basso in termini di potere e di fiducia della gente – e sono più che mai in conflitto e in competizione tra loro.

Ogni palestinese, su entrambi i lati della linea verde, ha molte ragioni per desiderare che gli israeliani provino dolore, perché sono loro e non solo il loro governo ad essere responsabili della difficile situazione dei palestinesi. È probabile che questo fosse il desiderio dei quattro assassini suicidi, indipendentemente dal loro background, dalle circostanze familiari o dal carattere di ciascuno di loro. Gli israeliani sanno subito, poiché esiste un intero apparato che diffonde tali informazioni, quali sono gli aggressori arrestati in precedenza, dopo quale attacco sono stati distribuiti dolci [per celebrare l’attacco, ndt] e accanto alla casa di quale assalitore i giovani hanno festeggiato (con totale mancanza di rispetto per il dolore della famiglia). Ma gli israeliani, nel complesso, non sono interessati alla misura in cui Israele, e loro stessi, in quanto suoi cittadini, hanno costantemente e per molti decenni causato sofferenza ai palestinesi, come individui e come popolo.

Questo enorme divario tra conoscenza specifica [dei palestinesi, ndt] e ostinata mancanza di conoscenza [degli israeliani, ndt] è sufficiente a spiegare perché l’opinione pubblica palestinese in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza sia indifferente ai recenti attacchi da parte di individui, siano essi commessi da cittadini israeliani o da abitanti della Cisgiordania, e non obbedisca alle richieste israeliane di condannare gli omicidi. Ciò che è degno di nota non è che gli aggressori siano sfuggiti all’attenzione dello Shin Bet, ma che, nonostante la loro comprensione delle motivazioni degli assalitori, la stragrande maggioranza dei palestinesi non scelga di intraprendere questa strada.

Migliaia di palestinesi senza permesso di lavoro entrano apertamente in Israele ogni giorno attraverso molteplici varchi nel muro di separazione. Questo va avanti da anni, con la piena conoscenza dell’esercito e della polizia. Come tutti sanno, c’è una notevole quantità di armi e munizioni tra i palestinesi in Israele e in Cisgiordania. Questi due fatti avrebbero potuto portare molti altri attacchi per vendetta da parte di individui che non potevano essere scoperti in anticipo, sia cittadini palestinesi di Israele che residenti in Cisgiordania. Anche se nelle prossime settimane si verificheranno alcune imitazioni, come l’attacco con il cacciavite di giovedì, per i palestinesi il numero di questi attacchi impallidisce rispetto all’entità e alla natura sistematica dell’ingiustizia inflitta loro da Israele.

Ogni palestinese ha buone ragioni per desiderare di infrangere la falsa normalità di cui godono i cittadini ebrei, che in generale ignorano il fatto che il loro Stato agisce instancabilmente, giorno e notte, per espropriare un maggior numero di palestinesi delle loro terre e dei loro diritti storici e collettivi come popolo e società. Per raggiungere questo obiettivo, Israele mantiene un regime continuo di oppressione. Ciò include: la violenza burocratica come i divieti di costruzione, sviluppo e movimento che discriminano i palestinesi a favore degli ebrei, nel Negev, in Galilea e in Cisgiordania, la violenza disciplinare attraverso la sorveglianza, le incursioni notturne e gli arresti e violenze fisiche come torture durante gli interrogatori e la detenzione, attacchi regolari da parte dei coloni e lesioni e morte per mano principalmente di soldati e poliziotti, ma anche per mano di civili israeliani. Il fatto che gli autori siano lo Stato, le sue istituzioni e i cittadini, non rende questa violenza accettabile, legittima o giustificata agli occhi dei palestinesi, che costituiscono metà della popolazione che vive tra il fiume Giordano e il Mediterraneo.

Al contrario. La natura meticolosamente pianificata di questa violenza e il numero infinito di israeliani che vi prendono parte danno ai palestinesi un diverso senso delle proporzioni quando un’azione violenta è intrapresa dai loro compatrioti. Quella che è considerata un'”ondata di terrorismo” dagli ebrei israeliani è vista dai palestinesi come un’eccezione, composta da pochi giovani che si sono stufati dell’impotenza di tutti, compresi se stessi, scegliendo invece di uccidere e farsi uccidere. Molti più giovani diventano dipendenti da antidolorifici e altri farmaci per le stesse ragioni, oppure seguono i propri sogni ed emigrano.

In conversazioni private i palestinesi in Cisgiordania e a Gaza esprimono dolore per la morte di civili. Sembra che gli attacchi con il coltello e l’omicidio di donne e anziani, come accaduto a Be’er Sheva, siano più scioccanti degli spari contro i passanti, che includono poliziotti e soldati in uniforme. Alcune persone sottolineano il fatto che gli assalitori ad Hadera hanno sparato solo contro gli agenti della polizia di frontiera e, secondo testimoni israeliani, hanno deliberatamente evitato di sparare contro donne e bambini. In un rapporto in arabo questa distinzione tra persone in uniforme e civili è attribuita – per errore o apposta, chi può dirlo – all’aggressore [che ha agito] a Bnei Brak, anche se ha sparato indiscriminatamente contro i civili.

Per vari motivi, il dolore e le riserve personali non si traducono in condanna pubblica (tranne che da parte di Mahmoud Abbas, che è così impopolare che la sua opinione non conta). Innanzitutto perché gli attacchi di un “lupo solitario” non rappresentano la collettività in generale, che non ne è responsabile, ma anche perché l’uso delle armi ha un’aura di santità e legittimità storica difficile da scrollarsi di dosso. In secondo luogo, nasce dalla compassione istintiva per un palestinese che ha scelto di essere ucciso. Terzo, non vi è alcuna condanna pubblica da parte di Israele dopo ogni atto di violenza da parte dello stato o da parte di elementi ufficiali o privati ​​contro i palestinesi. Una condanna palestinese appare quasi collaborazionista perché non tiene conto di un equilibrio di potere così sbilanciato.

La facciata di normalità israeliana potrebbe essersi incrinata per alcuni giorni, con l’isteria e la paura alimentate dai media israeliani e da Hamas, dalla Jihad islamica e da Hezbollah, che lodano questi attacchi per il loro tornaconto politico. Anche le persone consapevoli dell’inutilità e dell’inefficacia di tali atti di disperazione e vendetta non lo affermano pubblicamente per non offendere le famiglie degli aggressori uccisi. In ogni caso l’attenzione dei palestinesi si è concentrata sugli attacchi dei coloni e dell’esercito e l’istigazione di destra contro tutti gli arabi scatenata subito dopo gli attacchi dei lupi solitari.

Nonostante il tradizionale sostegno emotivo alla resistenza armata, la stragrande maggioranza sa che per ora, anche se questo tipo lotta dovesse riprendere (e non solo da parte di singoli), e anche se dovesse essere meglio pianificata rispetto al precedente della seconda Intifada, non potrebbe  sconfiggere Israele o migliorare la sorte dei palestinesi. Proprio come la diplomazia, il movimento BDS e le sanguinose dimostrazioni a Beita e Kafr Qaddum non sono riusciti e non stanno riuscendo a bloccare la costante e quotidiana acquisizione di spazio da parte degli ebrei israeliani e l’espulsione dei palestinesi verso enclave sovraffollate che possono essere chiuse in un attimo da un pugno di soldati.

(traduzione dell’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Israele: cinque morti nella sparatoria alla periferia di Tel Aviv

Lubna Masarwa, Huthifa Fayyad

29 marzo 2022 – Middle East Eye

Dopo l’attacco di un palestinese armato proveniente dalla Cisgiordania occupata Israele alza il livello di allerta al livello più alto da maggio dello scorso anno

Martedì un uomo armato ha ucciso cinque persone nel corso di una sparatoria nella periferia della città israeliana di Tel Aviv, pochi giorni dopo che due attacchi simili hanno provocato la morte di sei persone e diversi feriti.

L’assalitore, identificato come Diya Hamarshah, 27 anni, è stato successivamente colpito a morte dalla polizia.

I media locali hanno riferito che Hamarshah era un ex prigioniero palestinese della città occupata di Yabad, in Cisgiordania, vicino a Jenin.

La sparatoria sarebbe avvenuta in due posti diversi a Bnei Brak, un’area ebraica ultra-ortodossa.

Haaretz ha riferito che l’aggressore ha colpito un giovane in un minimarket con un fucile d’assalto, prima di sparare a un’altra persona in bicicletta e poi a un’auto di passaggio.

Un’abitante di Bnei Brak, che vive vicino al luogo dell’attacco e ha preferito non dire il suo nome, ha detto a Middle East Eye che la sparatoria l’ha lasciata “spaventata e triste”.

“Mi sento in pericolo. Non posso credere che sia successo così vicino a noi. Sono sempre scioccata nel vedere incidenti come questo, ma quando è così vicino ha un effetto diverso”, afferma.

“Non credo ci sia un futuro in Israele. Le lancette dell’orologio stanno tornando indietro. Non ho nessuna speranza”.

Alle 22:00 ora locale il primo ministro israeliano Naftali Bennett ha tenuto una riunione con il ministro della Difesa Benny Gantz e altri funzionari della difesa per valutare la situazione della sicurezza.

La polizia ha annunciato di aver alzato il livello di allerta al livello più alto da maggio dello scorso anno.

Il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas si è affrettato a condannare l’attacco, affermando che “l’uccisione di civili palestinesi e israeliani porterà solo a un deterioramento della situazione in un momento in cui stiamo cercando di raggiungere una stabilizzazione alla vigilia del mese di Ramadan.”

Ha condannato l’attacco anche Ayman Odeh, capo della Lista Comune, alleanza politica palestinese in Israele.

“Oggi cinque civili sono stati uccisi – ognuno un mondo a sé stante. Si uniscono ai 51 palestinesi uccisi dall’inizio dell’anno – ognuno un mondo a sé“, ha detto Odeh.

Condanno fermamente qualsiasi danno nei confronti di civili, sia palestinesi che israeliani, insieme a qualsiasi offesa a persone innocenti”, ha aggiunto.

È tempo di porre fine alla fonte dell’odio che consiste nella maledetta occupazione e di stabilire una pace che porti sicurezza e vita normale a entrambi i popoli”

“Israele deve incolpare sé stesso

L’assalto di martedì arriva pochi giorni dopo due attacchi simili da parte di cittadini palestinesi di Israele a Beersheba e Hadera, che hanno provocato la morte di un totale di sei persone, inclusi due agenti di polizia. Tutti e tre gli assalitori sono stati uccisi.

L’assalto arriva anche un giorno prima del 46° anniversario del primo Land Day. I palestinesi celebrano la Giornata della Terra ogni 30 marzo dal 1976, quando i cittadini palestinesi di Israele protestarono contro la politica israeliana di furto della terra e discriminazione.

L’analista israeliano Meron Rapoport ha detto a MEE che gli assalti probabilmente porranno il governo israeliano in una situazione molto difficile.

“Israele è molto sconcertato di fronte a questa situazione perché non ha nessuno contro cui combattere. Non è possibile occupare città palestinesi come nel 2002 perché sono già occupate, né può “occupare” Umm al-Fahm [nel Distretto di Haifa, con 45.000 abitanti quasi tutti palestinesi, ndtr.] perché sono cittadini israeliani”, afferma Rapoport.

“Israele potrebbe essere soddisfatto che l’Occidente e gli Stati arabi abbiano cessato di interessarsi alla causa palestinese, e il vertice del Negev [incontro sul Medio Oriente organizzato da Israele il 27 marzo 2022 a Sde Boker, nel Negev, con Egitto, Emirati Arabi Uniti, Bahrain e Marocco, con lobiettivo di dare vita a unarchitettura di sicurezza regionale, ndtr.] avrebbe dovuto esserne una prova. Ma – come ha detto il professor Menachem Klein [docente della facoltà di Scienze Politiche dell’Università israeliana di Bar-Ilan, ndtr.] nel corso di una conversazione personale – la questione palestinese è stata trasformata in una mera questione interna israeliana, ed è esattamente ciò che sta accadendo ora. Israele può incolpare solo se stesso”.

La violenza sarà tuttavia sfruttata dall’estrema destra israeliana, avverte Rapoport.

Poco dopo l’attacco decine di israeliani si sono radunati sulla scena dove si potevano sentire cantare slogan anti-palestinesi, tra cui “morte agli arabi”. Alcuni chiedevano le dimissioni di Bennett.

Negli ultimi anni è cresciuta l’influenza dell’estrema destra all’interno delle forze di polizia e in generale nella politica israeliane.

Quelle forze, spiega Rapoport, ora useranno questi eventi per smantellare il governo, che è una fragile alleanza di compagini di destra, sinistra e centro, oltre che di rappresentanze palestinesi.

“L’estrema destra ha paura che Israele diventi una vera democrazia, quindi vuole rimuovere i palestinesi dalla vita politica”.

Tensioni nel Ramadan

A Yabad, citata come città natale di Hamarshah, dopo l’attacco la folla è scesa in piazza per mostrare solidarietà alla famiglia in vista delle scontate incursioni dell’esercito.

Raed Bakr, un abitante di Yabad, ha detto a MEE che dopo l’attacco è stato chiuso il posto di blocco di Dotan, situato a sud di Yabad, sulla strada che collega Jenin a Tulkarm.

“I giovani, in previsione delle incursioni israeliane, hanno bloccato l’ingresso di Yabad usando massi e bidoni della spazzatura”, dice Bakr.

“Al momento tutto è calmo ma la gente si aspetta da un momento all’altro incursioni dell’esercito”.

Aouni al-Mashni, un’importante figura politica palestinese di Betlemme, ha detto a MEE che i recenti eventi sono una prevedibile reazione alle continue aggressioni israeliane contro i palestinesi.

“La violenza usata da Israele, uno Stato razzista, contro i palestinesi in Cisgiordania e all’interno di Israele, avrà come ovvia contropartita una risposta violenta da parte dei palestinesi”, ha detto al-Mashni a MEE in un’intervista telefonica.

“L’espulsione dei residenti del Naqab [estesa zona desertica meridionale chiamata in ebraico Negev, ndtr.] la ebraificazione di Gerusalemme, gli attacchi a Sheikh Jarrah, le provocazioni alla moschea di al-Aqsa, le uccisioni quotidiane in Cisgiordania – tutto questo porta naturalmente alla contro-violenza. Questa violenza è esclusiva responsabilità di Israele”, ha aggiunto.

“E’ presto per arguire che stiamo entrando in una nuova fase, ma ci troviamo certamente in una fase caratterizzata da violenza e deterioramento”.

La tensione è aumentata nelle ultime settimane in vista del primo anniversario dell’offensiva di 11 giorni di Israele su Gaza [dal 10 al 20 maggio 2021, ndtr.].

Le violenze sono scoppiate lo scorso Ramadan quando Israele ha cercato di espellere delle famiglie palestinesi dal quartiere occupato di Sheikh Jarrah a Gerusalemme Est per far posto ai coloni israeliani.

Ciò ha provocato proteste diffuse in tutta la Cisgiordania occupata e nella comunità palestinese all’interno di Israele, scatenando nel maggio 2021 l’operazione militare su vasta scala di Israele sulla Striscia di Gaza assediata.

Secondo Axios [organo di informazione online israeliano in lingua inglese, ndtr.], i funzionari statunitensi si sono adoperati per mantenere la calma a Gerusalemme, in vista dell’anniversario del conflitto in cui più di 260 palestinesi sono stati uccisi a Gaza, 29 nella Cisgiordania occupata e 13 persone in Israele.

“I leader arabi sono avulsi dalla realtà

All’inizio di questa settimana, i ministri degli Esteri di Marocco, Egitto, Bahrain, Emirati Arabi Uniti (EAU) e Stati Uniti si sono incontrati in Israele per un vertice di due giorni a Naqab (Negev) per discutere di questioni regionali.

Nel frattempo, il re di Giordania Abdullah ha incontrato lunedì a Ramallah il capo dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) Mahmoud Abbas.

La serie di incontri ad alto livello tra leader regionali nelle ultime settimane è stata vista come un tentativo di allentare le tensioni in vista del mese sacro del Ramadan, che dovrebbe iniziare la prossima settimana.

“I leader palestinesi e arabi sono chiaramente avulsi dalla realtà. Sono avulsi dalla lotta del popolo palestinese e dal fatto che le relazioni israelo-palestinesi si sono deteriorate”, ha affermato al-Mashni [figura politica palestinese, attivista del partito Fatah, ndtr.], riferendosi agli incontri regionali.

Nonostante gli sforzi per ridurre le tensioni i coloni israeliani hanno continuato a prendere d’assalto la moschea di al-Aqsa. Sono previste altre marce dei coloni ad al-Aqsa il prossimo Ramadan, che si sovrapporrà alle festività ebraiche.

Israele ha occupato Gerusalemme Est, dove si trova la Moschea di al-Aqsa, durante la guerra del 1967. Ha annesso l’intera città nel 1980 con una mossa mai riconosciuta dalla comunità internazionale.

La Giordania è stata la custode dei luoghi santi musulmani di Gerusalemme dagli anni ’20. La moschea, che si trova su un altopiano alberato nella Città Vecchia, è venerata anche dagli ebrei che la chiamano Monte del Tempio.

Gli attivisti israeliani di estrema destra hanno ripetutamente spinto per una maggiore presenza ebraica nel sito e alcuni hanno sostenuto la distruzione della moschea di al-Aqsa per far posto a un Terzo Tempio.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Israele ha chiesto all’ANP di intercedere sui detenuti perché non inizino lo sciopero della fame in difesa dei loro diritti

Redazione di Middle East Monitor

23 Marzo 2022 – Middle East Monitor

Quds Net News [una delle principali agenzie di stampa palestinesi, ndtr.] ha informato che lo Stato di Israele ha ufficialmente chiesto alla Autorità Nazionale Palestinese [ANP] di convincere i detenuti ad annullare lo sciopero della fame il cui inizio è previsto venerdì. Viene riportato che in risposta l’ANP avrebbe detto a Israele di concedere ai detenuti i diritti che spettano loro.

I detenuti hanno annunciato lo sciopero della fame come protesta contro le nuove restrizioni che le autorità israeliane hanno imposto loro.

Secondo un alto funzionario di Hamas, queste restrizioni includono una riduzione delle ore d’aria e dell’accesso alla mensa. Si afferma inoltre che i detenuti siano privati dei diritti fondamentali che includono l’istruzione e la salute.

Nel frattempo il ministro israeliano per la Sicurezza, Omar Bar-Lev, ha chiesto un incontro con il presidente dell’ANP Mahmoud Abbas prima dell’inizio del mese sacro del Ramadan, la settimana prossima. Israele e gli Stati Uniti sono preoccupati di possibili rivolte durante il Ramadan, che quest’anno concide con altre festività religiose.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Israele guarda a un nuovo tipo di regime in Cisgiordania, ma il mondo vede l’apartheid

Shaul Arieli

22 febbraio 2022 – Haaretz

Israele non considera l’enclave né occupata né “territorio liberato”. La Cisgiordania resta quindi abbandonata a sé stessa.

All’inizio di febbraio Amnesty International ha pubblicato un rapporto in cui si afferma che Israele mantiene un sistema di apartheid contro i palestinesi. Questo documento potrebbe rivelarsi un trailer per la commissione d’inchiesta del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, istituita a seguito dei combattimenti con Gaza dello scorso maggio. Il rapporto della commissione dovrebbe essere pubblicato a giugno e potrebbe affermare che Israele è uno stato di apartheid. Il governo israeliano deve eliminare questa minaccia attuando una linea politica chiara in Cisgiordania.

La politica ambigua del governo precedente sul futuro del territorio non è più accettabile per la maggior parte della comunità internazionale. Quella politica vede le cose nel seguente modo: non annetteremo [la Cisgiordania, ndtr.], ma non creeremo nemmeno uno Stato palestinese, manterremo lo status quo ma amplieremo gli insediamenti coloniali, applicheremo la legge ma non contro gli ebrei rivoltosi e gli avamposti coloniali illegali, parleremo con il presidente palestinese Mahmoud Abbas ma solo di ciò che vogliamo, manterremo Gerusalemme unita ma investiremo solo nei quartieri ebraici.

Dal 1967 Israele è impegnato in una guerra di retorica basata su una terminologia fuorviante che dichiara che i territori occupati sono territori “liberati” o “posseduti“. In tal modo Israele cerca di giustificare le sue azioni contrarie al diritto e alle risoluzioni internazionali.

I governi israeliani sono sempre stati consapevoli dello status legale della Cisgiordania. Un cablogramma top secret del ministero degli Esteri a Yitzhak Rabin del 1968, quando era ambasciatore israeliano a Washington, affermava che “la nostra linea era e rimane quella di evitare fermamente di discutere con gli stranieri della situazione nei territori sulla base degli Accordi di Ginevra… Un nostro esplicito riconoscimento dell’applicabilità degli Accordi metterebbe in luce seri problemi… riguardanti demolizioni di case, espulsioni, insediamenti coloniali e così via”.

Questa consapevolezza non ha mai impedito ai governi laburisti di intraprendere le iniziative di colonizzazione, violando il principio di temporalità previsto dalle leggi sull’occupazione [sulla base della convenzione dell’Aja del 1907 loccupazione è concepita come una situazione transitoria destinata a concludersi già nel corso del conflitto o, al più tardi, al termine delle ostilità, con il ritiro delle truppe occupanti ed il ripristino della piena sovranità dello Stato occupato ndtr.] Tali leader citavano esigenze di sicurezza e affermavano che i territori sarebbero stati “trattenuti” fino al raggiungimento di un accordo diplomatico. Come scrisse Rabin nel suo libro del 1979 Le memorie di Rabin, il governo adottò una chiara politica di sicurezza: dove colonizzare e dove no.

La Corte Suprema ha accolto l’argomento della sicurezza. “Sono consapevole del fatto che stiamo parlando di una popolazione civile… In questo contesto, accetto l’argomento del generale Orli secondo cui una presenza civile in questi punti delicati è la soluzione necessaria”, scrisse nel 1978 la giudice Miriam Ben-Porat .

Allo stesso tempo il governo ha collaborato con il movimento di insediamento nazionalista messianico [movimento dei coloni nazional-religiosi in Cisgiordania, ndtr.]. Il 27 settembre 1967, il colonnello Shlomo Gazit scrisse al capo di stato maggiore dell’esercito israeliano. La lettera si riferiva all'”avamposto di Gush Etzion”. Affermava: Per coprire le esigenze dello Stato l’avamposto dei giovani religiosi a Gush Etzion sarà registrato come avamposto militare di Nahal. Istruzioni in tal senso saranno date ai coloni”.

L’Alta Corte di Giustizia ha cercato di porre fine a questa politica menzognera nel caso Elon Moreh [colonia insediata nei dintorni di Nablus, ndtr.] del 1979, in cui ha cambiato rotta e ha stabilito che la terra palestinese di proprietà privata non può essere sequestrata per stabilire insediamenti coloniali giustificati con l’argomento di esigenze di sicurezza. La corte ha anche dato la priorità allo stato di diritto rispetto alla “promessa divina”. “Questa istanza fornisce una risposta definitiva all’argomento che cerca di interpretare la storica promessa biblica al popolo ebraico come un diritto prioritario di proprietà“, ha scritto il giudice Moshe Landoy.

Nel corso dei decenni la comunità internazionale ha rifiutato la politica israeliana, rifiuto sancito nella risoluzione 2334 delle Nazioni Unite del 23 dicembre 2016 in cui si afferma che gli insediamenti coloniali israeliani stabiliti nelle terre palestinesi occupate dal 1967, inclusa Gerusalemme est, non hanno valore legale e violano il diritto internazionale.

Il Consiglio di Sicurezza ha anche affrontato gli obiettivi della colonizzazione e i mezzi per raggiungerli. Nella risoluzione 2334 ha condannato tutte le misure volte ad alterare la composizione demografica, il carattere e lo status del Territorio Palestinese occupato dal 1967, compresa Gerusalemme Est, inclusa, tra l’altro, la costruzione e l’espansione di insediamenti coloniali, il trasferimento di coloni israeliani, la confisca di terreni, la demolizione di case e lo sfollamento di civili palestinesi, in violazione del diritto umanitario internazionale e delle relative risoluzioni”.

Negli ultimi dieci anni il governo israeliano ha deciso di continuare le violazioni sopra elencate. Ha approvato la creazione di una nuova colonia, Amihai, e autorizzato 22 avamposti coloniali illegali. Ha ampliato la separazione tra i due sistemi giudiziari, uno per gli israeliani e uno per i palestinesi. Ha aumentato di un terzo il numero dei coloni.

Ha approvato la costruzione di migliaia di nuove unità abitative. Ha realizzato 67 fattorie e una vasta area industriale a Samaria, nel nord della Cisgiordania. Ha stanziato 13 miliardi di shekel (3,5 miliardi di euro) per la pavimentazione delle strade e ha demolito migliaia di case palestinesi.

Nell’ultimo decennio, Israele ha anche ulteriormente violato il suo principale obbligo ai sensi del diritto internazionale: garantire il ripristino dell’ordine pubblico. In primo luogo, ha creato 135 avamposti coloniali, illegali anche secondo la legge israeliana. Li ha collegati al sistema stradale e alla rete elettrica. E negli ultimi anni, con il termine fuorviante “giovani colonie”, ha cercato di regolamentare il loro status e le loro infrastrutture attraverso leggi antidemocratiche.

In secondo luogo, il governo non ha intrapreso le azioni necessarie nei confronti dei rivoltosi ebrei che commettono violenze contro palestinesi, israeliani, soldati israeliani e polizia israeliana. Gli ordini del ministro della pubblica sicurezza alle IDF [forze di di difesa israeliane: l’esercito israeliano, ndtr.], i cui soldati sono stati presenti alla maggior parte di questi incidenti, non vengono eseguiti. Il ministro ha affermato che le IDF devono “agire per mantenere la sicurezza e l’ordine in Giudea e Samaria [nomi israeliani di due regioni rispettivamente a sud e a nord di Gerusalemme; conquistate da Israele nella guerra del 1967, sono considerate dall’ONU e dalla Corte internazionale di giustizia territori occupati, ndtr.] esercitando l’autorità assegnata alle IDF ai sensi della legge, in cooperazione e in coordinamento con la polizia israeliana”.

Secondo la visione dell’attuale governo, che si è impegnato ad effettuare dei cambiamenti, la Cisgiordania non è un territorio occupato. La prova di ciò può essere vista nelle sue azioni in violazione del diritto internazionale e delle risoluzioni. Non è interessato a stabilire il futuro della Cisgiordania attraverso dei negoziati. Non considera la Cisgiordania un “territorio occupato”, in quanto viola il principio della temporalità espandendo le colonie. Il governo non considera la Cisgiordania neppure un “territorio liberato”, in quanto negli Accordi di Abramo si è impegnato a non annetterla.

Lo status della Cisgiordania è quindi quello di un territorio abbandonato i cui abitanti palestinesi sono discriminati. L’Autorità Nazionale Palestinese non può far rispettare la legge e l’ordine nella maggior parte delle aree della Cisgiordania, poiché ha autorità solo sul 40% del territorio, che è diviso in non meno di 169 isole separate. Nell’Area C, controllata da Israele, ci sono due sistemi giudiziari: uno per gli israeliani e uno per i palestinesi.

Il mondo chiama questo apartheid. Non solo Israele non applica le leggi sull’occupazione militare, ma ignora anche le proprie leggi e le risoluzioni del governo. Permette a una minoranza radicale di determinare il carattere dello Stato e la sua immagine nel mondo. La Startup Nation [dal titolo di un libro del 2009 sulla crescita economica di Israele, ndtr.] sta cercando di inventare una nuova start up, a quanto pare, sotto forma di un nuovo regime. Ma a differenza dell’alta tecnologia e dell’agricoltura, il mondo non è realmente interessato a questa “innovazione” e la considera semplicemente apartheid.

Il fatto che Israele appartenga alla famiglia delle nazioni, impedendone così un’emarginazione, ha un’importanza senza precedenti. Dovremmo ricordare al primo ministro Naftali Bennett – che crede che il mondo si “abituerà” a tutti i capricci di Israele – ciò che il primo ministro David Ben-Gurion disse ad Haaretz il 2 ottobre 1959.

Chiunque creda che oggi si possano risolvere semplicemente attraverso la forza militare questioni di ordine storico tra le nazioni non sa in quale mondo viviamo… Ogni questione locale oggi diventa internazionale, quindi il nostro rapporto con le nazioni del mondo è non meno importante della nostra forza militare”.

L’ultimo libro del dottor Shaul Arieli è l’opera in lingua ebraica del 2021 “12 miti israeliani sul conflitto israelo-palestinese”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




A Nablus soldati israeliani aprono il fuoco contro un’auto uccidendo dei palestinesi

Al-Jazeera

8 febbraio 2022 – Al Jazeera

L’Autorità Nazionale Palestinese condanna l’assassinio di tre palestinesi nella Cisgiordania occupata, definendolo un “crimine efferato”.

Il Ministero della Salute palestinese ha affermato che l’esercito israeliano ha ucciso tre palestinesi a Nablus, nella Cisgiordania occupata, suscitando la condanna dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP).

Martedì il ministero ha affermato che “tre cittadini sono stati martirizzati nella città di Nablus in seguito ad una sparatoria mirata dell’esercito israeliano”. Secondo l’agenzia stampa palestinese Wafa [il ministero, ndtr.] ha identificato le vittime come Ashraf Mubaslat, Adham Mabrouka e Mohammad Dakhil.

Secondo un rapporto da Nablus di Rania Zabaneh di Al Jazeera Un testimone oculare con cui abbiamo parlato ha detto che l’esercito [israeliano] ha sparato contro l’auto su cui si trovavano i tre palestinesi. Ha affermato di aver continuato a sentire degli spari per più di un minuto”.

Quando siamo arrivati ​​sul posto l’auto, interamente crivellata di proiettili, stava per essere portata via. All’ospedale dove sono stati portati i corpi i medici hanno detto che hanno avuto difficoltà a riconoscere le vittime a causa delle ferite provocate dagli spari.

L’inviata di Al Jazeera ha affermato che “Il ministro della difesa israeliano ha elogiato l’esercito per l’operazione portata a termine”.

Dei testimoni hanno riferito all’agenzia Anadolu che l’incidente ha coinvolto un membro delle forze speciali israeliane che, a bordo di un veicolo civile, ha preso d’assalto il quartiere cittadino di al-Makhfieh e ha aperto il fuoco contro l’auto.

Il Ministero degli Affari Esteri dell’Autorità Nazionale Palestinese ha chiesto un’indagine internazionale sugli omicidi mentre il consiglio dell’ANP ha descritto il fatto come un “crimine efferato”.

Il ministero degli esteri ha ritenuto il governo israeliano e il primo ministro Neftali Bennett pienamente e direttamente responsabili di questo crimine”.

“Il silenzio della comunità internazionale nei confronti delle violazioni e dei crimini israeliani fornisce una copertura a questi atti criminali e incoraggia l’occupante israeliano a continuare la sua guerra aperta contro i palestinesi”, si legge in una nota.

Israele, da parte sua, ha affermato che i tre uomini erano “militanti” palestinesi responsabili di recenti attentati.

L’agenzia di sicurezza per gli affari interni Shin Bet ha detto che i tre erano a bordo di un veicolo e sono stati uccisi in uno scontro con le forze di sicurezza. Nessun israeliano è stato ucciso o ferito nella sparatoria, ha aggiunto.

Organizzazioni palestinesi e internazionali per i diritti umani hanno condannato da tempo quella che descrivono come una politica caratterizzata dallo sparare per uccidere e da un uso eccessivo della forza.

B’Tselem, un’organizzazione israeliana per i diritti umani, ha affermato di aver registrato lo scorso anno in Cisgiordania 77 morti palestinesi per mano dell’esercito israeliano. Più della metà delle persone uccise non era implicata in alcun attacco, ha aggiunto.

Attacchi dei coloni

Alla fine dell’anno scorso i soldati israeliani hanno ucciso un palestinese durante un’incursione nel quartiere di Ras al-Ain a Nablus.

Nel dicembre 2021 militari israeliani hanno ucciso un palestinese nel villaggio di Beita, in Cisgiordania, durante una protesta contro gli insediamenti coloniali illegali. Le forze israeliane hanno ucciso un minore palestinese dopo un presunto speronamento d’auto ad un posto di blocco militare nel nord della Cisgiordania.

Nello stesso periodo un ebreo ultraortodosso sarebbe rimasto ferito da coltellate inferte da un palestinese fuori dalle mura della Città Vecchia di Gerusalemme.

Una settimana prima un membro di Hamas avrebbe aperto il fuoco nella Città Vecchia uccidendo un israeliano. Entrambi i sospetti sono stati uccisi dai soldati israeliani.

Nel frattempo, all’inizio di questo mese, Amnesty International ha affermato in un nuovo rapporto che Israele sta commettendo “il crimine di apartheid contro i palestinesi” e deve essere ritenuto responsabile per il trattamento degli stessi come “un gruppo razziale inferiore”.

I palestinesi sono stati anche colpiti da una recrudescenza dei violenti attacchi da parte dei coloni israeliani in Cisgiordania e Gerusalemme est.

Israele occupò Gerusalemme Est e la Cisgiordania nella guerra mediorientale del 1967. I territori ora ospitano più di 700.000 coloni ebrei che vivono in 164 insediamenti e 116 avamposti, che i palestinesi individuano come parte del loro futuro Stato indipendente.

Sulla base del diritto internazionale tutte le colonie ebraiche nei territori occupati sono considerate illegali.

I palestinesi, insieme alla maggior parte della comunità internazionale, considerano le colonie uno dei principali ostacoli alla pace.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Aumenta il pericolo per i pescatori di Gaza

Ahmed Al-Sammak

12 gennaio 2022 – The Electronic Intifada 

Il 24 dicembre Beirut al-Aqraa era due miglia al largo quando il suo peschereccio iniziò ad affondare. Immediatamente si diresse a riva, ma a poche centinaia di metri da essa il natante andò a fondo.

Insieme a due dei suoi lavoratori, Beirut nuotò verso la salvezza. Eppure tre dei suoi fratelli dovettero essere soccorsi e portati in ospedale.

“Fortunatamente era circa l’una del pomeriggio”, racconta Beirut. “E alcuni altri pescatori ci hanno visto e si sono precipitati ad aiutarci”.

L’incidente ha avuto gravi ripercussioni su suo fratello Nayef.

“Se fossi rimasto in mare più a lungo, sarei morto”, ha detto Nayef. “Da allora vomito ogni giorno. E ho paura del mare. Non navigherò mai più. Preferirei rimanere senza lavoro piuttosto che uscire di nuovo sulla barca di Beirut”.

Diverse barche di Beirut erano state danneggiate da Israele quando nel maggio dello scorso anno attaccò Gaza in forze. Durante questo attacco, Israele prese di mira il porto di Deir al-Balah, nel centro di Gaza, dove erano ormeggiate le barche di Beirut.

Una delle barche risultò irrecuperabile.

Le autorità di Gaza hanno stimato che le perdite di Beirut causate dall’offensiva di maggio sono state di circa $ 25.000. “Ma siamo più verso $ 30.000”, afferma Beirut.

La barca affondata il 24 dicembre si chiamava Amal, la parola araba per “speranza”. Era tra quelle danneggiate dalle schegge di una bomba israeliana a maggio.

Per riparare correttamente la barca, Beirut aveva bisogno di circa 3 chilogrammi di fibra di vetro. Non poteva permettersi la fibra di vetro, quindi ha usato un sigillante più economico.

Dall’attacco di maggio era stato in grado di continuare a lavorare come pescatore usando Amal. Tuttavia, quando la barca ha iniziato a sgretolarsi il 24 dicembre, è stato chiaro che il lavoro di riparazione non era stato adeguato.

Nessun risarcimento.

Beirut ricorda come fosse soprannominato “il re dei pescatori” perché “avevo quattro barche”.

Prima dell’attacco di maggio, poteva guadagnare fino a $ 1.300 al mese. Ora guadagna solo circa $ 300. “E nessuno ha pagato alcun risarcimento per la mia perdita” afferma.

È ben documentato che Israele attacca spesso direttamente i pescatori palestinesi. Tra ottobre e dicembre è stato registrato dagli osservatori sui diritti umani un totale di 73 incidenti in cui Israele ha aperto il fuoco sui pescatori di Gaza.

Le forze navali israeliane hanno persino sparato due volte sui pescatori di Gaza il giorno di Capodanno.

A Khader al-Saidi è stato ripetutamente sparato contro da Israele.

Nel 2017 a seguito di uno di questi episodi di violenza di stato Khader è stato arrestato e detenuto per quasi un anno. È stato accusato di aver attraversato il confine di pesca consentito al largo della costa di Gaza, un confine spesso arbitrario.

Nel febbraio 2019 Khader era fuori a pescare con suo cugino Muhammad quando sono stati attaccati dalla marina israeliana. I due uomini hanno cercato di scappare ma non ci sono riusciti.

La marina israeliana ha sparato circa 30 proiettili d’acciaio rivestiti di gomma contro Khader, mentre suo cugino è riuscito ad abbassarsi e evitare i colpi.

Dopo essere stato colpito a entrambi gli occhi, Khader è caduto e ha perso conoscenza.

Racconta: “Mi sono svegliato quattro giorni dopo in un ospedale israeliano ad Ashdod [una città portuale]. Ho sentito qualcuno che parlava ebraico e gli ho chiesto ‘dove sono?’ Ma non ha risposto”.

Un medico, che parlava arabo, ha poi spiegato a Khader che aveva perso la vista all’occhio destro. Il medico aveva previsto che il suo occhio sinistro avrebbe impiegato circa una settimana per riprendersi.

Nonostante soffrisse molto, Khader è stato incatenato a mani e piedi mentre i soldati lo portavano al posto di blocco militare di Erez, che separa Gaza e Israele.

È stato scortato attraverso il checkpoint e abbandonato dai soldati israeliani. Un uomo è venuto ad assisterlo e lo ha portato alla polizia locale, che ha chiamato un’ambulanza.

Quando Khader è stato visitato dai medici a Gaza, hanno confermato che ora era cieco da entrambi gli occhi.

Oggi Khader lascia raramente la sua casa. “Non ho alcun desiderio di incontrare nessuno”, dice. “Israele mi ha trasformato in un mendicante”

Ha richiesto un’indennità di invalidità dall’Autorità Nazionale Palestinese ma non ne ha percepita alcuna. “Ero il sostegno di tutta la mia famiglia allargata, nove persone in totale”, afferma. “Ora dipendo dalle persone gentili che mi danno dei soldi. Israele mi ha trasformato in un mendicante”.

Aprire il fuoco non è l’unico modo in cui Israele mina la sicurezza dei pescatori di Gaza. L’assedio incessante di Gaza ha causato un calo del tenore di vita in generale e in particolare tra i pescatori.

Molti pescatori non possono pagare il conto per i lavori di manutenzione delle loro imbarcazioni. Le restrizioni all’importazione di Israele hanno anche portato a una carenza di pezzi di ricambio.

La carenza significa che quando i pezzi di ricambio sono disponibili per l’acquisto sono più costosi di quanto non fossero in precedenza.

Secondo un uomo che esegue lavori di riparazione sulle barche di Gaza, il prezzo di un nuovo motore per una barca di medie dimensioni è ora di oltre 11.000 dollari, quasi il doppio di quello di dieci anni fa.

La conseguenza di lavorare su barche non idonee alla navigazione può rivelarsi fatale, come illustra la storia di Muhammad Musleh. Muhammad, 40 anni, è annegato a settembre quando la barca su cui stava pescando si è capovolta. Il suo motore aveva smesso di funzionare [lasciandola in balia delle onde, ntd].

Suo fratello, Alaa, ha ammesso che la barca non era in buone condizioni. Ma la famiglia ha dovuto continuare ad utilizzarla per necessità economica.

“Se avessimo avuto i soldi per comprare un altro motore, non avremmo perso Muhammed”, afferma Alaa. “Ma non potevamo permettercene uno nuovo. E ancora non possiamo”.

“So che è stato sbagliato per noi andare in mare aperto”, ha detto. “Ma non avevamo altra scelta. Sono padre di quattro figli, Fayez [un altro fratello] ne ha tre e anche Muhammad ne aveva quattro. Chi altro darà da mangiare ai nostri figli?”

Ahmed Al-Sammak è un giornalista che vive a Gaza.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)